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scrittore, saggista e critico letterario francese Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Valentin Louis Georges Eugène Marcel Proust (1871 – 1922), scrittore, saggista e critico letterario francese.
Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera.[9] A volte, non appena spenta la candela, mi si chiudevan gli occhi cosí subito che neppure potevo dire a me stesso: "M'addormento". E, una mezz'ora dopo, il pensiero che dovevo ormai cercar sonno mi ridestava; volevo posare il libro, sembrandomi averlo ancora fra le mani, e soffiare sul lume; dormendo avevo seguitato le mie riflessioni su quel che avevo appena letto, ma queste riflessioni avevan preso una forma un po' speciale; mi sembrava d'essere io stesso l'argomento del libro: una chiesa, un quartetto, la rivalità tra Francesco primo e Carlo quinto.
[Marcel Proust, La strada di Swann, traduzione di Natalia Ginzburg, Einaudi, 1963]
Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera.[9] A volte, appena spenta la candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che nemmeno avevo il tempo di dire a me stesso: «M'addormento». E, una mezz'ora più tardi, il pensiero che era tempo di cercar sonno mi ridestava; volevo posare il libro che credevo di avere ancora fra le mani, e soffiare sul lume; non avevo smesso, dormendo, di ragionare su ciò che avevo appena letto, ma quelle riflessioni avevano preso una piega un po' particolare; mi sembrava d'essere io stesso l'oggetto di cui il libro si occupava: una chiesa, un quartetto, la rivalità fra Francesco I e Carlo V.
[Marcel Proust, Dalla parte di Swann, traduzione di Paolo Pinto e Eurialo De Michelis, Newton Compton, 1990]
A lungo, mi sono coricato di buonora.[9] Qualche volta, appena spenta la candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che non avevo il tempo di dire a me stesso: "Mi addormento". E, mezz'ora più tardi, il pensiero che era tempo di cercar sonno mi svegliava; volevo posare il libro che credevo di avere ancora fra le mani, e soffiare sul lume; mentre dormivo non avevo smesso di riflettere sulle cose che poco prima stavo leggendo, ma le riflessioni avevano preso una piega un po' particolare; mi sembrava d'essere io stesso quello di cui il libro si occupava: una chiesa, un quartetto, la rivalità di Francesco I e Carlo V.
[Marcel Proust, Dalla parte di Swann, traduzione di Giovanni Raboni, Mondadori, 1965]
Per molto tempo io sono andato a letto presto.[9] A volte, appena spento il lume, gli occhi mi si chiudevano istantaneamente. Non avevo neppure il tempo di dirmi: «M'addormento». Una mezz'ora dopo, il pensiero che era tempo di trovar sonno, mi svegliava; sentivo di dover posare il libro che credevo d'avere ancora in mano, e soffiare sul lume. Non avevo cessato, dormendo, di riflettere su ciò che avevo letto, ma le mie riflessioni avevano preso un corso tutto particolare: mi sembrava d'essere io l'argomento del libro, una chiesa, un quartetto, la rivalità tra Francesco I e Carlo V.
[Marcel Proust, Dalla parte di Swann, traduzione di Bruno Schacherl, G. C. Sansoni Editore, Firenze, 1965]
E con quella grossolanità intermittente che ricompariva in lui appena non era più infelice, e che abbassava nel tempo medesimo il livello della sua moralità, esclamò dentro di sé: «E dire che ho sciupato anni di vita, che volevo morire, che ho avuto il mio più grande amore, per una donna che non mi piaceva, che non era il mio tipo!».
Quando si trattò di avere per la prima volta a pranzo il signor di Norpois, siccome mia madre diceva che era proprio un peccato che il professor Cottard fosse in viaggio e che lei avesse smesso del tutto di frequentare Swann, perché l'uno e l'altro senza dubbio avrebbero interessato l'ex ambasciatore, mio padre rispose che un convitato eminente, un illustre scienziato come Cottard non poteva mai sfigurare in un pranzo, ma Swann, con la sua ostentazione, e quel suo modo di strombazzare le conoscenze più insignificanti, era un volgare sbruffone che il marchese di Norpois avrebbe di sicuro giudicato, secondo la sua espressione, "pestifero".
