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drammaturgo e poeta inglese (1564-1616) Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
William Shakespeare (1564 – 1616), drammaturgo e poeta inglese.
Per approfondire, vedi: Amleto, Antonio e Cleopatra, Giulio Cesare, Enrico V e Romeo e Giulietta. |
Britannia. Il giardino del palazzo di Cimbelino.
Entrano due gentiluomini.
I gentiluomo: Non incontrerete nessuno che non sia accigliato. Le nostre passioni non sono più ubbidienti ai cieli che i nostri cortigiani all'aspetto del re.
II gentiluomo: Ma per qual ragione?
I gentiluomo: Sua figlia, e l'erede del suo regno, quella che egli destinava all'unico figlio di sua moglie – una vedova che ha sposato da poco – si è data a un povero ma degno gentiluomo. Lo ha sposato: suo marito è bandito, lei imprigionata, tutto nelle apparenze è tristezza; ma il re, lo credo ferito nel profondo del cuore.
II gentiluomo: Soltanto il re?
In Britannia, il palazzo di Cimbelino.
Entrano DUE GENTILUOMINI
Primo gentil. – Qui non c'è caso che s'incontri un cane che non ti guardi con la faccia scura. Non obbediscono al voler celeste le nostre naturali inclinazioni, più di quanto agli umori del sovrano fan mostra d'accordare il loro aspetto i nostri cortigiani.
Secondo gent. – Che succede?
Primo gent. – Succede che sua figlia, erede del suo regno, destinata da lui ad andar sposa all'unico figliolo di sua moglie – una vedova da lui risposata recentemente – ha preferito a quello un gentiluomo povero ma degno, e l'ha sposato. Quello ora è bandito e lei reclusa; e un'aria di mestizia è scesa per la corte tutt'intorno; se pur io pensi che lo stesso re n'abbia profondamente risentito.
Secondo gent. – E nessuno oltre il re?
Un giardino nella casa di Oliviero.
Entrano Orlando e Adamo.
Orlando: Per quanto ricordo, Adamo, ecco quel che accadde: per testamento mio padre destinò a me un migliaio scarso di corone e, me lo dici tu stesso, incaricò, benedicendolo, mio fratello di allevarmi nel migliore dei modi. E così ebbe inizio la mia infelicità. Costui mantiene mio fratello Giacomo agli studi, e dei suoi progressi si dicono cose magnifiche; invece mantiene me, in casa, come un poveraccio, anzi, per dirla schietta, neanche mi mantiene, mi ci tiene segregato. Un tale trattamento, per un gentiluomo della mia nascita, differisce forse dal trattamento d'un bue nella stalla? I suoi cavalli sono curati, poiché oltre ad essere ben nutriti, vengono addestrati al maneggio da istruttori assoldati a caro prezzo; ma io, suo fratello, in questa situazione non ci guadagno altro che di crescere, e di sentirmi obbligato verso di lui quanto i suoi animali nel letame. A parte questo niente che mi dà in abbondanza, pare comportarsi in modo da privarmi di quel poco che la natura mi ha dato: mi fa mangiare coi servi, mi priva dei diritti di fratello, tenta in ogni modo di avvilire, con tale educazione, la mia nobiltà. Questo è quanto mi intristisce, Adamo, e lo spirito di mio padre, che io sento in me, comincia a ribellarsi contro questa schiavitù. Non voglio più sopportare queste cose, anche se non so ancora quale sia il modo per evitarle.
[William Shakespeare, Come vi piace, traduzione di Antonio Calenda e Antonio Nediani, Newton Compton, 1990]
Verziere nella casa di Oliviero
Entrano ORLANDO e ADAMO
Orlando – Sicché, se non ricordo male, Adamo, tutta l'eredità di nostro padre per me, in sostanza, si riduce a questo: un migliaio di misere corone e, in cambio della sua benedizione al mio fratello maggiore, l'impegno di costui, come tu ora mi dici, di provvedere ad allevarmi bene. E qui cominciano le mie disgrazie. Lui mantiene agli studi, fuori casa, l'altro fratello, Giacomo, e non si parla che del gran profitto ch'egli ne trae; mentre io son qui ad essere allevato dentro casa come un bifolco, e, a dirla proprio tutta, tirato su senza un'educazione; ché non si può chiamare educazione questa mia, che non è diversa in nulla dal governo dei buoi in una stalla. I suoi cavalli son tenuti meglio, perché, in aggiunta ad ottimo foraggio, sono addestrati da buoni scudieri ben pagati, laddove io, suo fratello, non ho da lui che il minimo che basti alla mia pura e semplice crescenza; talché le bestie ch'egli ha nelle stalle si può dire gli siano debitrici di quanto possa dir d'essergli io, né più né meno. Oltre a questo bel nulla ch'ei mi largisce con sì larga mano, mi viene deprivando a poco a poco dello stesso mio stato di natura: mi fa sedere a tavola coi servi, m'impedisce, con l'una o l'altra scusa, d'occupare il mio posto di fratello e s'ingegna di far tutto il possibile, per quanto è in suo potere, di annullare le radici della mia nobiltà negandomi ogni buona educazione. E questo, Adamo, è quel che più m'affligge; al punto ch'io mi sento rivoltare dentro di me lo spirito paterno contro un così umiliante trattamento. Ma ormai sono deciso a dire: basta! Basta di sopportare tutto questo, se pur non ho ben chiaro ancora in mente a qual saggio rimedio far ricorso.
[William Shakespeare, Come vi piaccia, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Roma, una via. Entra un gruppo di cittadini rivoltosi con picche, clave e altre armi
Primo cittadino: Prima di proseguire, ascoltate le mie parole.
Tutti: Parla, parla!
Primo cittadino: Siete tutti decisi a morire ammazzati piuttosto che morire di fame?
Tutti: Decisi, decisi.
Primo cittadino: Prima di tutto, voi capite che Caio Marcio è il principale nemico del popolo.
Tutti: Lo sappiamo, lo sappiamo.
Primo cittadino: Uccidiamolo e avremo grano al nostro prezzo. Sentenza decisa?
Tutti: Non se ne parli più: ai fatti. Via, andiamo.
Una via di Roma.
Entra un gruppo di popolani in rivolta, con randelli, clave e altre armi simili.
I popolano: Prima che andiamo avanti ancora, sentite.
Gli altri: Parla.
I popolano: Siete tutti decisi a morire piuttosto che patir la fame?
Gli altri: Decisi! sì! tutti!
I popolano: E voi sapete, anzitutto, che il primo nemico del popolo è Caio Marzio.
Gli altri: Lo sappiamo, sì!
I popolano: Uccidiamolo, e avremo il grano al prezzo giusto. È un verdetto?
Gli altri: Non se ne parli più! Come già fatto! Via!
[William Shakespeare, Coriolano, traduzione di Franco Fochi, Newton, 1990]
Roma, una strada
Entra un gruppo di POPOLANI in rivolta, con mazze, randelli e altri ordigni
Primo cittadino – (Agli altri) Prima d'andare avanti, m'ascoltate!
Tutti – Parla, parla.
Primo citt. – Decisi allora: morti, piuttosto che affamati!
Tutti – Decisi sì! – Decisi!
Primo citt. – Primo: ciascuno sa che Caio Marcio è il principale nemico del popolo.
Tutti – È Caio Marcio! Lo sappiamo tutti.
Primo citt. – Uccidiamolo, allora, e avremo il grano al prezzo nostro! Chiaro?
Tutti – Chiaro. Basta parole. Andiamo ai fatti!
[William Shakespeare, Coriolano, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Una stanza nel palazzo
Enrico: Battuti dale tempeste, stanchi come siamo, e pallidi ancora di terrore, lasciam che la pace ci sorrida un istante, per avventarci poscia a nuove contese sopra sponde lontane. Questa terra non beverà più il sangue de' figli suoi: la guerra non strazierà più colla sua spada questo suolo fecondo; non più vi schiaccierà i suoi fiori sotto il piede di ferro dei nemici cavalli.
Londra. Il palazzo reale.
In scena Re Enrico e sir Gualtiero Blunt nell'atto di muovere incontro al Westmoreland e ad altri.
Enrico: Squassati come noi siamo da ansia tormentosa, smunti pei molti affanni, troviamo tuttavia breve tempo onde dar tregua alla pace atterrita sì ch'ella anelando sosti a dirci, con rotta affannosa voce, di nuove zuffe cui s'avrà a dare inizio su lidi tanto da noi remoti. Non più le riarse cavità di questo nostro suolo intingeranno avide le labbra nel sangue de' propri figli; non più la guerra distruttrice solcherà questi campi per scavarne trincee, né calerà sui teneri fiori percotendoli e calpestandoli con i ferrati zoccoli degli ostili corsieri.
[William Shakespeare, Enrico IV, traduzione di Maria Antonietta Andreoni D'Ovidio, Newton, 1990]
Entrano re Enrico, lord John di Lancaster e il conte di Westmoreland, con altri [lord]
Re Enrico: Scossi come siamo e pallidi d'affanno, troviamo il tempo per far sì che la pace impaurita e ansante torni a parlare con trafelati accenti di nuovi conflitti da intraprendere su lidi assai remoti. Non più la bocca riarsa della nostra terra si lorderà le labbra del sangue dei suoi stessi figli. Non più una guerra lacerante fenderà i suoi campi e schiaccerà i suoi teneri fiori sotto l'incedere ostile degli zoccoli ferrati.
