Alessandro Francesco Tommaso Manzoni (1785 – 1873), scrittore e poeta italiano.
Alzarsi ogni mattina colle immagini vive del giorno innanzi davanti alla mente, scendere nello studio, tirar fuori dal cassetto dello scrittorio qualcuno di quei soliti personaggi[de I promessi sposi], disporli davanti a me come tanti burattini, osservarne le mosse, ascoltarne i discorsi, poi mettere in carta e rileggere, era per me un godimento così vivo come quello di una curiosità soddisfatta.[fonte 1]
Come un forte inebriato | Il Signor si risvegliò.[fonte 2]
Dormi, o Celeste; i popoli | Chi nato sia non sanno.[fonte 3]
Essere iniquo con tutti non è concesso a nessuno [...].[fonte 4]
Gli spiriti aridi e stretti non le risguardano che come un giuoco d'immaginazione, dicendo che le similitudini non sono ragioni; anzi è il contrario; quando esse son giuste contribuiscono ad esprimere le analogie fra gli esseri, per quanto appaiono dissomiglianti; sono la rivelazione e l'espressione delle grandi armonie dell'universo, e quanto più i confronti risguardano oggetti disparati fra loro, tanto più esprimono relazioni elevate, poiché queste relazioni hanno la loro origine in una sfera tanto più elevata, quanto più si allargano sopra una vasta estensione.[fonte 6]
Il pittore di ritratti è come lo scrivano, obbligato a copiare l'altrui scritto, senza poterlo correggere quando è sbagliato.[fonte 7]
Il principio, di necessità tanto più indeterminato quanto più esteso mi sembra poter essere questo: che la poesia e la letteratura in genere debba proporsi l'utile per iscopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo.[1][fonte 8]
[Lecco] La giacitura della riviera, i contorni, e le viste lontane tutto concorre a renderlo un paese che chiamerei uno dei più belli del mondo, se avendovi passata una gran parte della infanzia e della puerizia, e le vacanze autunnali della prima giovinezza, non riflettessi che è impossibile dare un giudizio spassionato dei paesi a cui sono associate le memorie di quegli anni.[fonte 9]
Per tutta Italia si scrive e si parla una lingua comune. E quegli stessi che ne fanno questione e ricerca, come lo fanno di grazia? Scrivendo in questa lingua medesima. Non è questo un imitar quel valent'uomo che girava affannato sulla sua cavalcatura in traccia appunto di essa? O quell'altro che s'era fatto portare il lume per vederci a battere il fuoco?[fonte 11]
Più si considera, più si studia un'azione storica suscettibile d'essere resa drammaticamente, e più si scoprono legami tra le sue diverse parti, più si coglie nel suo insieme una ragione semplice e profonda. Vi si distingue infine un carattere particolare, direi quasi individuale, qualche cosa di esclusivo e di proprio, che la rende quale essa è. Si sente sempre più che occorrevano tali costumi, tali istituzioni, tali circostanze per condurre ad un tale risultato, e tali caratteri per produrre tali atti; che occorreva che le passioni che vediamo in gioco, e le imprese in cui le vediamo impegnate, si succedessero nell'ordine e nei limiti che ci sono dati come l'ordine e i limiti di quelle stesse imprese. Donde viene l'attrazione che noi proviamo a considerare una tale azione? perché la troviamo non soltanto verisimile, ma interessante? Il fatto è che noi ne scorgiamo le cause reali; il fatto è che noi seguiamo, allo stesso passo, il cammino dello spirito umano e quello degli avvenimenti particolari presenti alla nostra immaginazione. Noi scopriamo, in una serie data di fatti, una parte della nostra natura e del nostro destino: finiamo per dire dentro di noi: In tali circostanze, mediante simili mezzi, con simili uomini, le cose dovevano accadere così.[fonte 12]
Quando esce in campo una dizione nuova, strana, la qual non pretenda se non fare il medesimo uffizio che già è fatto da un'altra, convien ributtarla, soffocarla, non lasciarla allignare, se si può [...] Poiché ella viene a mettere in forse il certo, a intorbidare il chiaro, a render difficile ciò che non era, a metter contrasto dov'era consenso...[fonte 13]
[...] quella cieca | famosa falce, che trovò l'acuto | Gallico ingegno, onde accorciar con arte | la troppo lunga in pria strada di Lete.[fonte 14]
Salve, o Divino a cui largì natura | il cor di Dante e nel suo Duca il canto: | Questo fia il grido dell'età ventura, | Ma l'età che fu tua tel dice il canto.[fonte 15]
[...] Sigismondo Boldoni scrittore riputatissimo ai suoi tempi, e che forse avrebbe acquistato un nome più esteso e più autorevole anche presso ai posteri se non fosse morto all'uscire della giovinezza, e sopra tutto se quei pochi anni gli avesse vissuti in un secolo, in cui fosse stato possibile concepire nuove idee d'una precisione e d'una importanza perpetua, e per esporle, trovare quello stile che vive.[fonte 16]
Sì, quel Dio che nell'onda vermiglia | chiuse il rio che inseguiva Israele, | quel che in pugno alla maschia Giaele | pose il maglio, ed il colpo guidò.[fonte 17]
Soffermati sull'arida sponda, | vòlti i guardi al varcato Ticino, | tutti assorti nel novo destino, | certi in cor dell'antica virtù, | han giurato: Non fia che quest'onda | scorra più tra due rive straniere: | non fia loco ove sorgan barriere | tra l'Italia e l'Italia, mai più![fonte 17]
Trovo la cosa la più inutile la diplomazia. Gli ambasciatori non sono che spie messe a origliare nelle anticamere di quelle potenze che si chiamano amiche.[fonte 18]
Urania al suo diletto | Pindaro li cantò. Perché di tanto | Degnò la Dea l'alto poeta e come, | Dirò da prima; indi i celesti accenti | Ricorderò, se amica ella m'ispira.[fonte 19]
O mio re Desiderio, e tu del regno Nobil collega, Adelchi; il doloroso Ed alto ufizio che alla nostra fede Commetteste, è fornito. All'arduo muro Che Val di Susa chiude, e dalla franca La longobarda signoria divide, Come imponeste, noi ristemmo; ed ivi, Tra le franche donzelle, e gli scudieri, Giunse la nobilissima Ermengarda; E da lor mi divise, ed alla nostra Fida scorta si pose. I riverenti Lunghi commiati del corteggio, e il pianto Mal trattenuto in ogni ciglio, aperto mostrar che degni eran color d'averla Sempre a regina, e che de' Franchi stessi Complice alcuno in suo pensier non era Del vil rifiuto del suo re; che vinti Tutti i cori ella avea, trattone un solo. Compimmo il resto della via. Nel bosco Che intorno al vallo occidental si stende, La real donna or posa: io la precorsi, L'annunzio ad arrecar.
