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tragediografo ateniese Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Eschilo di Eleusi (525 a.C. – 456 a.C.), tragediografo e poeta greco antico.
Scolta: Attendo dagli dèi la liberazione da questo fardello:
da lunghi anni ogni notte dal tetto degli Atridi,
appoggiato come un cane sui gomiti,
contemplo i convegni notturni degli astri,
e quelli che portano inverni e quelli che portano estati
agli uomini, sovrani corruschi dell'etere,
e il loro levarsi e il loro tramontare.
E sono ancora qui a spiare il segnale,
il guizzare del fuoco che porterà da Troia
la voce della vittoria.
Guardiano: Dio, fa' che finisca presto questa pena!
Da anni ed anni sto qui, senza pace,
come un cane, in questo lettuccio
della casa degli Atridi, ad aspettare.
Conosco ormai tutti i segni delle stelle,
specie di quelle che ritornano
con l'estate e l'inverno, e in cui traspare,
di fuoco, l'altro mondo. So tutto, di loro,
le nascite, i crepuscoli... E sono
sempre qui: ad aspettare il segno
della lampada, la fiammata che porti
notizie da Troia, la parola vittoria!
La stessa angoscia che prova una donna
quando cerca l'amore. Ah, mentre sto qui,
in questo lettuccio bagnato di rugiada,
che mi tiene, la notte, lontano dai miei,
in questo lettuccio che non conosce i sogni
(è la paura, lei sola-e non il sonno-
che vive, che non mi lasci mai chiudere
le palpebre al sonno), se ho voglia
di cantare, o di fischiettare, e così
cercare, col canto, di vincere il sonno,
invece, piango: perché penso al destino
di questa casa, alla sua gioia di un tempo.
Ah, vedessi oggi la fine della mia pena,
e splendesse il fuoco segnale di gioia!
Evviva! Fuoco, che fai giorno della notte,
un giorno di festa, nella città di Argo!
(Si alza dal letto).
Evviva, Evviva!
A chiamare, corro, a chiamare Clitennestra,
perché si metta a gridare, alzandosi dal letto,
rispondendo a quel fuoco, con grida di gioia!
Troia è vinta, lo dice quel segnale di fuoco!
Io per primo aprirò, ballando, la festa!
Il dado gettato dal mio sovrano ha vinto la sorte,
e il mio lavoro sarà compensato mille volte!
Che io possa, come rientrerà il mio sovrano,
con la mia mano toccare la sua amata mano...
Ma sarò muto, su tutto il resto, come una tomba...
Che parlino questi muri, se possono: loro
la sanno la verità! Io, per chi sa,
parlo, per chi non sa, ho dimenticato...
[Eschilo, L'Orestiade: Agamennone, traduzione di Pier Paolo Pasolini, Istituto Nazionale del Dramma Antico, 1960]
Or fa l'anno che imploro dagli dèi
il termine di tanto malagevole
guardia, ch'io compio raggomitolato,
la testa tra le braccia, come un cane,
mirando de' notturni astri il concilio
(la nascita e l'occaso delle stelle)
e i signori dell'etra luminosi,
che l'estate e l'inverno all'uomo adducono.
Sono anche adesso intento a osservare
il segnal della fiaccola, la viva
luce del fuoco, se da Troia giunga
della caduta d'Ilio messaggera.
[Eschilo, Agamennone, traduzione di Domenico Ricci, Rizzoli, 1950]
Scolta: Numi, il riscatto concedete a me
dei miei travagli, della guardia lunga
un anno già, ch'io vigilo sui tetti
degli Atridi, prostrato su le gomita
a mo' d'un cane. E de le stelle veggo
il notturno concilio, ed i signori
riscintillanti che nell'etra fulgono,
ed il verno e la state all'uomo recano.
Ed ora il segno aspetto della lampada,
del fuoco il raggio, che da Troia rechi
della presa città la fama e il grido.
[Eschilo, Agamennone, traduzione di Ettore Romagnoli]
Oreste: O tu che vegli, Ermete sotterraneo,
del padre mio la sorte, a me che imploro
dà tu salvezza, al fianco mio combatti:
ché a questo suolo io giungo: io sono qui.
E lancio un bando al padre mio, sul clivo
di questa tomba, ch'ei m'oda, e m'ascolti.
