scrittore, saggista, critico letterario e biografo italiano (1930-2022) Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Pietro Citati (1930 – 2022), scrittore e critico letterario italiano.
[Jean-Baptiste-Siméon Chardin] Aveva una fortissima volontà di ascesi e di concentrazione: pensava in segreto che solo nel piccolo e nel minimo gli uomini possono trovare la perfezione. Per raggiungere questa perfezione, a lui bastava una bottiglia, un bicchiere d'argento, un grappolo d'uva, una pera, qualche fragola. In un periodo della sua vita, compose solo quadri di pochi centimetri quadrati: come se il riflesso della luce in fondo a un paiolo fosse l'unica cosa che gli importava nell'universo.[1]
Ciò che entusiasma nei Quaderni è l'incessante mobilità del pensiero, il passaggio da un estremo all'altro, il gioco dei contrari, le associazioni improvvise, l'andirivieni, gli ondeggiamenti dell'acqua. Conosco[2] un solo esempio simile: Montaigne. Ogni aforisma è in rapporto con tutti gli altri: ogni verità si nutre drammaticamente delle verità che la negano. Cioran mistico è scettico, lo scettico mistico, il limitato tentato dalla dismisura, lo sventurato è ilare, l'empio religioso, il rumeno francese, il francese rumeno: l'uomo furioso e disperato è un angelo devastato dallo humour. (da Un infinito diario della mente e dell'anima, la Repubblica, 25 ottobre 2001)
Come fare allora per capire l'Odissea? Dobbiamo capirla perché comprenderla significa comprendere l'Occidente, la Grecia, noi stessi, l'arte moderna, il nostro futuro. (da La mente colorata, Oscar Mondadori, 2004, p. 52)
Con l'incomprensibile sicurezza di chi si trova a casa propria dovunque, Tolstoj penetra dentro ogni corpo e ogni anima. Mentre Balzac e Proust si sforzano di diventare le proprie creature, ma un momento prima di sciogliersi in loro si arrestano, fermi nel gesto grandioso dell'attore e del mimo, – Tolstoj è tutto il resto del mondo, con la medesima naturalezza con cui viveva la propria vita. Se lo desidera, è una ragazza che si guarda sorridendo allo specchio e ammira il suo vestito di tulle rosa con la sottoveste rosa: avverte insieme a lei che l'abito non tira da nessuna parte, che i folti bandeaux di capelli biondi si mantengono fermi sulla piccola testa come se fossero suoi, e «il nastrino di velluto nero del medaglione aveva circondato con particolare delicatezza il suo collo». Se lo vuole, Tolstoj è una cagna da caccia che aspira l'aria con le narici dilatate, e sente che nella palude non ci sono soltanto le orme degli uccelli, ma essi sono là, davanti a lei, e non uno ma molti. (Dall'introduzione ad Anna Karenina, BUR, Milano, 2006, pp. IX-X. ISBN 88-17-01152-5)
[Guardando i Giochi Olimpici di Torino] Dimenticavo tutto: le noie, le mediocrità, gli errori della mia vita; dimenticavo perfino l'Iliade di Baricco, e la vasta e incomprensibile ottusità dei volti di Roberto Calderoli e di Alfonso Pecoraro Scanio. (da Morire di commenti, la Repubblica, 23 febbraio 2006)
[Sul romanzo di Vladimir Nabokov] Dopo trentasei anni, rileggo Lolita [...] Trentasei anni sono moltissimi per un libro. Ma Lolita ha, come allora, un'abbagliante grandezza. Che respiro. Che forza romazesca. Che potere verbale. Che scintillante alterigia. Che gioco sovrano. Come accade sempre ai grandi libri, Lolita si è spostato nel mio ricordo. Non mi ero accorto che possedesse una così straordinaria suggestione mitica.[3]
[Su Fruttero & Lucentini] Erano onesti artigiani. Fabbricavano seggiole, nelle quali i lettori si sedevano, senza precipitare rovinosamente al suolo: e scarpe, che tutti, uomini e donne, infilavano al piede, senza dover tagliare il pollice o il calcagno [...].[4]
Forse una lenta, immensa e soavissima onda di quel mare, dove Ulisse ha tanto viaggiato e che ha amato e odiato, supera la riva, il porto di Forco, l'ulivo dalle foglie sottili, la grotta delle Naiadi, e trascina via, per sempre, l'uomo pieno di colori e dolori. (da La mente colorata, Oscar Mondadori, 2004, p. 285)
[Sul rapporto fra Giacomo Leopardi e il padre Monaldo] Giacomo era il suo doppio: il suo doppio compiuto. Era un sogno terribile. Pretendere che un figlio – un figlio che il destino gli aveva affidato come una persona diversa da lui, composta di qualità a cui mille casi contribuivano, un figlio che avrebbe dovuto abitare nella sua casa come un estraneo avventuroso e felice – diventasse la persona che lui non era riuscito ad essere. (da Leopardi, Mondadori, 2010)
Gianni Agnelli ha avuto l'unico merito storico di portare l'orologio sopra il polsino. (da Elogio del pomodoro, Mondadori, Milano, 2011)
Giorgio Manganelli è morto sei anni fa; e nella nostra cultura si avverte un'assenza o una specie di vuoto, come se fosse scomparso chi più di tutti amava la letteratura con un disperato amore, e ne rappresentava "l'ombra e lo stemma". Tra gli scrittori della sua generazione, non c'era nessuno che, come lui, la coltivasse nella sua infinita complessità. Per lui, era tutto: splendore linguistico, energia di stile, gioia, disperazione, malattia, nevrosi, abisso, superficie, tensione intellettuale, metafisica, gioco. Attento come nessuno ai valori formali, era liberissimo da ogni esclusiva attenzione alle forme: perché la letteratura era un'avventura vertiginosa, che finiva sulle rive dell'infinito. (da Giorgio Manganelli, una palude abitata da Dio, la Repubblica, 19 novembre 1996)
[Su Flavio Giuseppe] Giuseppe aveva tutte le qualità del grande narratore: la sottigliezza psicologica, l'arte del ritratto, la forza drammatica, il pathos, l'amore per i contrasti di luce e di tenebra, l'alone epico. Persino la sua passione faziosa — l'amore per Israele e l'odio per gli Zeloti — contribuisce alla bellezza dei libri di Giuseppe. Dalla sua lettura, usciamo sconvolti e trasformati (da La distruzione del Tempio, la Repubblica, 25 aprile 2002)
Huckleberry Finn è l'anti-Tom Sawyer. Egli è un meraviglioso realista, per il quale esiste soltanto la distesa delle cose che si vedono, si[5] sentono e si toccano. Il suo sguardo non è quello di Alice, che presenta il mondo dietro lo specchio; e nemmeno di Pinocchio, che porta con sé la coscienza che esistono gesti più agili di quelli dell'uomo. (da Il velo nero, Rizzoli, 1979, p. 205)
[Su Apuleio] [...] il più grande prosatore latino di ogni tempo.[6]
Il pomodoro era il frutto supremo del Mediterraneo: indorato, accarezzato, amato dal sole, che formava dentro di lui la polpa sostanziosissima, dove affondavo i denti, la pelle delicata, i semi, il profumo squisito, il colore, degno di Chardin e di Veronese. Quando lo mangiavo, ero penetrato dalla sostanza del sole, trasformato in una pianta. Insieme al cattolicesimo, costituiva l'essenza della civiltà mediterranea: stemperava gli eccessi ascetici della religione, invocava indulgenza per i nostri peccati, ricordava che noi siamo, in primo luogo, corpi.[7]
La civiltà occidentale ha grandissime colpe, come qualsiasi civiltà umana. Ha violato e distrutto continenti e religioni. Ma possiede un dono che nessuna altra civiltà conosce: quello di accogliere [...] tutte le tradizioni, tutti i miti, tutte le religioni, tutti o quasi tutti gli esseri umani. (da L'Occidente senza forza e l'esercito del terrore, la Repubblica, 31 marzo 2004)
La nostra condizione quotidiana... è quella di convivere con i fantasmi.[8]
[A Lillo Gullo] Lei ha molto talento: sia verbale che ritmico.[9]
[Su L'isola del tesoro] Mai un libro fu scritto con ritmo insieme così rapido e così trattenuto, come la corsa dell'Hispaniola verso l'isola invisibile. Ogni parola manda un suono doppio. Viviamo con freschezza e intensità giovanile negli spazi immacolati dell'avventura: nell'assoluta realtà, dove le navi solcano i mari lasciando un segno di spuma nelle onde, dove il sangue versato macchia il suolo, dove si scava la terra per nascondere i tesori. Ma, al tempo stesso, non ci abbandona mai un sottilissimo e delicatissimo profumo di ironia, perché non abitiamo nella realtà ma nello spazio fittizio di un libro nel quale le cose più inverosimili accadono naturalmente; e le navi non lasciano segni nelle onde, il sangue bagna la terra di inchiostro, i tesori non hanno bisogno di luogo. (da Il migliore dei mondi impossibili, Rizzoli, Milano, 1982, pp. 152-53)
Mi piacerebbe anche scrivere su San Paolo, ma i miei desideri sono limitati dalla mia incompetenza. (dall'intervista di Claudio Altarocca, Citati confessa Proust. Tragedia di una colomba pugnalata, La Stampa, 8 settembre 1995, p. 17)
Nell'Odissea nasce la religione della casa, che ha dominato l'Occidente imbevendo di sé il romanzo dell'Ottocento, fino e oltre Guerra e pace e Anna Karenina. (da La mente colorata, Oscar Mondadori, 2004, p. 94)
Nella Savoia sono nati i grandi scrittori francesi, come de Maistre.[10]
Non aspettiamoci entusiasmi o lirismi: il Manuale di Epitteto sembra un'austera e geometrica capanna giapponese, costruita con dodici pali, senza mobili né cuscini né letti né tappeti né specchi. (da Se Epitteto sopporta il mondo, la Repubblica, 2 novembre 2006)
Non possiamo mai spiegare perché e come è nata un'opera letteraria: tanti impulsi consci e inconsci vi si nascondono, tanti desideri di tutta una vita, che ora restano sepolti nella complessità impenetrabile del testo. (da Ritratti di donne, Rizzoli, 1992³)
Solo chi non è del "mestiere" conserva quello sguardo limpido e fresco, senza ombre né pregiudizi, davanti al quale le cose rivelano spontaneamente il loro segreto. (da La nobile arte dell'imparare, la Repubblica, 9 febbraio 1997, p. 28)
Parlando, Calvino si inceppava, si interrompeva, emetteva frammenti e rottami aforistici: anche a me riesce quasi impossibile infilare un condizionale e un congiuntivo, o tanto peggio un congiuntivo dietro un altro congiuntivo; ma Manganelli parlava superbamente. Non ho mai ascoltato nessuno parlare così. Come un grande padre predicatore o un papa rinascimentale o un diplomatico secentesco, ostentava gerundi, participi presenti, parole rare, proposizioni subordinate dentro altre proposizioni subordinate, piuccheperfetti, con una esattissima consecutio temporum, nutrendosi avidamente di parole sanguinanti arrosti di sostantivi, colorati contorni di aggettivi, folleggianti salse di verbi e di avverbi. Lo straordinario era che, in lui, il pensiero più sottile e complicato diventava subito, senza un attimo di incertezza e di dubbio, forma verbale: a tal punto la sua mente era dominata dall'istinto formale. (da Giorgio, malinconico tapiro, la Repubblica, 18 luglio 1990)
[Su Federico Fellini] Parlavamo di ogni cosa: letteratura, raramente cinema, aneddoti, ricordi, persone, misteri, dèmoni, religioni, vita, morte, persino gli dèi o Dio. Se parlava di libri, sembrava che nessuno vivesse, come lui, dentro un libro: se parlava di persone, le auscultava, le decomponeva, conosceva tutte le molle che le facevano agire; e su qualsiasi cosa lasciava cadere la sua luce mite, pigra ed estrosa. Aveva un'intelligenza morbida, rapida, colorata, senza schemi né presupposti, pronta a trasformarsi nello scintillio di un'onda o nell'ombra di una nuvola rosa. Capiva tutto al volo: anche quello che non avevo ancora pensato. (da Federico Fellini l'uomo dei sogni, la Repubblica, 1 novembre 2003)
