Loading AI tools
scrittore russo (1821-1881) Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821 – 1881), scrittore e filosofo russo.
All'inizio di un luglio straordinariamente caldo, verso sera, un giovane scese per strada dallo stanzino che aveva preso in affitto in vicolo S., e lentamente, come indeciso, si diresse verso il ponte K.
Sulle scale riuscì a evitare l'incontro con la padrona di casa. Il suo stanzino era situato proprio sotto il tetto di un'alta casa a cinque piani, e ricordava più un armadio che un alloggio vero e proprio. La padrona dell'appartamento, invece, dalla quale egli aveva preso in affitto quello stambugio, vitto e servizi compresi, viveva al piano inferiore, in un appartamento separato, e ogni volta che egli scendeva in strada gli toccava immancabilmente di passare accanto alla cucina della padrona, che quasi sempre teneva la porta spalancata sulle scale. E ogni volta, passandole accanto, il giovane provava una sensazione dolorosa e vile, della quale si vergognava e che lo portava a storcere il viso in una smorfia. Doveva dei soldi alla padrona, e temeva d'incontrarla.
[Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo, traduzione di Serena Prina, Mondadori, 1994.]
C'era un caldo insopportabile in quei primi giorni di luglio. Era quasi sera quando un giovane uscì dalla misera stanza che aveva preso in affitto in vicolo S. e, sceso in strada, s'incamminò lentamente, come fosse indeciso, in direzione del ponte K.
Per sua fortuna, sulla strada non aveva incontrato la padrona di casa. La stanza del giovane si trovava nel sottotetto di un caseggiato di cinque piani e assomigliava più a un armadio che a una stanza. La donna che gliel'aveva affittata, compresi il vitto e il servizio, abitava da sola nell'appartamento un piano più in basso, per cui il giovane, quando usciva di casa, doveva inevitabilmente passare davanti alla cucina la cui porta era quasi sempre spalancata. E ogni volta che passava davanti a quella porta avvertiva una sensazione di malessere e di profondo fastidio di cui provava vergogna e che gli contraeva il volto in una smorfia. Dovendole dei soldi faceva di tutto per non incontrarla.
[Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo, traduzione di Costantino Di Paola, Marsilio Editore, 1999]
Ai primi di luglio, dopo giornate caldissime, verso sera, un giovane uscì dal buco che aveva in subaffitto nel vicolo S. e a passi lenti, come se fosse indeciso, si diresse verso il ponte K.
Era riuscito a non incontrare la padrona di casa sulle scale. Il suo buco, più simile a un armadio che a un alloggio, si trovava nel sottotetto di un alto edificio a cinque piani. La donna che glielo aveva affittato, con pasto e servizio inclusi, alloggiava in un appartamento al piano di sotto e ogni volta che egli usciva doveva passare inevitabilmente davanti alla sua cucina, che aveva la porta quasi sempre spalancata sulle scale. E ogni volta che passava davanti a quella porta avvertiva una sensazione di fastidio, quasi di vigliaccheria, che gli faceva provare un senso di vergogna e lo faceva incupire. Le doveva molti arretrati e temeva di incontrarla.
[Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo, traduzione di Damiano Rebecchini, Feltrinelli Editore, 2013]
Tu sai che mia madre non possiede quasi nulla. Mia sorella, per caso, ha avuto un'educazione accurata e il suo destino la condanna a fare l'istitutrice. Tutte le loro speranze erano poste su di me. Io ho studiato, ma non potendo mantenermi all'università, ad un certo punto sono stato costretto a interrompere i miei studi.[..]avrei potuto sperare di diventare un insegnante o un impiegato con mille rubli di stipendio.[..] C'è gusto a passare per tutta la vita davanti alle cose più belle, dovervi rinunciare, trascurare la madre, tollerare rispettosamente, per esempio, il disonore di una sorella? E perché? Forse solamente per fondare, dopo aver sotterrato quelle due, una nuova famiglia, per prendere moglie e mettere al mondo dei figli, e lasciare poi anche loro senza denari, senza un boccone di pane?. [Volume II, parte quarta, pag. 487]
[Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo, traduzione di Vittoria De Gavardo-Carafa, Edizioni Paoline (Famiglia Cristiana), Nuovi Stampa Mondadori (Cles), 1992.]
