A me pare di avere fatto dei film anche comici. Lo sceicco bianco, I vitelloni non erano dei film comici? E La città delle donne non era un film comico? Come anche 8 1/2, del resto. Dipende dal senso che si dà al comico. Comico nel senso della commedia, cioè del dramma comune, umano, umoristico, risibile, addirittura buffonesco, vissuto senza coturni ai piedi. Film che raccontano illusioni di personaggi smontati e smagati da una realtà imprevedibile.[1]
Avevo sempre sognato, da grande, di fare l'aggettivo. Ne sono lusingato. Cosa intendano gli americani con "felliniano" posso immaginarlo: opulento, stravagante, onirico, bizzarro, nevrotico, fregnacciaro. Ecco, fregnacciaro è il termine giusto.[2]
Benigni e Villaggio sono due ricchezze ignorate e trascurate. Due attori che una cinematografia sana e vitale... Ignorarne il potenziale mi sembra una delle tante colpe che si possono imputare ai nostri produttori.[3]
Caro Giulio [Andreotti], la tua premurosa telefonatina di ieri sera mi ha sorpreso e toccato. Sei proprio molto simpatico! Ammiro e invidio la tua generosa disponibilità verso gli amici. Proverò anche a telefonare a Berlusconi per ringraziarlo dell'omaggio estremamente amichevole.[4]
Dai bilanci ho sempre rifuggito, sono operazioni masochistiche e inutili: neppure i bilanci degli Stati o delle società funzionano, figuriamoci quelli di un regista. È chiaro che in questa fase, del Paese e del mio mestiere, finire un film mi sembra abbia un sapore diverso: dato che il cinema pare un passatempo rituale e sorpassato, non sai se e quando ricomincerai a lavorare, se potrai, se ne avrai voglia...[5]
Debbo dire che mi piacciono moltissimo anche certi film di 007. Dietro la superficie smaltata, la concatenazione brillante di fatti avventurosi, senti il fruscio allarmante di un mondo di coleotteri, terribile, angoscioso: il nostro mondo, affascinante e tremendo come questi film che spesso riescono a captare, dentro una forma gloriosamente convenzionale, il messaggio magari parziale, magari distorto, magari impazzito, dell'uomo di oggi.[6]
Devo confessare che in questi ultimi tempi ho conosciuto dei musicisti che faranno strada. Un certo Giuseppe Verdi, per esempio. E anche quel Rossini non è male. Ciaikowski, poi, ha un certo talentaccio. È una vergogna che io, venuto dalla Romagna, cioè da una terra tra le capitali della lirica, abbia cominciato ad apprezzare l'opera e a entusiasmarmi per certi geni musicali soltanto negli ultimi tempi. Ma sto cercando di riparare.[7]
Dopo la guerra dominava il sentimento della rinascita, della speranza: tutto il male era finito, si poteva ricominciare. Adesso, non so se quest'ombra che si allunga sull'Italia preveda una resurrezione. Dopo la guerra, si aveva il sentimento d'aver patito sciagure immeritate ma che facevano parte della Storia, che rendevano partecipi della Storia: non era certo un conforto, ma alle sofferenze dava un senso, un riscatto. Adesso questo manca del tutto: c'è soltanto il sentimento d'un buio in cui stiamo sprofondando.[8]
[Riferendosi al ventennio fascista] È stato un miracolo se non siamo cresciuti completamente imbecilli.[9]
È uno strano film, il più difficile che ho immaginato finora. La dolce vita andrebbe proiettato tutto insieme, in una sola enorme inquadratura. Non pretende di denunciare, né di tirare le somme, né di perorare l'una o l'altra causa. Mette il termometro a un mondo malato, che evidentemente ha la febbre. Ma se il mercurio segna quaranta gradi all'inizio del film, ne segna quaranta anche alla fine. Tutto è immutato. La dolce vita continua. I personaggi dell'affresco continuano a muoversi, a spogliarsi, ad azzannarsi, a ballare, a bere, come se aspettassero qualcosa. Che cosa aspettano? E chi lo sa? Un miracolo, forse. Oppure la guerra, i dischi volanti, i marziani.[10]