Citazioni
Il forte si mesce col vinto nemico, | col nuovo signore rimane l'antico; | l'un popolo e l'altro sul collo vi sta. | Dividono i servi, dividon gli armenti; | si posano insieme sui campi cruenti | d'un volgo disperso che nome non ha. (coro: atto III, vv. 61-66)
Gli estinti, Ansberga, | talor de' vivi son più forti assai. (Ermengarda: atto IV, scena I, vv. 111-2)
Amor tremendo è il mio. | Tu nol conosci ancora; oh! tutto ancora | non tel mostrai; tu eri mio: secura | nel mio gaudio io tacea; né tutta mai | questo labbro pudico osato avria | dirti l'ebbrezza del mio cor segreto. (Ermengarda: atto IV, scena I, vv. 148-153)
Sparsa le trecce morbide | Sull'affannoso petto, | Lenta le palme, e rorida | Di morte il bianco aspetto, | Giace la pia, col tremolo | Sguardo cercando il ciel. (coro: atto IV, scena I)
Come rugiada al cespite | Dell'erba inaridita, | Fresca negli arsi calami | Fa rifluir la vita. (coro: atto IV)
Gran segreto è la vita, e nol comprende | che l'ora estrema. (atto V, scena VIII, vv. 342-3)
Godi che re non sei, godi che chiusa | all'oprar t'è ogni via: loco a gentile, | ad innocente opra non v'è: non resta | che far torto, o patirlo. Una feroce | forza il mondo possiede, e fa nomarsi | dritto: la man degli avi insanguinata | seminò l'ingiustizia; i padri l'hanno | coltivata col sangue; e ormai la terra | altra messe non dà. (atto V, scena VIII, vv. 351-9)
Le vie di Dio son molte, | Più assai di quelle del mortal.
Quella via, | Su cui ci pose il ciel, correrla intera | Convien, qual ch'ella sia, fino all'estremo.
Il mio cor m'ange, Anfrido: ei mi comanda | alte e nobili cose; e la fortuna | mi condanna ad inique
Citazioni su Adelchi
Ho per le mani un soggetto di tragedia al quale desidero dedicarmi senza indugio per terminarlo nell'inverno, se posso... è la caduta del Regno dei Longobardi, o per dir meglio della dinastia longobarda, e la sua estinzione nella persona d'Adelchi ultimo re con Desiderio suo padre. (Manzoni in una lettera a Claude Fauriel, 17 ottobre 1820)
Ella vede come son condotte senza alcun riguardo agli effetti; agli usi, al comodo della scena: molteplicità di personaggi, lunghezza spropositata, parlate inumane pei polmoni, e ancor più per gli orecchi, variazione e slegamento, pochissimo di quel che s'intende comunemente per azione, e un procedere di questa lento, obliquo, a sbalzi; tutto ciò insomma che può rendere diffìcile e odiosa la rappresentazione, v'è riunito come a bello studio. (Manzoni ad Attilio Zuccagni-Orlandini, regio censore degli spettacoli a Firenze, aprile 1828)
Adelchi una Musa ce l'ha, perché sembra che sia Dio a soffiargli nelle orecchie e nel cuore titanismo e passione.[fonte 20] (Carmelo Bene)
Il romanzo storico va soggetto a due critiche diverse, anzi direttamente opposte; e siccome esse riguardano, non già qualcosa d'accessorio, ma l'essenza stessa d'un tal componimento; così l'esporle e l'esaminarle ci pare una bona, se non la migliore maniera d'entrare, senza preamboli, nel vivo dell'argomento.
Alcuni dunque si lamentano che, in questo o in quel romanzo storico, in questa o in quella parte d'un romanzo storico, il vero positivo non sia ben distinto dalle cose inventate, e che venga, per conseguenza, a mancare uno degli effetti principalissimi d'un tal componimento, come è quello di dare una rappresentazione vera della storia.