[Marcel Proust, All'ombra delle fanciulle in fiore, traduzione di Franco Calamandrei e Nicoletta Neri, Mondadori, Milano, 1951]
Quando si trattò di avere per la prima volta a pranzo il signor di Norpois, dato che mia madre si rammaricava che il professor Cottard fosse in viaggio e che lei avesse smesso del tutto di frequentare Swann, perché l'uno e l'altro avrebbero certo interessato l'ex ambasciatore, mio padre rispose che un convitato eminente, uno scienziato illustre come Cottard non poteva mai sfigurare in un pranzo, ma che Swann, con la sua ostentazione, e con quel suo modo di gridare ai quattro venti anche le sue conoscenze più trascurabili, era un volgare sbruffone che il marchese di Norpois avrebbe senza dubbio giudicato, secondo la sua espressione, «pestifero».
Mia madre, quando si trattò di avere per la prima volta a pranzo M. de Norpois, siccome si rammaricava che il professor Cottard fosse in viaggio e lei stessa non frequentasse più del tutto Swann perché sia l'uno che l'altro avrebbero potuto suscitare l'interesse dell'ex ambasciatore, mio padre rispose che un ospite eminente, un illustre scienziato come Cottard non poteva mai sfigurare in un pranzo, ma Swann con il suo esibizionismo, con quella sua maniera di gridare ai quattro venti le relazioni anche più insignificanti, era un volgare sbruffone che il marchese di Norpois, secondo una sua tipica espressione, avrebbe trovato «pestifero».
[Marcel Proust, All'ombra delle fanciulle in fiore, traduzione di Maria Teresa Nessi Somaini, Rizzoli, Milano, 1986]
E per mesi di seguito, in quella Balbec che avevo tanto desiderato perché la immaginavo solo battuta dalla tempesta e perduta nelle brume, il bel tempo era stato così splendente e stabile che, quando lei veniva ad aprire la finestra, avevo sempre potuto, senza rimanere deluso, aspettarmi di trovare la stessa striscia di sole piegata all'angolo del muro esterno, e di un colore immutabile che era meno commovente come segno dell'estate di quanto non fosse triste come quello di uno smalto inerte e fittizio. E, mentre Françoise toglieva gli spilli dalle imposte, staccava le stoffe, tirava le tende, il giorno d'estate che scopriva sembrava altrettanto morto e immemoriale di una sontuosa e millenaria mummia che la nostra vecchia domestica avesse liberato con cautela dal viluppo di tutte le sue bende, prima di farla apparire, imbalsamata nella sua veste d'oro.
[Marcel Proust, All'ombra delle fanciulle in fiore, traduzione di Maura Del Serra, Newton Compton, 1990]
Il pigolar mattutino degli uccelli sembrava insulso a Françoise. Ogni parola delle "donne" la faceva sussultare; intrigata da ogni lor passo, era sempre a domandarsene la direzione: avevamo cambiato casa. Non che ci fosse minor movimento di domestici nel "sesto piano" della nostra casa di prima; ma quelli li conosceva, e i loro andirivieni le eran divenuti cosa nota ed amica. Mentre ora persino il silenzio la induceva in una attenzione dolorosa. E poiché il nuovo quartiere sembrava tanto calmo quanto era rumoroso il viale sul quale dava la nostra vecchia casa, bastava il canto (che anche di lontano, quando è fievole, risuona come un motivo d'orchestra) di un uomo che passava, per far venire le lagrime agli occhi di Françoise in esilio.
[Marcel Proust, I Guermantes, traduzione Mario Bonfantini, a cura di Mariolina Bongiovanni Bertini, Einaudi, Torino, 1985]
Il pigolare mattutino degli uccelli sembrava insipido a Françoise. Ogni parola delle «donne» la faceva trasalire; infastidita da ogni loro passo, se ne chiedeva la direzione; il fatto è che avevamo cambiato casa. Non che i domestici si dessero meno da fare al sesto piano della nostra vecchia dimora; ma quelli li conosceva; i loro andirivieni le erano divenuti familiari. Ora, perfino al silenzio prestava un'attenzione dolorosa.