Ella pure tutto quel giorno fu agitata e la notte anzi tornò a star male. Ma a tal punto era felice, a tal punto inaspettatamente felice, che quasi ne ebbe paura. Sette anni, solo sette anni! Al principio della loro felicità, in certi istanti, eran pronti tutt'e due a considerare quei sette anni come sette giorni. Egli ignorava perfino che la nuova vita non gli si concedeva per nulla, che bisognava ancora acquistarla a caro prezzo, pagarla con una grande opera nell'avvenire...
Ma qui già comincia una nuova storia, la storia del graduale rinnovarsi di un uomo, la storia della sua graduale rigenerazione, del suo graduale passaggio da un mondo in un altro, dei suoi progressi nella conoscenza di una nuova realtà, fino allora completamente ignota. Questo potrebbe formare argomento di un nuovo racconto; ma il nostro racconto odierno è finito. (1993)
[Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo.]
Per duemila anni l'Italia ha portato in sé un'idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un'idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l'idea dell'unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un 'idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l'arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l'Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno di second'ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, ... un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un'unità meccanica e non spirituale (cioè non l'unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second'ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!
Nell'accingermi a descrivere i recenti e tanto strani avvenimenti, svoltisi nella nostra città, in cui finora non è mai accaduto nulla di speciale, sono costretto, per la mia inesperienza, a cominciare un po' da lontano, e precisamente da certi particolari biografici sul molto rispettabile e dotato di talento Stepan Trofimovich Verchovenskij. Questi particolari serviranno soltanto da introduzione alla presente cronaca; la storia poi, che intendo narrare, seguirà più avanti.
Diciamolo subito: tra di noi Stepan Trofimovich recitava sempre una parte speciale, civile, per così dire, e amava questa parte appassionatamente, tanto che senza di essa, credo non potesse neanche vivere. Non che io lo voglia paragonare a un attore di teatro: Dio me ne guardi, tanto più che anch'io lo stimo.
[Fëdor Dostoevskij, I demoni, traduzione di Francesca Gori, Garzanti, 1994.]
Nell'accingermi alla descrizione degli avvenimenti tanto strani svoltisi or non è molto nella nostra città, in cui finora non era accaduto nulla di notevole, sono costretto, per la mia inesperienza, a rifarmi alquanto da lontano; e precisamente da alcuni particolari biografici intorno a Stepan Trofimovic Verchovenski, uomo rispettabilissimo e di molto ingegno. Questi particolari non serviranno che d'introduzione, mentre la storia che mi propongo di scrivere seguirà poi.
Lo dirò schiettamente: Stepan Trofimovic ha sempre rappresentato fra noi una certa parte speciale; la parte, per così dire, del cittadino ragguardevole, e amava questa parte fino alla passione, tanto che senza di essa non avrebbe potuto nemmeno vivere, credo. Non già che lo paragoni a un attore sulla scena: Dio me ne guardi, tanto più che personalmente io lo stimo.
[Fëdor Dostoevskij, I demoni, traduzione di Rinaldo Küfferle, Arnoldo Mondadori Editore, 1987]
Accingendomi alla narrazione di quei così singolari avvenimenti prodottisi recentemente in questa nostra città, che sinora non s'era mai distinta per alcunché di speciale, mi vedo costretto – a causa della inesperienza che m'è propria – a risalire alquanto indietro nel tempo, e, precisamente, all'epoca di certi particolari eventi verificatisi nella vita di Stepàn Trofìmovic Verchovènskij, persona oltremodo rispettabile e dotata d'indubbio talento. Tali eventi vanno considerati come una semplice introduzione alla presente cronaca, mentre la vera e propria storia che intendo esporre s'inizierà più avanti.