Quando Hitler conquistò l'Austria e la Germania, Freud fuggì in Inghilterra: abbandonò l'Austria meravigliosa rappresentata da Joseph Roth, che gli assomigliava profondamente con la sua Marcia di Radetzky. A Londra gli asportarono l'osso della mandibola al punto di impedirgli di parlare. Il cancro si diffuse rapidamente. Taceva, taceva, sebbene continuasse a scrivere vorticosamente con la sua grazia di grande classico. Morì fumando uno dei suoi dilettissimi sigaretti. Chissà cosa pensasse e in quali vertigini si inoltrasse, mentre, pazientissimo, ascoltava i messaggi di Thomas Mann e di Stefan Zweig.[11]
[Su Carlo Emilio Gadda] Quanto a me, provavo per lui un'immensa venerazione, come non ho mai provato per nessuno. Non veneravo soltanto il Pasticciaccio o La cognizione del dolore: ma tutto ciò che egli faceva o diceva o pensava o immaginava o fantasticava. Non mi importava affatto che qualcuno dicesse che Gadda era un nevrotico, o un ipocondriaco, o un paranoico. Per me, anche le sue minime fantasie emanavano da una grande figura dolorosa, che restava nell'ombra. (da Un eroe sconfitto che abitava lontano dalla realtà, la Repubblica, 25 agosto 2006)
Siamo abituati a credere che la filosofia occidentale dipenda da alcuni grandi pensatori: Platone, Aristotele, Cartesio, Spinoza, Kant, Hegel. E dimentichiamo l'enorme influenza esercitata da una filosofia apparentemente minore, quella ermetica, immaginata da pensatori sconosciuti, che per diciannove secoli attraversa come un fiume sotterraneo tutta la storia dell'Occidente. Appare, scompare, si nasconde, torna alla luce, viene tradotta, assimilata, trasformata, modellata, rimodellata, sino ad assumere forme imprevedibili.[12]
Siamo ingrati verso i traduttori. Nella cultura classica, ebraica e medioevale, essi avevano un luogo impareggiabile: Virgilio era un rifacitore di Omero; e i settantadue rabbini che, nel terzo secolo avanti Cristo, interpretarono in greco l'Antico Testamento ebbero nella leggenda un ruolo quasi sacro. Oggi, li consideriamo dei semplici volgarizzatori. Non ci rendiamo conto che un vero traduttore vive sulla frontiera di due lingue. Quando scrive, mette in contatto il sistema della propria lingua con le immagini e lo stile di un grande poeta straniero. A quel contatto, invasa e quasi soggiogata da un vento di genialità sconosciuta, la seconda lingua si scuote: scopre in sé delle potenzialità sopite, degli svolgimenti che avrebbe potuto avere e che ancora sonnecchiano in lei. Così, nel passaggio da una lingua all'altra, nascono degli effetti di grande sottigliezza; e Paul Valéry insinuava che la qualità di un vero traduttore "non era meno grande e rara" di quella di un poeta creatore.[13]
Sotto il nome di specialisti, l'attuale organizzazione del lavoro ha prodotto una enorme quantità di «generici», con i quali ci urtiamo ogni giorno. (da Un uomo preciso, ne I frantumi del mondo, Rizzoli, Milano, 1978)
[Su Pier Paolo Pasolini] Una figura lo aveva sempre ossessionato: Cristo deriso, sputato, colpito, lapidato, inchiodato, ucciso sulla croce. Facendo film, scrivendo e vivendo, egli cercava soltanto di venire lapidato ed ucciso, come la pietra dello scandalo, la pietra d'inciampo, che viene respinta dalla società umana. Ma Cristo morì per salvare gli uomini. Lui sapeva di non potere salvare nessuno, tanto meno se stesso. Voleva soltanto conoscere la morte atroce, immotivata, vergognosa – la vera morte, non quella lenta e pacifica che noi sopportiamo nei nostri letti educati –: la morte che aveva sempre reso terribile la sua dolcezza. (da Tutta la vita per una morte violenta, Corriere della Sera, 3 novembre 1975)
[...] uno scrittore non ha nessun bisogno di possedere un'esperienza diretta delle cose. Se è un vero scrittore, le inventa.[4]
Montaigne scrisse molte menzogne: forse la parola non è esatta; riempì il suo libro di mistificazioni, giochi ironici e autoironici, piccole scene teatrali recitate insieme da lui e dal lettore immaginario, che abita gli Essais come una presenza segreta.
[...] uno scrittore che ci parla da un tempo tanto lontano dal nostro, ma con parole così incredibilmente fresche e leggere come se le avessimo sognate la mattina, prima dell'alba.
Tra tutti i nemici del genere umano [...], nessuno ha mai infangato la nostra presunzione, nessuno ha mai insultato la nostra figura con tale furia, piacere, estro, divertimento, ferocia, malignità, tenacia, bizzarria; e, nel fondo, con una inconcepibile dolcezza.
In una specie di totale capovolgimento, tutte le parole di Montaigne cambiano segno: ora sono una cosa e insieme il loro contrario.
Questo è il segreto di Montaigne: il segreto, come si dice, del suo equilibrio. Tutte le sue fantasie, gli eccessi, i furori, le inquietudini, i terrori, i mostri, le chimere, le follie hanno bisogno di un limite, e si rinchiudono in un mondo moderato e temperato.
Dostoevskij e Tolstoj, Conrad e Joyce, Kafka e Dylan Thomas lessero Dickens con la passione, l'entusiasmo e l'"incoerente gratitudine", che egli richiede da ciascuno di noi. Vissero dentro di lui: abitarono dentro di lui, come nella propria casa; e appresero da quel "rozzo romanziere popolare" i più sottili e arditi artifici letterari. Chi imparò da lui la tecnica del romanzo criminale, chi la presentazione dei personaggi, chi il gioco delle voci narrative: chi amò i "divini idioti", i grandi simboli, o il calore analogico delle immagini. Tutti scorsero in Dickens uno specchio – uno di quegli specchi incrinati e velati, che talvolta si trovano nelle soffitte – dove scoprire la propria arte e se stessi.
Questa fredda tenebra, che è uno degli archetipi dell'universo di Dickens, ha nel Dombey una coloritura sociale: il libro è il monumento e la tomba dell'Inghilterra vittoriana; e Mr. Dombey è la più grande figura simbolica dell'uomo d'affari borghese, che appaia nel romanzo dell'Ottocento. Nemmeno gli eroi di Balzac posseggono tanta forza demoniaca ed emanano tanto strazio. In questo mondo, l'unico valore assoluto è la ditta, la Dombey e figlio, nella quale Mr. Dombey crede come in Dio, sino a immolargli la vita, la famiglia, e ogni qualità umana. Non esiste che la ragione, la volontà, lo sforzo, la previsione, il danaro, la gerarchia - e il libro dimostra, con atroce evidenza, che la ragione, la volontà e lo sforzo sono incapaci di ottenere qualsiasi cosa, che il danaro è vano, che la previsione non prevede, che la gerarchia non serve. Alla fine, non resta nulla. Solo il nero e il freddo.
Ci chiediamo da dove venisse a Dickens, lui che conosceva come nessuno l'orrore e la tenebra, tanta allegria alcoolica. Era il suo genio. Non credeva affatto che, in questa terra che obbedisce al Tempo e al Luogo, le cose avessero un lieto fine. Ma nel suo mondo, il "migliore dei mondi impossibili", che apparteneva allo spazio di Non-Dove, le cose andavano immutabilmente così. Questa era la sua grande utopia letteraria.
[...] ogni romanzo di Dickens è folto, sterminato: un oceano, un bosco, una prateria, un esercito, una collezione di oggetti disparati e assurdi, legati fra loro da un misterioso legame. Ogni romanzo è uno sforzo di dare fondo all'universo, secondo un gioco molteplice di punti di vista. Noi leggiamo: incontriamo decine di personaggi, centinaia di scene, migliaia di pagine; e per molte settimane dimentichiamo che abbiamo una famiglia, che fuori il sole si leva e tramonta, che amici ci attendono per conversare.
Il personaggio di d'Artagnan è uno dei più straordinari ritratti simbolici della prima parte del secolo. Athos è degno di Dostoevskij. Milady è una bellissima creatura del male. E quella leggerezza, che ci trascina di pagina in pagina, non nasce soltanto da una natura felice, ma da una squisita arte intellettuale.
Non credete ai denigratori. I tre moschettieri emana un vero profumo storico: non meno di Guerra e Pace; un profumo che Dumas ricava con astuzia e grazia dalle memorie, dalle lettere e dai romanzi del primo Seicento.
Come in una cavalcata fantastica, tutta la geografia, la storia e la letteratura della Francia, sfilano davanti ai nostri occhi. Conosciamo i guasconi, i piccardi, i normanni, gli abitanti del Berry, e il loro dialetto, che il colto Aramis si rifiuta di capire; e quanti paesi e chiese e osterie sorvolate dal vento dell'avventura. C'è Parigi, avvolta da una nebbia cupa. I moschettieri bevono generosamente, attaccano briga, pagano malvolentieri i conti degli osti, come gli eroi di Rabelais e di Scarron. Il borghese gentiluomo, L'Avaro e Il Barbiere di Siviglia ci fanno conoscere i loro lacchè e le loro soubrettes, che danzano ancora per noi. Abbiamo mercanti e avvocati, avidi e sordidi come nel Romanzo borghese di Furetière. Aramis ci ricorda la mondanità preziosa degli abati. Gli epigrammi della tradizione moralistica francese brillano alla fine di ogni capitolo. Poi il tempo cambia. Entriamo nella Parigi del primo Ottocento, nei teatri e nei piccoli giornali. C'è qualche traccia della sapienza filosofica e fisionomica di Balzac. E il giovane d'Artagnan, che a diciott'anni arriva dalla Guascogna per far fortuna, l'abbiamo già incontrato nelle vesti di Gil Blas e di Jacob: l'abbiamo ritrovato in quelle di Lucien de Rubempré e di Julien Sorel, che come lui cercano di conquistare la Francia.
Non so se Dumas avesse letto Baltasar Gracián: una parte dei Tre moschettieri ha un sapore che ci ricorda, sebbene mescolato e manipolato dall'"abile irrigatore", le massime del gesuita spagnolo. Il Seicento si incarna nella figura del cardinale di Richelieu, per il quale Dumas ha una vera passione. Richelieu è la rapidità e l'astuzia, che solo d'Artagnan sa fronteggiare. Rappresenta gli Arcana imperii: il segreto profondissimo del potere e la macchinazione; l'arte di spiare e di ascoltare i segreti.
Ormai è tempo di riprendere in mano I tre moschettieri. Non possiamo fermarci: gli oggetti non ci arrestano con il loro volume, e i personaggi sembrano (e non sono) formati di una sola dimensione. Tutto quello che, nella vita, ci sbarra il passo, viene trascinato dal volo velocissimo della fantasia. Il cavallo di d'Artagnan corre verso l'Inghilterra più rapido del nostro occhio che legge, le navi attraversano in un baleno i mari, Milady ripete le sue affascinanti menzogne, un'occhiata fa scoccare all'improvviso un amore... La leggerezza trionfa sul peso: la frivolezza sul significato, l'immaginazione sull'esperienza. Mentre leggiamo, rimbalzando di fatto in fatto, anche noi senza peso, tutto ci accade: siamo d'Artagnan e Richelieu, Buckingham e Athos, l'uomo dal mantello rosso e Milady, eppure nulla ci tocca e ci ferisce. Veloci come il vento, indenni e inconsapevoli come l'aria, attraversiamo senza conoscerle tutte le esperienze del mondo.
La donna segreta di Dio che sfidò ogni ragione, la Repubblica, 2 novembre 2000, p. 38
Dietro le parole e gli esempi, continuerà a muoversi senza fine l'innominabile, indescrivibile punto di fuga, al quale, nelle parole del linguaggio umano, diamo il nome di Dio.
Molti sostengono che solo Maria ci apre le porte del cielo.
Nei Vangeli e nelle Lettere di San Paolo, Maria è soltanto una creatura: una come noi, «nostra sorella per vincoli di natura»[14]; una che porta sulle spalle il peso della razza umana, il peccato originale, le colpe che ci hanno segnati nella storia, la mediocrità irrimediabile che ci distingue. Una cosa la salva. Maria è semplice, umile: e Dio, che capovolge e rovescia la storia allontanando dal suo trono i ricchi, i potenti e i superbi, la sceglie poiché sta là in fondo, nell'abisso, dove nessuno la vede.