[William Shakespeare, La storia di Enrico IV, in Tutte le opere, traduzione di Paolo Dilonardo, Giunti, 2017]
Londra, il palazzo reale
Entrano Re Enrico, Giovanni di Lancaster, il conte di Westmoreland e altri nobili tra i quali sir Walter Blunt
Enrico – Scossi ancor come siamo e spalliditi dai recenti affanni, non concediamo tuttavia respiro a questa nostra spaurita pace e, con voce pur rotta dall'affanno, ritorniamo a parlar dell'altra guerra da portare su più lontani lidi. Più non sarà che l'assetata bocca di questa terra abbia lorde le labbra del sangue dei suoi figli; né che la guerra scanali i suoi campi con valli e con trincee; le sue campagne, i suoi teneri fiori più non saranno calpestati e uccisi da passi ostili di ferrati zoccoli.
[William Shakespeare, Enrico IV, traduzione originale di Goffredo Raponi]
L'Abbazia di Westminster. Corteo funebre.
Entra il feretro di re Enrico V con al seguito il duca di Bedford, reggente di Francia; il duca di Gloucester, protettore; il duca di Exeter; il conte di Warwick; il vescovo di Winchester; il duca di Somerset; araldi e altri.
Bedford: Siano parati a lutto i cieli ed il giorno ceda alla notte! Voi, comete, che presagite i mutamenti dei giorni e degli Stati, scotete in cielo le vostre trecce di splendente cristallo; fustigate con esse le maligne stelle ribelli che hanno permesso la morte di Enrico! Re Enrico quinto, troppo illustre per vivere a lungo! Mai l'Inghilterra aveva perduto un monarca di più grande valore.
Gloucester: Mai, prima di lui, l'Inghilterra ebbe un vero e proprio sovrano. Egli era valoroso e ben degno di comandare; brandita, la sua spada accecava gli uomini co' suoi lampi; le di lui braccia si estendevano più ampie che non le ali d'un drago; e gli occhi scintillanti, colmi di fuoco pieno d'ira, abbagliavano e respingevano i nemici con maggior forza che non quella del sole meridiano che battesse in tutto il suo ardore sui loro visi... Che più dovrei io dire? i [sic] di lui atti sono al di là di qualsiasi parola; egli mai non alzò la mano se non per conquistare.
Exeter: Noi lo piangiamo ora nerovestiti; perché mai non facciamo lutto, invece, nel sangue? Enrico è morto e più non rivivrà.
[William Shakespeare, Enrico VI, traduzione di Maria Antonietta Andreoni D'Ovidio, Newton, 1990]
Marcia funebre. Entra il corteo funebre di re Enrico V, seguito dal duca di Bedford (reggente di Francia), il duca di Gloucester (lord protettore), il duca di Exeter, il conte di Warwick, il vescovo di Winchester, e il duca di Somerset
Bedford: Paratevi a lutto, o cieli! Giorno, cedi il passo alla notte! Comet, che annunciate il mutare dei tempi e degli stati, brandite le vostre chiome cristalline nei cieli per sferzare le inique stelle ribelli, che hanno provocato la morte di Enrico - re Enrico quinto, troppo famoso per vivere a lungo. L'Inghilterra non ha mai perduto un sovrano così degno.
Gloucester: L'Inghilterra non ha mai avuto re prima. Meritava il comando per le sue virtù. La sua spada brandita accecava gli uomini coi suoi bagliori. Le sue braccia si stendevano ampie più delle ali di un drago. I suoi occhi sfolgoranti colmi d'ardente ira abbacinavano e respingevano i nemici più del sole meridiano. Che posso dire? Le sue gesta superano qualunque parola. Non ha mai alzato la mano senza vincere.
Exeter: Lo piangiamo nel lutto, perché non nel sangue? Enrico è morto e mai rivivrà.
[William Shakespeare, Enrico VI, in Tutte le opere, traduzione di Daniele Borgogni e Valentina Poggi, Giunti, 2019]
L'Abbazia di Westminster.
Marcia funebre – Entra il feretro di Re Enrico V ed è steso sul catafalco. Seguono la salma il DUCA DI BEDFORD, il DUCA DI GLOUCESTER, il DUCA DI EXETER, il CONTE DI WARWICK, il VESCOVO DI WINCHESTER.
Bedford – Si ammantino di nero a lutto i cieli, ceda il giorno alla notte! Comete che annunciate sulla terra mutamenti dell'ère e degli Stati, le vostre lunghe trecce di cristallo brandite per il cielo a fustigare quelle cattive e ribellanti stelle ch'hanno assentito alla morte d'Enrico! Enrico Quinto Re, troppo famoso per vivere a lungo! Mai re più degno perdé l'Inghilterra!
Gloucester – Mai ebbe un re Inghilterra prima di lui; egli era valoroso, nato per il comando; la sua spada, quando dalle sue mani era brandita abbarbagliava tutti coi suoi lampi; le sue braccia s'aprivano più larghe dell'ali di un dragone; i suoi occhi nell'ira sfavillanti abbacinavano e respingevano i nemici con assai maggior forza della spera d'un sole meridiano ardente, che sbattesse loro in faccia. Che potrei dire ancora?... Le sue gesta superan le parole: mai la mano egli alzò, se non fu per conquistare.
Exeter – Noi lo piangiamo in nero: e perché non in gramaglie di sangue?[1] Enrico è morto e più non rivivrà.
[William Shakespeare, Enrico VI, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Prologo – Non vengo questa volta a farvi ridere. Cose di gran momento, dal piglio triste, grave, doloroso, nobili e travagliate, piene di tragica maestosità; scene di così nobile dolore da trar dagli occhi rivoli di pianto, son quelle che andiamo a presentare. Quelli tra voi più inclini alla pietà, potranno, se così saran disposti, far anche qualche lacrima: l'argomento lo merita senz'altro. Chi ha speso il suo denaro sperando di veder cose credibili, potrà trovarne di fin troppo vere.
[William Shakespeare, Re Enrico VIII, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Non vengo più per farvi ridere. Vi presentiamo oggi gravi avvenimenti importanti e dolorosi, grandi e tragiche calamità, scene nobili e commoventi, ben atte a far scorrere le vostre lagrime. Coloro ai cui cuori non è ignota la compassione, possono oggi, se vogliono, versare qualche lacrima: il soggetto ne è degno. Coloro che danno il loro denaro sperando vedere rappresentati fatti storici e degni di fede avranno modo di scorger qui la verità.
[William Shakespeare, Re Enrico VIII, traduzione di Carlo Rusconi, Newton, 1990]
Verona. Una piazza.
Entrano Valentino e Proteo.
Valentino: Non sperar mai di convincermi, caro Proteo. Gioventù che rimane al paese avrà sempre cervello paesano. Vorrei io piuttosto, non fosse che l'amore incatena la giovinezza ai dolci sguardi della tua onorata diletta, persuaderti ad accompagnarmi: veder le meraviglie d'un mondo lontano, invece che restarcene qui a poltrir nel tedio e a consumare gli anni migliori in una inerzia senza costrutto. Ma dacché sei innamorato, segui le tue inclinazioni; e cerca di trovar tanta felicità nell'amore quanta ne auguro a me stesso, dovessi anch'io innamorarmi.
[William Shakespeare, I due gentiluomini di Verona, traduzione di Corrado Pavolini, Newton, 1990]
Verona, una strada
Valentino – Proteo, mio caro, è inutile che insisti, tanto non riuscirai a persuadermi: gioventù che al paese vuol restare, paesana nell'animo rimane. Se non fosse l'amore a incatenare i tuoi giovani giorni ai dolci sguardi della tua ragazza, sarei io ad insistere con te per averti compagno per il mondo ad ammirarne tutte le bellezze, invece di star qui a poltrir nel tedio e consumare i tuoi anni migliori in una oziosità senza costrutto. Ma, visto che ti sei innamorato, seguita a far come ti detta amore; ed in esso t'arrida quel successo che vorrei augurare anch'io a me, quando comincerò ad amare anch'io.
[William Shakespeare, I due gentiluomini di Verona, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Entrano Antonio, Salerio e Solanio
Antonio: Veramente non so perché sono così triste: mi stanca – voi dite che stanca voi. Ma come l'ho presa, trovata o come vi sono arrivato, di che stoffa è fatta, da dove è nata, debbo impararlo: e un tale inetto fa di me questa tristezza che fatico a conoscere me stesso.
Salerio: La vostra mente ondeggia sull'oceano, dove le vostre ragusee incedendo con maestosa vela sull'acqua come signori e ricchi castellani, o come teatri mobili del mare, guardano sprezzanti i piccoli mercantili che s'inchinano, fan loro la riverenza, mentre li sorpassano volando con le ali trapunte.
[William Shakespeare, Il mercante di Venezia, traduzione di Agostino Lombardo, Feltrinelli, 2003]
Entrano Antonio, Salerio e Solanio
Antonio: Davvero non mi capacito perché sono così triste. È una cosa che mi stanca e, dici tu, che stanca anche te. Ma come io l'abbia presa, o trovata, o incontrata, e di quale sostanza sia fatta, o dove sia nata, vorrei capirlo; una tristezza che mi istupidisce talmente da rendermi difficile conoscere me stesso.