[Marcel Proust, I Guermantes, traduzione di Maurizio Enoch, Newton Compton, 1990]
Il duca non era affatto imbarazzato a parlare dei malesseri suoi e di sua moglie a un moribondo, poiché i primi lo interessavano di più, gli sembravano più importanti. Così, fu soltanto per buona educazione e per salacità che, dopo averci gentilmente accompagnati, gridò al vento e con voce stentorea, dalla porta, a Swann che era già nel cortile:
«E voi, non lasciatevi impressionare da quelle sciocchezze dei medici, diavolo! Sono degli asini. Siete come il Pont-Neuf. Ci seppellirete tutti!».
È noto come quel giorno (il giorno che c'era la festa dalla principessa di Guermantes) molto prima di recarmi a fare al duca e alla duchessa la visita che ho narrato, io avevo spiato il loro ritorno, e, stando di scolta, avevo fatto una scoperta che riguardava in particolare il signor di Charlus, ma così importante in sé che fino ad oggi, fino al momento di poterne dare lo spazio e l'ampiezza voluti, mi sono astenuto dal raccontarla. Avevo, come già dissi, abbandonato il belvedere meraviglioso, così comodamente situato in cima alla casa, da cui si scorgono i clivi accidentati che portano fino al palazzo di Bréquigny, lietamente adorni all'italiana del roseo campanile della rimessa appartenente al marchese di Frécourtà Avevo giudicato più pratico, quando mi era venuto in mente che il duca e la duchessa sarebbero rincasati tra poco, appostarmi sulla scala.
[Marcel Proust, Sodoma e Gomorra, traduzione di Elena Giolitti, Mondadori, Milano, 1964]
Si sa che quel giorno (il giorno in cui aveva avuto luogo la serata dalla principessa di Guermantes) prima di recarmi dal duca e dalla duchessa, a fare la visita che ho appena narrata, avevo spiato il loro ritorno, e avevo fatto, durante il mio appostamento, una scoperta che riguardava in modo particolare il signor di Charlus, così importante che ho rinviato fino ad oggi di riferirla, nell'attesa di poterle assegnare il posto e lo spazio appropriati.
[Marcel Proust, Sodoma e Gomorra, traduzione di Giovanni Marchi, Newton Compton, 1990]
[...] «So il dispiacere che sto per recarti. Primo, perché invece di rimanere qui come tu volevi, parto anch'io contemporaneamente a te. Ma questo non è ancora nulla. Non sto bene qui, preferisco tornare a casa. Ma stammi a sentire, non dispiacerti troppo. Ecco, mi sono sbagliato, ieri ti ho ingannato in buona fede, ho riflettuto tutta la notte. Bisogna assolutamente, e prendiamo la decisione subito, perché ora mi rendo conto che non cambierò più, e perché non potrò vivere altrimenti, bisogna che sposi assolutamente Albertine».
Sin dal mattino, la testa ancora vòlta verso la parete, e prima ancora d'aver visto, sopra i grandi tendaggi della finestra, di qual colore fosse la striscia luminosa del giorno, sapevo già che tempo faceva. Me lo avevano appreso i primi rumori della strada, secondo che mi giungevano smorzati e deviati dall'umidità o vibranti come frecce nell'area risonante e vuota d'un mattino spazioso, glaciale e puro; sin dal rotolío del primo tram, avevo intuito se se ne stava intirizzito nella pioggia o se era in partenza per l'azzurro.
[Marcel Proust, La prigioniera, traduzione di Paolo Serini, Mondadori, Milano, 1970]
Al mattino, con la testa ancora girata verso il muro e prima di aver visto, al di sopra delle grandi tende della finestra, di che sfumatura fosse la striscia della luce, sapevo già che tempo facesse. I primi rumori della strada me l'avevano detto, a seconda che mi giungessero smorzati e deviati dall'umidità o vibranti come frecce nell'area risonante e vuota di un mattino spazioso, glaciale e puro; sin dal passaggio del primo tranvai, avevo capito se questo era gelato nella pioggia o in partenza per l'azzurro.