Citazioni
L'arte è arte in quanto produce, non un effetto qualunque, ma un effetto definitivo. E, intesa in questo senso, è non solo sensata, ma profonda quella sentenza, che il vero solo è bello; giacché il verosimile (materia dell'arte) manifestato e appreso come verosimile, è un vero, diverso bensì, anzi diversissimo dal reale, ma un vero veduto dalla mente per sempre o, per parlar con più precisione, irrevocabilmente: è un oggetto che può bensì esserle trafugato dalla dimenticanza, ma che non può esser distrutto dal disinganno. (I; p. 7)
Non sarà fuor di proposito l'osservare che, anche del verosimile la storia si può qualche volta servire, e senza inconveniente, perché lo fa nella buona maniera, cioè esponendolo nella sua forma propria, e distinguendolo così dal reale. E lo può fare senza che ne sia offesa l'unità del racconto, per la ragione semplicissima che quel verosimile non entra a farne parte. (I; p. 9)
È una parte della miseria dell'uomo il non poter conoscere se non qualcosa di ciò che è stato, anche nel suo piccolo mondo; ed è una parte della sua nobiltà e della sua forza il poter congetturare al di là di quello che può sapere. La storia, quando ricorre al verosimile, non fa altro che secondare o eccitare una tale tendenza. Smette allora, per un momento, di raccontare, perché il racconto non è, in quel caso, l'istrumento bono, e adopra in vece quello dell'induzione: e in questa maniera, facendo ciò che è richiesto dalla diversa ragione delle cose, viene anche a fare ciò che conviene al suo novo intento. (I; p. 9)
Il verosimile,cessando di parer vero, poteva manifestare e esercitar liberamente la sua propria e magnifica virtù, poiché non veniva a incontrarsi in un medesimo campo col vero, il quale, o volere o non volere, ha anch'esso una sua ragione e una sua virtù propria e che opera indipendentemente da ogni convenzione in contrario. (I; p. 15)
Non sempre ciò che vien dopo è progresso. (II; p. 29)
Nel romanzo storico, il soggetto principale è tutto dell'autore, tutto poetico, perché meramente verosimile. E l'intento e lo studio dell'autore è di rendere, per quanto può, e il soggetto, e tutta l'azione, tanto verosimile relativamente al tempo in cui è finta, che fosse potuta parer tale agli uomini di quel tempo, se il romanzo fosse stato scritto per loro. (II; p. 34)
Non c'è il contrasto diretto tra il vero e il verosimile; e è senza dubbio un gran vantaggio; ma c'è ugualmente o la confusione dell'uno con l'altro, o la distinzione tra di essi. Anzi c'è, in proporzioni variabilissime, ma inevitabilmente, e confusione e distinzione, come s'è dimostrato, forse più del bisogno, nella prima parte di questo scritto. (II; pp. 34-35)
E difficile, in qualunque grado, vuol sempre dire possibile. (p. 373)
Il raziocinio è un lume che uno può accendere, quando vuole obbligar gli altri a vedere, e può soffiarci sopra, quando non vuol più veder lui. (p. 391)
Non basta aver che fare con degli avversari che abbiano torto: bisogna aver ragione. (p. 398)
Ei [Napoleone Bonaparte] fu. Siccome immobile, dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore orba di tanto spiro, così percossa, attonita la terra al nunzio sta,
muta pensando all'ultima ora dell'uom fatale; né sa quando una simile orma di piè mortale la sua cruenta polvere a calpestar verrà.
Tutto ei [Napoleone Bonaparte] provò: la gloria | maggior dopo il periglio | la fuga e la vittoria | la reggia e il tristo esiglio | due volte nella polvere | due volte sull'altar. | Ei si nomò: due secoli, | l'un contro l'altro armato, | sommessi a lui si volsero, | come aspettando il fato; | ei fe' silenzio, ed arbitro | s'assise in mezzo a lor. (vv. 43-54)
Sala del Senato, in Venezia. IL DOGE e SENATORI seduti.
Il Doge: È giunto il fin de' lunghi dubbi, è giunto,
nobiluomini, il dì che statuito
fu a risolver da voi. Su questa lega,
a cui Firenze con sì caldi preghi
incontro il Duca di Milan c'invita,
oggi il partito si porrà. Ma pria,
se alcuno è qui cui non sia noto ancora
che vile opra di tenebre e di sangue
sugli occhi nostri fu tentata, in questa
stessa Venezia, inviolato asilo
di giustizia e di pace, odami: al nostro
deliberar rileva assai che' alcuno
qui non l'ignori. Un fuoruscito al Conte
di Carmagnola insidiò la vita;
fallito è il colpo, e l'assassino è in ceppi.
Citazioni
Fortebraccio: Sì, la prudenza è la virtù dei vecchi: | ella cresce cogli anni, e tanto cresce | che alfin diventa... Pergola: Ebben, dite. Fortebraccio: Paura; | poi che volete ad ogni modo udirlo. (atto secondo, scena III; p. 232)
I fratelli hanno ucciso i fratelli: | Questa orrenda novella vi do. (coro: atto II)
S'ode a destra uno squillo di tromba; | A sinistra risponde uno squillo. (coro: atto II)
Ahi sventura! sventura! sventura! (coro: atto II)
Deh! vogli | la via segnarmi, onde toccar la cima | io possa, o far che, s'io cadrò su l'erta, | dicasi almen: su l'orma propria ei giace. (203-206)
Il santo Vero | Mai non tradir; né proferir mai verbo! Che plauda al vizio o la virtù derida.[fonte 23]
[Su Omero]Quel sommo | D'occhi cieco, e divin raggio di mente, | Che per la Grecia mendicò cantando.[fonte 24]
O tementi dell'ira ventura,
Cheti e gravi oggi al tempio moviamo,
Come gente che pensi a sventura,
Che improvviso s'intese annunziar.
Non s'aspetti di squilla il richiamo;
Nol concede il mestissimo rito:
Qual di donna che piange il marito,
È la veste del vedovo altar.
Citazioni
S'ode un carme: l'intento Isaia | Proferì questo sacro lamento, | In quel dì che un divino spavento | Gli affannava il fatidico cor.
[Gesù]Egli è il Giusto, che i vili han trafitto, | Ma tacente, ma senza tenzone; | Egli è il Giusto; e di tutti il delitto | Il Signor sul suo capo versò.
Disse Iddio: Qual chiedete sarà. | E quel Sangue dai padri imprecato | Sulla misera prole ancor cade, | Che, mutata d'etade in etade, | Scosso ancor dal suo capo non l'ha.