Bisogna dire anzitutto che Stepàn Trofìmovic ha da sempre rivestito tra noi il ruolo d'una personalità particolare, dotata di un rilievo, per così dire, civile, un ruolo che egli amava alla follia, privo del quale – mi sembra – non avrebbe potuto neppure sopravvivere. Non che io, con ciò, intenda equipararlo a un qualsiasi attore di teatro, Dio me ne guardi! Tanto più che egli ha tutto il mio rispetto. Si trattava piuttosto di una sorta di abitudine o, per meglio dire, di una costante, nobile inclinazione, presente in lui sin dall'infanzia, a nutrire il sogno lusinghiero di rivestire una posizione civile significativamente bella. Ad esempio, egli amava straordinariamente la sua condizione di "perseguitato" e, per così dire, di "esiliato". Queste due parole avevano, ai suoi occhi, un prestigio, in un certo modo, classico, che lo aveva affascinato una volta per tutte e aveva continuato poi, per molti e molti anni, a sollevarlo sempre più nella sua propria opinione, finché l'aveva innalzato su un piedistallo notevolmente elevato ed estremamente gradevole per il suo amor proprio.
[Fëdor Dostoevskij, I demonî, traduzione di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, 2000.]
Nell'accingermi alla descrizione dei recenti e così strani avvenimenti accaduti nella nostra città, che nulla ha mai fatto distinguere finora, sono costretto, per la mia inesperienza, a cominciare un po' da lontano, e precisamente da certi particolari biografici sul geniale molto riverito Stepan Trofimovič Verchovenskij. Valgano questi particolari solo d'introduzione alla presente cronaca; la storia poi, che intendo narrare, verrà in seguito.
Lo dirò senz'altro: Stepan Trofimovich rappresentava costantemente fra noi una certa parte speciale, e, per così dire, civica, e amava questa parte fino alla passione; tanto anzi che senza di essa mi pare che non potesse nemmeno vivere. Non già che io lo paragoni ad un attore sulla scena: me ne guardi Iddio, tanto più che lo stimo anch'io.
[Fëdor Dostoevskij, I demoni, traduzione di Alfredo Polledro, Einaudi, 1994.]
Il cittadino del cantone di Uri era appiccato là dietro la porticina. Sul tavolino c'era un pezzetto di carta con queste parole scritte a matita: "Non accusar nessuno; io stesso". Sempre sul tavolino c'era anche un martello, un pezzo di sapone e un grande chiodo, certo preparato per riserva. Il forte cordone di seta, evidentemente, scelto e preparato in precedenza, con cui s'era impiccato Nikolaj Vsevolodovic, era abbondantemente insaponato. Tutto attestava la premeditazione e la lucidità fino all'ultimo istante.
I nostri medici, dopo l'autopsia, esclusero in modo assoluto e reciso l'alienazione mentale.
[Fëdor Dostoevskij, I demoni, traduzione di Rinaldo Küfferle, Arnoldo Mondadori Editore, 1987]
Il cittadino del cantone di Uri penzolava lì, subito dietro la porta. Sul tavolino c'era un foglietto con su scritto, a matita: "Non incolpate nessuno, sono stato io". Sul tavolino c'era anche un martello, un pezzo di sapone e un grosso chiodo, evidentemente preparato come riserva. Il robusto cordone di seta, anch'esso chiaramente scelto e preparato in anticipo, con cui Nikolàj Vsèvolodovic si era impiccato, era abbondantemente insaponato. Tutto stava ad indicare la premeditazione e la perfetta lucidità sino all'ultimo istante. Dopo l'autopsia del cadavere, i nostri medici esclusero del tutto e nel modo più tassativo la pazzia.
[Fëdor Dostoevskij, I demonî, traduzione di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, 2000.]
Per approfondire, vedi: I fratelli Karamazov. |
Finalmente ero di ritorno dopo un'assenza di due settimane. Già da tre giorni i nostri si trovavano a Roulettenburg. Credevo di essere atteso con chi sa quale ansia, e invece mi sbagliavo. Il generale mi accolse con una disinvoltura eccessiva, mi parlò squadrandomi dall'alto in basso e mi mandò da sua sorella. Era evidente che in qualche luogo erano riusciti a procurarsi del denaro.
[Fëdor Dostoevskij, Il giocatore, traduzione di Elsa Mastrocicco, Fabbri.]
