Il sistema rappresentativo affida alla massa degli elettori la operazione più difficile e delicata che l'uomo possa fare, ed è la scelta di un altro uomo: il buon senso, e talvolta il senso comune, possono bastare per conoscere il pro e il contro di un determinato affare, di una questione oggettiva semplice e chiara; ma nè il senso comune, nè il buon senso possono bastare per conoscere un uomo, per conoscerne il carattere e l'ingegno; è per questo che le masse nelle elezioni sono troppo spesso ingannate dagli abili e dagli audaci, e finiscono molte volte ad essere rappresentate da chi punto non le rappresenta.[1]
[...] egli [Otto von Bismarck] non ammetteva nello Stato, che due elementi, il re ed il popolo. Dobbiamo aggiungerne un terzo, l'armata. Re, armata, popolo, ecco la trinità del sistema bismarckiano. L'armata, si capisce, potrà servire alla occorrenza, per far intendere ragione al popolo, quando questi non voglia saperne dei benefici del Re. (p. 143)
Soldato ammirabile di audacia e di fermezza, il Marbot univa alla passione e alla conoscenza del suo mestiere, un ingegno superiore, un cuore generoso, un giudizio retto e temperato così che il lettore [delle sue Memorie][2] sente di aver in lui una guida del tutto sicura. I grandiosi avvenimenti ai quali egli ci fa assistere, commentati da lui, si rischiarano di nuova luce. Se dovessi dir tutto l'animo mio, io aggiungerei che gli uomini e le cose delle guerre napoleoniche non si sono mai rivelati con tanta chiarezza come nei semplici ricordi di questo soldato che non faceva che notare quello ch'egli aveva veduto. (p. 169)
[...] quel che ha reso, per tanti anni, invincibile l'esercito francese è che esso era un corpo vivente, tutto fremente di gioventù; gli eserciti austriaci, prussiani e russi erano corpi decrepiti e pressoché mummificati. La rivoluzione era stata un'onda terribile che aveva sconvolta la società francese, portando alla superficie tutto il fondo melmoso. Ma, insieme, eran venuti a galla pur molti elementi preziosi, che, senza quello sconvolgimento, sarebbero rimasti ignorati nell'oscurità natia. (pp. 175-176)
Un altro fenomeno interessante e che, nella narrazione del Marbot, si tocca con mano, è quello del fascino irresistibile che Napoleone esercitava sui suoi soldati. Egli li trascinava d'impresa in impresa, di guerra in guerra, di battaglia in battaglia, esigeva continui, spaventosi sacrifici, sforzi immani, fatiche esaurienti. Il freddo, il sole, la fame, gli stenti non erano mai per lui ostacoli insuperabili; egli era immensamente prodigo della vita umana; ognuno dei suoi soldati poteva credersi un condannato a morte, eppure la devozione del soldato per Napoleone non aveva confine. L'imperatore era per l'esercito un dio. Bastava ch'egli si mostrasse, ed ecco un soffio d'eroismo sollevava tutti i cuori, e tutti, dal fantaccino al maresciallo, correvano alla morte col grido di – Viva l'imperatore! – (pp. 177-178)
Il Busch è propriamente un adoratore del principe di Bismarck. Nulla che lo riguardi gli sembra indegno di nota. Ogni avvenimento, ogni parola del suo eroe, è da lui narrato e riferita con cura gelosa, con ammirazione instancabile ed insistente. Egli ce lo mostra nelle assemblee e sui campi di battaglia; lo segue in villa e lo accompagna a pranzo; ci narra ciò che dice ed anche ciò che mangia; analizza i suoi consigli e le sue mosse, ed anche il modo con cui amministra le sue terre; ci addita i suoi amici ed anche i suoi cani prediletti; racconta le sue poco edificanti scappate e prepotenze giovanili. Infine ci offre un insieme di cose bizzarro e curioso all'estremo; una miscela eterogenea di notizie e di fatti, da cui, è innegabile, esce fuori viva e parlante la figura di uno degli uomini più complessi e più originali del secolo nostro. (seconda edizione, 1905, p. 317)
[...] il Bismarck è un uomo il quale non vede che lo Stato e, nello Stato, non vede che il Re ed il popolo. Tutti i meccanismi che si frappongono fra questi due estremi, non servono che ad indebolire la loro reciproca azione. (seconda edizione, 1905, p. 320)