Salerio: È l'oceano che ti agita la mente, là dove le tue navi dalle vele possenti, come signore e ricche autorità sulle onde – ovvero, fastosi cortei del mare – guardano dall'alto i piccoli trafficanti che a loro si inchinano, le riveriscono, mentre gli volano accanto con le loro ali trapunte.
[William Shakespeare, Il mercante di Venezia, in Tutte le opere, traduzione di Franco Marenco, Giunti, 2019]
A Venezia, in strada.
Entrano Antonio, Salarino e Salanio.
Antonio: Non so davvero perché sono tanto triste. E questa tristezza mi stanca, e voi stessi dite d'esserne stanchi. Ma ho ancora da sapere dove l'ho presa, dove me la son trovata, come me la son guadagnata, di che diavolo è fatta, da dove è spuntata. Ed essa mi stordisce così che stento a riconoscere me stesso.
Salarino: La vostra mente è agitata perché segue sul mare le vostre navi dalle immense vele, le vostre navi che come signori e ricchi borghesi dei flutti in sfarzoso corteo guardano dall'alto i vascelletti dei piccoli trafficanti che fanno continue riverenze sotto il volo di quelle grandi ali.
[William Shakespeare, Il mercante di Venezia, traduzione di Paola Ojetti, Newton, 1990]
Venezia. Una strada. (Entrano Antonio, Salarino, e Solanio)
Antonio: In verità, non so perché sono così triste. Mi duole e dite che ciò duole anche a voi; ma io in qual guisa sia pigliato questo affanno, come l'abbia trovato, in che consista, da che sia originato, non so ancora comprendere. Sono reso tanto malconcio mia imbelle tristezza che stento a riconoscermi.
Salarino: La vostr'anima egue le gitazioni dell'oceano; essa va dietro ai vostri bei vascelli che, colla loro superba alberatura, vogando sopra i flutti, sembrano i sovrani, o i primi cittadini del mare, e signoreggiano sulla fila dei minuti navigli, che offrono loro un umile omaggio passando sospinti dalle loro ali di lino.
[Carlo Rusconi, Orsa Maggiore editrice, 1990]
Venezia, una calle.
Entrano ANTONIO, SALERIO e SOLANIO
Antonio – La ragione per cui son così triste, in verità, non so nemmeno dirla; mi sento come oppresso internamente, ed anche voi mi dite che lo siete; ma da dove mi venga quest'umore, dov'io l'abbia trovato, come ci sia caduto, di che è fatto, da che nasce, lo devo ancora apprendere; m'intorpidisce a tal punto lo spirito che stento a riconoscere me stesso.
Salerio – È che tu col pensiero navighi avanti e indietro per l'oceano, là dove le tue belle ragusine[2] con le loro imponenti velature a somiglianza di grandi signori e impettiti borghesi sopra i flutti, o di carri d'un gran corteo marino,[3] riguardano dall'alto con sufficienza i più modesti barchi che fanno loro riverente ossequio nel vederle sfilare velocissime sull'ali delle ben tessute vele.
[William Shakespeare, Il mercante di Venezia, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Archidamo — Se avrai occasione di visitare la Boemia, Camillo, vedrai che come t'ho detto c'è una grande differenza tra la nostra Boemia e la tua Sicilia.
[citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993]
[Sala nel palazzo di Leonte, re di Sicilia]
Entrano Camillo e Archidamo
Archidamo: Se mai si darà il caso, Camillo, che visitiate la Boemia in un'occasione simile a quella per cui io presto qui i miei servigi, noterete, come ho detto, una grande differenza tra la nostra Boemia e la vostra Sicilia.
Camillo: Credo che l'estate prossima il re di Sicilia intenda restituire al Boemia la visita che giustamente gli deve.
[William Shakespeare, Il racconto d'inverno, traduzione di Agostino Lombardo, Feltrinelli, 2004]
Anticamera nel palazzo di Leonte.
Entrano Camillo e Archidamo.
Archidamo: Se vi accadrà, Camillo, di visitare la Boemia per un'occasione simile a quella per cui sono ora qui di servizio, voi vedrete, come v'ho detto, una grande differenza tra la nostra Boemia e la vostra Sicilia.
Camillo: Credo che nella prossima estate il re di Sicilia intenda ricambiare al re di Boemia la visita che giustamente gli deve.
[William Shakespeare, Il racconto d'inverno, traduzione di Eugenio Montale, Newton, 1990]
Sicilia, il palazzo di Leonte
Entrano ARCHIDAMO e CAMILLO
Archidamo – Se v'accadrà, Camillo, vi dicevo, di visitare un giorno la Boemia per una circostanza come questa ond'io mi trovo adesso qui in servizio, constaterete quanto sia diversa dalla vostra Sicilia.
Camillo – Giustappunto credo che questa estate il nostro re abbia in mente di rendere al Boemia[5] la visita di Stato che gli deve.
[William Shakespeare, Il racconto d'inverno, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Northampton. – La sala de Consiglio nel palazzo regio
Giovanni: Ora, signor di Chatillon, parlate: che chiede da noi la Francia?
Chatillon: Quel sire vi saluta, e dice per bocca mia alla Maestà, alla simulata Maestà d'Inghilterra...
Elinora: Strano principio... Maestà simulata!
Giovanni: Silenzio, buona madre; ascoltiam l'ambasciatore.
Chatillon: Filippo di Francia, disposando la causa e i giusti diritti del figlio di Gefredo, tuo fratello estinto, Arturo Plantageneto, reclama in nome della legge questa bella isola e il suo territorio, l'Irlanda, il Poitiers, l'Anjou, la Touraine e il Maine, e vuole che tu deponga la spada con cui t'afforzi in un ingiusto potere, e la rimetta fra le mani del giovane Arturo, tuo nipote, e tuo vero e legittimo sovrano.
Squilli di tromba. Entrano re Giovanni, la regina Eleonora e i conti di Pembroke, Essex, Salisbury insieme all'ambasciatore di Francia Châtillon
Re Giovanni: Allora parla, Châtillon. Cosa vuole la Francia da noi?
Châtillon: Così, dopo i saluti, il re di Francia, tramite me, parla alla maestà, la maestà imprestata, d'Inghilterra qui presente.
Regina Eleonora: Ben strano inizio: 'maestà imprestata'!
Re Giovanni: Tranquilla, buona madre, ascoltiamo l'ambasciata.
Châtillon: Filippo di Francia, a tutela e in nome di Arturo Plantageneto, figlio del tuo deceduto fratello Goffredo, reclama il legittimo possesso di questa bella isola e delle sue province d'Irlanda, Poitou, Anjou, Touraine e Maine; invitandori a deporre la spada che usurpa il diritto su tali domini e a cederla al giovane Arturo, tuo nipote e legittimo sovrano.
[William Shakespeare, Vita e morte di Re Giovanni, in Tutte le opere, traduzione di Rossella Ciocca, Giunti, 2017]
La sala del trono nel palazzo di Re Giovanni.
Entrano Re Giovanni, la regina Eleonora, Pembroke, Essex, Salisbury e altri del seguito; e, con essi, Chatillon, ambasciatore del re di Francia.
Re Giovanni: Ora ditemi, Chatillon, che vuole da noi questo Francia?
Chatillon: Il re di Francia invia il suo saluto e così parla, per voce mia, alla maestà – una maestà raccattata – del re d'Inghilterra.
Eleonora: Uno strano esordio: «maestà raccattata»!
Re Giovanni: Non parlate, madre; ascoltiamo l'ambasceria.
Chatillon: Filippo re di Francia, in nome, leale e giusto, di Arturo Plantageneto, figlio del tuo defunto fratello Goffredo, reclama con piena legittimità questa bella isola e le sue dipendenze, Irlanda, Poitou, Angiò, Turenna e Maine, invitandoti a deporre la spada con la quale le governi avendoli tu usurpati, questi vari possessi, e a restituirla nelle mani del giovane Arturo, tuo nipote e loro legittimo sovrano.
[William Shakespeare, Re Giovanni, traduzione di Tommaso Pisanti, Newton, 1990]
Southampton, sala nel palazzo di Re Giovanni
Entrano RE GIOVANNI, la REGINA ELEONORA, PEMBROKE, ESSEX, SALISBURY e CHATILLON
Re Giovanni – Allora, Chatillon, dite, che vuole Francia[6] da noi?
Chatillon – Così il re di Francia, dopo avervi mandato il suo saluto, parla per il mio mezzo alla maestà – maestà d'accatto – del re d'Inghilterra.
Eleonora – "Maestà d'accatto"... Stravagante esordio!
Giovanni – Silenzio, madre, udiamo l'imbasciata.
Chatillon – Filippo re di Francia, nel legittimo nome e nel diritto del figlio del fratello tuo Goffredo,[7] defunto, Arturo dei Plantageneti, accampa la giustissima pretesa al possesso di quest'isola bella e dei dominii d'Irlanda, Poitou, Angiò, Turenna e Maine;[8] e t'invita a deporre quella spada che quelle terre tiene in suo dominio da usurpatrice, e rassegnarla in pace nelle mani del tuo nipote Arturo, loro legittimo signore e re.
[William Shakespeare, Re Giovanni, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Entrano re Edoardo, il conte di Derby, [il conte di Warwick], Edoardo principe di Galles, lord Audley e il conte di Artois
Re Edoardo: Roberto di Artois, anche se siete stato bandito dalla Francia, vostro paese nativo, da noi riceverete un titolo non inferiore: qui vi
nominiamo conte di Richmond. Continuate pure a ricostruire il nostro albero genealogico: chi furono i successori diretti di Filippo il Bello?