Sono finalmente tornato dopo un'assenza di due settimane. I nostri si trovavano già da tre giorni a Rulettenburg. M'immaginavo che mi aspettassero con chissà quale ansia, ma invece mi ero sbagliato. Il generale aveva un'aria estremamente indipendente, mi ha parlato guardandomi dall'alto in basso e mi ha spedito direttamente dalla sorella. È chiaro che sono riusciti a scroccare dei soldi da qualche parte.
[Fëdor M. Dostoevskij, Il giocatore, traduzione di Giacinta De Dominicis Jorio, BUR, 2001. ISBN 8817150800]
Finalmente tornai dopo la mia assenza di due settimane. I nostri già da tre giorni erano a Ruletenburg. Io pensavo che mi avrebbero atteso Dio sa come, invece m'ingannai. Il generale aveva un'aria molto disinvolta, parlò con me un momento dall'alto in basso e mi mandó dalla sorella. Era chiaro che in qualche posto avevano preso denaro a prestito. [Fëdor M. Dostoevskij, Il giocatore, traduzione di Alfredo Polledro, Mondadori, 1951. ISBN 9788804477884]
Non ho resistito e mi sono messo a scrivere questa storia dei miei primi passi nell'arena della vita, anche se avrei potuto farne a meno. Di certo so una cosa sola: non mi metterò mai più a scrivere la mia autobiografia, nemmeno dovessi campare cent'anni. Bisogna essere troppo bassamente innamorati di sé per scrivere senza vergogna della propria persona. La mia sola scusante è che non scrivo per il motivo per cui tutti di solito lo fanno, cioè per le lodi del lettore. Se a un tratto mi è saltato in mente di scrivere parola per parola tutto ciò che mi è accaduto dall'anno scorso a questa parte è stato a causa di un'esigenza interiore: a tal punto mi ha colpito tutto ciò che è avvenuto.
[Fëdor Dostoevskij, L'adolescente, traduzione di Luigi Vittorio Nadai, Garzanti]
Spinto da un impulso irresistibile, mi misi a scrivere questa storia dei miei primi passi sul cammino della vita; anche se, in fondo, avrei potuto farne a meno. Una sola cosa so di sicuro: mai più mi metterò a scrivere la mia autobiografia, anche se dovessi vivere fino a cent'anni. Bisogna essere troppo volgarmente innamorati della propria persona per scrivere senza ritegno di se stessi. L'unico argomento che possa addurre a mia discolpa è che non scrivo allo scopo per cui scrivono tutti gli altri, non scrivo cioè per avere elogi dal lettore. Se così, all'improvviso, mi venne l'idea di scrivere parola per parola tutto ciò che m'accadde l'anno scorso, fu per un mio intimo bisogno, tanto fui colpito da quel che avvenne.
[Fëdor Dostoevskij, L'adolescente (Podrostok, 1875), traduzione di Eva Amendola Kühn, prefazione di Angelo Maria Ripellino, Einaudi, Torino, 1957. ISBN 8806144545]
Venne l'estate, e Velciàninov, contro ogni attesa, restò a Pietroburgo. Il suo viaggio nel sud della Russia era andato a monte, e della causa neppur si prevedeva la fine. Questa causa – una lite per la proprietà – stava prendendo una pessima piega. Ancora tre mesi addietro aveva un aspetto tutt'altro che complicato, poco meno che in controverso; ma, chi sa come, improvvisamente tutto era mutato. "E in generale tutto ha preso a mutarsi in peggio!": questa frase Velciàninov aveva cominciato a ripeterla tra sé con acredine e di frequente.
Venne l'estate, e Vel'čaninov, contro ogni sua aspettativa, si fermò a Pietroburgo. Il viaggio nel Sud della Russia era andato a monte e per il suo processo non si vedeva una conclusione. Questo processo, una lite per una proprietà, aveva preso una piega delle peggiori. Ancora solo tre mesi prima sembrava del tutto privo di complicazioni, quasi indiscutibile; ma all'improvviso era come tutto mutato. "E in generale tutto ha cominciato a volgere al peggio!" era questa la frase che Vel'čaninov aveva cominciato a ripetere tra sé spesso e con gioia maligna.
