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poeta italiano Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Vincenzo Monti (1754 – 1828), poeta, drammaturgo e scrittore italiano.
Che più ti resta [filosofia]? Infrangere
anche alla Morte il tèlo,
e della vita il nèttare
libar con Giove in cielo.
Deh per le guance eburnee | Che di rossor tingesti, | Per gli occhi tuoi deh piacciati | Voler che teco io resti. || Io di virtudi amabili | Sarò custode e padre ; | E tu d'Amor, bellissima, | Ti chiamerai la madre.
Pudor, virtude incomoda, | Pudor, virtude ingrata; | Da colpa (ahi turpe origine !) | E da rimorso nata; | Pudor, che all'uom contamini | I più soavi affetti, | Onde in amaro aconito | Si cangiano i diletti.
Ma che? le gote esprìmono | L'ardor che il labbro occulta, | Né molto andrà l'ingiuria | Di quel silenzio inulta. | Tirsi ed Amor congiurano | Ambo d'accordo; e Pille | Taccia, se vuol: parlarono | Assai le sue pupille.
Lisandro Si, Palamede: alla regal Messene | Di pace apportator Sparta m'invia. | Sparta di guerra è stanca, e i nostri allori, | Di tanto sangue cittadin, bagnati, | Son di peso alla fronte e di vergogna. | Ira fu vinta da pietà. Prevalse | Ragione, e persuase esser follia | Per un'avara gelosia di Stato | Troncarsi a brani, e desolar la terra. | Poiché dunque a bramar pace il primiero | Fu l'inimico, la prudente Sparta| Volentier la concede, ed io la reco. | Né questo sol, ma libertade ancora | A quanluque de' nostri è qui tenuto | In servitude; e a te, diletto amico, | Principalmente, che bramato e pianto, | Compie il terz'anno, senza onor languisci | Illustre prigioniero in queste mura.
Eccoti, Cajo, in Roma. Io qui non visto | Entrai protetto dalla notte amica. | Oh patria mia, fa cor, chè Gracco è teco. | Tutto tace d'intorno, e in alto sonno | Dalle cure del dì prendon riposo | Gli operosi plebei. Oh buoni, oh veri, | Soli Romani! Il vostro sonno è dolce, | Perché fatica lo condisce; è puro, | Perché rimorso a intorbidar nol viene. | Tra il fumo delle mense ebbri frattanto | Gavazzano i patrizi, gli assassini | Del mio caro fratello; o veramente, | Chiusi in congrega tenebrosa, i vili | Stan la mia morte macchinando, e ceppi | Alla romana libertà; né sanno || Qual tremendo nemico è sopraggiunto.
Or son pur solo, e in queste selve amiche | Non v'è chi ascolti i mici lugubri accenti | Altro che i tronchi delle piante antiche. || Flebile fra le tetre ombre dolenti | Regna il silenzio, e a lagrimar m'invoglia | Sotto del cupo mormorio de' venti. || Qui dunque posso piangere a mia voglia; | Qui posso lamentarmi, e alla fedele | Foresta confidar l'alta mia doglia. || Donde prima degg'io, Ninfa crudele, | II tuo sdegno accusar? donde fia mai | Ch'io cominci le mie giuste querele?
Zambrino: Ubaldo, udisti?
Ubaldo: Udii, Zambrino.
Zambrino: Intendi | Quell'acerbo parlar?
Ubaldo: L'intendo assai.
Zambrino: Di profondi sospetti ingombra è certo | La gelosa Matilde. In altro amore | Traviato ella teme il suo Manfredi, | E complice ti crede.
Ubaldo: E tu sei quello | Che tal credenza le risvegli in petto; | Queste ancóra v'aggiungi.