Conte di Artois: Tre suoi figli che, uno dopo l'altro, sedettero sul trono regale del padre. Tutti e tre, però, morirono senza lasciare eredi.
In una pianura, davanti a un'osteria.
Si apre una porta ed entra Sly, barcollando, inseguito dall'ostessa.
Sly: Vi concerò io come si deve, vedrete!
Ostessa: Un paio di bastonate! Malandrino!
Sly: Siete voi una baldracca, ché gli Sly malandrini non lo sono... Date un'occhiata alle cronache: siamo venuti con Riccardo il Conquistatore, noialtri... E perciò paucas pallabris, che il mondo vada come vuole: e piantiamola!
[William Shakespeare, La bisbetica domata, traduzione di Francesco Franconeri, Newton Compton, 1990]
Davanti a un'osteria, nei dintorni di Padova.
Entra, barcollando ubriaco, LENZA, e dietro l'OSTESSA
Lenza – Vi metto a posto, io, parola mia!
Ostessa – Un paio di manette è quello che ci vuole a te, straccione!
Lenza – A me straccione? Sei tu una baldracca! Straccioni i Lenza?... Stùdiati la storia: siamo venuti qui con re Riccardo, sì, Riccardo il Conquistatore, ohé![9] Perciò paucas palabras,[10] lascia che il mondo giri e non seccarmi.[11]
[William Shakespeare, La bisbetica addomesticata, traduzione originale di Goffredo Raponi]
La scena è in Efeso. Una sala nel palazzo del Duca.
Entrano il Duca, Egeone, il carceriere, ufficiali e persone del seguito.
Egeone: Continua pure, Solino, a trarmi in rovina e dannandomi a morte metti fine ai miei mali e a tutto per me.
Duca: Non più difese, mercante di Siracusa; non son propenso a infrangere le nostre leggi. L'inimicizia e la discordia di recente provocate dall'astiosa offesa del vostro duca ad alcuni mercanti, nostri onesti concittadini, che mancando di denaro per riscattar le loro vite hanno suggellato col sangue i suoi spietati editti, esclude ogni compassione dai nostri minacciosi sguardi. Talché dopo queste mortali lotte intestine fra i tuoi sediziosi compatriotti [sic] e noi, è stato stabilito in solenni assemblee di impedire ogni traffico fra le nostre ostili città; e v'è di più: se un nato in Efeso sarà veduto nei mercati e nelle fiere di Siracusa o se un siracusano approdi alla baia di Efeso, egli deve morire e i suoi beni saranno confiscati a vantaggio del duca, a meno che mille marchi non siano pagati a titolo di penalità per riscattarlo. Il tuo avere, calcolato al massimo, non assomma a cento marchi, e però la legge ti condanna a morire.
[William Shakespeare, La commedia degli errori, traduzione di Eugenio Montale, Newton, 1990]
Il palazzo reale di Efeso.
Entrano il DUCA SOLINO, EGEONE, il CARCERIERE, UFFICIALI DI GIUSTIZIA e gente del seguito
Egeone – Procedi pure, Duca, se lo vuoi, a procurarmi l'ultima rovina, e poni, con la mia condanna morte, fine alle mie disgrazie e a tutto il resto.
Duca – Mercante di Siracusa, è inutile che seguiti a perorar per te: non io infrangerò le nostre leggi. L'inimicizia e la discordia insorte ultimamente dall'astioso oltraggio fatto dal vostro Duca a dei mercanti, nostri probi ed onesti cittadini che, privi del denaro pel riscatto, han suggellato con il loro sangue il rigore dei suoi ordinamenti, escludono ogni moto di pietà per te dai nostri minacciosi sguardi. E ciò perché, dopo il verificarsi di mortali intestini tafferugli tra i sediziosi tuoi compatrioti e noi, è stato sia da voi Siracusani, che da noi stessi, in solenni assemblee, deciso di vietare ogni commercio tra le nemiche nostre due città. Anzi, di più: è stato stabilito, che se un nativo d'Efeso sia visto circolare a Siracusa in mercati ed in fiere, o se un Siracusano faccia approdo ad Efeso... sia condannato a morte, e le sue merci siano confiscate a vantaggio del Duca, salvo ch'egli non paghi una penale di mille marchi[12] per il suo riscatto. La tua sostanza, valutata al massimo, non può ammontare a più di cento marchi. Perciò per legge tu devi morire.
[William Shakespeare, La commedia degli equivoci, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Sala nel palazzo del duca Orsino
Entra ORSINO, CURIO e altri nobili. Son già presenti in sala dei musici, che al loro ingresso intonano una melodia.
Orsino – Oh, la musica, sì! S'è vero ch'essa è cibo dell'amore, somministratemene ancora tanto, che la mia fame alfine d'esso sazia, possa ammalarsene, fino morire! Di nuovo quella melodia! Ancora! Aveva una sì languida cadenza, che mi sentivo come carezzare l'orecchio da un soave venticello[13] che alitando su un prato di violette ne rubi e ne diffonda la fragranza... Ma basta, ora cessate... Non m'è più così dolce come prima. (Cessa la musica) Oh, spirito d'amore, come sei fresco tu, e vivificante, tu che, se nella tua capacità puoi ricevere tutto, come il mare, non ti lasci da nulla penetrare, qual che ne sia l'altezza e la sostanza, senza svilirlo di senso e valore in men che non si creda! Perché l'amore è sempre così pieno d'estrose fantasie da esser alta fantasia da solo.
[William Shakespeare, La dodicesima notte, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Una sala nel palazzo del Duca.
Musica. Entrano Orsino, Duca di Illiria, Curio e altri.
Duca: Se la musica è cibo dell'amore suonatene in eccesso, così che, ormai sazia, la mia fame si plachi e muoia. Quel motivo ancora, dalla cadenza che si spegne al fondo; mi giunse all'orecchio simile a un dolce stormire che respira su un cespuglio di viole la cui fragranza esso carpisce ed effonde. Basta, basta così; più non è dolce come prima lo era. O spirito d'amore, così pungente tu sei, e vorace, che se pur'anche tutto accogliere potresti, come il mare, ad ogni slancio, ad ogni audacia sbarri la strada e lo svilisci, e in un solo momento lo distruggi. Tante sono le forme che l'amore crea, che l'amore stesso è fantasia.
[William Shakespeare, La dodicesima notte, traduzione di Nicoletta Rosati Bizzotto, Newton, 1990]
A bordo di una nave, sul mare. Una bufera con tuoni e fulmini.
Entrano il PADRONE della nave e il QUARTIERMASTRO.
Il padrone. Mastro...
Il Quartiermastro. Eccomi, Padrone: che c'è?
Il padrone. Bene. Parla ai marinari e manovrate alla spiccia: altrimenti andiamo tutti a fondo. Presto! presto!
[William Shakespeare, La Tempesta, traduzione di Diego Angeli, Milano, F.lli Treves, 1911]
Capitano — Nostromo!
Nostromo — A lli cummanne vuoste, Capitanio! Mal'aria e bà!
Capitano — Tiempo 'a perdere non ce n'è. Sotto è una massa de scuoglie. Come s'è miso lu mare, o ncagliate rumanimmo o da nu mumento all'auto se spacca la rota de poppa.
[William Shakespeare, La tempesta, traduzione di Eduardo De Filippo, citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993]
In mare, su una nave. Rumore di tuoni; fulmini.
Entrano il Capitano e il Nostromo.
Capitano: Nostromo!
Nostromo: Son qui, capitano. Che c'è?
Capitano: Ah, bene. Da' gli ordini ai marinai: e fa' svelto, ché altrimenti andiamo ad incagliarci: svelto, svelto!
[William Shakespeare, La tempesta, traduzione di Francesco Franconeri, Newton, 1990]
Nave in mare procelloso
Il Capitano e il Contromastro, amendue su la tolda
Il Capitano Contromastro!
Il Contromastro Signor! Qual via ne resta?
Il Capitano Qual? raddoppiar lo zelo e la fatica; O il legno più non si contien dagli urti. A'marinaj ragionar vuolsi aperto.[15]
[William Shakespeare, La Tempesta, traduzione di Michele Leoni, Pisa, presso Niccolo Capurro, 1815]
Una nave in mare. Fragor di tempesta con lampi e tuoni.
CAPITANO e il NOSTROMO
Capitano. Nostromo!
Nostromo. Eccomi qui. Che ve ne pare,
Capitan?
Capitano. Bene. I marinai rincora;
Sollecita, ti sbraccia, o nelle secche
Colla nave daremo. Animo, via,
Moviti!
[William Shakespeare, La tempesta, traduzione di Andrea Maffei, Successori Le Monnier, Firenze, 1869]
A bordo di un vascello in mare. Tempesta, tuoni e fulmini
Entrano il CAPITANO e il CAPO NOCCHIERO
Capitano – Capo nocchiero!
Capo Nocchiero – Son qui, capitano. Che c'è?
Capitano – Coraggio, dà voce alla ciurma: che si diano daffare, forza, forza! O qui coliamo a picco[16]... Avanti! Presto!
[William Shakespeare, La Tempesta, traduzione originale di Goffredo Raponi]
A Windsor. Una strada davanti alla casa di Page. Alberi e una panchina.