Venne l'estate e Vel'čaninov, contro la sua aspettativa, rimase a Pietroburgo. Il suo viaggio nel Sud della Russia era andato a monte, e del processo non vedeva la fine. Questo processo - una lite per una tenuta - aveva preso una bruttissima piega. Soltanto tre mesi prima sembrava una faccenda per nulla complicata, quasi incontestabile; ma di colpo tutto pareva cambiato. «E, del resto, tutto sta cambiando in peggio!» - questa frase Vel'čaninov si era messo a ripeterla fra sé con gioia maligna e di frequente.
Pavel Pavlovič tornò in sé, allargò le braccia e si diede a correre a rotta di collo; il treno già si stava muovendo, ma in qualche modo fece in tempo ad aggrapparsi e saltò al volo sul suo vagone. Vel'čaninov rimase alla stazione e solo verso sera si rimise in viaggio, dopo aver atteso un nuovo treno e seguendo il percorso di prima. A destra, dalla conoscente del distretto, non andò, non era affatto dell'umore giusto. E come ebbe a dolersene in seguito!
Per approfondire, vedi: L'idiota. |
Era una notte meravigliosa, una notte come forse ce ne possono essere soltanto quando siamo giovani, amabile lettore. Il cielo era così pieno di stelle, così luminoso che, gettandovi uno sguardo, senza volerlo si era costretti a domandare a se stessi: è mai possibile che sotto un cielo simile possa vivere ogni sorta di gente collerica e capricciosa? Anche questa è una domanda da giovani, amabile lettore, molto da giovani, ma voglia il Signore mandarvela il più sovente possibile nell'anima! ... Parlando d'ogni sorta di signori capricciosi e collerici, non ho potuto fare a meno di rammentare anche la mia saggia condotta in tutta quella giornata.
[Fëdor Dostoevskij, Le notti bianche, traduzione di Giovanni Faccioli, Rizzoli.]
Era una notte meravigliosa. Una di quelle notti come forse possono essercene soltanto quando si è giovani, egregio lettore. Il cielo era così stellato e così luminoso che, guardandolo, involontariamente veniva fatto di chiedersi: possibile che sotto un cielo come questo possano vivere persone adirate e lunatiche di vario genere? Anche questa è una domanda giovanile, caro lettore, molto giovanile, ma volesse Dio che essa sorgesse più spesso nella vostra anima!... Accennando alle persone lunatiche e adirate di vario genere non potrei fare a meno di pensare anche alla nobile condotta da me tenuta durante tutta quella giornata.
[Fëdor Dostoevskij, Le notti bianche, traduzione di Luigi Vittorio Nadai, Garzanti, 2014.]
La nostra casa di pena stava all'estremità della cittadella, proprio sotto alle fortificazioni. Se a caso guardi dalle fessure della palizzata il mondo di Dio — per scoprire almeno qualcosa — vedrai soltanto un pezzettino di cielo e un alto rincalzo di terra dove crescono le erbe della steppa e le sentinelle che ivi passeggiano notte e giorno; e pensi che là tu dovrai passare anni interi e potrai soltanto guardare a traverso le fessure della palizzata e vedrai sempre quel rincalzo di terra, quelle sentinelle e quel pezzettino di cielo, non del cielo che è sopra alla casa di pena, ma di un altro cielo lontano e libero.
[Fedor M. Dostoievski, Ricordi della casa dei morti, a cura della Duchessa d'Andria, UTET, Torino, 1935.]
La nostra prigione era dietro la fortezza, tra questa e i bastioni. E se da una fessura della palizzata cercavi di guardare fuori, nel mondo creato da Dio, vedevi forse qualcosa? Tutto quello che vedevi era un lembo di cielo e l'alto bastione coperto da erbacce, in cima al quale le sentinelle andavano giorno e notte su e giù.
[Fëdor Dostoevskij, Memorie da una casa di morti, citato in Fruttero & Lucentini, ìncipit, Mondadori, 1993]
Le catene caddero. Io le sollevai... Volevo tenerle in mano, guardarle per l'ultima volta. Ora mi meravigliavo pensando che un momento prima stringevano le mie gambe.
— Su! Dio vi accompagni, Dio vi accompagni! — dissero i forzati con le loro voci ruvide, affannose, ma che avevano un accento di soddisfazione.