E tu, Madre, che immota vedesti
Un tal Figlio morir sulla croce,
Per noi prega, o regina de' mesti,
Che il possiamo in sua gloria veder;
Che i dolori, onde il secolo atroce
Fa de' buoni più tristo l'esiglio,
Misti al santo patir del tuo Figlio,
Ci sian pegno d'eterno goder.
Madre de' Santi, immagine | Della città superna, | Del sangue incorruttibile | Conservatrice eterna; | Tu che, da tanti secoli, | Soffri, combatti e preghi, | Che le tue tende spieghi | Dall'uno all'altro mar; || Campo di quei che sperano; | Chiesa del Dio vivente, [...]. (vv. 1-10)
Perché, baciando i pargoli, | La schiava ancor sospira? | E il sen che nutre i liberi | Invidïando mira? | Non sa che al regno i miseri | Seco il Signor solleva? | Che a tutti i figli d'Eva | Nel suo dolor pensò? (vv. 65-72)
Doni con volto amico, | Con quel tacer pudico, | Che accetto il don ti fa. (vv. 126-128)
È un giudizio della più rea e stolta temerità l'affermare d'alcun uomo vivente, che non lo sia, l'escluderne uno solo dalla speranza nelle ricchezze delle misericordie di Dio.
La maldicenza rende peggiore chi parla e chi ascolta, e per lo più anche chi n'è l'oggetto.[2]
Il dubbio parziale e accidentale limita la scienza: il dubbio universale e necessario la nega. (appendice al cap. III)
Il vero male per l'uomo non è quello che soffre, ma quello che fa. (cap. III)
La modestia è una delle più amabili doti dell'uomo superiore: si osserva comunemente che essa cresce a misura della superiorità: e questa si spiega benissimo con le idee della religione. La superiorità non è altro che un grande avanzamento nella cognizione e nell'amore del vero: la prima rende l'uomo umile, e il secondo lo rende modesto. (da Sulla modestia e sulla umiltà, cap. XVII)
Questo scritto è destinato a difendere la morale della Chiesa cattolica dalle accuse che le sono state fatte nel capitolo CXXVII della Storia delle Repubbliche italiane del Medio Evo.[3] In un luogo di quel capitolo s'intende di provare che questa morale è una cagione di corruttela per l'Italia. Io sono convinto che essa è la sola morale santa e ragionata in ogni sua parte; che ogni corruttela viene anzi dal trasgredirla, dal non conoscerla, o dall'interpretarla alla rovescia; che è impossibile trovare contro di essa un argomento valido.[4]
Le ingiurie hanno un gran vantaggio sui ragionamenti, ed è quello di essere ammesse senza prova da una moltitudine di lettori. (V, 2)
Uno dei tormenti degli uomini d'ingegno è che quando una verità è stata detta essi prevedono che finirà a prevalere, e intanto devono assistere alla lunga nojosa insopportabile guerra che le si fa, devono vedere la maraviglia e le risa di coloro che la trattano da paradosso. La cosa va per lo più tanto in lungo che quella verità stessa, se non è della più alta importanza, a forza di essere ripetuta nella questione, finisce ad annojare. (IX, 2)
[...] una guerra difensiva di chi ha ragione è buona; ma non può esistere se non colla condizione d'una guerra ingiusta; non si può applicare ad entrambe la qualificazione buono. (XII)
Bisogna cominciare a dire (per quanto si può staccar cosa da cosa) le verità che non urtino di fronte le opinioni false predominanti: dirne molte molte di queste verità: il criterio si muta, le disposizioni intellettuali si mutano, e gli elementi di comparazione e di giudizio si moltiplicano nell'universale, e si arriva a segno che quelli ai quali una verità tale detta tempo innanzi avrebbe mossa una indegnazione irriflessiva, irrazionale, la ricevono con gioia, e par loro che l'avrebbero trovata, fors'anche che già la conoscevano. (XVII, 2)
La mattina del 21 di giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi, per disgrazia, a una finestra d'un cavalcavia che allora c'era sul principio di via della Vetra de' Cittadini, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese (quasi dirimpetto alle colonne di san Lorenzo), vide venire un uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi, e una carta in mano, sopra la quale, dice costei nella sua deposizione, metteva su le mani, che pareua che scrivesse. Le diede nell'occhio che, entrando nella strada, si fece appresso alla muraglia delle case, che è subito dopo voltato il cantone, e che a luogo a luogo tiraua con le mani dietro al muro. All'hora, soggiunge, mi viene in pensiero se a caso fosse un poco uno de quelli che, a' giorni passati, andauano ongendo le muraglie. Presa da un tal sospetto, passò in un'altra stanza, che guardava lungo la strada, per tener d'occhio lo sconosciuto, che s'avanzava in quella; et viddi, dice, che teneua toccato la detta muraglia con le mani. (Incipit)
Citazioni
Ma la menzogna, l'abuso del potere, la violazion delle leggi e delle regole più note e ricevute, l'adoprar doppio peso e doppia misura, son cose che si posson riconoscere anche dagli uomini negli atti umani; e riconosciute, non si posson riferire ad altro che a passioni pervertitrici della volontà. (Introduzione; 1840, p. 751)
Ci par di vedere la natura umana spinta invincibilmente al male da cagioni indipendenti dal suo arbitrio, e come legata in un sogno perverso e affannoso, da cui non ha mezzo di riscotersi, di cui non può nemmeno accorgersi. (Introduzione; 1840, p. 752)