Intervista di Pierluigi Pietricola, Alla ricerca della Grande Opera d'Arte, ItaliaLibri, Milano, 21 novembre 2005
La cosa essenziale è che bisogna farsi possedere completamente dal libro. Bisogna essere posseduti ma contemporaneamente bisogna essere sempre diversi, perché una cosa è farsi possedere da Dante e un'altra è farsi possedere da Proust o da Kafka. Il critico deve mutare continuamente. Non esistono metodi critici validi universalmente per tutte le occasioni.
La critica non è che un cambiamento continuo di punti di vista, è una ricerca che tenta di raggiungere quella cosa in continuo movimento che è la grande opera d'arte. I libri in movimento sono sempre i grandi libri.
La forza dell'opera d'arte è di parlare sempre all'infinito a tutti quanti, e questa è una cosa inesplicabile, misteriosa. Può essere spiegata da quell'interminabile ricerca che è la lettura.
La letteratura impegna tutta la vita, tutti i sentimenti: non può esserci impegno più totale. Ma non è impegno solo sulla vita e tanto meno sulla politica. È un impegno sulla sostanza, sulla totalità dell'Essere. E molte volte è anche un impegno religioso.
Non amo Sartre. Ha scritto pochissimi buoni libri e detto un'infinita quantità di sciocchezze.
Oggi si legge infinitamente di più rispetto ad alcune generazioni fa. Il guaio è che si leggono una grande quantità di porcherie. Non è importante leggere: di per sé è un atto negativo; perché se si legge Dan Brown, la Fallaci, la Tamaro è molto meglio se non si leggesse affatto. La vera forma di lettura è quella che si praticava nella religione cristiana ad esempio, dove la sottigliezza e la profondità interpretativa raggiungevano delle vette che per noi sono assolutamente impensabili. La maggior parte delle persone legge per passare il tempo, ed è esattamente quello che non si dovrebbe fare.
Penso che i libri si muovano nel tempo. Non sono sempre gli stessi; hanno aspetti diversi secondo i secoli. Mentre noi siamo fermi e dobbiamo cercare di capire il movimento dei libri.
Un grande libro è composto di tanti strati: si tratta di scoprire quello più nascosto. Il libro è una superficie composta da più strati.
Uno scrittore si preoccupa di scrivere libri o di parlare di quelli degli altri, e non ha nessun dovere con nessuno. L'unico dovere che ha è verso la letteratura.[fonte 1]
[...] Il Conte di Monte-Cristo è una sterminata hilarotragedia, dove il riso e il delitto, il gioco e il Male Assoluto si sfiorano e si intrecciano. Il lieve tocco ironico, lo spirito settecentesco, l'allegretto sono presenti in ogni capitolo [...].
L'architettura del Conte di Monte-Cristo possiede una meravigliosa precisione ed esattezza. Non saprei dire se il libro sia composto di romanzi diversi, che la facoltà affabulatrice di Dumas fa coabitare: o se moltissimi fili narrativi procedano gli uni accanto agli altri, fino a riunirsi ed esplodere in spettacolosi colpi di scena. Dovunque regna l'enigma: la soluzione dell'enigma viene sospesa e rinviata; ora una pagina ci suggerisce cosa accadrà, ora una voce sotterranea ci fa capire che avverranno cose completamente diverse. Il racconto corre veloce, trascina gli ostacoli, attraversa i tempi e gli spazi, copre immense tele scriveva Sainte-Beuve – «senza stancare mai il pennello di Dumas né il suo lettore».
Nel giardino di un mio amico, che qualche volta mi ospita per settimane, ho incontrato un vecchio operaio agricolo. Era un pensionato, ma siccome riusciva a vivere senza far nulla, ogni mattina lasciava la propria casa con i diversi strumenti del suo lavoro. Sapeva far tutto.
Citazioni
Io so fare pochissime cose: anzi, una cosa sola, e dubito di farla bene. (p. 36)
Confesso di non aver alcun rancore verso il nostro tempo, che oggi quasi tutti accusano di ogni crimine possibile, come se fosse la più barbara tra le età umane. Ma di una cosa è certo colpevole: ha sciupato e dissipato l'immenso tesoro di sapienza artigiana, che la civiltà aveva costruito nei secoli. (p. 36)
Se vogliamo capire un libro, un quadro o un pensiero, dobbiamo portare consciamente o inconsciamente dentro di noi tutti gli altri libri, quadri e pensieri della terra. (p. 38)
Solo chi non è del "mestiere" conserva quello sguardo limpido e fresco, senza ombre né pregiudizi, davanti al quale le cose rivelano spontaneamente il loro segreto. La nostra mente pensa contemporaneamente idee diverse o contrastanti, insegue qualsiasi analogia, fruga ogni sensazione, raccoglie ogni specie di avvenimenti, vive nel nostro mondo e in quelli che costeggiano il nostro. (p. 38)
[Pietro Citati, Elogio del dilettante, (in la Repubblica del 9 febbraio 1997), Selezione dal Reader's Digest, ottobre 1997.]
Tutte le persone che incontrarono Franz Kafka nella giovinezza o nella maturità, ebbero l'impressione che lo circondasse una «parete di vetro». Stava là, dietro il vetro trasparentissimo, camminava con grazia, gestiva, parlava: sorridendo come un angelo meticoloso e leggero; e il suo sorriso era l'ultimo fiore nato da una gentilezza che si donava e si tirava subito indietro, si spendeva e si chiudeva gelosamente in sé stessa. Sembrava dire: «Sono come voi. Sono uno come voi, soffro e gioisco come voi fate». Ma, quanto più partecipava al destino e alle sofferenze degli altri, tanto più si escludeva dal gioco, e quell'ombra sottile di invito e di esclusione sul margine delle labbra assicurava che egli non avrebbe mai potuto essere presente, che abitava lontano, molto lontano, in un mondo che non apparteneva nemmeno a lui.
Citazioni
Non condivideva le pietanze comuni. Mentre gli altri mangiavano carne – quella carne risvegliava alla sua memoria piena d'odio e di disgusto tutta la violenza che gli uomini avevano sparso sulla terra, e le minuscole filamenta tra un dente e l'altro gli sembravano germi di putredine e di fermentazione come quelli di un topo morto fra due pietre –, lui rovesciava sulla tavola la ricca cornucopia della natura. (Rizzoli, 1987, cap. 1, p. 12)
La scrittura di Kafka è un colpo di dadi lanciato nel vuoto, che azzarda contemporaneamente delle ipotesi opposte. (Rizzoli, 1987, cap. 1, p. 12)
Il castello è un romanzo nella grande tradizione classica, con un'unità di spazio e di tempo, una incessannte fluidità temporale, un sapiente intreccio sinfonico di motivi, il ritorno dei personaggi, un'attenzione alle figure minori e persino qualche momento di distensione e di ozio. (p. 231)
Nel Castello Kafka è politeista più che nel Processo. Foggia una moltitudine di creature divine, ce le fa incontrare, altre ne evoca sullo sfondo, ne descrive i gradi e le gerarchie, con l'abbondanza fantastica e meticolosa di uno gnostico o di un cinese. (p. 236)
Lui [K.], l'uomo che conta solo sulla propria energia e sul proprio ingegno, ha raggiunto quello che, in apparenza, voleva: l'indipendenza, la libertà, la solitudine, l'invulnerabilità. Niente è più disperato e assurdo di questa solitudine, di questa attesa nel gelo, che nessuna persona, gesto o dono dall'alto verranno a colmare. (p. 251)
Certo quella ragazza bionda, che lavorava in cucina con le mani insanguinate, lo attrasse profondamente. Aveva sempre amato le serve: ma quell'ebrea orientale, che faceva con chissà quale competenza la cuoca, non aveva intorno a sé nulla del fascino losco di Frieda e di Pepi; era soltanto il personaggio più umile, all'ultimo gradino della scala che l'avrebbe portato sulle alte colline del Canaan. Per quanto possiamo immaginare, Dora non rappresentò mai, per Kafka, la moglie, come Felice Bauer: né la madre-amante, avvolta nell'irradiazione di Eros, come Milena. (p. 297)
Si addormentò lentamente, si risvegliò confusamente. Klopstock gli reggeva la testa, e lui pensò che fosse la sorella Elli: «Vai via, Elli, non così vicino, non così vicino...». Poi, con un cenno brusco e inusuale, ordinò che l'infermiera uscisse: si strappò con forza la sonda e la buttò in mezzo alla stanza. «Basta con questa tortura. Perché prolungare?» Quando Klopstock si allontanò dal letto per ripulire la siringa, Kafka gli disse: «Non vada via». «No, vado via» disse Klpostock. Con voce profonda, Kafka ribatté: «Ma vado via io».
Citazioni sul testo
È un approccio molto personale e assai ben scritto. C'è stato da eccepire su taluni punti, come c'è sempre da eccepire su qualunque cosa, anche egregia, si scriva su Kafka, tanto quest'autore è poliedrico, ossimorico, chimerico, facilmente trascrivibile in mitologie private che vengono contestate da chiunque ne abbia una diversa. (Italo Alighiero Chiusano)
Il libro di Citati è 'impuro'; esattamente. Assomiglia a un diario privato che abbia per tema Kafka; ha l'erratica densità di un epistolario, un vasto taccuino, uno zibaldone su un unico tema [...] il libro di Citati non è una biografia. Ma allora che cosa è? È letteratura. (Giorgio Manganelli)
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Questa anacoreta possedeva un garbo mondano, una grazia squisita e inafferrabile, come una signora italiana del Rinascimento o una dama della Fronda. Come amava la bella conversazione! E come era deliziosa la sua conversazione! Spiritosa e tagliente, amabile e crudele, piena di tatto e di violenza. [...] Alle volte, doveva pensare a una religione che non nascesse contro il mondo, ma nel cuore stesso del mondo: che germogliasse, come nei libri di San Francesco di Sales, dalle forme perfette del vivere mondano. Pensava che le «buone maniere», «le belle parole», la «sprezzatura» e la «naturalezza» della società civile fossero la via migliore per arrivare alla santità. La vita mondana era gesto, e la santità non era che gesto assoluto, che riassumeva in sé tutti i gesti belli e squisiti della nostra vita terrena. (in Per Cristina Campo, pp. 286-287)
Aveva un senso acutissimo della forma, come quasi nessuno ai nostri tempi: non voglio dire il dono della pura creazione, che in lei urtava contro troppi vincoli. Adorava la forma che coltiva se stessa, come nelle grandi creazioni dell'estetismo. La sua intelligenza non era la pura, liberata intelligenza di Dostoevskij e di Kafka, ma l'intelligenza provocata dalle tensioni e dai limiti della forma. Gli scrittori erano, per lei, dei re in incognito, dei sacerdoti nascosti; e la perfezione suprema a cui poteva giungere la letteratura era l'ombra della vestizione del vescovo, l'ombra della Missa Solemnis. [...] Come non inchinarsi davanti a questo amore della perfezione? (in Per Cristina Campo, Re in incognito, p. 287)
Era una creatura accesa, violenta, estrema, piena di ardore cavalleresco, una Clorinda ignara di prudenza e di mezzi termini. Viveva tra i contrari, speranza e disperazione, passione e disprezzo, furia e dolcezza; e trovava una specie di quiete solo intensificando le proprie contraddizioni. (in Per Cristina Campo, Re in incognito, p. 287)
Stava lì rinchiusa nell'eremo della sua anima, ai piedi del suo Dio tagliente come una spada, e attendeva la visitazione. Sentiva di essere eletta? Qualche volta, ripeteva i gesti della segregazione, le parole nobili, gli oggetti privilegiati, gli specchi senza macchia, per invocare l'elezione. Qualche volta, sembrava l'ultima delle creature: la diseredata, la mendicante, che si copriva inutilmente con il povero e freddo mantello delle parole umane. (in Per Cristina Campo, Fiamma e delirio, p. 288)
Amava ciò che è piccolo. «Infinitamente più delicata e tremenda è la presenza dell'immenso nel piccolo che non la dilatazione del piccolo nell'immenso». Aveva un senso sovrano del limite, del confine – lei, così smisurata nell'animo. La sua dimensione nativa fu l'aforisma; e la sua prosa mancò sempre della fluidità, del senso del tempo, della fluttuazione, sacrificati alla concentrazione. Piccole gemme, preziosità senza castone − e, attorno, un vago velo diamantino o iridescente. Sognava di essere leggerissima: ma non lo fu mai, perché era troppo grave e tesa, troppo drammaticamente e fisicamente viva in ogni riga della sua scrittura. (in Per Cristina Campo, Fiamma e delirio, p. 288)
Il gatto s'annoia. Non voglio dire il gatto che vive all'aperto, e ha un'esistenza movimentata e interessantissima: caccia topi e farfalle, emigra, viaggia, lotta con gli altri gatti, combatte con i cani, e conserva nel corpo tarchiato e robusto, nell'aria spavalda e determinata, qualcosa del vigore degli antichi felini. Ma il gatto domestico, l'amabile genio che protegge le nostre case, si nasconde sotto i nostri mobili e carezza le nostre mani, si annoia profondissimamente.