[Eschilo, Coefore, traduzione di Ettore Romagnoli]
Oreste: Ermes sotterraneo, che vegli sulla potenza del padre,
salvatore e compagno, nella battaglia t'invoco.
Vedi che sono, giunto a questa terra, e il mio ritorno
..............................
e dal tumulo di questo sepolcro alzo un'invocazione
al padre, che mi oda, mi ascolti........
..........................
.......una ciocca all'Inaco che mi nutrì,
e questa seconda a te, segno di lutto.
......................
perché non presente, o padre, piansi la tua morte
né stesi la mano al feretro che si allontanava.
Oreste: Dio dell' Inferno, guarda mio padre ucciso:
sii il mio custode, la mia salvezza,
nell'ora in cui ritorno alla mia terra,
Qui, sul tumulo della tomba di mio padre,
io mi rivolgo a te, Dio, e tu ascoltami.
(Si strappa una ciocca di capelli e la depone sulla tomba)
Una ciocca di capelli ho dedicato al Dio
che m'ha allevato: e questa a te, Dio di dolore.
Io, padre mio, su te non ho cantato il canto
dei morti, non ti ho dato l'ultimo addio,
quando ti hanno trasportato fuori dalla casa...
[Echilo, L'Orestiade: Coefore, traduzione di Pier Paolo Pasolini, Istituto Nazionale del Dramma antico, 1960 ]
Sacerdotessa: Prima con questa prece onoro Gea
che profetessa fu prima: indi Temide
che seconda ebbe sede in questo oracolo,
dopo sua madre, com'è fama; e terza,
né già per forza, ma piacendo a Temide,
vi salì Febe, prole dei Titani,
figliuola anch'essa della terra; e dono
natale a Febo ella ne fece, e il nome
serba ancora dell'ava. E il Dio, lasciate
le scogliere di Delo e la palude,
alle acclivi approdò spiagge di Pallade
e a questo suolo, ed al Parnaso giunse.
[Eschilo, Eumenidi, traduzione di Ettore Romagnoli]
Sacerdotessa: Avanti ogni altro dio onoro in questa preghiera
Gea, la prima profetessa; Temide dopo di lei,
che seconda s'istallò in questa sede profetica
già di sua madre, come si narra. E terza
vi ascese per suo volere, non per violenza d'alcuno,
un'altra tirannide, Febe, figlia della Terra;
e questa la consegnò quale dono di genetliaco
a Febo, che appunto da Febe derivò tale nome.
Egli dunque, lasciato il lago e le rocce di Delo,
approdò alle rive di Pallade aperte alle navi
e raggiunse questa terra e la sede del Parnaso.
Religiosa: Tra tutti gli dei, per prima, devo pregare
la prima delle veggenti, la Terra: e poi Temi
che per seconda fu sul seggio della madre profeta,
come dice la storia sacra. La terza
fu un'altra figlia della Terra, Febe
che prese il posto di Temi senza violenza:
nel giorno gioioso del suo genetliaco
Febe ne fece dono a Febo, ch'ebbe, da lei,
il nome. Abbandonando Delo e le sue scogliere,
egli venne qui, alle tranquille rive ateniesi,
e prese possesso, qui, di questa sede.
[Eschilo, L'Orestiade: Eumenidi, traduzione di Pier Paolo Pasolini, Istituto Nazionale del Dramma Antico, 1960]
Coro: Lasciati a guardia della patria terra
E delle immense sue dovizie siamo,
Come i più vecchi: e al fido incarco, ei stesso
Il Re, Serse di Dario, in Grecia i Persi
A guerregiar traendo, eletti c'ebbe.
Ma un non so qual presagio infausto in cuore,
Circa il tornar dell'opulenti squadre
E del Re nostro, omai ci angoscia. Intero
Iva con esso il fior dell'Asia; e indarno.
Coro: Noi siamo i Fedeli dei Persiani partiti per la terra greca, i custodi della doviziosa reggia, ricca di molto oro, che lo stesso signore e re Serse, figlio di Dario, scelse come i più degni per l'età a sorvegliare il paese durante la sua assenza.
Coro: Noi dei Persiani partiti
per l'ellenica terra siamo detti i Fedeli,
e dei sontuosi degli aurati
palazzi i custodi, noi che in omaggio alla
nostra dignità
di propria scelta il sovrano, il re Serse
figlio di Dario
estese a vegliare su questo paese.