Noi, proponendo a lettori pazienti di fissar di nuovo lo sguardo sopra orrori già conosciuti, crediamo che non sarà senza un nuovo e non ignobile frutto, se lo sdegno e il ribrezzo che non si può non provarne ogni volta, si rivolgeranno anche, e principalmente, contro passioni che non si posson bandire, come falsi sistemi, né abolire, come cattive istituzioni, ma render meno potenti e meno funeste, col riconoscerle ne' loro effetti, e detestarle. (Introduzione; 1840, p. 752)
L'operar senza regole è il più faticoso e difficile mestiere di questo mondo. (cap. II; 1840, p. 765)
Non si lavora a fare e a ritagliar finimenti al cavallo che si vuol lasciar correre a suo capriccio; gli si leva la briglia, se l'ha. (cap. II; 1840, p. 768)
[...] è men male l'agitarsi nel dubbio, che il riposar nell'errore [...]. (cap. II; 1840, p. 774)
Non dico [...], per non affermar troppo più di quello che so; benché, dicendolo, non temerei d'affermar più di quello che è. (cap. II; 1840, p. 775)
Ciò ch'essi chiamavano arbitrio, era in somma la cosa stessa che, per iscansar quel vocabolo equivoco e di tristo suono, fu poi chiamata poter discrezionale: cosa pericolosa, ma inevitabile nell'applicazion delle leggi, e buone e cattive; e che i savi legislatori cercano, non di togliere, che sarebbe una chimera, ma di limitare ad alcune determinate e meno essenziali circostanze, e di restringere anche in quelle più che possono. (cap. II; 1840, p. 777)
Viene, nelle cose grandi, come nelle piccole, un momento in cui ciò che, essendo accidentale e fattizio, vuol perpetuarsi come naturale e necessario, è costretto a cedere all'esperienza, al ragionamento, alla sazietà, alla moda, a qualcosa di meno, se è possibile, secondo la qualità e l'importanza delle cose medesime; ma questo momento dev'esser preparato. (cap. III; 2001, p. 113)
E non paia strano di vedere un tribunale farsi seguace ed emulo d'una o di due donnicciole; giacché, quando s'è per la strada della passione, è naturale che i più ciechi guidino. Non paia strano il veder uomini i quali non dovevan essere, anzi non eran certamente di quelli che vogliono il male per il male, vederli, dico, violare così apertamente e crudelmente ogni diritto; giacché il credere ingiustamente, è strada a ingiustamente operare, fin dove l'ingiusta persuasione possa condurre; e se la coscienza esita, s'inquieta, avverte, le grida d'un pubblico hanno la funesta forza (in chi dimentica d'avere un altro giudice) di soffogare i rimorsi; anche d'impedirli. (cap. III; 2001, p. 120)
Spegnere il lume è un mezzo opportunissimo per non veder la cosa che non piace, ma non per veder quella che si desidera. (cap. IV; 2001, p. 147)
Ma il mantello dell'iniquità è corto; e non si può tirarlo per ricoprire una parte, senza scoprirne un'altra. (cap. IV; 1840, p. 819)
Così dal Sarpi, senza citarlo punto, prende il Giannone molti brani, e tutta l'orditura d'una sua digressione; come mi fu fatto osservare da una dotta e gentile persona. E chi sa quali altri furti non osservati di costui potrebbe scoprire chi ne facesse ricerca; ma quel tanto che abbiam veduto d'un tal prendere da altri scrittori, non dico la scelta e l'ordine de' fatti, non dico i giudizi, l'osservazioni, lo spirito, ma le pagine, i capitoli, i libri, è sicuramente, in un autor famoso e lodato, quel che si dice un fenomeno. Sia stata, o sterilità, o pigrizia di mente, fu certamente rara, come fu raro il coraggio; ma unica la felicità di restare, anche con tutto ciò (fin che resta), un grand'uomo. (cap. VII; 1840, pp. 861-862)
Sarebbe uno di que' casi tristi e non rari, in cui uomini tutt'altro che inclinati a mentire, volendo levar la forza a qualche errore pernicioso, e temendo di far peggio col combatterlo di fronte, hanno creduto bene di dir prima la bugia, per poter poi insinuare la verità. (cap. VII; 2001, p. 201)
Citazioni su Storia della colonna infame
Qualche anno dopo aver finito gli studi, mi capitò inopinatamente fra le mani una copia de La colonna infame. La lessi, ne rimasi incuriosito, colpito, addirittura turbato. Avvenne in me un risveglio di attenzione. Ma era possibile che quel baciapile di Manzoni avesse scritto quell'opera così profonda, che scandagliava l'animo umano nei suoi meandri più nascosti, che rappresentava la drammaticità e le contraddizioni dell'esistenza, con acutezza e sguardo critico? (Andrea Camilleri)
Lo scritto rappresenta come un fiume carsico che pervade tutta l'opera del Manzoni, con la sua essenzialità e la sua tragicità. (Andrea Camilleri)
La tua lettera mi reca una di quelle vive consolazioni, che il Signore serba talvolta, a quelli che ha più severamente visitati. Sì, mia Vittoria, il sentimento che hai dell'inneffabile grazia che ti prepari a ricevere, mi dà la soave fiducia che essa sarà per te un principio di grazie continue, di non interrotte benedizioni.
Citazioni
Chi ti ha dato il comando ti promette egli il soccorso.
Confida tanto più, quanto più ti senti debole, perché il Signore non manca a chi si conosce e prega.
Tacita un giorno a non so qual pendice
Salia d'un fabbro nazaren la sposa;
Salia non vista alla magion felice
D'una pregnante annosa;
E detto salve a lei, che in reverenti
Accoglienze onorò l'inaspettata,
Dio lodando, esclamò: Tutte le genti
mi chiameran beata.