Citazioni
Se il gatto si annoia, non si lamenta. Se leggesse, detesterebbe tutto ciò che lo spleen e l'ennui hanno ispirato ai suoi signori. (p. 11)
Malgrado tante scoperte della psicologia, non apprezziamo abbastanza il sonno: lo giudichiamo soltanto come un'indispensabile condizione di passaggio, dalla quale dobbiamo risvegliarci. Non comprendiamo quei mari di freschezza: quelle discese nella vita vegetale: quella passeggiata rassicurante nell'oscuro che ci avvolge e ci protegge; né il riemergere, con gli occhi e la pelle distesi. Solo Shakespeare, Goethe, Proust e il gatto hanno capito cosa sia il sonno. Il gatto sa trarne una ricchezza di piaceri e di forze che noi ignoriamo; e raccomando agli insonni di osservarlo con attenzione. (p. 12)
Se la nostra buona educazione ci insegna a non sbadigliare, la sua buona educazione [del gatto] gli ha appreso che, quando arriva il sonno (non bisogna mai allontanarlo), dobbiamo accoglierlo con precisione, stringere gli occhi fino a ridurli a una fessura, sbadigliare a gola aperta, distendere le membra stanche. (p. 12)
E poi c'è il risveglio. Il gatto lo mima. Spalanca gli occhi, li richiude, e torna a spalancarli. (p. 12)
Come i monaci, il gatto sa che c'è un altro rimedio contro la noia: la contemplazione. (p. 13)
Se gli avessimo insegnato a dipingere, il gatto dipingerebbe con la grandiosa, meticolosa minuzia di Van Eyck. Solo un gatto ha potuto comporre il Ritratto dei coniugi Arnolfini. (p. 13)
A differenza dei cani, molti gatti non desiderano conoscere cosa sta oltre le mura; e talvolta, quando sono piccoli, la visione di una scala – la scala è l'abisso, la vertigine, l'ignoto – li terrorizza. Il gatto ha dunque scelto il regno degli uomini [...]. Ma vive dentro questo regno come se fosse separato e difeso da una sottile e infrangibile parete di vetro. Non comprenderà mai i nostri dolori come li comprende un cane: il quale, dominato dal suo meraviglioso istinto mimetico, capisce cosa avviene nel nostro cuore con una simpatia che nemmeno un uomo possiede. (pp. 13-14)
Tutti dicono che il gatto è discreto, lontano, irraggiungibile. È uno straniero: si aggira tra noi avvolto da una atmosfera di elusione e di esclusione. Eppure qualche volta, se l'affetto o la nostalgia o il piacere lo guidano, supera la parete di vetro e dorme tra le nostre braccia come un figlio. (p. 14)
Triangolare e appuntito, il gatto ha il volto e l'astuzia artigiana dello scriba egizio, che abita il Museo del Cairo e il Louvre. (p. 14)
Da qualche mese, Villa Borghese è trasformata. Una moltitudine di ragazzetti giunge ogni pomeriggio da tutte le parti di Roma, per correre sullo skate-board lungo le lievi o ripide discese che uniscono tra loro le strade, o conducono al Viale delle Magnolie alla grande fontana. Tutti conoscono quanto sia semplice questo gioco. Ma non so se tutti abbiano osservato la sempre rinnovata fantasia, che i bambini di otto anni o i ragazzi di quindici applicano ai loro movimenti, come musicisti che variano senza fine un tema, mai stanchi, mai spossati, felici di camuffarlo in modi ogni volta diversi. (da Elogio dello skate-board, Superpocket, 1999, p. 29)
Così vorrei dire loro, mentre si alzano e si piegano sulle assicelle mobilissime: «Non dimenticate mai i vostri skate-board: difendeteli; e difendete insieme a loro l'agilità che vi abita, questo spirito di metamorfosi che vi fa diventare ardentemente tutte le cose, perduti in tutte le cose, e insieme difesi dal cristallo impenetrabile della giovinezza. Difendete il vostro mondo infantile dal mondo adulto nel quale state per entrare. Non credete a nulla di ciò che vi verrà detto: sopratutto non credete a ciò che vi diranno i vostri coetanei dal triste volto di adulti; raccogliete nella vostra mente tutto lo scherno, la derisione, l'ironia, di cui l'adolescenza è capace, per impiegarle contro le idee che vi saranno proposte. Non dimenticate mai che è molto meglio vivere senza fede, piuttosto che con fedi rovinose. Se non credete in Dio, non cercate la Sua traccia tra gli uomini e i programmi politici, perché nessuno è più lontano dal Regno dei Cieli di chi lo confonde con qualche Stato o partito di questa terra.» (da Elogio dello skate-board, Superpocket, 1999, pp. 30-31)
Ma Eraclito ha detto: «Il tempo è un bimbo che gioca, con le tessere di una scacchiera: di un bimbo è il regno». Baudelaire e Flaubert hanno dunque torto: il tempo non ha nulla di pesante, non è un carcere né uno stagno. Il vero signore del tempo è un bambino che gioca: un bambino che mette in tutto ciò che fa una sovrana ironia e leggerezza. Noi dobbiamo soltanto apprendere il suo ritmo: accettare la sua velocità, il suo capriccio, il suo sorridente sfruttamento del caso, la sua delicata follia. (da Morte e resurrezione, Superpocket, 1999, p. 99)
Più una società è complessa e rispetta le differenze tra gli esseri umani, e la loro ineliminabile singolarità, più si avvicina alla società perfetta sognata dagli utopisti. Ma il tu della società di massa livella, non eguaglia: uccide la complessità psicologica, non avvicina: fa morire la vera distanza, stabilendo una distanza ancora più incolmabile; ostenta l'amicizia e preclude l'affetto. Anche se non lo vogliamo, ci fa entrare nel regno dell'indifferenza, dove tutti i sentimenti sono prescritti e sostituiti dalla voce vaga e vuota degli automi. (da Il tu e il lei, Superpocket, 1999, p. 53)
La biblioteca ci fa capire che essa non ha né confini né limiti, eppure non si può mai uscire da lei. Non c'è più terra, né alberi, né cielo, né mare, né vita. Lì c'è tutto il cosmo: i libri di metafisica e di viaggi, di mitologia e di geologia contengono tutte le possibilità e impossibilità che abbiano mai folgorato le menti umane. Ma questo cosmo è catalogato, distinto, diviso da una mente che fa coincidere la perfezione con il limite. (da Sulla lettura, Superpocket, 1999, p. 57)
Una mattina ci risveglieremo cambiati, come se nella notte qualcosa fosse improvvisamente accaduto dentro di noi. In quel momento sapremo che la massa, macerata e compressa, dei nostri ricordi avrà generato un simbolo, da portare con noi per tutta la vita. (p. 71)
La vita ha dato a qualche uomo il compito di ricordarci ogni istante cosa è dolore, tristezza, ansia, angoscia, insoddisfazione, incompiutezza, fallimento. Sono coloro che portano in sé l'infelicità come un privilegio e una grazia, e che noi talvolta vorremmo respingere dalle nostre vite perché ci ricordano la miseria di quanto facciamo. Poche persone ci sono più care di loro. Poche persone ci sono più preziose dell'amico che ci protegge da lontano con la sua bontà apprensiva, con la gentilezza custodita nei profondi occhi incavati, con la sua ilarità nervosa, – e che è sempre vissuto sui confini della notte, sui margini dell'ombra, là dove il cuore genera con più terribile eccesso l'ansia, il piacere o il dolore. (da Il malumore, Superpocket, 1999, p. 65)
Noi stiamo conoscendo un nuovo tipo di uomo: colui che riceve le notizie. Egli ha abolito in sé la forza visionaria dello spirito, l'immaginazione, la pura tensione speculativa, l'amore del gioco, la tenerezza per le parole. Gli è rimasta una sola qualità: la prensile, quasi animalesca capacità di captare notizie. Le ascolta; e subito le trasforma in idee, che anch'esse si propagano velocemente in ogni angolo della terra. Ma questi pallidi surrogati di idee non desiderano cogliere la verità: si accontentano di commentare i fatti, di corteggiarli e di diventare la loro eco indefinita e molteplice. Poi scompaiono, molto più rapidamente dei fatti. (da Malati di notizie, Superpocket, 1999, p. 78)
Oggi ci siamo accorti – ma non so per quanto tempo – che le cose non rivelano più la nostra anima, e ci siamo ritirati a passi lievi dal mondo. L'occhio guarda con discrezione la realtà: ha perduto la sua forza luminosa, quel dono di illuminare il mondo e di venire illuminati dal mondo, che Monet e Proust possedevano come nessun altro. Ama la distanza: l'accettazione del limite fra noi e il reale, il ritegno, la precisione nei particolari, la nitidezza liquida e trasparente, come i miniaturisti fiamminghi del quindicesimo secolo e i vedutisti veneti del Settecento. Questo freddo nitore (il nitore di Van Eyck e di Bellotto) forse è la luce dei nostri anni. (da Le cose, oggi, Superpocket, 1999, p. 85)
Anche la nostra vita è una metamorfosi incessante. Solo se ci perdiamo nel sonno, possiamo conoscere il giorno. Solo se attraversiamo la tenebra, raccontiamo la luce. Solo se obbediamo all'abitudine, esperimentiamo la novità e la freschezza della vita. Solo se conosciamo profondamente il Male, narriamo le vittorie del Bene. Solo se diventiamo natura, ci trasformiamo in creature umane. Solo se moriamo nelle profondità della terra, come il seme di Eleusi e di Giovanni e di Paolo, riusciamo come creature spirituali. Ma la metamorfosi esige da noi un'immensa sofferenza. Dobbiamo morire: abbandonare la nostra forma: assumere un'altra forma: rinunciare a noi stessi, – e niente è più doloroso di questa lacerazione, che ci fa a pezzi e ci muta. (da Morte e resurrezione, Superpocket, 1999, pp. 101-102)
Napoli era, in primo luogo, il Vesuvio. Quanti turisti contemplarono l'abisso fumante: quanti pittori rappresentarono quel fuoco incandescente e sontuoso. Arrivato lassù, seduto presso la bocca del vulcano, il viaggiatore vedeva, a intervalli, Portici, Capri, Ischia, Posillipo, il mare disseminato dalle vele bianche dei pescatori e la costa ricamata d'aranci del golfo di Napoli: il Paradiso più radioso visto dal bordo dell'Inferno. Poi scendeva: affascinato dal caos, cercava di descrivere il caos con la precisione di Piranesi. Ma presto si accorgeva che la natura «sa diffondere le sue grazie anche sugli oggetti più orribili.» (da Il viaggio in Italia, Superpocket, 1999, p. 115)
Se tutti hanno o possono avere il potere, nessuno riesce veramente ad afferrarlo. Così è proprio lui a possederci, senza che noi lo sappiamo. Poche epoche come la nostra, la quale ha sepolto i grandi per liberarci dalla morsa del dominio, sono state così schiave della soggezione e del fascino del potere. (da I potenti, Superpocket, 1999, p. 126)
Sui «vizi» del nostro popolo esiste una copiosissima letteratura, quasi tutta di terz'ordine. Quando vogliamo averli davanti alla memoria, basta pensare che quell'ignobile attore, quell'astuto evocatore di fantasmi che fu Mussolini seppe individuarli tutti nelle pieghe più nascoste del nostro paese, e li portò ingigantiti sulla scena pubblica: la mediocrità intellettuale, la fragilità nervosa, la bassa furbizia, la vanteria fallica, la presunzione immotivata, la fantasticheria ad occhi aperti, il rozzo buon senso, il disprezzo per le idee, l'arroganza verbale... (da Gli italiani nel 1973, Superpocket, 1999, p. 131)