I concetti di volume, colore, prospettiva, sono un modo d'intendersi con la realtà, una serie di simboli per definirla, una mappa, ed era proprio questo rapporto intellettuale che veniva a mancare. Come quella volta che per far contenti dei medici amici che stavano studiando gli effetti dell'LSD, accettai di fare da cavia e bevvi un mezzo bicchiere d'acqua dove dentro era stata lasciata cadere un'infinitesima parte di un milligrammo di acido lisergico. Anche quella volta la realtà degli oggetti, dei colori, della luce, non aveva più alcun senso conosciuto. Le cose erano se stesse, sprofondate in una grande pace luminosa e terrificante. In momenti come quello le cose non ti pesano; non vai a bagnare tutto con la tua persona, come un'ameba. Le cose diventano innocenti perché togli di mezzo te stesso; una verginale esperienza, come il primo uomo può avere visto vallate, praterie, il mare. Un mondo immacolato che palpita di luce e di colori viventi col ritmo del tuo respiro; tu diventi tutte le cose, non sei più separato da loro, sei tu quella nube vertiginosamente alta nel mezzo del cielo, e anche l'azzurro del cielo sei tu, e il rosso dei gerani sul davanzale della finestra, e le foglie, e la trama fibrillante del tessuto di una tenda. (citato in Federico di Tullio Kezich)
Il cinema è come una vecchia puttana, come il circo e il varietà, e sa come dare molte forme di piacere.[11]
Il cinema è il modo più diretto di entrare in competizione con Dio.[12]
Il cinema ha questo di salutare: anche se la voglia originaria si è dileguata, la realizzazione comporta una tale serie di problemi concreti che vai avanti a fare la cosa senza renderti conto di non ricordarla più. Il film lo giri senza sapere esattamente di che si tratta.[13]
Il cinema non ha bisogno della grande idea, degli amori infiammati, degli sdegni: ti impone un solo obbligo quotidiano, quello di fare.[13]
Il contrasto di chi si illude e parte in quarta contro i mulini a vento è sempre motivo di comicità.[1]
Il personaggio di gran lunga più interessante che sta a sé, completamente fuori di questa galleria di fenomeni più o meno patologici, il personaggio più portentoso è il dottor Gustavo Rol, di Torino. Anche lei certo ne ha già sentito parlare. Non si tratta di un "mago" più dotato degli altri. È un signore civilissimo, colto, spiritualmente raffinato, che ha fatto l'università, dipinge, si è dedicato per anni all'antiquariato. Ma dispone di tali poteri che non si capisce come non sia famoso in tutto il mondo. Chissà, forse non è ancora venuto il suo momento. [...] Quello che Rol sa fare è pauroso. Chi assiste prova la sensazione di uno che sprofonda in un abisso marino senza scafandro. È la testimonianza fascinosa e provocatoria di una trascendenza. Se non si resta terrorizzati è soltanto per il suo modo gioviale e scherzoso un po' da Fra Ginepro, per l'atmosfera salutare che si sprigiona da lui. Del resto egli stesso, prima degli esperimenti, cerca, con opportuni avvertimenti, di creare un limite alla meraviglia, altrimenti si potrebbe rimanerne schiantati.[14]
Io vorrei provarla come attrice. Mina ha la faccia della luna. Gli occhi sono dolci e crudeli. La bocca chiama dal cielo le comete: basta un fischio. Poi è tanta. Il mio amico Sordi dice che è "'na fagottata de roba". È un tipo che entra nelle mie storie. Avrebbe fatto bene anche la Gradisca.[15]