O Vergine, o Signora, o Tuttasanta, | Che bei nomi ti serba ogni loquela! | Più d'un popol superbo esser si vanta | in tua gentil tutela. (vv. 37-40)
Tu pur, beata, un dì provasti il pianto; | Né il dì verrà che d'oblianza il copra; | Anco ogni giorno se ne parla; e tanto | Secol vi corse sopra. (vv. 57-60)
Deh! a Lei volgete finalmente i preghi,
Ch'Ella vi salvi, Ella che salva i suoi;
E non sia gente né tribù che neghi
Lieta cantar con noi:
Salve, o degnata del secondo nome,
O Rosa, O Stella ai periglianti scampo;
Inclita come il sol, terribil come
Oste schierata in campo.
Citazioni su Il nome di Maria
Maria è non solo la pietosa degli affanni altrui, ma anche la bella, la potente, la forte: però si ricorre a lei, sicuri d'essere validamente aiutati nelle avversità della vita e nella lotta contro il male e le passioni che più facilmente ci conducono a rovina. E ciò ci si dice non perché non sia chiarissima, ma perché della convenienza di questa chiusa altri, senza intenderne il vero, ha mostrato dubitare. (Alfonso Bertoldi)
Coronata di rose e di viole
Scendea di Giano a rinserrar le porte
La bella Pace pel cammin del sole,[5]
E le spade stringea d'aspre ritorte,
E cancellava con l'orme divine
I luridi vestigi de la morte;
E la canizie de le pigre brine
Scotean dal dorso, e de le verdi chiome
Si rivestian le valli e le colline;[6]
Quand'io fui tratto in parte, io non so come,[7]
Io non so con qual possa, o con quai piume,
Quasi sgravato da le terree some.
Alessandro Manzoni è considerato generalmente come un poeta calmo, sereno, d'una imperturbabile mitezza, come il poeta della pace e dell'armonia. [...]. Io oso affermare che Alessandro Manzoni è stato uno scrittore di combattimento, ed il suo spirito uno spirito audacemente novatore. La perfetta serenità della Musa manzoniana vela, sotto l'apparenza di una inalterata compostezza, l'ardimento del pensiero. (Gaetano Negri)
Alla modernità – all'illuminismo, alla Rivoluzione francese, alla scienza moderna e alla rivoluzione industriale – Manzoni contrappone la Provvidenza e il suo disegno imperscrutabile, che non può essere interrogato ma soltanto accettato; alla società atomizzata dei diritti individuali contrappone l'ordine gerarchico patriarcale; alla libertà di coscienza e di pensiero le virtù dell'obbedienza e della rassegnazione; al cittadino il suddito. (Fabrizio Rondolino)
Avvenne una volta ad Alessandro Manzoni, già vecchio, di trovarsi a passare per uno dei paesi che gli eruditi additano come l'originale di quello dei Promessi Sposi: Acquate, mi pare. Un contadino, mostrando a quell'ignoto forestiere le bellezze del villaggio, gli segnalò "la casa di Lucia". Interrogato, raccontò a modo suo la faccenda di Renzo e Lucia come fatto realmente accaduto molti anni avanti; non si sognava neppure di pensare che fosse un romanzo; ignorava l'esistenza di questo genere letterario; avrebbe per lo meno dato del matto a chi avesse voluto fargli credere che quella realtà era stata un'invenzione del vecchio forestiere. Qui lo straniamento dell'opera creata, dall'individuo creatore, era avvenuto in modo totale. Ma un primo grado di questo distacco si ha quando la conoscenza popolare, anche sapendo di aver a fare con un'opera di fantasia, dimentica il nome dell'autore. Ogni autore, se è saggio, deve desiderare con tutte le sue forze di essere in tal modo totalmente dimenticato come persona. (Massimo Bontempelli)
Il cristianesimo dell'autore spingeva a guardare verso il cielo, meno alla terra. La fede cristiana non aveva educato alla rassegnazione di fronte al gran gioco della storia? Manzoni non credeva alla forza delle rivolte. (Andrea Riccardi)
Il Leopardi e il Manzonidànno nome ciascuno a un capitolo della nostra storia letteraria contemporanea. Accadde in entrambi la medesima cosa: ebbero, cioè, l'uno e l'altro una conversione letteraria e una conversione filosofica. Nella prima tennero via parallela; nella seconda diametralmente opposta. Esordirono ambedue scrittori stranieri e mezzo infrancesati, e finirono schiettamente italiani e originali. L'uno, il Leopardi, cominciò con l'essere cristiano e non tardò quasi a divenire scettico: l'altro, il Manzoni, cominciò con l'essere scettico, o indifferente, e non tardò a divenire cristiano. (Clemente Benedettucci)
Il Manzoni, e qui sta l'essenza della sua azione, è un romantico che non si è fermato a mezzo, è un romantico che ha superato il romanticismo. Egli ha saputo portare alle estreme e logiche conseguenze la rivoluzione letteraria a cui aveva preso parte, e, se non in tutte, almeno nella più grande delle sue opere, ha studiato il mondo e la vita, quali a lui si presentavano nella realtà, portandoli direttamente così come li trovava, dal vero nel libro. (Gaetano Negri)
Il Manzoni, oltre che poeta sommo, fu anche poeta originalissimo. Pur tuttavia qualche cosa, specie per quel che riguarda la elocuzione e lo stile, derivò da' classici latini, primo di tutti Virgilio, l'opera del quale studiò con lungo amore, e la grandezza fece manifesta in pagine di critica davvero meravigliose. Per gl' Inni poi, e non solo per essi, molti sono i concetti che trasse dagli Evangeli e, più largamente, da' biblici scrittori. (Alfonso Bertoldi)
Il potere, in se stesso, comunque lo si pratichi, comunque lo si cerchi, è un male. È stato Manzoni il primo, limpido assertore che agire la storia, fare la storia e non subirla è comunque rendersi complice di un male, diventare corresponsabili di un orrore. (Cesare Garboli)