[La decadenza dell'Europa] Intorno a noi, popoli più antichi o più giovani accelereranno vertiginosamente il passo del tempo. Noi resteremo a parte, in un angolo, quasi dimenticati: con regimi politici lievemente anacronistici e una popolazione di vecchi. Ma tutti sapranno che, volendo sottrarsi al ritmo furioso del tempo, volendo balzare fuori per un attimo dall'infernale sarabanda della vittoria e della sconfitta, cercando di liberarsi dall'impegno di essere sempre presenti, – basterà venire in Europa. Questo giardino, questo orto concluso, dove il tempo viene sistematicamente rallentato, dove le passioni sono raffreddate e frenate, e tutto viene avvolto dalla luce celeste del nostro tramonto. (da La decadenza dell'Europa, Superpocket, 1999, p. 141)
Non si vive per altro: perché, sul fondo dell'abisso e del vuoto, una mano veloce scriva sul foglio bianco delle parole che obbediscano a un ritmo e a una figura. Tutta la storia dell'Europa è avvenuta soltanto per generare pochi versi, pochi quadri perfetti – versi e quadri che non giustificano ma gettano nell'ombra gli orrori. La langoureuse Asie et la brûlante Afrique sapranno capire le ultime parole di Europa? (da La decadenza dell'Europa, Superpocket, 1999, p. 143)
Niente è più pericoloso che avere troppa fiducia nella storia, e sentirsi a proprio agio nelle sue pieghe, nei suoi segreti, nei suoi cammini lineari o tortuosi. Specie chi investe in essa delle mete assolute, finisce per non capirla o fraintenderla. I grandi ossessi del tempo non l'hanno mai compresa. (da Il futuro di un'illusione, Superpocket, 1999, p. 156)
[...] non è elegante cedere al rimpianto. (p. 187)
[L'arte scitica] nata nelle steppe, dagli ignoti artigiani che dovevano montare, come i guerrieri e gli sciamani, «cavalli più leggeri delle pantere, più rapidi dei lupi della sera». Gli ori scitici arcaici, che intrecciano corna e membra di cervi, sono tra i supremi capolavori dell'arte umana. Il bestiale, il barbarico, il misterioso, il regale, il chimerico vengono evocati da una energia stilistica feroce: − lo stile come guizzo bruciante di linee, che divora qualsiasi materia, persino la più preziosa: lo stile come unica forza rimasta al mondo nella dissoluzione di tutte le cose celesti e terrene. [...] Forse quella furibonda energia stilistica, quei guizzi, quei balzi sovrumani spiegano tutta la grande arte russa: da Avvakum a Gogol a Dostoevskij fino a Marina Čvetaeva e a Nabokov. (da Gli Sciti, Russia 1987, Superpocket, 1999, pp. 189-190)
[San Pietroburgo] Con che gioia si contemplano quei palazzi imperiali, quegli osservatori, quei conventi, quelle chiese creati per re, ma più leggeri di qualsiasi architettura regale! Il tenero azzurro, il tenero verde, il tenero rosso evocano la grazia di Napoli quando, quasi nello stesso periodo, nel cuore del diciottesimo secolo, costruiva sé stessa. Le cupolette d'oro russe, a Tzarskoe Selo, diventano un elegantissimo gioco, che la Russia rococò fa con sé stessa, prendendo a prestito e quasi irridendo un elemento sacro. I nobili palazzi neoclassici sanno di Grecia rivisitata, di squisite mondanità, di teatro, di quinte teatrali. Tra queste architetture abbiamo l'impressione che debba sciamare un corteo di maschere meridionali, Arlecchini e Colombine, guidati da qualche re della gioia. (da Pietroburgo, Superpocket, 1999, pp. 190-191)
[San Pietroburgo] Sopra tutte le cose splende una luce solare cristallina, sovrannaturale e radiosa, come nelle tele inglesi di Turner, scendendo da un cielo così immenso che nessuna galassia può contenerlo. Ascendiamo nello spazio, volteggiamo nello spazio. Non c'è più meta. (da Pietroburgo, Superpocket, 1999, p. 191)
Chi ha creato Pietroburgo? Non Pietro il Grande, non Elisabetta né Caterina: non gli architetti italiani. Un grande poeta romantico russo, una specie di Friedrich della Neva ha sognato il Sud, gli ha rubato qualche elemento, e poi l'ha trasformato in un delirio a occhi aperti, in un delirio di pietre e di neve e di verde e di celeste, e di luce radiosamente infinita. (da Pietroburgo, Superpocket, 1999, p. 191)
[Su Parigi] Senza saperlo sono entrato in un luogo puramente mentale, dove la realtà – Senna, Champ de Mars, giardini del Lussemburgo, Louvre, Marais – è stata disposta da una mano sottile e tagliente. Qui la mente ha modellato gli spazi e li ha imbevuti di sé stessa, come in nessun'altra città del mondo. Tutto è cristallino e traslucido, come nei quadri di Bellotto; e quel vento che soffia, che spazza e riporta le nuvole su un palcoscenico immenso, quel vento che sa ancora di Oceano Atlantico, non è che il vento agile dell'intelligenza che ti costringe a muoverti più veloce. (da Parigi 1988, Superpocket, 1999, p. 202)
[Le Ninfee] [...] nessuna pittura è meno astratta di questa. Monet tenta di conquistare la realtà assoluta: senza limiti, senza bordi, senza limitazioni: al di là della quale nulla esiste: tanto materiale quanto immateriale: tanto superficiale quanto segreta; la realtà come lingua e come musica ininterrotta. Quale meraviglioso rivolgimento! Colui che Cézanne aveva definito «un occhio» è diventato un filosofo presocratico. Non è più soltanto un rivale di Marcel Proust e di Debussy, ma di Empedocle e di Eraclito. (da Le Ninfee di Monet, Parigi 1988, Superpocket, 1999, p. 203)
[Claude Monet] [...] come accade in ogni capolavoro, balzò oltre ogni cultura, ogni civiltà, ogni storia. Cosa può avvenire, dopo le Ninfee? Questo monumento è un culmine e una fine. Ci costringe a ricominciare da capo, a tornare indietro, a riesaminare i nostri colori, i nostri suoni e le nostre lingue. Nulla di quello che, dopo, è avvenuto in Francia, può sostenerne il confronto. (da L'unità della natura, Parigi 1988, Superpocket, 1999, p. 206)
[I grattacieli di vetro di New York] Se li guardiamo meglio, ci accorgiamo che i grattacieli sognano. Mentre sognano, riflettono nelle loro superfici trasparenti tutte le immagini del tempo passato: la pietra, il mattone, il ferro, l'acciaio, la chiesa neogotica e il palazzo neorinascimentale, il Plaza e la cattedrale di San Patrizio – e, più in alto, mescolate al mattone e alla pietra, le nuvole e le nebbie, tessute di una materia appena più reale del vetro. Le immagini cambiano secondo le ore e i raggi di sole: ogni edificio ha un diverso riflesso secondo il diverso vetro in cui si rispecchia. E nessuna delle immagini è prigioniera, come il tempio greco di Siracusa.[15]perché chi può afferrare e trattenere un riflesso? In questo momento, mentre usciamo dall'incubo, l'angoscia e la vertigine del tempo vengono pacificate. [...] Forse vivere non è altro che questo – vivere nel riflesso, nell'apparenza, nel velo, che ogni giorno qualcosa tesse attorno a noi. (da I riflessi nei grattacieli, Superpocket, 1999, pp. 214-215)
Un fungo porcino nasce dall'incontro di spore: una mattina viene alla luce, si nutre dell'humus di un albero, cresce sotto questi boschi in una oscura e silenziosa solitudine, viene colto dalle mani di un montanaro, qualcuno lo secca o lo mette sott'olio; e ora è qui, che sta per venire offerto sulla tavola di un borghese italiano. (p. 222)
Quando scrive, Giovanni Macchia chiude le finestre della sua grande casa, accosta le porte, allontana gli insidiosi soffi d'aria, stacca il telefono e si trincera dietro il piccolo tavolo da lavoro, lasciando cadere tra la penna e il mondo tutte le cortine con cui i libri, i quadri e la musica ci allontanano e ci legano alla vita. Lì, chiuso nel suo bozzolo, è felice. (da La morte degli alberi, p. 225; Superpocket, 1999, p. 225)
So che gli alberi mi guardano, mi curano e mi proteggono con la loro presenza silenziosa, col loro amore senza parole. Non sanno nulla di me, ma sono disposti a distendere le loro braccia sopra di me e sopra ciascuno. Ricordo Olimpia: sui templi distrutti, sulle colonne tagliate e abbattute, è discesa dolcemente col tempo un'intera collina, difendendo colla pietà dei pini le pietre salvate dalla furia degli uomini. (da La morte degli alberi, p. 226; Superpocket, 1999, p. 226)
Sebbene ami i greci, non sono mai riuscito a condividere il loro antropomorfismo. Come è possibile immaginare Zeus, o tanto più Afrodite o Poseidone, sotto forma umana? Come è possibile che quanto vi è di più numinoso e tremendo o semplicemente incommensurabile negli dèi, assuma l'aspetto dei nostri corpi? La forma umana è troppo definita per accogliere il divino. Mi sembra che una pietra bianca, o una pietra nera, o uno splendore di gemme, o un ricamo astratto sulle pareti di una moschea, o un fuoco eterno di legna pura, siano una forma più adatta a riceverlo. Ma gli dèi, forse, amano sopratutto gli alberi. (da La morte degli alberi, Superpocket, 1999, pp. 226-227)
Come gli dèi, anche gli alberi muoiono: gli uni e gli altri sono le creature più delicate e feribili del mondo; e noi dobbiamo assistere alla loro malattia e alla loro morte. (da La morte degli alberi,p. 227; Superpocket, 1999, p. 227)
Se proviamo a rileggere le Illusions perdues e Guerra e pace o Tess, nasce in noi un'impressione che i lettori di allora dovevano probabilmente condividere: la realtà pareva densa, folta, resistente, immodificabile come il granito. Qualsiasi tentativo gli uomini facessero per cambiarla, si spezzava contro di lei. Oggi, la nostra impressione è capovolta. (da La società di massa nel 1980, p. 235; Superpocket, 1999, p. 235. )
Immaginiamo che ogni fatto rappresentato, ogni metafora amorosamente foggiata, ogni parola gettata sulla carta vengano accompagnati dalla coscienza acutissima della loro fuggevolezza: immaginiamo un libro dove tutto cambi, muti, assuma sempre nuove forme, come le nubi leggere in un cielo ventoso, come l'infinito caleidoscopio di immagini e sensazioni che attraversa roteando e brillando il Tristam Shandy. Ho citato un libro di due secoli fa. Forse il libro che sogniamo è stato già scritto, e i nuovi narratori-poeti dovranno soltanto cercare di inseguirne l'impossibile forma. (da La società di massa nel 1980, p. 235; Superpocket, 1999, pp. 235-236 )
Il trionfo dell'industria culturale ha portato delle conseguenze, che modificano la figura sociale dello scrittore. Quest'abitante di due o mille mondi non è mai stato così amato, accarezzato, abbracciato, esaltato, ricompensato come dalla civiltà di massa: nemmeno quando Nestore e Alcinoo lo invitavano nelle regge[16]per celebrare la loro gloria. (da La società di massa nel 1980, Superpocket, 1999, p. 236.)
In un'epoca come la nostra, il compito di uno scrittore è modesto. Egli ci ricorda la gioia del riso in un tempo aggrondato: ci ricorda il profumo della leggerezza in un tempo di pesantezza: in un tempo che non conosce la precisione, si ostina a chiamare le cose col loro nome: in un tempo enfatico, rievoca il vero ardore della passione: in un tempo fragoroso, risuscita la virtù del silenzio; in un tempo frammentario, tesse rapporti tra il presente, il passato e il futuro, tra tutti i punti del mondo, tra il nostro mondo e gli altri mondi che roteano soltanto nella sua fantasia. Se lo interroghiamo, se vogliamo che egli si renda «utile alla società», si rifugia nella sua vita privata. (da La società di massa nel 1980, Superpocket, 1999, p. 238.)