Si avvicinano il giudice Shallow, Slender e il reverendo Ugo Evans, parlando vivacemente.
Shallow (con calore): E inutile, reverendo. Non cercate di persuadermi. Ne farò un caso da Camera Stellata. Non uno, ma venti Giovanni Falstaff, non riuscirebbero a raggirare il cavaliere Roberto Shallow.
Slender (approvando): Roberto Shallow, giudice di pace della contea di Gloucester, uno dei quorum.
Shallow: Già, nipote Slender, e Custalorum.
[William Shakespeare, Le allegre comari di Windsor, traduzione di Emilio Cecchi e Suso Cecchi d'Amico, Newton, 1990]
Entrano il giudice Shallow, Slender e sir Hugh Evans
Shallow: Sir Hugh, non mi convincete: porterò il caso alla Corte Suprema. Neanche venti sir John Falstaff fregheranno Robert Shallow, Esquire.
Slender: E giudice di pace nella contea di Gloucester e Coram.
Shallow: Sì, nipote Slender, e Custalorum.
[William Shakespeare, Le allegre madame di Windsor, traduzione di Nadia Fusini, Feltrinelli, 2019]
Windsor, davanti alla casa di Giorgio Page.
Entrano il giudice ZUCCA, mastro STANGHETTA e Don Ugo EVANS
Zucca – No, don Ugo, non mi convincerete; porterò la questione all'Alta Corte.[18] Foss'egli pure venti sir John Falstaff, non tratterà così Roberto Zucca, scudiero...[19]
Stanghetta – ... e giudice di pace e coram[20] nella contea del Gloucester.[21]
Zucca – Già, nipote Stanghetta, e costalorum.
[William Shakespeare, Le gaie mogli di Windsor, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Dall'assediata Ardea in grande fretta,
d'illecito desio sull'ali infide,
Tarquinio lascia il campo dei Romani
ed a Collazio porta un fuoco buio,
brace nascosta che vuol divampare
ed abbracciare il corpo di Lucrezia,
di Collatino sposa bella e casta.
Un luogo aperto.
(Tuoni e lampi.)
Entrano le TRE STREGHE.
1a Strega. Fra la piova, fra i lampi, fra il tuon,
Quando ancor rivedremci noi tre?
2a Strega. Quando cessi dell'armi il frastuon,
Quando appaja chi vinse o perdé.
3a Strega. Dunque, innanzi al tramonto.
1a Strega. In qual loco?
2a Strega. Sulla landa. —
3a Strega. E Macbetto verrà.
1a Strega. Son con te, Grimalchino.[22]
Tutte e Tre. Paddóco
Ne domanda. — Vediamo, siam qua.
Orrendo è il bello: bello è l'orror!
Via, tra l'immonda nebbia e il vapor!
[William Shakespeare, Macbetto, traduzione di Giulio Carcano, in "Teatro scelto di Shakespeare", Felice Le Monnier, Firenze, 1858]
Un luogo aperto. Tuoni e lampi.
Entrano tre streghe.
I strega: Quando incontrarci potrem, sorelle | Noi tre, fra tuoni, lampi e procelle?
II strega: Quando sia spenta la furia avversa, | Quando la pugna sia vinta e persa.
III strega: Prima che il sole sia all'orizzonte.
I strega: Dove?
II strega: Sul piano.
III strega: Via! Tutte e tre | Incontro a Macbeth.
I strega: Vengo con te, | Graymalkin.
II strega: Paddock chiama.
III strega: Siam pronte!
Tutte e tre: Il bello è brutto e il brutto è bello: | Fra nebbie e fumo corri a rovello.
[William Shakespeare, Macbeth, traduzione di Ugo Dèttore, Newton, 1990]
Una landa.
Tuoni e lampi.
Tre STREGHE.
Prima strega. Quando verremo noi tre di nuovo
Ad un ritrovo?
Nel tuon? nel lampo?
O nella pioggia?
Seconda strega. Quando si taccia
L'urlo del campo;
Quando ne faccia
Noto il conflitto
Chi sia vincente, chi sia sconfitto.
Terza strega. Pria della sera
Dunque.
Prima strega. La posta?
Seconda strega. Quella pianura.
Terza strega. Vi dee Macbetto condur la schiera.
Seconda strega. Noi gli diremo la sua ventura.
Prima strega. Ma la maestra garrirne potria
Se noi co' detti d'un falso destino
Tronchiamo al prode la nobile via
Per invaghirlo del torto cammino.
Terza strega. Potrà seguirlo, potrà lasciarlo,
Chè forza alcuna non gliel disdice;
Ma detestarlo
Colui deggiamo, perché felice.
Seconda strega. Se a frenar gli appetiti non vale,
Provi l'uomo la possa infernale.
Terza strega. Noi gittiamo il mal seme nel core;
Ma dell'opra l'uom sempre è signore.
Seconda strega. L'uomo è di proba, gentil natura,
Né merta, io penso, prova sì dura.
Seconda e Terza strega. Tutti i demonj lieti non sono
Se cade il giusto, se inciampa il buono?
(Tuoni e lampi.)
Prima strega. Gli spirti intendo.
Seconda strega. Grida il Maestro!
Tutte e tre le streghe. Padòc ne appella!
Vegnam! vegnamo! Sole e procella
L'un l'altro a muta. Bello è l'Orrendo,
Orrendo il Bello. La nostra via
Siano i vapori, la nebbia sia.
[William Shakespeare, Macbeth, traduzione di Andrea Maffei, Felice Le Monnier, Firenze, 1863]
Luogo aperto. Tuoni e lampi.
Entrano tre STREGHE.
1ª strega -Quando noi tre ci rivedremo ancora? | Con tuono, lampo o pioggia? Quando, allora?
2ª strega -Quando sarà finito il parapiglia, | e sarà vinta o persa la battaglia.
3ª strega -Sarà al calar del sole, questa sera.
1ª strega -E il luogo?
2ª strega – Alla brughiera.
3ª strega -Laggiù dobbiamo andare | Macbeth ad incontrare.
1ª strega -Vengo, Gattaccio.[23]
2ª strega – Ci chiama Ranocchio.[24]
3ª strega -Veniamo subito, in un batter d'occhio!
Tutte e tre – "Per noi il bello è brutto, il brutto è bello" | fra la nebbia planiamo e l'aer fello.
[William Shakespeare, Macbeth, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Vienna. Un appartamento nel palazzo del Duca.
Entrano il Duca, Escalo, consiglieri e seguito.
Duca: Escalo.
Escalo: Mio signore?
Duca: Esporvi la natura del governo, sembrerebbe da parte mia un'ostentazione di parole e di frasi, dal momento che sono in grado di sapere che la vostra scienza oltrepassa in ciò quanto la mia forza può giungere a consigliarvi; sicché altro non manca che questa alla vostra idoneità, come il vostro credito è confacente, e lasciarle collaborare. L'indole del nostro popolo, le istituzioni della nostra città e la procedura dei giudizi, voi ne siete così perito quant'altri mai che a nostra memoria fosse arricchito dall'arte e dalla pratica. Eccovi il nostro incarico, da cui non vorremmo che voi vi discostaste. Olà, fate venire dinanzi a noi Angelo. (Esce uno del seguito.) Come pensate che farà la parte nostra? Poiché dovete sapere che di tutto cuore l'abbiamo eletto a sostituirci in nostra assenza, gli abbiamo prestato il nostro terrore, l'abbiam rivestito dell'amor nostro, e conferito al suo ufficio di deputato tutti gli organi del nostro potere: che ve ne pare?
[William Shakespeare, Misura per misura, traduzione di Mario Praz, Newton, 1990]
Il palazzo del Duca
Entrano il DUCA, ESCALO, nobili e seguito
Duca – Escalo!
Escalo – Mio signore?
Duca – Starvi ora a svelar le buone regole del governo, potrebbe anche sembrare, pretesa inutile, da parte mia, di sfoggiare discorsi ed argomenti, dal momento che so per esperienza come le tue conoscenze in materia vadan bene al di là d'ogni consiglio io mi possa sforzare d'impartirvi; perciò non mi rimane che far credito alla provata vostra competenza[27] – e i vostri meriti ve ne dan titolo – e farla oprare a pieno suo talento. Della natura della nostra gente, delle nostre civili istituzioni, delle nostre normali procedure nel dire e amministrare la giustizia, voi conoscete, in teoria e in pratica, quanto chiunque altro, a nostra mente, n'abbia tratto ricchezza di pensiero. Questo è il vostro mandato: dai cui termini, quali qui indicati, non vorremmo che aveste a discostarvi. (Gli consegna il mandato) Fate venire innanzi a noi Angelo. (Esce uno del seguito) Che immagine pensate di noi sarà capace di dare egli al popolo? Perché dovete sapere che è lui che di buon animo abbiam designato alle funzioni di nostro vicario per il tempo che resteremo assenti; a lui abbiamo deferito, all'uopo, ammantato di tutto il nostro affetto, il potere d'amministrar giustizia e di far eseguire normalmente le leggi dello Stato, trasferendo a codesta sua reggenza tutti i nostri poteri. Che ne dite?
[William Shakespeare, Misura per misura, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Entrano il duca, Escalo e altri nobili
Duca: Escalo.
Escalo: Mio signore.