[Marcel Proust, La prigioniera, traduzione di Giovanna Parisse, Newton Compton, 1990]
Avendo sentito la mia scampanellata, Françoise entrò, piuttosto preoccupata di come avrei preso le sue parole e il suo comportamento. Mi disse: «Ero molto angustiata che il signore suonasse così tardi, oggi. Non sapevo cosa dovevo fare. Stamattina alle otto la signorina Albertine mi ha chiesto i suoi bauli, non osavo rifiutarglieli, avevo paura che il signore mi sgridasse se venivo a svegliarlo. Ho cercato di catechismarla, dirle d'aspettare un'ora, perché pensavo sempre che il signore stesse per chiamare. Non ha voluto, mi ha lasciato questa lettera per il signore, e alle nove se ne è andata». E allora — a tal punto possiamo ignorare quel che è dentro di noi, poiché io ero convinto della mia indifferenza per Albertine — il respiro mi mancò, mi tenni il cuore con le mani, improvvisamente madide d'un sudore che non avevo più conosciuto da quando la mia amica mi aveva fatto, nel trenino, quella rivelazione relativa all'amica della signorina Vinteuil, e non riuscii a dire altro fuor che: «Ah! benissimo, Françoise, grazie, avete fatto bene naturalmente a non svegliarmi, lasciatemi un momento, vi chiamerò fra poco».
«La signorina Albertine se n'è andata!» Come, più della psicologia stessa, la sofferenza la sa lunga in materia di psicologia! Un momento prima, mentre mi stavo analizzando, avevo creduto che una separazione senza essersi riveduti fosse appunto quella che avevo desiderata; e, paragonando la mediocrità dei piaceri che Albertine mi dava con la ricchezza dei desideri che mi impediva di realizzare, mi ero riconosciuto assai acuto, concludendo che non volevo più vederla, che non l'amavo piú. Ma quelle parole: "La signorina Albertine se n'è andata!" avevano provocato un dolore tale nel mio cuore, che non avrei saputo resistere più a lungo.
[Marcel Proust, Albertine scomparsa, traduzione di Franco Fortini, Mondadori, Milano, 1970]
«La signorina Albertine se ne è andata!». Come, nella psicologia, la sofferenza va oltre la psicologia stessa! Un attimo prima, mentre stavo analizzandomi, avevo creduto che quella separazione, senza essersi rivisti, fosse appunto ciò che desideravo, e, paragonando la mediocrità dei piaceri che Albertine mi dava con la ricchezza dei desideri che mi impediva di realizzare, mi ero ritenuto perspicace, avevo concluso che non volevo più vederla, che non l'amavo più. Ma quelle parole: «La signorina Albertine se n'è andata» avevano provocato nel mio cuore una sofferenza tale che sentivo di non poter resistere più a lungo.
[Marcel Proust, Albertine scomparsa, traduzione di Rita Stajano, Newton Compton, 1990]
Quel che allora desideravo così febbrilmente, se solo avessi saputo capirlo e ritrovarlo, lei avrebbe forse potuto farmelo gustare fin dalla adolescenza. Più completamente ancora di quanto avessi mai creduto, a quell'epoca Gilberte era davvero dalla parte di Méséglise.
E anche quel giorno, in cui l'avevo incontrata sotto un portone, benché non fosse la signorina de l'Orgeville, quella che Robert aveva conosciuto nelle case di appuntamenti (e che cosa curiosa che avessi chiesto delucidazioni su di lei proprio al suo futuro marito!) non mi ero ingannato del tutto sul significato del suo sguardo, né sul genere di donna che era e che ora mi confessava di essere stata. «Tutto questo è ormai molto lontano, mi disse. Dal giorno che mi sono fidanzata con Robert non ho più pensato che a lui. E, vedete, quel che mi rimprovero di più non è nemmeno quel capriccio infantile.»