Volgendo le spalle a qualsiasi rigida geometria, Ulisse ama ciò che è sinuoso, tortuoso, obliquo, curvo: come il marinaio che attraversa il mare a zig-zag, seguendo i capricci del vento, o come il granchio, che cammina contemporaneamente verso tutte le direzioni. Con questo passo tortuoso e avvolgente, Ulisse disegna strade intellettuali sull'oscura vastità del mondo, e lo illumina col suo sguardo di fuoco. (da L'uomo che capisce, Superpocket, 1999, p. 241)
Certo, il mondo della poesia epica e lirica, sulla quale Achille regna come un sovrano, gli è precluso. Ma apriamo l'Odissea, dove tutti fingono e raccontano. Il più grande narratore – il maestro degli scrittori di romanzi fino a Cervantes, a Stevenson, a Proust, a Joyce – è lui, quando racconta i suoi viaggi nella reggia di Alcinoo. Appena apre la bocca, cade il silenzio [...] (da L'uomo che capisce, Superpocket, 1999, p. 242)
Proprio Platone, il supposto nemico di Ulisse e della metis, ci racconta che l'Amore-filosofo (il modello di Socrate) è il nipote della dea Metis. Il vero filosofo deve essere dunque cacciatore, versatile, curioso, sinuoso, ingegnoso: deve conoscere tutti i colori, i labirinti e le curve della realtà, prima di iniziare il cammino che lo conduce verso la contemplazione delle Idee. Senza Ulisse, non ci sarebbe mai stato Socrate: questo vagabondo, questo nuovo Proteo, questo attore comico, questo principe dei dilettanti, questo signore dei parodisti. (da L'uomo che capisce, Superpocket, 1999, p. 242)
Non c'è psicanalista, né storico, né critico letterario a cui ci affideremmo più volentieri che a Ulisse. Egli ci insegna che non potremmo vivere senza la gioia di «capire» i misteri della realtà: senza interrogare i segni e gli indizi, che ogni mattina il caso sparge sulla nostra strada. Ma ci insegna anche che capire non basta. Il piacere supremo, a cui dobbiamo consacrare tutti noi stessi, è quello di raccontare quanto abbiamo capito, vissuto, immaginato o sognato – i Lestrigoni, i Ciclopi, le Circi, le Scille e le Cariddi, gli Inferi, le Itache che stanno nascosti dentro ciascuno di noi – mentre gli altri pendono, insonni nella lunga notte, dalle nostre labbra. (da L'uomo che capisce, Superpocket, 1999, p. 244)
L'antico insegnamento delfico, Conosci te stesso, voleva dire: conosci i tuoi limiti, sappi di essere un uomo e non un dio, rifiuta in primo luogo la hybris. Eppure il daimon di un artista non obbedisce sempre alla massima delfica: l'arte della vocazione è un continuo violare il limite – compiere veloci scorribande nell'altrove, portare notizie dal mondo che non gli appartiene, trasformare il diverso. (da Il daimon, p. 258; Superpocket, 1999, p. 258)
L'interprete non è un professionista del mistero, o un mistico, o un mistagogo, né forse un vero scrittore. È soltanto un intervistatore, che dispone di pietre e di legni altrui: o uno di quei vecchi aggiustatori di ombrelli che abitano ancora nell'antica, amatissima e accogliente città di Roma, e riparati dentro un portone – fuori scende la pioggia, o soffia il vento o il maggio caldo promette già una torrida estate – congiungono stecche, riparano manici e tessuti, perché gli altri possano passeggiare con una lieve difesa tra le tempeste del mondo. (da L'arte del ritratto, Superpocket, 1999, p. 276)
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Chi scrive versi o compone quadri e statue è spinto da un impulso insostenibile a far rinascere sulla terra l'età dell'oro: la fa rinascere nella sua opera, che è la stessa età dell'oro realizzata. Ma è anche simile a una divinità decaduta, prigioniera nelle tenebre o esiliata ai limiti della terra, che porta nella memoria il ricordo dell'utopia e della sua fine irreparabile; o ad un astro che fugge, sempre più pallido ed enigmatico, l'acume degli occhi umani.
Chi vuole conoscere la luce della forma, deve attraversare l'ombra: sostare sull'orlo di un precipizio, o camminare tra due voragini, tra due follie egualmente tremende.
Non amare Dickens è un peccato mortale: chi non lo ama, non ama nemmeno il romanzo.
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I Greci erano molto meno ingenui di noi, e sapevano come fosse tragica la «gioia» nel mondo luminoso di Apollo. Perché la cetra, che dà gioia, è lo stesso strumento dell'arco, che dà la morte. Come Apollo saettava da lontano le frecce del suo arco, le Muse «saettavano da lontano» i dardi della loro lira. Il poeta era un arciere: la sua canzone una freccia, che non sbagliava mai la meta; e la corda dell'arco vibrava come le corde della cetra. Le notizie essenziali sulla poesia apollinea sono tutte contenute in questa metafora. Il poeta possedeva la distanza contemplativa del dio che, con un gesto, aveva arrestato sul frontone di Olimpia la lotta dei Centauri e dei Lapiti; e la precisione e l'esattezza, l'arte di cogliere nel segno e di conoscere il vero ordine delle cose. Ma portava in sé un dono più terribile: la morte. (da Apollo, Ermes, la poesia, I re di Micene, p. 39)
[Socrate] Noi non finiamo di sorprenderci che questo personaggio da commedia deliri, e poi nasconda di nuovo i suoi doni sovrannaturali dietro la discrezione più amabile e sorridente. Un così perfetto equilibrio tra le qualità opposte dell'animo umano non si è mai più verificato nella storia; e perciò Socrate continua a sembrarci qualcosa di unico. Tutto è chiaro, in lui: chiaro come il platano, l'erba, le acque trasparenti dell'Ilisso, dove lo vedremo avanzare: siamo nel mondo più limpido che abbiamo mai conosciuto; eppure chi è più enigmatico di lui, chi è più irraggiungibile e inafferrabile della sua persona? (da Amore filosofo, I re di Micene, pp. 54-55)
Con la favola di Amore e Psiche, Apuleio crea una forma d'arte che si impose per sempre alla fantasia occidentale: l'arte dei misteri. Quest'arte è legata dal segreto: deve tacere le cose divine mentre ne parla; e quindi rivelarle nascondendole. Così Apuleio costruisce le Metamorfosi su un'immensa omissione: la presenza di Iside nei primi dieci libri, non meno intensa che nella trionfale apparizione dell'undicesimo. Poi gioca, usa tocchi fatui e leggeri, scherzi e arguzie, allusioni enigmatiche, note basse ed oscene; e la forma più priva di valore religioso che sia mai esistita – la mitologia ellenistica, con le Veneri, le Grazie, gli amorini, la ricerca del piccolo e del parodistico. Non potremmo, in apparenza, essere più lontani dal sacro: eppure dietro la superficie, la «favola» è il più grande ed audace testo mistico della letteratura europea. (da La luce nella notte (I), I re di Micene, pp. 88-89)
Oggi, diciotto o diciannove secoli dopo[17], il contrasto è molto diverso? Dentro di noi, c'è un platonico che commenta Paolo; e un cristiano paolino che commenta Platone. Malgrado tanto tempo trascorso, e tante migrazioni e fusioni, malgrado la furia di Paolo si sia ammorbidita e il suo stile abbia trovato una forma, il cristianesimo è ancora lo scandalo: la follia della croce, la ferita di Dio, la lacerazione dell'universo. Il contrasto non è conciliato: né forse può esserlo mai. A noi spetta soltanto di conservarlo puro nella nostra mente: di percorrere entrambe le strade sino all'estremo, senza attendere una soluzione. (da Un pagano legge san Paolo, Da san Paolo al Paradiso, pp. 129-130)
[L'Apocalisse di Giovanni] [...] un piccolo libro dolce come il miele, amaro come l'assenzio. (da Il libro bianco e scarlatto, Da san Paolo al Paradiso, p. 130)
[Nell'Apocalisse di Giovanni] Il fascino della «grande Babilonia», a cui nemmeno Giovanni si sottrae, è già il fascino della città baudelairiana, la città infernale, coi suoi angeli d'oro, di porpora e di giacinto, dove tutte le forze umane si concentrano, si moltiplicano, si nutrono di vertigine e d'infinito. (da Il libro bianco e scarlatto, Da san Paolo al Paradiso, p. 134)
Solo i libri scritti con la calligrafia cifrata dei cieli, solo i libri che nessuno può dissigillare completamente, continuano a infuocare per secoli i nostri pensieri. (da Il libro bianco e scarlatto, Da san Paolo al Paradiso, p. 143)
Mentre continuiamo a leggere, avvertiamo nei versetti dell'Apocalisse una tensione, un impeto, una passione, che hanno qualcosa di cannibalesco: furore di possedere e ingoiare dei libri e di proiettarli in un altro spazio di carta; l'opera d'oreficeria viene lavorata col fuoco. Con una specie di ebbrezza allucinata, Giovanni trasforma ciò che aveva ingoiato, e le immagini strappate a Isaia e a Ezechiele, più concrete, violente e corpose che nei modelli, sembrano aggredirci negli occhi. Così questo testo, che non nasce da un'esperienza visionaria, è diventato il più grande testo visionario dell'Occidente. La letteratura ha appreso dall'Apocalisse che vedere è, in primo luogo, una visione di libri. (da Il libro bianco e scarlatto, Da san Paolo al Paradiso, p. 140)
Subito, nei primi versi del Paradiso, nell'invocazione ad Apollo, Dante chiarisce perché la sfida sia estrema:
Entra nel petto mio, e spira tue | sì come quando Marsïa traesti | de la vagina de le membra sue.