Sì, Dio ci accompagni! La libertà, una vita nuova, la risurrezione d'in fra i morti... È un momento magnifico!
1861-1862
[Fedor M. Dostoievski, Ricordi della casa dei morti, a cura della Duchessa d'Andria, UTET, Torino, 1935.]
Io sono una persona malata... sono una persona cattiva. Io sono uno che non ha niente di attraente. Credo d'avere una malattia al fegato. Anche se d'altra parte non ci capisco un'acca della mia malattia, e non so che cosa precisamente ci sia di malato in me. Non mi curo e non mi sono mai curato, anche se la medicina e i dottori io li rispetto. Per di più sono anche superstizioso al massimo grado; o perlomeno quanto basta per rispettare la medicina. (Sono abbastanza istruito da non essere superstizioso, ma sono superstizioso). Nossignori, non mi voglio curare, e non lo voglio appunto per cattiveria. Ecco, forse questa cosa voialtri non vi degnerete di capirla. Be' io invece la capisco. Ovviamente non so spiegarvi a chi di preciso intenda far dispetto in questo caso specifico, con la mia cattiveria; so benissimo che nemmeno ai dottori medesimi potrò in alcun modo" farla sporca", col mio non andar da loro a curarmi; e so meglio di chicchessia che così sto danneggiando unicamente me stesso e nessun altro. Cionondimeno, se non mi curo è giustappunto per cattiveria. Il mio fegatuccio soffre? Bene, che soffra pure, e ancora di più!
[Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, traduzione di Igor Sibaldi, Mondadori, 1987.]
Sono un uomo malato... Sono un uomo cattivo. Un uomo sgradevole. Credo di avere mal di fegato. Del resto, non capisco un accidente del mio male e probabilmente non so di cosa soffro. Non mi curo e non mi sono mai curato, anche se rispetto la medicina e i dottori. Oltretutto sono anche estremamente superstizioso; be', almeno abbastanza da rispettare la medicina. (Sono abbastanza colto per non essere superstizioso, ma lo sono.) Nossignori, non voglio curarmi per cattiveria. Ecco, probabilmente voi questo non lo capirete. Be', io invece lo capisco. Io, s'intende, non saprei spiegarvi a chi esattamente faccia dispetto in questo caso con la mia cattiveria; so perfettamente che neppure ai medici potrò "farla" non curandomi da loro; so meglio di chiunque altro che con tutto ciò nuocerò unicamente a me stesso e a nessun altro. E tuttavia, se non mi curo, è per cattiveria. Il fegato mi fa male, e allora avanti, che faccia ancor più male!
[Fëdor M. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, traduzione di Milli Martinelli, BUR, 1995. ISBN 8817170305]
Sono un uomo malato... Sono un uomo maligno. Non sono un uomo attraente. Credo che mi faccia male il fegato. Del resto, non me n'intendo un'acca della mia malattia e non so con certezza che cosa mi faccia male. Non mi curo e non mi sono curato mai, sebbene la medicina e i dottori li rispetti. Inoltre, sono anche superstizioso all'estremo; be', almeno abbastanza da rispettare la medicina. (Sono sufficientemente istruito per non essere superstizioso, ma sono superstizioso). Nossignori, non mi voglio curare per malignità. Voi altri questo, di sicuro, non lo vorrete capire. Ebbene, io lo capisco. S'intende che non saprei spiegarvi a chi precisamente io faccia dispetto in questo caso con la mia malignità; so benissimo che anche ai dottori non posso in nessuna maniera «fargliela» col non curarmi da loro; so meglio d'ogni altro che con tutto questo danneggio unicamente e solo me stesso e nessun altro. Ma tuttavia, se non mi curo, è per malignità! Se mi fa male il fegato, ebbene, mi faccia pure ancora più male!