La conversione del Manzoni non mosse da uno stato anteriore di assoluta incredulità o di ateismo. Egli era stato educato e nutrito nella filosofia del secolo XVIII, e seguiva perciò quelle dottrine del Sensismo, che rappresentano la forma mentis del secolo: tutti, dal più al meno, con maggiore o minore intensità di colorito, chierici e laici, uomini così di scienza come di letteratura o di religione, furono allora sensisti: sensista era anche il padre Soave, il buon Barnabita, che fu maestro del Manzoni giovinetto. (Adolfo Faggi)
La disinvoltura linguistica del dialogo manzoniano cos'altro è se non il segno, la spia, di una religione indifferente alla realtà, alla realtà così com'è intesa dai romanzieri realisti? (Giorgio Bassani)
Manzoni gode con una virginale modestia un'anticipazione d'immortalità, e prossimo all'Olimpo dimentica la terra. (Giuseppe Guerzoni)
Nei Promessi sposi, il Manzoni fa mangiare a Renzo, Tonio e Gervaso, andati all'osteria poco prima del «matrimonio a sorpresa», un gran piatto di polpette. E quando la madre, Giulia Beccaria, gli domandò il perché di tale scelta, don Lisander rispose: «Cara mamma, mi avete fatto mangiare fin da bambino tante di quelle polpette, che ho ritenuto giusto farle assaggiare anche ai personaggi del mio romanzo». (Cesare Marchi)
Quando il Manzoni, definendo la nazione, scriveva Una d'armi di lingua d'altare di memorie di sangue di cor compiva un macroscopico esercizio retorico senza alcun fondamento nella realtà. (Eugenio Scalfari)
Alessandro Manzoni quando sentiva esaltare un libro domandava col suo fine sorriso canzonatore: lo rileggereste?
Com'è possibile accusare il Manzoni di pietismo (degenerazione della pietà religiosa) considerando la profonda tenerezza cristiana che irrora il cuore del poeta e gli strappa accenti giusti e soavi e potenti insieme?
Il Manzoni vicino a Ugo Foscolo sembra un asceta a fianco di Lucifero; ma quanto più ribelle e più rivoluzionario nell'arte! Il Manzoni abbatté la statua della retorica, per riporvi quella della verità; e rinnovò il romanzo, rinnovò la tragedia, rinnovò l'ode, rinnovò la prosa.
Aveva paura del dentista; epperò, quando aveva bisogno dell'opera sua, si faceva mettere a posto la chiave da lui, e si cavava il dente da sé.
Dimostrossi il Manzoni precocemente avverso al matrimonio. A nove anni, trovandosi a un pranzo di gala, gli accadde di versare il bicchiere sulla tavola. «Sarete il primo maritato» — gridarono i commensali; e il fanciullo, alzando le manine in atto d'orrore: «me lo sono meritato!».
Fanciullo «impressionabile,» ancora negli ultimi suoi anni conservava vivo nella fantasia il lugubre quadro dei Francesi che aveva veduto battere in ritirata davanti agli Austriaci. Nel collegio di Merate alcuni de' suoi compagni congiurarono contro di lui; altri in suo favore. Di ciò gli rimase per tutta la vita un sentimento d'antipatia per le combriccole, le congreghe, le consorterie, le società segrete.
Il Manzoni possedeva in alto grado quella ch'egli chiama «la virtù dei vecchi» cioè la prudenza. Qualche atto anzi della sua carriera – p. es. l'aver aspettato a pubblicare l'ode Marzo 1821 fino al 1848 farebbe pensare, secondo qualche critico, al seguito della citazione:
Ella cresce con gli anni, e tanto cresce Che alfin diventa... paura
e parrebbe illustrare quel suo sonetto giovanile (1801), in cui si chiama «non audace.»
Vecchio cadente, ben sentendo come il corpo e l'intelletto fossero esauriti, andava ripetendo agli amici: «Rido di me, piangendo».
Convulsionario era anche Degola: e questo, probabilmente, creò fra Manzoni e Degola una reciproca comprensione.
Enrichetta e Alessandro Manzoni si sposarono a Milano nel febbraio del 1808. Si sposarono con il rito calvinista. Per sposarsi con il rito cattolico, egli avrebbe dovuto chiedere la dispensa, essendo lei di religione diversa nonostante il battesimo. Ma aveva fretta e quella dispensa trascurò di chiederla. Scrisse a Fauriel che i preti si erano rifiutati di celebrare il suo matrimonio a causa della differenza di culto.
I disegni di Hayez non parvero soddisfacenti. Fu chiamato il francese Boulanger. Nemmeno di disegni di Boulanger furono giudicati con favore. Poi d'Azeglio venne con un certo pittore Gonin. I disegni di Gonin, Manzoni li trovò bellissimi. Egli iniziò a scrivere a Gonin quasi giornalmente. «Mio caro Gonin». Furono fatti venire da Parigi degli incisori. Fu messa in piedi una piccola tipografia in via San Pietro dell'Orto.
La storia è un "immenso pelago di errori". La denuncia veniva dall'illuminismo giuridico. E da Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, in particolare. Tutti gli errori, Manzoni compendia nella storia morale e politica del Seicento: l'incertezza del diritto, la legislazione eccessivamente proliferante che a colpi di gride sopporta l'arbitrio dei potenti e la manipolazione dei causidici, l'impunità organizzata delle classi e delle consorterie (e persino della Chiesa), la cultura economica irresponsabile e monopolistica (che blocca la libera concorrenza e impone la demagogia del prezzo politico), la persecuzione dell'onestà disarmata. Il romanzo di Manzoni aggredisce l'errore nei suoi punti di perversione. Con sdegno, senz'altro. Ma anche con compassione: "[...] la morale cattolica rimuove le cagioni che rendono difficile l'adempimento di questi due doveri, odio all'errore, amore agli uomini".