L'intero giorno, in quella dimora di Tansonville un po' troppo campagna, che aveva appena l'aria d'un luogo di siesta fra una passeggiata e l'altra o durante l'acquazzone: una di quelle dimore dove ogni salotto ha l'aria d'un chiosco tra la verzura e dove, sulla tappezzeria delle camere, le rose dal giardino in una, gli uccelli dagli alberi nell'altra v'hanno raggiunto e vi fan compagnia – isolati nondimeno, giacché erano vecchie tappezzerie dove ogni rosa se ne stava separata quel tanto che avrebbe permesso, se fosse stata viva, di coglierla, ogni uccello di metterlo in gabbia e addomesticarlo, senza nulla delle abbondanti decorazioni delle camere d'oggi dove, su un fondo argenteo, tutti i meli della Normandia son venuti a profilarsi in stile giapponese per allucinare le ore che si trascorrono in letto, – l'intero giorno lo trascorrevo nella mia camera che dava sulle belle verzure del parco e i lilla dell'ingresso, sulle foglie verdi degli alti alberi in riva all'acqua, scintillanti di sole, e sul bosco di Méséglise.
[Marcel Proust, Il tempo ritrovato, traduzione di Giorgio Caproni, Mondadori, Milano, 1962]
Tutta la giornata, in quella dimora un po' troppo di campagna e che aveva l'aria di un semplice luogo di siesta tra una passeggiata e l'altra o durante un acquazzone, una di quelle dimore dove ogni sala ha l'aspetto di un pergolato, e dove, sulla tappezzeria delle camere, le rose del giardino nell'una, gli uccelli degli alberi nell'altra, vi hanno raggiunto e vi tengono compagnia — isolati se non altro — poiché si trattava di vecchie tappezzerie dove ogni rosa era abbastanza separata perché la si potesse cogliere se fosse stata viva, ogni ruscello metterlo in gabbia e addomesticarlo senza nulla di quelle grandi decorazioni delle camere di oggi dove, su uno sfondo d'argento, tutti i meli di Normandia sono venuti a profilarsi in stile giapponese per allucinare le ore che passate a letto; tutta la giornata, la trascorrevo nella mia camera che dava sul bel verde dei grandi alberi in riva all'acqua, scintillanti di sole, e sulla foresta di Méséglise.
[Marcel Proust, Il tempo ritrovato, traduzione di Giuseppe Grasso, Newton Compton, 1990]
Mi sgomentava il pensiero che i miei trampoli fossero già così alti sotto i miei passi; non mi pareva che avrei avuto la forza di tenere ancora a lungo, unito a me, quel passato che già scendeva così lontano. Pertanto, se quella forza mi fosse stata lasciata abbastanza a lungo da poter compiere la mia opera, non avrei mancato anzitutto di descrivervi gli uomini, quand'anche ciò avesse dovuto farli somigliare a esseri mostruosi, come occupanti un posto tanto considerevole, accanto a quello, così angusto, riservato loro nello spazio, un posto, al contrario, prolungato a dismisura, poiché essi toccano simultaneamente, come giganti immersi negli anni, epoche da loro vissute così distanti l'una dall'altra, tra le quali tanti giorni sono venuti a interporsi — nel Tempo.
Forse non ci sono giorni della nostra adolescenza vissuti con altrettanta pienezza di quelli che abbiamo creduto di trascorrere senza averli vissuti, quelli passati in compagnia del libro prediletto. Tutto ciò che li riempiva agli occhi degli altri e che noi evitavamo come un ostacolo volgare a un piacere divino: il gioco che un amico veniva a proporci proprio nel punto più interessante, l'ape fastidiosa o il raggio di sole che ci costringevano ad alzare gli occhi dalla pagina o a cambiare posto, la merenda che ci avevano fatto portar dietro e che lasciavamo sul banco lì accanto senza toccarla, mentre il sole sopra di noi diminuiva di intensità nel cielo blu, la cena per la quale si era dovuti rientrare e durante la quale non abbiamo pensato ad altro che a quando saremmo tornati di sopra a finire il capitolo interrotto.
[Marcel Proust, Del piacere di leggere, traduzione di Maria Cristina Marinelli, Passigli, Firenze]
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