Quando al terzo di Marte orrido Ludo | Dal Brittannico roar sul congiurato | Istro discese fulminando il Sire | Delle battaglie, e d'atro nembo avvolta | Al fianco gli venia la provocata | Dal tedesco spergiuro ira del Cielo, | Sentì dali'alta Ercinia la procella | De' volanti guerrieri il Bardo Ullino; | Ullino germe di forti, ed animoso | Cantor de' forti, e dello spirto erede | Dell'indovina vergine Velleda, | Cui l'antica paura incensi offria | Nelle selve Brutere, ove implorata | L'aspra donzella con responsi orrendi | Del temulo avvenire apria l'arcano.
Dimmi, Amore: In questo eletto | Giardin sacro alla pudica | Dea del senno e tua nemica, | Temerario fanciulletto, | A che vieni? O fuggì, o l'ali | Tu vi perdi, ed arco e strali.
Di' che saggio ognorsarò, | Di' che al cespo tornerò, | E corrò... Ma posto il dito | Su le labbra, il dir sostenne, | E disparve. Allor mi venne | Nella mente'appien chiarito | Che a Virtude Amor tien fede | Più che il volgo non si crede.
Le tue vaghe alme pupille, | I celesti tuoi sembianti | Già t'acquistano, o mia Fille, | I sospir di cento amanti. | Ciascheduno i merti suoi | Spiega in pompa lusinghiera, | E su i cari affetti tuoi | Ciaschedun gareggia e spera.
Tal saravvi che dolente | Sempre in atto di morire, | Sempre muto e penitente | Avveleni il tuo gioire. | Norma e legge io prenderò | Dallo stato del tuo viso, | E fedele alternerò | Teco il pianto e teco il riso.
Come face al mancar dell'alimento | Lambe gli aridi stami, e di pallore | Veste il suo lume ognor più scarso e lento | E guizza irresoluta, e par che amore | Di vita la richiami, infin che scioglie | L'ultimo volo, e sfavillando muore: | Tal quest'alma gentil, che morte or toglie | All'Italica speme, e sullo stelo | Vital, che verde ancor floria, la coglie; | Dopo molto affannarsi entro il suo velo, | E anelar stanca sull'uscita, alfine | L'ali aperse, e raggiante alzossi al cielo.
Già vinta dell'inferno era la pugna,
E lo spirto d'abisso si partìa
Vòta stringendo la terribil ugna.
Come lion per fame egli ruggìa
Bestemmiando l'Eterno, e le commosse
Idre del capo sibilâr per via.
Allor timide l'ali aperse e scosse
L'anima d'Ugo alla seconda vita
Fuor delle membra del suo sangue rosse;
E la mortal prigione ond'era uscita
Subito indietro a riguardar si volse
Tutta ancor sospettosa e sbigottita.
Ma dolce con un riso la raccolse
E confortolla l'angelo beato
Che contro Dite a conquistarla tolse.
Dolce de' mali obblio, dolce dell'alma
Conforto, se le cure egre talvolta
Van de' pensieri a intorbidar la calma,
O cara Solitudine, una volta
A sollevar deh! vieni i miei tormenti
Tutta nel velo della notte avvolta.
Te chiamano le amiche ombre dolenti
Di questa selva, e i placidi sospiri
Tra fronda e fronda de' nascosti venti.
Della mente di Dio candida figlia, | Prima d'Amor germana, e di Natura Amabile compagna e maraviglia, || Madre de' dolci affetti, e dolce cura | Dell'uom, che varca pellegrino errante | Questa valle d'esilio e di sciagura, || Vuoi tu, diva bellezza, un risonante | Udir inno di lode, e nel mio petto | Un raggio tramandar del tuo seminante? || Senza la luce tua l'egro intellelto | Langue oscurato, e i miei pensier sen vanno | Smarriti in faccia al nobile subbietto.
Cor di ferro ha nel petto, alma villana | Chi fa de' carmi alla bell'arte oltraggio, | Arte figlia del Cielo, arte sovrana, | Voce di Giove e di sua menle raggio. | O Muse, o sante Dee, la vostra arcana | Origine vo' dir con pio linguaggio, | Se mortal fantasia troppo non osa | Prendendo incarco di celeste cosa.