La battaglia che, con grande inesattezza, si dice di Abba Garima [battaglia di Adua] fu l'episodio più doloroso e più funesto che abbia afflitto la risorta Italia nel primo quarantennio della sua nuova esistenza; doloroso, per lo spreco di tante migliaia di vite preziose, funesto per le conseguenze indirette che ne derivarono. Ho detto conseguenze indirette, poiché, assai più che per l'effetto immediato che ebbe sulle sorti dei nostri possedimenti africani, quell'avvenimento sciagurato è stato funesto pel contraccolpo portato alle disposizioni ed alla consistenza dello spirito italiano. (seconda edizione, 1905, p. 395)
Il genio di Leonardo era troppo personale e troppo inerente ad un dato momento storico perché potesse trasmettersi in una tradizione duratura. Il Rinascimento e Leonardo si spensero insieme. (p. 9)
Alessandro Manzoni è considerato generalmente come un poeta calmo, sereno, d'una imperturbabile mitezza, come il poeta della pace e dell'armonia. [...]. Io oso affermare che Alessandro Manzoni è stato uno scrittore di combattimento, ed il suo spirito uno spirito audacemente novatore. La perfetta serenità della Musa manzoniana vela, sotto l'apparenza di una inalterata compostezza, l'ardimento del pensiero. (p. 48)
[...] il Manzoni, e qui sta l'essenza della sua azione, è un romantico che non si è fermato a mezzo, è un romantico che ha superato il romanticismo. Egli ha saputo portare alle estreme e logiche conseguenze la rivoluzione letteraria a cui aveva preso parte, e, se non in tutte, almeno nella più grande delle sue opere, ha studiato il mondo e la vita, quali a lui si presentavano nella realtà, portandoli direttamente così come li trovava, dal vero nel libro. (p. 50)
Il Cristianesimo, nella sua intima essenza, è un sistema di filosofia pessimista nella valutazione del presente, ma è un sistema per eccellenza ottimista nel presentimento del futuro; è da questa sua duplice natura che viene quella corrente così larga di rassegnazione e di speranza che, da tanti secoli, consola l'umanità. (p. 100)
La prima ed essenziale condizione di un'incredulità pensata, forte, sicura di sé stessa, è quella di avere per precedente una fede profondamente sentita ed amata. Colui che non ha creduto fortemente sarà un incredulo superficiale, leggero, il quale non sente il valore delle proprie negazioni. (p. 108)
L'incredulità è rispettabile e religiosa, nel senso più profondo della parola, quando è il frutto di un pensiero, il quale, conoscendo a fondo l'oggetto a cui rinuncia, è perfettamente consapevole della propria azione, delle sue cause e delle sue conseguenze; quando è la manifestazione della sincerità di un animo che non sa vivere in ciò che per lui è un errore. (pp. 108-109)
[Ernest Renan] Egli era assetato d'ideale; ogni occupazione che non fosse quella dello spirito, ogni cura che lo dovesse costringere al maneggio degli interessi materiali, gli sarebbe riuscita intollerabile. A lui non si apriva che l'esercizio della scienza o l'esercizio della religione. La scienza, nelle condizioni di spirito e d'ambiente in cui cresceva, non poteva che essergli estranea; non restava che la carriera ecclesiastica, ed egli ci si sentiva attirato da una vera e potente predestinazione. (p. 111)
Non bisogna confondere l'egoismo, che è quella passione che non tien conto del mondo se non in quanto può servire agli scopi dell'io, coll'individualismo che è quell'istinto che spinge l'individuo a prendere nel mondo quel posto che compete alle sue facoltà. (da Le previsioni del socialismo, p. 275)
L'ultima delle scoperte fatte in Mesopotamia, e certo fra le più importanti, è quella di una vetusta ed ignorata città, trovata dal francese De Sarzec sotto la collina chiamata dagli Arabi, Teli Loh, nell'estremità meridionale della regione. Interessantissime, sopratutto, sono le scolture, fra cui alcune grandi statue del re Gudea, le quali rivelano, in Mesopotamia, circa trenta secoli prima di Cristo, un'arte non del tutto indegna di competere con quella che, appunto in quei tempi, fioriva sulle sponde del Nilo. (p. 400)