Ma don Lisander non era tipo da cedere e assecondare senza una sua convinzione. Nel progetto della moglie e del figliastro, lo allettava il proposito di un ritratto "conversato". Il quadro di Hayez (oltre che far coppia con quello della seconda moglie) doveva infatti risultare in dialogo correttivo con l'immagine che dello scrittore in piedi sullo sfondo del lago di Como, nell'atto di stringere un libro e di guardare in alto assorto, un decennio prima avevano fissato su tela il Molteni e il d'Azeglio: «Non vollero ch'ei fosse ritratto con un libro in mano né coll'aria ispirata (come se non si fosse saputo ch'ei sapeva leggere e scrivere e ch'era un poeta ispirato), ma coll'aria calma di chi ascolta per poi parlare», precisava memorando il solito Stefano Stampa. Per donna Teresa e per il figliastro, quindi, la tabacchiera doveva stare al posto del libro. Però il sorriso dissimulato del Manzoni secondo Hayez, sembra dire altro a proposito dell'utensile.
Manzoni aveva un deficiente senso degli affari. S'era convinto di riuscire a scoraggiare le contraffazioni e le speculazioni degli editori, con la proposta di un'edizione illustrata del romanzo che fosse di difficile riproduzione. Ci rimise gran parte del patrimonio. In compenso si concesse un'originalissima ristrutturazione testuale dell'opera. Si occupò dell'impaginazione tipografica. Decise la sceneggiatura illustrativa. Dettò le vignette ai disegnatori, e le corresse. I soggetti «furono tutti scelti e fissati da lui», scrisse l'illustratore Gonin a Stefano Stampa, in una lettera del 9 marzo 1885: «dovendosi intercalare nel testo, ebbe la pazienza di calcolare quante righe occuperebbe quel tal disegno onde capitasse nella pagina dove c'era il fatto, e scelto il bosso della dovuta grandezza lo avvolgeva in carta bianca sulla quale scriveva il testo del soggetto, pagina tale, cosicché il disegnatore trovavasi fissata grandezza e soggetto».
↑ Questa lettera fu pubblicata inizialmente nel 1846 senza il consenso di Manzoni; nel 1870 fu ripubblicata dall'autore, con varie modifiche al testo. La citazione in questione venne rimossa.
↑ Cfr. Cesare Cantù, Attenzione!: «La maldicenza rende peggiore chi la usa, chi la ascolta, e talora anche chi n'è l'oggetto».
↑ Storia delle Repubbliche italiane del Medio Evo, opera (1807 - 1809) del calvinista ginevrino Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi
↑ Carlo Romussi scrive in nota: "La pace di Luneville firmata a' 9 febbrajo 1801. L'imagine del più puro classicismo rivela nel giovinetto lo studioso delle costumanze dell'antica Roma, dove, terminata una guerra, si chiudevano le porte del tempio di Giano".
↑ Carlo Romussi riporta in nota: "Cominciava allora la primavera, che viene descritta ad imitazione di Orazio nella famosa ode a Torquato. Scrivendo nella primavera del 1801, Manzoni contava sedici anni, essendo nato ai 7 marzo 1785".
↑ Carlo Romussi scrive in nota: "Imita Dante nell'ignorare il modo col quale fu trasportato dove vide la gran luce: «I' non so ben ridir com' io v'entrai»".
↑ Da La resurrezione; citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, p. 487.
↑ Da Il Natale; citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, p. 564.
↑ Da D'una opinione moderna sulla bontà morale de' Longobardi, in Opere varie, Fratelli Rechiedei, Milano, 1881, p. 161.
↑ Citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, p. 599.
↑ Citato in Philippe Ernest Marquis de Beauffort, Un pellegrinaggio in Italia, vol. 1, traduzione di Ignazio Cantù, Francesco Sanvito, Milano, 1857, pp. 60-61.
↑ Dalla Lettera sul romanticismo a Cesare D'Azeglio, 22 settembre 1823.
↑ Da Il principio del Romanzo nella prima minuta, in Brani inediti dei Promessi Sposi, a cura di Giovanni Sforza, Ulrico Hoepli, Milano, 1905, p. 552.
↑ Da Il proclama di Rimini; citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, p. 377.
↑ Da Opere inedite o rare, a cura di R. Bonghi, Milano,1891, vol. IV, pp. 40-43; citato in Denis Mack Smith, Il Risorgimento italiano. Storia e testi, Gius. Laterza & Figli, 1968, edizione Club del Libro, 1981, p. 66.
↑ Dalla Lettera a M. Chauvet, traduzione di Guido Baldi; citato in Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Paravia, Torino, 2002. ISBN 88-395-3074-6.
↑ Da Sentir messa, introduzione e appendici critiche di Domenico Bulferetti, Bottega di Poesia, Milano, 1923, p. 52.
↑ Da Sermone I: A Gio.batta Pagani, in Tutte le poesie, 1797-1872, a cura di Gilberto Lonardi e Paola Azzolini, Marsilio, Venezia, 1992.
↑ In epigrafe a Poesie di Vincenzo Monti, tip. B. Virzì, Palermo, 1855.
Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame, illustrazioni di Francesco Gonin, introduzione di Franco Cordero, premessa al testo, bibliografia e note di Gianmarco Gaspari, I grandi classici della letteratura italiana, Fabbri, Milano, 2001.
Questa è una voce in vetrina, il che significa che è stata identificata come una delle migliori voci prodotte dalla comunità. È stata riconosciuta come tale il giorno 15 ottobre 2005. Naturalmente sono ben accetti suggerimenti e modifiche che migliorino ulteriormente il lavoro svolto.