Dolce brama delle genti, | Cara Pace, alfin scendesti, | E le spade combattenti | La tua fronda separó. || Nell'orribile vagina | Già nasconde il brando Marte; | Già l'invitto Bonaparte | Il suo fulmine posó.
Prodi all'armi; alzate un grido | Di coraggio, e mano al brando. | Fortunato chi pugnando | Per la patria sua spirò.
Sul muto degli Eroi sepolto frale | Eterna splende di virtù la face. | Passa il Tempo, e la sventola coll'ale, | E più bella la rende e più vivace. | Corre a inchinarla la virtù rivale; | Alessandro alla tomba entro cui tace | L'ira d'Achille, e, maggior d'ogni antico, | Bonaparte all'avel di Federico.
In questa di valor sacra contrada | Alti onori t'avrai; che riverita | Pur de' nemici è qui la gloria, e schietti | Della tua faran fede i nostri petti. | Si dicendo scoprir le rilucenti | Còlte in Rosbacco cicatrici antiche, | E vivo scintillò negli occhi ardenti | Il pensier| delle belliche fatiche. | Parve l'inclita spada a quegli accenti | Abitarsi, e sentir che fra nemiche | Desire non cadde; parve di più pura | Luce ornarsi, e obbliar la sua sventura.
Voi dormite tranquillo, signor Generale, sopra i vostri allori marittimi e sul timone della nave di cui sedete al governo, e tutt'altro vi sognate sicuramente, che di ricevere una mia lettera. Perché son io costretto di scrivervela? Qual linguaggio, qual formolario userò io con voi, io consagrato al servigio d'un principe ingiustamente offeso dal vostro? E quale sarà il Galateo che adoprerò se, nel mentre ch'io parlo, la Svezia da voi provocata prepara i suoi vascelli per portarvi a Napoli le sue ragioni sulla bocca eloquente de' suoi cannoni? Frattanto egli m' è necessario di scrivervi e voi siete quello che mi forzate. Se voi non aveste attaccata che in privato la mia persona, se aveste ancora ciò fatto in Napoli al cospetto solamente de' vostri schiavi, io vi avrei lasciato, senza commovermi, eternamente latrare e mentire. Ma voi mi avete oltraggiato alla presenza del pubblico, voi mi avete atrocemente calunniato per proteggere il traditore barone d'Armfeldt, denunciandomi a tutta l'Italia e a tutta l'Europa ordinatore d'un assassinio contro di lui voi avete cercato di dirigere a questo scopo la pubblica opinione con ogni sorta di maneggi e di scritti, e non vi siete avveduto che, togliendomi l'onore, mi toglievate egualmente la libertà di soffrire, disprezzarvi e tacere.
Sallo il ciel quante volte al sonno, ahi lasso! | Col desire mi corco e colla speme di mai svegliarmi | E sul mattin novello| Apro le luci, a mirar torno il Sole, | Ed infelice un'allra volta io sono. | Quale sovente con maggior disdegna | Vedi sul mar destarsi le procelle, | Che fallo dianzi avean silenzio e tregua; | Tale al tornar delia diurna luce | Più fiero de' miei mali il sentimento | Risorge, e tal dell'alma le tempeste, | Che la calma notturna avea sopite, | Svegliansi tutte, e le solleva in alto | Quel terribile Iddio che mi persegue.
L'accorto Prometéo, l'inclito figlio | A cantar di Giapeto il cor mi sprona, | E quantji sopportò travagli e pene | Per amor de' mortali, e qual raccolse | Di largo beneficio empia mercede, | Se la Diva, cui tutta a parte a parte | La peregrina istoria è manifesta, | Del suo favor m'aita, e non ricusa | Sovra italico labbro alcuna stilla | D'antica derivar greca dolcezza.
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