L'arte che, nei primordi della civiltà di quei due paesi [l'Egitto e la Mesopotamia], aveva toccato un grado rimarchevole di libertà e di esattezza nella rappresentazione del vero, e che aveva prese le mosse da un'acuta osservazione della natura, fu soffocata, nel suo sviluppo, dall'influenza jeratica, così che ha finito per perdere ogni genialità, e decadde nella monotona espressione di forme prestabilite e di imagini simboliche. L'artista, in Egitto e in Mesopotamia, scomparve; non rimase che l'artefice il quale rigorosamente seguiva i dettami di un formolario sacerdotale. Quale differenza con lo sviluppo dello spirito ellenico! (p. 400)
Lì [vicino alla foce del Tigri e dell'Eufrate] viveva un popolo che i testi più antichi chiamano gli Accadiani. Furono essi che inventarono la scrittura cuneiforme; furono essi i primi osservatori del cielo, i creatori dei più vetusti cicli di leggende, i fondatori delle molte città che sorgevano in quella regione. Su questo popolo, che aveva una lingua diversa da quella delle successive popolazioni e che pare appartenesse al gruppo turanico, venne a riversarsi un'invasione semitica. I Semiti diventarono i dominatori della Mesopotamia, e fecero proprie le leggende, le divinità, gli usi, la scrittura, la coltura del popolo soggetto. (p. 403)
L'imperatore Giuliano l'apostata
La sorte toccata all'imperatore Giuliano è davvero miseranda. Nessuna figura, nella decadenza dell'impero, più originale, più interessante, più attraente della sua. Ma la tradizione ecclesiastica gli è stata terribilmente nemica; gli ha impresso il marchio dell'apostata e, con questa qualifica, lo ha condannato all'abbominio ed all'oscurità. Come ciò avvenisse s'intende. La Chiesa agiva con un'intenzione polemica. A lei premeva sopratutto di rendere odioso un uomo che aveva tentato di ferirla a morte. Come sempre nella polemica, la verità doveva cedere il posto alla passione ed all'interesse partigiano. Ma lo storico ed il critico non devono lasciarsi stordire e confondere dai clamori della polemica; il loro compito è di anatomizzare oggettivamente e con una intiera imparzialità il fatto o l'uomo che hanno sulla loro tavola d'esperienza e d'osservazione, cercando di cogliere il vero nella sua essenziale realtà.
La crisi religiosa
Se noi cerchiamo quale sia, nell'intelligenza umana, la prima, la più profonda origine del concetto di Dio, dobbiamo concludere trovarsi essa nella coscienza che ad ogni effetto precede necessariamente una causa. Davanti agli spaventevoli fenomeni della natura, il bruto rimane attonito; egli sente, subisce un dato effetto, impara a distinguerlo da altri effetti, a presentirlo, a fuggirlo, ma ogni fenomeno è pur sempre, per lui, un fatto isolato che comincia e finisce in sé stesso, che non ha precedenti in altri fatti anteriori che non siano da lui immediatamente veduti e constatati. Egli non sente la necessità di considerare tutti i fenomeni sotto il duplice aspetto di causa e di effetto, di disporli quali anelli di una catena interminabile e continua. L'uomo, invece, il quale può raccogliere e conservare idealmente presente, nel suo cerebro, una moltitudine di fatti, li esamina, li confronta, e, risultandogli da questa operazione che nulla può esistere senza una causa che lo produca, riesce ad astrarre, dalla sintesi dei fatti osservati, la nozione di una forza produttrice.
Il carattere, l'ingegno ed anche il destino di Gaetano Negri furono veramente singolari, e meriterebbero un lungo studio. Noi ci limiteremo qui a dirne brevi parole. Vi sono nella storia uomini, la cui fama verrebbe molto diminuita se avessero avuto un poco più d'ingegno. Ma ve ne sono altri, la cui fama sarebbe invece assai maggiore, se avessero avuto meno ingegno. I primi, con una intelligenza unilaterale, furono spinti a concentrare tutte le loro forze sopra un punto solo, compiendo un solo genere di lavori, ed ottennero qualche volta risultati inaspettati. I secondi, avendo da natura avuto attitudini molteplici e svariate, svolsero la loro operosità in mille direzioni diverse, e non riuscirono in nessuna delle loro opere, per quanto pregevoli, a dar prova di tutto ciò che poteva fare la loro alta intelligenza. A questa seconda schiera appartenne Gaetano Negri. (Pasquale Villari)