Potere: Agli estremi confini eccoci giunti
già della terra, in un deserto impervio
tramite de la Scizia. Ed ora, Efesto,
compier tu devi gli ordini che il padre
a te commise: a queste rupi eccelse
entro catene adamantine stringere
quest'empio, in ceppi che non mai si frangano:
ch'esso il tuo fiore, il folgorio del fuoco
padre d'ogni arte, t'involò, lo diede
ai mortali. Ai Celesti ora la pena
paghi di questa frodolenza, e apprenda
a rispettar la signoria di Giove,
a desister dal troppo amor degli uomini.
[Eschilo, Prometeo incatenato, traduzione di Ettore Romagnoli]
Potere: Eccoci giunti ai confini della terra, nelle lande deserte della Scizia. Efesto, a te spetta mettere in pratica le istruzioni che ti ha dato il padre, e incatenare il condannato a una roccia in alto, con catene d'acciaio che non si possono spezzare. Il tuo vanto, la fiamma del fuoco che è fondamento di ogni arte, lui l'ha rubato e donato ai mortali: deve scontare questa colpa verso gli dei, e imparare ad accettare il governo di Zeus, e cessare la sua benevolenza verso gli uomini.
[Eschilo, Prometeo, traduzione di Guido Paduano, INDA, 2012]
Eteocle: Cittadini cadmei, chi su la poppa
de la città volge la barra, e regge
lo stato, senza mai sopire il ciglio,
parole acconce deve dir: ché quando
ridon gli eventi ella è mercé dei Numi;
ma se poi, deh!, non sia, male ne incolga,
per la città solo sarebbe Eteocle
con preludii d'obbrobrio altosonanti
e con querele decantato – Giove
che detto è salutar, salute arrechi
alla città di Cadmo. – Or tutti voi,
e quei che al fiore dell'età non giunge,
e quei che lo mirò vizzo negli anni,
riscotendo nei membri ogni vigore,
volgendo alla piú acconcia opra la cura,
date soccorso a Tebe, ed agli altari
dei patri Numi, che non mai d'onore
sien privi, e ai figli, e a questa terra madre,
carissima nutrice.
[Eschilo, Sette contro Tebe, traduzione di Ettore Romagnoli]
Eteocle: Cittadini di Cadmo, deve dire ciò che il momento esige colui che alla proppa della città veglia sul bene comune e il timone dirige senza mai assopire le palpebre al sonno. Se ci andrà bene, ne sarà causa un dio; ma se all'inverso – oh non accada! – sorte nemica ci toccherà, Eteocle soltanto per tutta la città da mormorio avverso di preludi e da singhiozzi celebrato sarà: ma Zeus distornatore veramente distornatore sia di questi mali alla città dei Cadmei.
Coro: Protettore dei supplici, Giove,
volgi l'occhio benevolo a questa
nostra schiera, che giunge per mare
dalle foci e le sabbie del Nilo.
La divina contrada finitima
della Siria fuggiamo; né bando
contro noi per delitto di sangue
decretava la nostra città.
Ma spontanee fuggiamo da sposi
consanguinei, schiviam l'abominio
d'empie nozze coi figli d'Egitto.
[Eschilo, Supplici, traduzione di Ettore Romagnoli]
Coro: Zeus supplicante osservi con mente propizia
questo nostro stuolo salpato su navi
dalle bocche sabbiose del Nilo.
Lasciammo la terra di Zeus
che con la Siria confina e fuggimmo esuli
non perché condannate da pubblico voto
per colpa di sangue
ma perché ripudiamo uomini della nostra stirpe
e abominiamo il connubio e l'empio progetto
dei figli di Egitto.
Giove signor di chi pregando viene,
or con benigno ciglio
riguardi noi, dalle minute arene
qua del Nilo approdanti. La divina
terra a'Sirii vicina,
non dannate ad esiglio
per cruento delitto
lasciammo, no; ma per fuggir le sozze
de'congiunti con noi figli d'Egitto
abbominande nozze.
Danao di noi padre, consiglio, e duce,
ben librando trascelse infra due mali
il più decoro a sopportar: per l'onda
del mar fuggirsen ratto,
e al suol d'Argo arrivar, donde i natali
nostra schiatta deduce,
poi che in grembo all'Argiva Io furibonda
originò dal tatto
e dall'aura di Giove. A quali or noi
più venir ne potremmo amiche prode,
in man l'ulivo in lane bende avvolto?
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