Duca: Mi sembrerebbe di ostentare parole e discorsi se spiegassi le proprietà del governo, sapendo come la vostra dottrina in materia superi ogni consiglio frutto della mia autorevolezza. Non resta altro che questo a sostenervi: le capacità le avete, quindi applicatele. Conoscete la natura del nostro popolo, le istituzioni civiche e le norme della giustizia, meglio di qualsiasi altro esperto di pratica e teoria che noi ricordiamo.
Ecco il mandato, dal quale non vorremmo che deviaste. (A un nobile) Chiamate, che Angelo sia convocato.
(A Escalo) Come, secondo voi, saprà rappresentarci? In quale figura? Sappiate che con animo speciale lo abbiamo scelto a supplire la nostra assenza, prestandogli il terrore, investendolo del nostro amore, conferendo alla delega tutti gli organi del potere. Cosa ne pensate?
[William Shakespeare, Misura per misura, in Tutte le opere, traduzione di Caterina Ricciardi, Giunti, 2019]
Davanti alla casa di Leonato.
Entrano Leonato, governatore di Messina, Ero sua figlia e Beatrice sua nipote, con un messaggero.
Leonato: Questa lettera m'informa che Don Pedro d'Aragona arriva a Messina stasera.
Messaggero: E poco lontano, l'ho lasciato a meno di tre leghe da qui.
Leonato: Quanti gentiluomini avete perduto in questa azione?
Messaggero: Di grado pochi, e di nome nessuno.
[William Shakespeare, Molto rumore per nulla, traduzione di Maura Del Serra, Newton, 1990]
Entrano Leonato, governatore di Messina, la figlia Ero e la nipote Beatrice con un messaggero
Leonato: Da questa lettera apprendo che Don Pedro d'Aragona sarà a Messina stasera.
Messaggero: Dovrebbe essere già qui, era a meno di tre leghe di distanza, quando l'ho lasciato.
Leonato: Quanti gentiluomini avete perduto in quest'azione?
Messaggero: Pochi di valore, e nessuno di fama.
[William Shakespeare, Molto rumore per nulla, traduzione di Nadia Fusini, Feltrinelli, 2009]
Messina, davanti alla casa di Leonato.
Entrano LEONATO, ERO e BEATRICE; viene loro incontro un MESSAGGERO che consegna un plico a Leonato.
Leonato – (Leggendo) Questo messaggio annuncia che Don Pedro sarà a Messina questa sera stessa.
Messaggero – Non dovrebb'essere molto distante: era a tre leghe quando l'ho lasciato.
Leonato – Quali perdite d'uomini di rango avete sopportato, in quest'azione?
Messaggero – Poche in complesso, direi, e nessuna di uomini di massimo rilievo.
[William Shakespeare, Tanto trambusto per nulla, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Una strada di Venezia.
Entrano Roderigo e Iago.
Roderigo: Non dirmi altro! Proprio tu, Iago, che ti sei servito del mio denaro come di roba tua, eri al corrente di tutto e me l'hai taciuto.
Iago: Sangue di Dio. Non volete ascoltarmi. Se mi sono mai sognato una cosa simile, avreste ragione di detestarmi.
Roderigo: Mi avevi anche detto che l'odiavi.
[William Shakespeare, Otello, il Moro di Venezia, traduzione di Emilio Cecchi e Suso Cecchi d'Amico, Newton, 1990]
JAGO, RODRIGO.
Rodrigo. Cessa: ti affanni invan. Chiaro è l'inganno:
Più asconderlo non puoi. — Tu dunque, o Jago,
Conscio di tutto...
Jago. No: se mai di questo
Il più leggier sospetto ebb'io, mi abborri.
Rodrigo. D'aver già da gran tempo Otello in ira
Mi dichiaravi pur.
[G. Shakespeare, Otello o Il moro di Venezia, traduzione di Michele Leoni, Tipografia Chirio e Mina, Torino, 1823]
Una via di Venezia.
RODRIGO, JAGO.
Rodrigo. Non cantarmene più: m'offende, Jago,
Che di ciò consapevole tu fossi,
Tu che suoli allentar le cordicelle
Della mia borsa a senno tuo.
Jago. Ma retta
Darmi non vuoi... Se pure io v'ho sognato,
Possa tu detestarmi!
Rodrigo. E poi dicevi
Ch'egli t'era odïoso!
[Guglielmo Shakespeare, Otello, traduzione di Andrea Maffei, Successori Le Monnier, Firenze, 1869]
Venezia, una strada. Notte.
Entrano JAGO e RODERIGO
Roderigo – Non dirmelo. L'ho assai per male, Jago, che tu, ch'hai sempre avuto la mia borsa a tua disposizione, come tua,[28] sapevi questo, e me l'hai sottaciuto.
Jago – Sangue di Cristo,[29] ascoltami, ti prego, Roderigo: se avessi sol sognato che avesse mai a succedere tanto, avresti pur ragione di schifarmi.
Roderigo – M'hai detto sempre che l'avevi in odio.
[William Shakespeare, Otello, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Il parco di Ferdinando, Re di Navarra.
Entrano Ferdinando, Re di Navarra, Bàiron, Longaville e Dumain.
Re: Fate, orsù, che quella fama, di cui tutti vanno a caccia in vita, viva bene impressa nel bronzo delle nostre tombe e ci dia favori nel disfavore della morte allorquando, a dispetto del tempo vorace cormorano, il nostro sforzo, in questo nostro attuale respirare, potrà farci conquistare quell'onore che, smussando della morte l'affilata falce, ci renda alla fine eredi dell'eternità tutta. Perciò, miei prodi vincitori – giacché tali voi siete, che guerreggiando contro i vostri istinti stessi e contro l'innumerevole armata dei mondani desideri – il nostro recente editto resterà fermamente in vigore. Sarà, la Navarra, la meraviglia del mondo; la nostra corte sarà una piccola accademia, serena e bene in grado di meditare sull'arte del vivere. Voi tre, Biron, Dumain e Longaville, avete giurato di stare qui con me per tre anni, come miei compagni di studio, e di attenervi a quelle norme che sono registrate in questo foglio. Avete pronunziato i vostri giuramenti; ed ora sottoscriveteli con i vostri nomi, di modo che sia la stessa mano a colpire l'onor suo se qualcuno di voi dovesse violare anche la minima clausola qui contenuta. Se siete ben decisi a far così come giuraste di fare, sottoscrivete qui allora i vostri solenni giuramenti, e osservateli.
[William Shakespeare, Pene d'amor perdute, traduzione di Tommaso Pisanti, Newton, 1990]
Navarra, il parco del palazzo reale
Entrano il RE FERDINANDO, BIRON, LONGUEVILLE e DUMAIN
Re – Quella fama che tutti in vita inseguono noi faremo che viva imperitura, impressa con caratteri di bronzo sul marmo delle nostre sepolture ad elargirci ancor grazia di vita nell'immane disgrazia della morte; ché, a dispetto del Tempo, cormorano divorator di tutto,[31] l'opra che ci apprestiamo ad affrontare in questo scorcio della nostra vita[32] potrà farci acquistare quella fama che, smussandone[33] l'affilata falce, ci renda eredi dell'eternità. Perciò, miei valorosi vincitori – ché tali siete, per aver lottato e trionfato sopra i vostri istinti e sulla variegata moltitudine dei mondani appetiti – sempre valido resta perciò il recente nostro editto: la Navarra sarà la meraviglia del mondo e questa corte sarà una minuscola Accademia[34] di sereno e contemplativo studio sopra l'arte del vivere. Voi tre, Biròn, Dumain e Longueville, avete preso, sotto giuramento, l'impegno a viver qui insieme a me, miei compagni di studio, per tre anni e d'osservare scrupolosamente le regole sancite in questo scritto. Ciascuno apponga, in calce al giuramento, ch'è formulato qui, la propria firma, e sia la stessa mano che ha firmato a colpire l'onore di colui che violi nel più piccolo dettaglio, quanto è qui stabilito. Perciò se vi sentite bene armati a far le cose che avete giurato, apponete la firma al vostro impegno e preparatevi a tenervi fede.[35]
[William Shakespeare, Pene d'amor perdute, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Di fronte al palazzo di Antiochia.
Gower: A ricantarvi un canto | già un tempo cantato | dalle sue ceneri l'antico Gower | è tornato, rivestito | del suo umano aspetto, | perché agli occhi e agli orecchi | voi n'abbiate diletto.
[William Shakespeare, Pericle, principe di Tiro, traduzione di Giorgio Albertazzi, Newton, 1990]
Entra Gower in veste di Prologo
Gower: A cantare un canto che in antico fu cantato, dalle ceneri è tornato il vecchio Gower, assumendo su di sé l'umana infermità per rallegrare i vostri orecchi, per dilettarvi gli occhi.
[William Shakespeare, Pericle, principe di Tiro, in Tutte le opere, traduzione di Antonio Castore, Giunti, 2019]
Antiochia, davanti al palazzo di re Antioco.
Entra JOHN GOWER[36]
Gower – Per ricantare un canto
nell'antico cantato, il vecchio Gower
per voi dalle sue ceneri è rinato
riprendendo le umane infermità,[37]
a deliziar con esso occhi ed orecchi
d'uomini e donne della vostra età;
un canto che s'udì spesso cantare
cento e cent'anni fa
in pubblico alle feste e alle fiere,[38]
in tempi di digiuni e di preghiere,
e dame e cavalieri, ai tempi loro,
ne trassero dell'animo ristoro
a leggerlo a cantarlo; ché vantaggio
fu sempre all'uomo ciò che è buono e saggio.[39]
[William Shakespeare, Pericle, principe di Tiro, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Sala nel palazzo di re Lear.