Dio, l'ispiratore della poesia sacra, viene paragonato ad Apollo, quando spellò vivo Marsia, che aveva osato sfidarlo, e ne estrasse il corpo scorticato dalla pelle – la guaina, la «vagina» delle sue membra. Dunque la poesia sacra, che Dante sta per iniziare, porta con sé l'ombra di un delitto mitico: è essa stessa un delitto; ci distrugge, ci annichila, ci uccide, sia pure per farci uscire da noi e farci conoscere la rivelazione. Dante ci mette sull'avviso: il suo libro sacro sarà tremendo, molto più dell'Inferno, e chi oserà leggerlo dovrà contare su un coraggio intellettuale, che nemmeno per un attimo potrà distendersi e rallentare. Tutta quella luce non ci illuda. Tutto quell'amore non ci incanti. Se il libro di Dante è tremendo, se senza fine l'Apollo cristiano spellerà davanti ai nostri occhi il corpo vivo di Marsia, è per una ragione evidente. Dio è tremendo. Come i veri credenti sanno, Dio non è nulla di misurato o tranquillo o ragionevole o pacato: è un «infinito eccesso», una fatale sovrabbondanza rispetto a tutti gli uomini e alle cose create. (da Il Paradiso, Da san Paolo al Paradiso, pp. 179-180)
Nulla è più arduo e raro dell'ingenuità e dell'innocenza taoiste: sgorgate da una cognizione completa, amara e ironica della vita, dei suoi contrasti e del gioco di antitesi che l'attraversa; simile a quel candore supremo, a quella grazia infantile, a quella dolcezza disincarnata, che soltanto i grandi vecchi posseggono. (da I giochi del Tao, I giochi del Tao, p. 202)
[Il Libro del Signore di Shang] In nessun altro testo di teoria politica che sia mai stato scritto, da Machiavelli a Lenin, si esprime così atrocemente il sogno di una politica assoluta, che cancelli qualsiasi altro pensiero, sentimento e desiderio umano, costruendo lo spaventoso edificio della Legge e della Forza. I suoi autori possedevano tutte le qualità necessarie per realizzare questo sogno: una mente paurosamente logica, un disprezzo astratto per gli esseri umani, una crudeltà adamantina, l'odio per ogni compromesso, una decisione che non si arrestava davanti a nessun ostacolo, una solitudine disperata, l'incapacità di pensare e amare il mondo come un mobile gioco di contraddizioni. (da La politica assoluta, I giochi del Tao, p. 204)
[Matteo Ricci] Egli univa la raffinatezza spirituale alla semplicità dei modi: nei gesti, nelle parole e nel comportamento, trovava il felice punto d'incontro tra l'eccesso di rigidezza e l'eccesso di affabilità, dimostrando di possedere quella sovrana naturalezza, adorata da Confucio, nella quale la spontaneità, la discrezione, il controllo e la grazia intonano la musica della vita. (da La Cina e il cristianesimo, I giochi del Tao, p. 209)
Non c'era piacere più grande che addentrarsi nel Palazzo imperiale, dove la mente teatrale e artificiosa di un grande architetto aveva creato una natura molto più sottile di quella reale. Qui il pittore di corte dell'imperatore Qianlong, padre Attiret, non scopriva da nessuna parte la monotonia dell'odiosa linea retta, che doveva averlo tediato a Versailles, ma una «antisimmetria» sapientemente calcolata. Tutto serpeggiava, si piegava, si curvava, mostrava ora un volto ora quello opposto. [...] Ma padre Attiret non ebbe mai l'impressione di muoversi nel regno del caso. La mente dell'architetto, ignota e lontana come la mente dell'imperatore, si divertiva a giocare con sé stessa: provava a violare le proprie leggi: si inoltrava nell'ignoto; e poi ritornava arricchita, divertita e rassicurata, tra le convenzioni del mondo umano. (da La città dell'imperatore, I giochi del Tao, pp. 218-219)
Sviluppando gli accenni del Tao tê ching, Cao Xueqin costruisce l'utopia di una vita esclusivamente yin: le ragazze del gineceo, prima di essere oscurate dalla corruzione della realtà e del matrimonio; i sogni e le illusioni delle camere rosse. [...] Mai l'anima femminile della Cina, chiusa nel Giardino utopico, era stata espressa con tanta delicatezza: in cielo anche gli dèi hanno soltanto figure di donne. [...] Egli ha compreso che non è più possibile vivere nel principio maschile, ma soltanto nel femminile, non più nel sole ma nella luna, non più nella realtà ma nel sogno. Tuttavia sa egualmente che la scelta dello yin contro lo yang distrugge l'armonia simbolica della vita, spezzando il movimento ininterrotto dell'universo. Così la Cina, ferita nel proprio cuore, non può che tramontare – lentamente, molto lentamente – con tutti gli splendori e le tenerezze di un tramonto dolcissimo: ma tramontare per sempre. (da Il sogno della camera rossa, I giochi del Tao, p. 234)
[Sul Sogno della camera rossa] Sebbene l'intreccio sia costruito con rara maestria, nell'immensa zona centrale del libro non accade nulla: tutti gli avvenimenti della realtà sono tenuti lontani, la storia non lascia tracce; non c'è altro che la pura, incontaminata esistenza, questi minimi fatti sciolti in un compatto tessuto melodico, che ispira senza fine la delicatezza della mente di Cao. Così l'ambizione della letteratura moderna dopo Cěchov è stata realizzata in questo libro, in questa cattedrale incompiuta, da un grande artista che diceva di averlo scritto per gioco, «per ingannare la noia delle sere piovose, seduto alla sua tavola davanti alla finestra, sotto la lampada, in compagnia di due o tre amici, dello stesso umore del suo, e come lui sazi di arak e di riso». (da Il sogno della camera rossa, I giochi del Tao, p. 242-243)
Salomone sa che i demoni hanno poteri soprannaturali, ignorati dagli uomini: essi trovano i tesori e le perle in fondo al mare, fabbricano automi, costruiscono templi e città. Grazie ad Allah, egli acquista un dominio quasi assoluto su di essi: fa edificare loro il tempio di Gerusalemme; e abbiamo l'impressione che la sovranità del mondo sia perfetta soltanto quando il celeste e il terrestre, il sacro e il demoniaco, l'aereo e l'abissale obbediscono docilmente al medesimo cenno. Con questo sovrano delle fate e dei venti, lasciamo il suolo fermo dove vivono e soffrono gli uomini e penetriamo nel regno della féerie, che nessun ostacolo limita. (da La Bibbia vista dall'Islam, In Islam, p. 265-266)
[Su Notizie dei Profeti e dei Re di Ṭabarī] Di questo grande arazzo, credo che molti lettori ameranno soprattutto una frase: «La prima cosa che Allah creò fu il calamo, e tutto quello che volle creare, disse al calamo di scriverlo. Poi, quando si fu messo a scrivere, Allah creò il cielo, la terra, il sole, la luna e gli astri, e allora la sfera terrestre cominciò a girare». Dunque, tutto esiste per essere raccontato: la creazione non è necessaria, ma è necessario il movimento della penna che trascrive le cose accadute. (da La Bibbia vista dall'Islam, In Islam, p. 267)
Narrare è – all'origine – un dono femminile, una parola che una donna rivolge a un'altra donna, e che l'uomo ascolta. Shahrazād comincia le sue storie quando l'oscurità annuncia, da lontano, il giorno: legato all'eros, ai demoni, ai fantasmi e alle lingue segrete, il racconto nasce dalla notte, vive della notte, ma vince le tenebre e fa nascere ogni volta il giorno per tutti noi che parliamo e ascoltiamo. (da Le mille e una notte, In Islam, p. 270)
In un racconto famosissimo, Hāsib Karīm al-Dīn conosce la sapienza solo quando la regina dei serpenti si immola per lui, muore e gli dona il succo del suo corpo. In quel momento, il cuore di Hāsib diventa la «sede della sapienza». Hāsib non è altri che il ritratto del narratore esoterico delle Mille e una notte. La regina dei serpenti, amica di Salomone, rivela anche a lui tutti i segreti della natura vivente, della terra segreta e degli animali celesti e terreni: quella sapienza che i libri degli uomini non contengono. Ma la regina dei serpenti non ha bisogno di sacrificarsi per lui. Lo stesso narratore si immola o desidera sacrificarsi per noi, ogni volta che comincia un racconto, mentre la notte comincia [a] cedere all'alba: la sua fantasia è il succo che trasforma il nostro cuore nella «sede della sapienza». Così, sfuggito alla morte, dotato di tutti i doni della natura sotterranea, il narratore esoterico diventa il nuovo Salomone: il Salomone vivente, seduto sul trono nella lontana isola di smeraldo. (da Le mille e una notte, In Islam, p. 279-280)
Il dolore è l'elemento più umano dell'uomo: gli animali non soffrono, gli angeli non soffrono; ma il dolore valica ogni limite umano, balza oltre la terra, ci porta nel regno di Dio, al di sopra degli angeli. L'angoscia è la forza che ci spinge verso il Simurgh[18]: la nostra ricerca di lui non è che angoscia; alla corte del grande uccello, noi non dobbiamo portare scienza, mistero, devozione, cose che lassù abbondano – ma «l'ardore della tua anima e l'afflizione del tuo cuore, giacché», dice l'upupa «nessuno in quella reggia dispone di simili beni». (da Il verbo degli uccelli, In Islam, p. 286)
[Nezāmī] Sapeva che la perla era l'originaria sostanza cosmica; ed ecco, tutta la scienza del visibile e dell'invisibile, tutto ciò che era appariscente e ciò che era misterioso, tutto ciò che era concreto e ciò che era astratto doveva diventare una collezione di perle, di ori, di zaffiri, di diamanti, di turchesi, più splendenti di quelli reali, giacché nessuna gemma splende come la metafora di un grande artista. Il poeta non era altro che «il gioielliere del tesoro del Mistero» [...] (da Due libri di Nezāmī, In Islam, p. 301)
Se tutta la realtà bruciasse in un rogo immenso, l'immenso tappeto metaforico di Nezāmī, questo giardino dove gli astri ci hanno invitato tra i profumi e i colori, resterebbe in piedi, in alto, solitario e trionfale e inattingibile nel vuoto. (da Due libri di Nezāmī, In Islam, p. 302)
La straordinaria ricchezza della condizione di Rūmī nasce dal fatto che in lui si uniscono drammaticamente i due atteggiamenti spirituali opposti: il neoplatonico e lo gnostico. Questa terra è insieme, per lui, la casa dell'anima e la casa dell'esilio, il migliore dei mondi possibili e l'oscuro carcere, che imprigiona i nostri spiriti e i nostri corpi. Così ora Rūmī ci racconta una storia opposta a quella che ci aveva raccontato. Questa terra è insieme, per lui, la casa dell'anima e la casa dell'esilio, il migliore dei mondi possibili e l'oscuro carcere, che imprigiona i nostri spiriti e i nostri corpi. Così ora Rūmī ci racconta una storia opposta a quella che ci aveva raccontato. Chi contempla le cose, non conosce la luce divina. Il mondo – che prima ci manifestava il volto di Dio – è il velo che ce lo nasconde. Viviamo un'esistenza di sogno. [...] Così dobbiamo lasciarci alle spalle i veli e i riflessi, i profumi e i colori, abbandonare il carcere e il terrore della separazione. In piedi, amici, partiamo. È tempo di lasciare questo mondo. | Il tamburo risuona dal cielo, ecco che ci chiama. | Ecco: il cammelliere si è levato, ha preparato la carovana, | e vuole andarsene. O viaggiatori, perché dormire? | Davanti a noi, dietro di noi, si elevano il suono delle campanelle, il tumulto della partenza. | Ad ogni istante, un'anima, uno spirito si invola verso dove non c'è più luogo. (da Lo specchio dei colori e dei profumi, In Islam, p. 310)
[Napoli nel Cunto de li cunti] L'universo, di cui Napoli è la metafora più appariscente, è una congrega di mostri, di idioti e di rifiuti. [...] Tutti divorano, trangugiano, ingurgitano, ingollano, inghiottono, ingozzano, strippano, pappano, ruminano, rosicano, ripuliscono quello che c'è in tavola: pastiere e casatielli, polpette, maccheroni e raffioli, pastinache e foglie molli, piccatigli e ingratinati, franfellicchi e biancomangiare; Napoli è un'immensa città-torta, che Basile divora con gli occhi e coi denti. Mostri, nani, vecchie, sciocchi, idioti, ingordi e defecatori si raccolgono nei cinquanta racconti con un solo scopo. Vogliono farci ridere. Vogliono fare scoppiare nella malinconica Zosa, nelle narratrici e in noi che leggiamo, la risata immensa, a piena gola, a crepapelle, hénaurme come in Rabelais e Flaubert, dionisiaca, assurda, grandiosamente fantastica, che uccide per sempre la nera pianta della Malinconia. [...] Nel libro, Zosa ride e sposa il suo principe. [...] Noi ridiamo? [...] Non è certo che ridiamo alla fine. L'universo di Basile è così pesante, folto e inestricabile, che a volte ci sembra il fosco sogno delle streghe del Macbeth, che continuano a cuocere il loro brodo infernale. (da Le favole di Basile, La morte degli dèi, pp. 402-403)