[Fëdor M. Dostoevskij, Memorie del sottosuolo (Zapiski iz podpol'ja), traduzione di Alfredo Polledro, Einaudi, 2010. ISBN 9788806177096]
Sono un uomo malato... Sono un uomo cattivo. Un uomo che non ha nulla di attraente. Credo di essere malato di fegato. Del resto di questa mia malattia non ne capisco niente, e in verità non so nemmeno io di cosa soffra. Non mi curo e non mi sono mai curato, sebbene nutra il massimo rispetto per la medicina e per i dottori. Per giunta, sono anche estremamente superstizioso; o per lo meno lo sono abbastanza da rispettare la medicina. (Sono abbastanza colto da non essere superstizioso, eppure lo sono ugualmente.) No, io non voglio curarmi per cattiveria. Questo probabilmente voi non lo capirete, ma io invece lo capisco. Naturalmente non sarei mai capace di spiegarvi a chi esattamente voglio far dispetto in questo caso con le mie ripicche; so benissimo che non sono assolutamente in grado di nuocere nemmeno ai dottori per il fatto che non vado a farmi curare da loro; anzi, so meglio di chicchessia che con ciò faccio del male unicamente a me stesso e a nessun altro. Ciononostante, se non mi curo lo faccio proprio per cattiveria: il fegato mi duole, ebbene che mi faccia ancora più male!
[Fëdor M. Dostoevskij, Ricordi dal sottosuolo (Zapiski iz podpol'ja), traduzione di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli. ISBN 9788807821202]
Sono un malato... Sono un malvagio. Sono un uomo odioso. Credo d'aver male al fegato. Del resto non so un corno della mia malattia e non so con precisione dove ho male. Non mi curo e non mi son mai curato, sebbene tenga in gran conto la medicina. (Son colto quanto occorre per non esser superstizioso, ma lo sono). No, non voglio curarmi per malvagità. Ecco una cosa che certo voi non vi degnerete di capire. Be' ma io la capisco. S'intende che non vi so spiegare a chi appunto faccia dispetto in questo caso colla mia malvagità; so perfettamente che non faccio un torto ai medici col non andarmi a curare da loro; so meglio di chiunque che in questo modo faccio male soltanto a me stesso e a nessun altro. Tuttavia se non mi curo è ugualmente per malvagità. Ho male al fegato; ci ho gusto, possa venirmi male ancora di più!
[Fëdor M. Dostoevskij, Ricordi dal sottosuolo, traduzione di Tommaso Landolfi, BUR, 1984. ISBN 8817130540]
Sono un uomo malato... Sono un uomo cattivo. Non sono un uomo attraente. Penso di soffrire di fegato. Del resto non ci capisco un fico secco della mia malattia e probabilmente non so di cosa soffro. Non mi curo e non mi sono mai curato, sebbene rispetti la medicina e i dottori. In più, sono anche superstizioso all'estremo: be', almeno tanto da rispettare la medicina. (Sono abbastanza istruito per non essere superstizioso, ma sono superstizioso). Nossignore, non voglio curarmi per cattiveria. Voi questo, probabilmente, non potete capirlo. Ma io lo capisco, sissignore. S'intende, non saprei spiegarvi a chi in effetti darò fastidio in questo caso con la mia cattiveria; so perfettamente bene che non potrò "danneggiare" in nessun modo nemmeno i dottori, per il fatto che non mi curo da loro; so meglio di chiunque altro che così facendo nuocerò esclusivamente a me stesso e a nessun altro. Eppure, se non mi curo, è proprio per cattiveria. Mi fa male il fegato, e allora che mi faccia male ancora di più!
[Fëdor M. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, traduzione di Luisa De Nardis, Biblioteca Economica Newton, 2008. ISBN 978-88-8183-907-0]
La sera del ventidue marzo dell'anno scorso mi è accaduta un'avventura assai strana. Avevo passato la giornata a girare per la città in cerca d'un alloggio. Quello nel quale abitavo era molto umido, ed io fin da allora cominciavo ad avere una tosse preoccupante. Già dall'autunno prima mi ero proposto di cambiar casa, ma ad onta di questo divisamento ero arrivato fino alla primavera senza farne nulla.
Avevo girato tutto il giorno senza riuscire a trovare qualcosa di adatto. Il mio desiderio era di avere un appartamento libero, non in subaffitto; mi sarei accontentato anche di una stanza sola, purché fosse molto grande, e, nello stesso tempo, costasse poco.
[Fëdor Dostoevskij, Umiliati e offesi, traduzione di Ossip Felyne, Lia Neanova e C. Giardini, Mondadori, 2003.]