Entrano Kent, Gloucester e Edmondo.
Kent: Credevo che il re fosse più affezionato al duca di Albany che al Cornovaglia.
Gloucester: Anche a noi era sembrato: ma adesso, nella divisione del regno, non appare chiaro quale dei duchi egli stimi di più, perché le parti sono state fatte con tale equilibrio che, per quanto si consideri, non si può vedere una preferenza per l'uno o per l'altro.
[William Shakespeare, Re Lear, traduzione di Ugo Dèttore, Newton, 1990]
Sala nel palazzo di Re Lear. Un grande tavolo con sedie nel mezzo.
Entrano KENT, GLOUCESTER e EDMONDO
Kent – Mi pareva che il re prediligesse il Duca d'Albania al Cornovaglia.[41]
Gloucester – Così anche a noi; sennonché ora, nella spartizione che vuol fare del regno, non appare quale dei duchi ei voglia prediligere; son sì ben bilanciate le lor parti, ch'anche il più minuzioso scrutatore non saprebbe indicare quale scegliere.
[William Shakespeare, Re Lear, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Londra. – Una stanza nel palazzo regio.
Riccardo: Giovanni di Gaunt, nobile Lancastro, vecchio pieno d'anni e di onori, conformandoti alla tua promessa e al tuo giuramento, hai tu qui condotto il tuo intrepido figlio Enrico di Hereford, per sostenere dinanzi a noi l'audace sfida ch'egli addirizzò al duca di Norfolk, Tommaso Mowbray? Non avemmo agio prima d'ora d'intender le due parti.
Giovanni di Gaunt: Attenni ciò che promisi, mio sovrano.
Riccardo: Dimmi ancora; l'hai tu interrogato? Sai s'ei mandasse quel cartello per odio antico, o se prorompesse nella collera virtuosa di un buon suddito, per qualche tradimento, di cui egli conosca Mowbray colpevole?
Giovanni di Gaunt: Da quanto seppi indagare e' fu per qualche trama pericolosa di Mowbray in danno di Vostra Altezza, e non per un'ira personale e inveterata.
[William Shakespeare, Teatro completo, Vita e morte del Re Riccardo II, traduzione di Carlo Rusconi, Vol. IV, UTET, Torino 1923]
Londra. Il palazzo di re Riccardo.
Entrano re Riccardo, Giovanni di Gaunt con altri nobili e persone del seguito.
Re Riccardo: Vecchio Giovanni di Gaunt, venerabile Lancaster, hai tenuto fede al giuramento e condotto qui Enrico Hereford, tuo generoso figlio, a provare l'impetuosa accusa, che ancora non avemmo tempo di ascoltare contro il duca di Norfolk, Tommaso Mowbray?
Gaunt: L'ho fatto, maestà.
Re Riccardo: Dimmi anche: l'hai esaminato a fondo, se accusa il duca per antico malanimo oppure onestamente, come un buon suddito dovrebbe, per qualche manifesto fondamento di slealtà.
Gaunt: Per quanto ho potuto stringerlo da presso su questo argomento lo muove un pericolo evidente preparato contro l'altezza vostra, non astio inveterato.
[William Shakespeare, Riccardo II, traduzione di Mario Luzi, Newton, 1990]
Londra. Il palazzo reale.
Entrano RE RICCARDO, GIOVANNI DI GAUNT, nobili e seguito
Riccardo – Dunque, Giovanni Gaunt, mio vecchio e venerabile zio Lancaster, fedele alla giurata tua promessa, hai condotto ora qui, davanti a noi, Enrico d'Hereford, tuo fiero figlio, a confermare l'irruenta accusa, cui non potemmo dar finora udienza, al Duca di Norfolk, Tommaso Mowbray.
Gaunt – Per l'appunto, maestà.
Riccardo – Ma dimmi, l'hai sondato bene a fondo per sincerarti che l' accusa al duca di notorio e palese tradimento muova non già da qualche antica ruggine, ma da un onesto, personale impulso, come dovrebbe fare ogni buon suddito?[42]
Gaunt – Per quanto potei stringerlo da presso sull'argomento, ho potuto discernere in lui il timore di qualche pericolo alla persona dell'Altezza vostra, e nessun vecchio ed astioso rancore.
[William Shakespeare, Riccardo II, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Londra. Una strada.
Entra Riccardo, duca di Gloucester, solo.
Gloucester: Ora l'inverno della nostra amarezza s'è cambiato in gloriosa estate a questo sole di York; e tutte le nuvole che pesavano sulla nostra casa sono sepolte nel profondo cuore dell'oceano. Ora le nostre fronti sono strette da ghirlande di vittoria; le nostre armi contorte appese per memoria, i nostri bruschi allarmi mutati in lieti convegni, le nostre terribili marce in amabili danze. La guerra dal viso arcigno ha spianato la sua fronte corrugata, e ora, invece di montare bardati destrieri per atterrire il cuore dei tremendi nemici, salta lievemente nella stanza d'una lady al diletto lascivo d'un liuto.
[William Shakespeare, Riccardo III, traduzione di Salvatore Quasimodo, Newton, 1990]
Una via di Londra[44]
Entra RICCARDO, duca di Gloucester
Riccardo – Ormai l'inverno del nostro travaglio s'è fatto estate sfolgorante ai raggi di questo sole di York;[45] e le nuvole che incombevano sulla nostra casa son sepolte nel fondo dell'oceano. Ora le nostre fronti si cingono di serti di vittoria; peste e ammaccate sono appese al muro le nostre armi, gloriose panoplie, e in giulivi convegni tramutate le massacranti marce militari. Deposto ha Marte l'arcigno cipiglio e spianata la corrugata fronte, e, non più in sella a bardati destrieri ad atterrir sgomente anime ostili, ora se'n va, agilmente saltellando per l'alcova di questa o quella dama alle lascive note d'un liuto.
[William Shakespeare, Riccardo III, traduzione originale di Goffredo Raponi]
[Atene. Sala nel palazzo di Teseo.] Entrano Teseo, Ippolita, Filostrato e il Seguito.
TESEO: La nostra ora nuziale, bella Ippolita,
Adesso si avvicina a grandi passi.
Quattro giorni felici porteranno
La luna nuova; ma quanto mi sembra
Lenta a svanire questa luna vecchia!
S'interpone fra me e i miei desideri,
Così come una suocera, o una vedova
Che pian piano prosciughi le ricchezze
Di un giovinetto.
[William Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate, traduzione di Guido Bulla, Newton Compton, Roma, 2014. ISBN 978-88-541-6987-6]
Atene, il palazzo di Teseo.
Entrano Teseo, Ippolita, Filostrato e i servi.
Teseo: L'ora delle nostre nozze è prossima, o bella Ippolita: quattro giorni ancora di felice attesa, e apparirà la nuova luna; ma, oh, quanto questa vecchia luna è lenta a tramontare! Essa fa languire le mie brame come una matrigna o vedova che con l'aiuto del tempo lasci avvizzire le sostanze del giovane erede.
[William Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate, traduzione di Paola Ojetti, Newton, 1990]
Atene, sala nel Palazzo di Teseo
Entrano TESEO, IPPOLITA, FILOSTRATO e seguito
Teseo – La nostra ora nuziale, bella Ippolita, s'approssima: quattro giorni felici ci porteranno la novella luna... Oh, come questa vecchia pare lenta a dileguarsi, quasi a ritardare malignamente, come una matrigna,[46] l'appagamento dei miei desideri, o somigliante ad una ricca vedova ostinatasi a viver troppo a lungo per rendere a più a più sottili le rendite del suo giovane erede.
[William Shakespeare, Sogno d'una notte di mezza estate, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Se noi ombre vi siamo dispiaciuti,
immaginate come se veduti
ci aveste in sogno, e come una visione
di fantasia la nostra apparizione.
Se vana e insulsa è stata la vicenda,
gentile pubblico, faremo ammenda;
con la vostra benevola clemenza,
rimedieremo alla nostra insipienza.
E, parola di Puck, spirito onesto,
se per fortuna a noi càpiti questo,
che possiamo sfuggir, indegnamente,
alla lingua forcuta del serpente,
ammenda vi farem senza ritardo,
o tacciatemi pure da bugiardo.
A tutti buonanotte dico intanto,
finito è lo spettacolo e l'incanto.
Signori, addio, batteteci le mani,
e Robin v'assicura che domani
migliorerà della sua parte il canto.[47] (Puck)
Atene. Una sala in casa di Timone.
Entrano il Poeta, il Pittore, il Gioielliere, il Mercante ed altri da porte diverse.
Poeta: Buon giorno, signore.
Pittore: Son lieto di trovarvi bene.
Poeta: È da molto che non vi vedo. E il mondo? come va?
Pittore: Si logora quanto più cresce.
Poeta: Oh lo so bene. Ma che c'è di inusitato, di raro, che non trova cosa che l'eguagli nei molteplici annali? Vedi qui, o magia della liberalità, tutti questi spiriti presentarsi, evocati dal tuo potere. Io conosco quel mercante.
Atene, la casa di Timone.