[Lo cunto de li cunti] [...] un prodigioso ordigno per imitare il Tempo e farlo circolare tra le pagine, come il sangue stesso del libro. Così nei velocissimi allegro di certe favole, Basile inseguì le sue grandi ali crestate: mentre nel ritmo di metamorfosi, di morte e resurrezione, che le fate impongono alla vita, imitò il tempo che continuamente divora e rinasce. Ma, forse, la meta di Basile era soprattutto quella di fermarlo. (da Le favole di Basile, La morte degli dèi, p. 409)
[La prosa di Basile] La prima legge è l'accumulazione verbale. Le parole si aggiungono alle parole: ognuna cerca di cogliere più da vicino e con più precisione l'oggetto, e insieme effettua una variazione fonica: le variazioni si succedono e mirano a un diapason; mentre insieme formano un sistema metaforico compatto e coerente. Sullo sfondo sta Basile che, come il tempo, ingoia tutto il dizionario e insieme a esso il mondo, come se soltanto così potesse liberare il Riso, che salva noi e la vita dalla rovina. Ma egli non vuole, come credeva Croce, parodiare e ironizzare il barocco. Simile a Shakespeare, accumula immagini classiche, petrarchesche, realistiche, bizzarre, oscene, inverosimili: tutto ciò serve a far divampare più diabolicamente le legna del suo fuoco stregonesco:
finché le immagini s'accendono, deflagrano e scoppiano, disegnando cangianti e luminosi razzi nel cielo, mentre noi, rimasti a terra, ammiriamo questa potenza regale d'immaginazione. (da Le favole di Basile, La morte degli dèi, pp. 409-410)
Fondere insieme questi sentimenti contraddittori, essere nello stesso istante angosciati e felici, far piangere il nostro riso, far ridere il nostro pianto è, forse, il segno della perfezione assoluta, di quella che noi usiamo chiamare la «santità». (da L'esilio della Shechinà, La morte degli dèi, p. 431)
[La musica composta da Mozart per Il flauto magico] [...] quel misterioso sussurro tra la vita e la morte, quel respiro mite, quella forza trasparente, quel liquido, mobile slancio che trascina ogni accordo verso l'acqua ed il fuoco, verso l'aria e la terra – forse oltre l'acqua e la terra, oltre la sfera dell'aria e la sfera del fuoco. (da La luce della notte (II), La morte degli dèi, p. 461)
Nel Flauto magico, lo spazio amabile della notte comprende le cose ignorate nel regno di Sarastro: il fuoco dolcissimo dell'amore, le ricchezze che i dolori lasciano nella nostra anima, gli uccelli dalle penne multicolori, gli uomini-uccelli che vivono nella semplicità dei boschi, la forza pacificatrice della musica. Se vogliamo conoscere la voce di questo mondo notturno, dobbiamo soltanto porgere l'orecchio. (da La luce della notte (II), La morte degli dèi, p. 467)
Il flauto magico è una favola per bambini, e una parabola destinata alle creature angeliche, che attraversano l'oscurità e la luce tenendo nella mano un ramo di palma. Alle favole e alle parabole non si pongono domande, né da loro si hanno risposte: o si ricevono tutte le domande e tutte le risposte. (da La luce della notte (II), La morte degli dèi, p. 474)
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Per quante vesti colorate indosseremo, per quanti libri e quadri e musiche gusteremo, non dimenticheremo mai il segno con cui la Genesi ha marchiato ogni cultura. (p. 25)
Non ho mai sognato di vivere ad Atene, nell'età di Pericle: o a Roma, negli ultimi tempi della repubblica, vicino a Lucrezio o a Catullo, a Virgilio o a Properzio, in una di quelle epoche tragiche e splendide in cui l'uomo fissa risolutamente gli sguardi in sé stesso o nel cielo. Amerei abitare in un tempo più discreto e meno geniale. Darei tutto quello che so, tutto quello che penso e desidero per essere un modesto uomo di lettere, cultore di Platone, vissuto a Roma (o a Alessandria d'Egitto) tra la fine del primo e quella del secondo secolo dopo Cristo. (p. 27)
[Su Simone Weil] Quando conosciamo la sua giovinezza, ci sembra di trovarci, trent'anni più tardi, nella famiglia di Proust. C'è lo stesso profumo ebraico: qui più antico e profondo, perché la famiglia della madre veniva dalla Galizia. C'è lo stesso sapore di Francia borghese [...]. In famiglia, accanto al padre, alla madre, al fratello amato e invidiato, Simone trascorse l'infanzia e l'adolescenza. Da bambina era molto bella: poi, disse qualcuno, «depose questo dono di bellezza, come se l'avesse scartato». Aveva occhi neri che fissavano arditamente, con una curiosità appassionata e indiscreta, un'avidità quasi intollerabile; e che parevano contraddetti dalla piega implorante delle labbra. Non amava giocare. [...] Perduta in un sogno eroico e cavalleresco, si proibiva qualsiasi debolezza. Pretendeva di non venire considerata una donna. Era piena di rifiuti, di disgusti e di ribrezzi. Non voleva essere toccata né abbracciata; e se qualcuno, persino la madre, le posava un bacio sulla fronte o allungava le braccia intorno alle sue spalle, diventava rossa di collera. Temeva gli affetti, la sensibilità, la morbidezza. (p. 265)
Come ogni roussoviano panteista, Tolstoj mirava «alla fusione del suo essere con l'Essere supremo»: alla illimitata espansione dell'anima e alla sua identificazione con Dio. Ma, nei diari giovanili, sorprendiamo anche accenti diversi. Talvolta Dio lo assaliva con una durezza estrema, con dei colpi così violenti nel cuore, che aveva voglia di piangere; e gli sembrava che fosse l'Estraneo, il Remoto, l'Inconcepibile, colui che non appartiene al regno dei nomi. Oltre a questa ebbrezza, il giovane Tolstoj conobbe l'altra, forse più spaventosa ebbrezza che fa nascere in noi la vertigine del pensiero. Amava pensare pensieri sempre più astratti: giungere al punto in cui aveva il sentore dell'«inabbracciabile immensità» del mondo delle idee: in quel momento, si rendeva conto dell'impossibilità di andare oltre – e tuttavia gettava sempre nuove idee sulla tavola d'azzardo della mente, fino a quando non riusciva più ad esprimersi. Spesso era assalito dal dubbio universale: o immaginava che, all'infuori di lui, nessuno e nulla esistesse in tutto il mondo, e che gli oggetti non fossero oggetti, ma immagini che apparivano soltanto quando rivolgeva ad esse l'attenzione, e che, appena avesse cessato di pensarle, immediatamente sarebbero dileguate. (pp. 21-22)
Mentre col suo finissimo bisturi scomponeva la realtà nelle sue parti elementari, rischiava di restare vittima della dialettica indefinita della mente. Ne ebbe paura: anche più della morte; e forse anche per questo adottò, in un estremo tentativo di salvarsi dalla vertigine intellettuale, le violente semplificazioni della sua predicazione cristiana. Questa continua autocoscienza intellettuale rafforzò in lui il senso metafisico del falso. Come tutti i prigionieri del cerchio vizioso dell'intelligenza, non poteva che trovare falsi tutti i pensieri e i sentimenti, dai quali via via distaccava e allontanava la mente. (p. 22)
Come ogni scrittore che aspira all'infinito, aveva bisogno di uccidere in sé l'infinito. (p. 84)
Appena arrivata a Jasnaja Poljana, Sof'ja Bers rivelò un temperamento tragico quanto quello del marito. C'era, in lei, un desiderio di assoluto, una tetra forza di concentrazione, una tendenza a esasperare tutti i propri sentimenti, come armi con cui ferire soprattutto sé stessa; e continui sbalzi d'umore, che la trasportarono dalla gioia all'ansietà, dall'amore all'odio. Ma, a differenza di Tolstoj, che fu felice come pochi esseri umani, non conobbe l'arte di essere felice. Una specie di incessante furia autodistruttiva la possedeva. (p. 86)
[...] se ci chiediamo cosa voglia dirci la nascosta tessitura simbolica e quale sia la verità definitiva di Guerra e Pace, siamo, in un primo tempo, perplessi. Tolstoj sembra proclamare il sì e il no di qualsiasi cosa, rappresentando una idea o una immagine o un simbolo, e subito dopo il loro contrario. La nostra inquietudine non ha ragione. Tolstoj ha voluto rappresentare proprio questa duplicità, questo Yin e Yang dell'universo [...]. (pp. 124-125)
[Su Tat'jana Tolstaja] Era sempre innamorata di qualcuno: altrimenti, il suo cuore era triste e vuoto; e desiderava che l'amore anonimo che percorre il mondo lasciasse i propri fiori ai suoi piedi. (p. 299)
Ma il grande fantasma amoroso, che occupava la mente di Tat'jana, era il padre. Davanti a lui, era come una timida vergine, pronta a venire immolata. Lo riconosceva lei stessa: «Sì, papà è il più grande rivale di tutti i miei innamorati, e nessuno di loro ha potuto vincerlo». (p. 300)
[Su Aleksandra Tolstaja] Anche lei aveva sacrificato alla gelosia del padre i suoi amori: gli si era consacrata senza riserve, con tutte le sue forze di giovane Amazzone, come segretaria, accompagnatrice, copista. (p. 305)
Quando la vedeva alzata la sera, il padre la mandava via. Ma di notte, mentre tutti dormivano, Aleksandra tornava nella stanza e scriveva a macchina fino alla mattina. Alle nove, tutti i fogli erano copiati nitidamente, come una volta aveva fatto la madre. Tolstoj scuoteva la testa e sorrideva; e quel sorriso candido e astuto bastava a farle dimenticare tutte le sue fatiche. (p. 305)
La colomba pugnalata
Pochi esseri umani hanno desiderato la felicità con la veemenza, la dolcezza, l'ebbrezza febbrile di Marcel Proust adolescente. Forse solo il giovane Tolstoj, il quale gli era legato da singolari affinità e somiglianze, desiderò la felicità con la stessa ansia dolorosa e incontenibile: egli pretendeva che la vita restasse sé stessa, nient'altro che un attimo di tempo, eppure balzasse oltre un limite, diventando un misterioso al di là, un'epifania dell'invisibile e dell'oltretempo. Il giovane Proust fu felice, o almeno lo disse, lo raccontò e lo immaginò con sé stesso. Era felice perché un raggio di sole splendeva, perché odorava il profumo di un fiore, perché amava un ragazzo o una ragazza, perché voleva bene a sua madre, perché leggeva un bel libro, perché scopriva le grandi leggi dell'esistenza, e sopratutto perché «le cose sono così belle nell'essere quello che sono e l'esistenza è una bellezza così calma diffusa intorno a loro».
Leopardi
Un libro su Leopardi non può cominciare che come un'opera buffa: preferibilmente di Gioachino Rossini, che era nato vicino a Recanati, a Pesaro, e poi aveva infiammato Milano, Roma, Parigi e tutto il mondo musicale. Il protagonista di questa opera buffa non è Giacomo, sebbene amasse sino alle lacrime Il barbiere di Siviglia e La donna del lago, ma suo padre Monaldo, nato a Recanati nel 1766 da un'antica famiglia che risaliva, o diceva di risalire, al tredicesimo secolo.
Storia prima felice, poi dolentissima e funesta
Nell'aprile del 1831, Clementina Sanvitale entrò insieme alle sorelle minori, Paolina e Virginia, nel Collegio Lasagna di Parma. Aveva quattordici anni. [20]
Citati non è obbligato ad apprezzare Baricco, ma dovremmo gioire le rare volte in cui la letteratura entra nel mainstream, non rinfacciarle la popolarità. (Dave Eggers)
Se per Pontiggia la contemporaneità non esiste, per Citati tutto ciò che è, è perché contemporaneo a me, a noi. I Classici non ci sarebbero se non fossero nostri contemporanei. Anche la natura di un testo letterario vede i due scrittori molto lontani, almeno in apparenza. (Luca Doninelli)
Tornando ai critici, ho letto libri di Citati che hanno qualità notevoli. Tuttavia, quando lui scrive, mi pare che si delizi della pronunzia delle sue frasi. È un elegantissimo riepilogatore dell'atmosfera di un libro. (Mario Praz)
↑ Da Chardin Morandi uno studio fisso nel tempo, in La repubblica, Archivio, La Repubblica.it 20-03-2009.
↑ Il riferimento è al primo e al secondo secolo dopo Cristo, epoca in cui la civiltà e la filosofia pagane iniziavano il confronto con la religione cristiana e, in modo particolare, con San Paolo.
↑ Uccello favoloso, che simboleggia Dio. Il Simurgh è Dio. Cfr. La luce della notte, p. 282.
↑ Doppio, doppio travaglio e guaio | Brucia fuoco, gorgoglia calderone. Da Macbeth, atto IV, scena I, traduzione di Masolino D'Amico, Bompiani, Milano, 2014, p. 1937. ISBN 978-88-58-76952-2
↑ Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937
Pietro Citati, L'anacoreta Cristina fra furia e dolcezza, in Per Cristina Campo, a cura di Monica Farnetti e Giovanna Fozzer, All'Insegna del Pesce d'Oro di Vanni Scheiwiller, Milano, 1998. ISBN 88-444-1450-3
Pietro Citati, L'armonia del mondo. Miti d'oggi, Club degli Editori, 1999.
Pietro Citati, L'armonia del mondo. Miti d'oggi, Superpocket, su licenza RCS Libri, 1999. ISBN 88-462-0122-1
Pietro Citati, La civiltà letteraria europea. Da Omero a Nabokov, a cura di Paolo Lagazzi, Mondadori, 2005.
Pietro Citati, La colomba pugnalata, Mondadori, 1995. ISBN 88-04-39846-9
Pietro Citati, La luce della notte, Mondadori, I Miti, Milano, 1996. ISBN 88-04-48314-8