Erano quasi le otto del mattino quando il consigliere titolare Jàkov Petròvič Goljàdkin si svegliò dopo un lungo sonno, sbadigliò, si stiracchiò e infine aprì del tutto gli occhi. Per un paio di minuti rimase però a giacere immobile nel letto come uno che non è ben sicuro se è desto o dorme ancora, se tutto ciò che gli succede intorno è veglia e realtà o non piuttosto la continuazione delle disordinate visioni del sogno. Ben presto, tuttavia, i sensi del dottor Goljàdkin cominciarono a recepire in modo più chiaro e netto le loro abituali, quotidiane impressioni.
[Fëdor Dostoevskij, Il sosia, traduzione di Pietro Zveteremich, Garzanti, 1966.]
Mancava poco alle otto del mattino allorché il consigliere titolare Jakòv Petrovic Goljadkin si svegliò da un lungo sonno, fece uno sbadiglio, si stiracchiò e aprì finalmente del tutto gli occhi. Per due minuti, però, rimase a giacere immobile nel suo letto come un uomo non completamente sicuro se sia sveglio o se ancora dorma e se tutto ciò che accade intorno a lui sia realtà o non piuttosto la continuazione di un fantastico sognare. Ma ben presto i sensi del signor Goljadkin ripresero ad accogliere, più chiare e più precise, le consuete, abituali impressioni.
[Il sosia, traduzione di Giacinta De Dominicis Jorio, Biblioteca Universale Rizzoli.]
Mancava poco alle otto del mattino quando il consigliere titolare Jàkov Petròvic Goljàdkin si ridestò da un lungo sonno, sbadigliò, si stiracchiò e infine aprì completamente gli occhi. Tuttavia, ancora per un paio di minuti egli se ne restò disteso immobile nel suo letto, come se non fosse tuttora pienamente certo di essersi destato o di non stare ancora dormendo, e come in dubbio se tutto ciò che lo circondava gli apparisse nella veglia della realtà o non fosse piuttosto il prolungamento delle sue sconclusionate fantasie notturne. Ben presto, tuttavia, i sensi ridesti del signor Goljàdkin cominciarono a percepire in modo più chiaro e distinto le abituali, quotidiane impressioni.
[Il sosia, traduzione di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, 2003.]
... D'accordo, fintanto che lei è ancora qui va tutto bene: vado lì e la guardo in ogni momento; ma domani la porteranno via, e io come farò a restare solo? Per il momento lei è lì nella sala, sulla tavola – due tavoli da gioco fatti combaciare; la bara è per domani, una bara tutta bianca con gros de Naples bianco; ma no, ma cosa sto...? Cammino e cammino cercando di chiarirmi la cosa. Sono già sei ore che cerco di chiarirmi, ma non riesco a riordinare i pensieri in un punto.
[Fëdor Dostoevskij, La mite, traduzione di Pier Luigi Zoccatelli, Newton & Compton.]
Mi svegliai in un lettuccio bianco nel quale il mio piccolo corpo mollemente si sprofondava, e attorno a me, nella camera, scorsi ricchi tappeti e mobili magnifici. Dalle tende, a metà calate, della finestra immensa, la luce dell'alba si insinuava, colorando tutte le cose di un'aria fantastica e misteriosa.
Non sognavo per caso?
No, era la realtà, quale la morte me l'aveva fatta; e quella dimora principesca aumentava l'amarezza e il dolore della mia anima.
Ero proprio orfana, sola al mondo ed in casa di persone a me estranee.
[Fëdor Dostoevskij, Memorie di un'orfana, Edizioni S.A.C.S.E. - Milano 1936]
Mia impagabile Varvara Alexeevna!
ieri sono stato felice, smisuratamente, inimmaginabilmente felice!
[citato in Fruttero & Lucentini, ìncipit, Mondadori, 1993]
Seamless Wikipedia browsing. On steroids.
Every time you click a link to Wikipedia, Wiktionary or Wikiquote in your browser's search results, it will show the modern Wikiwand interface.
Wikiwand extension is a five stars, simple, with minimum permission required to keep your browsing private, safe and transparent.