Entrano, da porte diverse, IL POETA, IL PITTORE, IL GIOIELLIERE e IL MERCANTE
Poeta – Buongiorno, amico.[51]
Pittore – Lieto d'incontrarti.
Poeta – Era tempo che non ci vedevamo. Come va il mondo?
Pittore – Si usura col crescere.
Poeta – Ah, sì, questo è notorio! Che c'è infatti di strano al mondo d'oggi che non sia già accaduto e che non si ritrovi registrato nel multiforme libro della storia?... Guarda – magia della munificenza! – quanti spiriti l'alto suo potere ha saputo evocare in questa casa... Quel mercante mi pare di conoscerlo.
Squilli di tromba. Entrano in alto i tribuni e i senatori; poi Saturnino col suo seguito da una porta, Bassiano col suo seguito dall'altra, tamburi e trombe.
Saturnino: Nobili patrizi, patroni del mio diritto, difendete la giustizia della mia causa con le armi, e voi, compatrioti, seguaci miei fedeli, pretendete con la spada il mio titolo di successore; sono io il primo figlio di chi per ultimo cinse la corona imperiale di Roma, e quindi fate che gli onori di mio padre vivano in me e che questa indignità non offenda i miei anni.
Bassiano: Romani, amici, seguaci, difensori del mio diritto, se mai Bassiano, figlio di Cesare, fu gradito agli occhi della regale Roma, tenete aperta la strada al Campidoglio e impedite che al trono imperiale, a virtù consacrato e a giustizia, temperanza e nobiltà, s'accosti il disonore: lasciate invece che in limpida elezione rifulga il merito e combattete, o romani, per una libera scelta.
[William Shakespeare, Tito Andronico, traduzione di Agostino Lombardo, Newton, 1990]
Squilli di tromba. Entrano in alto i tribuni e i senatori; poi in basso Saturnino col suo seguito da una porta, Bassiano col suo seguito dall'altra, tamburi e stendardi.
Saturnino (ai suoi seguaci): Nobili patrizi, patroni del mio diritto, difendete la giustizia della mia causa con le armi, e voi, compatrioti, seguaci miei fedeli, pretendete con la spada il mio diritto alla successore. Sono io il primo figlio di chi per ultimo cinse la corona imperiale di Roma, e quindi fate che gli onori di mio padre vivano in me e che questa indignità non deturpi i miei anni.
Bassiano (ai suoi seguaci): Romani, amici, seguaci, difensori del mio diritto, se mai Bassiano, figlio di Cesare, fu gradito agli occhi della regale Roma, consentite allora ch'io ascenda al Campidoglio e impedite che al trono imperiale, a virtù consacrato e a giustizia, temperanza e nobiltà, s'accosti il disonore: lasciate invece che in limpida elezione rifulga il merito e combattete, o Romani, per una libera scelta.
[William Shakespeare, Tito Andronico, traduzione di Agostino Lombardo, Feltrinelli, 1999]
Piazza davanti al Campidoglio. A un lato, il monumento sepolcrale degli Andronici.[52]
Trombe.[53] Nella galleria in alto[54] appaiono i SENATORI e i TRIBUNI tra i quali MARCO ANDRONICO; in basso entrano, da una parte SATURNINO con i suoi sostenitori, dall'altra BASSIANO con i suoi, tutti con tamburi e trombe.
Saturnino – (Ai suoi sostenitori) O voi di Roma nobili patrizi, patrocinanti la mia buona causa, difendete con l'armi il mio diritto; la giustizia della mia causa; voi, cittadini, fidi miei seguaci, sostenete ora con le vostre spade il mio titolo alla successione: il diritto di figlio primogenito di colui che per ultimo ha precinto il diadema imperiale; fate sì che rivivano nella mia persona quegli onori che furon di mio padre; non mi disconoscete, non fate questo affronto alla mia età.[55]
Bassiano – Romani, amici, fidi miei seguaci, sostenitori del mio buon diritto, se mai Bassiano, di Cesare figlio, fu grato agli occhi di Roma imperiale, a lui questo passaggio al Campidoglio[56] riservate, nessun di voi permetta che all'imperiale seggio a virtù consacrato ed a giustizia, a dignità e modestia di costumi, s'accosti il disonore, ma fate che da libera elezione rifulga il merito, e combattete, Romani, tutti, per rivendicare la vostra piena libertà di scelta.
[William Shakespeare, Tito Andronico, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Entra il Prologo armato
Prologo: Troia è la scena. Dalle isole di Grecia i tracotanti prìncipi, nobile sangue in ebollizione, al porto di Atene hanno mandato le navi, cariche di uomini e d'armi per una guerra crudele. Sessantanove teste coronate sono salpate dalla baia di Atene alla volta della Frigia. Il loro voto: saccheggiare Troia, nelle cui possenti mura Elena, la moglie rapita a Menelao, dorme con il dissoluto Paride. Questa la causa della guerra.
[William Shakespeare, Troilo e Cressida, in Tutte le opere, traduzione di Chiara Lombardi, Giunti, 2019]
[Entra il Prologo, in armi]
Prologo: E' a Troia la scena. Dalle isole greche i principi orgogliosi - l'alto sangue acceso d'ira - hanno inviato al porto di Atene navi cariche di ministri e strumenti di guerra cruenta. Sessantanove, con in capo la corona regale, dalla baia ateniese muovono verso la Frigia, facendo voto di saccheggiare Troia, nelle cui forti mura la violata Elena, regina di Menelao, dorme con Paride il vizioso; è tutta qui la contesa.
[William Shakespeare, Troilo e Cressida, traduzione di Iolanda Plescia, Feltrinelli, 2015]
La scena è posta a Troia. Dalle isole della Grecia i principi orgogliosi, il loro gran sangue scaldato, hanno spedito al porto d'Atene le lor navi cariche dei ministri e degl'istrumenti della cruda guerra: sessanta e nove cinti di real corona, dalla baia d'Atena salpano alla volta della Frigia; e han fatto voto di mettere a sacco Troia dentro alle cui forti mura la rapita Elena, la regina di Menelao, giace col lascivo Paride; e codesta è la contesa.
[William Shakespeare, Troilo e Cressida, traduzione di Mario Praz, Newton, 1990]
Entra il PROLOGO
Prologo – La scena è a Troia. Dall'isole greche i re orgogliosi, il loro nobil sangue bollente d'ira, han radunato in massa le loro flotte nel porto di Atene, stracarico ciascun loro vascello di micidiali strumenti di guerra. Sessanta e nove teste coronate han fatto vela per la frigia costa da lì, giurando di dar sacco a Troia dove, al riparo di possenti mura, di Menelao la rapita regina si giace a fianco del lascivo Paride. a cagione della contesa è questa.
[William Shakespeare, Troilo e Cressida, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Per approfondire, vedi: Tutto è bene quel che finisce bene. |
Rossillion. Palazzo del conte.
Entra il giovane Bertram, conte di Rossillion, con sua madre la Contessa, Elena e Lord Lafeu tutti vestiti a lutto.
Contessa: Nel lasciare che il mio figliuolo si separi da me, io seppellisco un secondo marito.
Bertram: Ed io nell'andarmene, signora, piango nuovamente la morte di mio padre. Pure debbo eseguire l'ordine di sua maestà del quale io sono ora in custodia e del quale sarò sempre suddito fedele.
[William Shakespeare, Tutto è bene quel che finisce bene, traduzione di Gabriele Baldini, Tutte le opere, Fabbri Editori, 2003]
Entrano il giovane Bertram conte di Rossiglione, la contessa sua madre, Elena e lord Lafeu, tutti in lutto
Contessa: Lasciare partire mio figlio da me è come seppellire un'altra volta mio marito.
Bertram: E nell'andarmene, signora, io rinnovo le lacrime per la morte di mio padre; ma devo obbedire all'ordine di sua maestà: sono sotto la sua tutela, oltre che sempre suo suddito.
[William Shakespeare, Tutto è bene ciò che finisce bene, in Tutte le opere, traduzione di Chiara Lombardi, Giunti, 2019]
Rossiglione, il palazzo del conte.
Entrano il giovane BERTRAMO, la CONTESSA sua madre, ELENA, LAFEU, tutti vestiti a lutto
Contessa – Lasciare ora andar via da me mio figlio è come seppellire mio marito una seconda volta.
Bertramo – E per me, madre, è piangere mio padre un'altra volta, andando via: ma devo sottostare a un ordine del re, al quale sono tanto più soggetto ora che sono sotto sua tutela.
[William Shakespeare, Tutto è bene quel che finisce bene, traduzione originale di Goffredo Raponi]
Rossillion. Il palazzo del conte.
Entrano il giovane Bertram, conte di Rossillion, sua madre, la Contessa, Elena e lord Lafew, tutti vestiti di nero.
Contessa: Consegnare mio figlio al mondo è come dare nuovamente sepoltura al mio sposo.
Bertram: E nell'andare, signora, piango nuovamente la morte di mio padre; ma devo obbedienza al comando di sua maestà; di cui sono pupillo ora e sarò sempre suddito.
[William Shakespeare, Tutto è bene quel che finisce bene, traduzione di Nicoletta Rosati Bizzotto, Newton Compton, 1990]
Mentre, con purpureo volto, il sole dava
l'estremo addio all'aurora lacrimosa,
Adone dalle rosee guance si affrettava alla caccia.
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