[Parlando di sincronicità] Jung, elaborando questa sua intuizione, ha tentato di farci capire che è possibile giungere a una più intima comprensione dei rapporti che intercorrono tra il mondo della psiche e quello della materia. Ma noi siamo così distratti e così diffidenti verso tutto ciò che non ci appaia controllato dai sensi e dalla ragione, per cui questi avvisi che vengono dal profondo, queste informazioni, questi ammonimenti, questi consigli che nemmeno il più intelligente e amorevole degli amici potrebbe darci, passano completamente ignorati, non li ascoltiamo, e diventiamo sempre più sordi, più ciechi, più stupidi, al punto da non riceverne più.[16]
[...] l'aspetto più imbarazzante e schizofrenico dell'intervista è che chi la subisce deve accettare di credere di essere un altro, uno cioè che sa, che ha idee generali, una visione del mondo, e dice la sua sull'esistenza, la religione, la politica, l'amore, le bretelle.[17]
[Parlando di Gustavo Rol] L'uomo più sconcertante che io abbia conosciuto. Sono talmente enormi le sue possibilità, da superare anche l'altrui facoltà di stupirsene.[18]
La censura è sempre uno strumento politico, non è certo uno strumento intellettuale. Strumento intellettuale è la critica, che presuppone la conoscenza di ciò che si giudica e combatte. Criticare non è distruggere, ma ricondurre un oggetto al giusto posto nel processo degli oggetti. Censurare è distruggere, o almeno opporsi al processo del reale. C'è una censura italiana che non è invenzione di un partito politico ma che è naturale al costume stesso italiano. C'è il timore dell'autorità e del dogma, la sottomissione al canone e alla formula, che ci hanno fatto molto ossequienti. Tutto questo conduce dritti alla censura. Se non ci fosse la censura gli italiani se la farebbero da soli.[19]
La più grande unità sociale del Paese è la famiglia, o due famiglie, quella regolare e quella irregolare.[20]
Le versioni degli avvenimenti le modifichiamo continuamente per non annoiarci.[21]
Marcello è un magnifico attore. Ma è soprattutto un uomo di una bontà incantevole, di una generosità spaventosa. Troppo leale per l'ambiente in cui vive. Gli manca la corazza, certi pescicagnacci che conosco io sono pronti a mandarselo giù in un boccone.[22]
Mi affascinano di Danijel Žeželj le sue prospettive, il modo in cui riesce ad esprimere attraverso le sue storie e i suoi personaggi il senso della malinconia, di qualcosa di fatale che incombe. Tutto questo viene rappresentato con infinito talento e uno stile che riesce a mostrare la sue visione cupa del mondo con grande originalità e coerenza.[23]
[Riguardo a Roberto Benigni sul cast di La voce della luna] Mi partiva il cuore, quando ero con lui, ed era come trovarsi davanti al tramonto o a una quercia. Si sentiva come un vento fresco che cambiava il mondo. Mi chiamava cockerino, perché non mi sono mai abituato alla sua presenza e gli saltavo addosso per liberarmi dall'emozione. Amava i clown più delle donne. Parlando anche di una bottiglia, ne evocava profondità e bellezza, tirava fuori lo stupefacente, il poetico, l'immaginifico dalle cose ordinarie, che diventavano sconfinate. Portava a galla sentimenti che noi avevamo ma non sapevamo di avere, come se in un apprendistato di mistero ti mandava a dire: la vita, la morte, il mondo sono lì, sacri, dolorosi, e ti aspettano.[24]
Non faccio un film per dibattere tesi o sostenere teorie. Faccio un film alla stessa maniera in cui vivo un sogno. Che è affascinante finché rimane misterioso e allusivo ma che rischia di diventare insipido quando viene spiegato.[25]
Non mi piacerebbe sentir dire che ho tentato di stupire, che voglio fare il moralista, che sono troppo autobiografico, che ho cercato nuove vie. Non mi piacerebbe sentir dire che il film è pessimista, disperato, satirico, grottesco. E nemmeno che è troppo lungo. La dolce vita, per me, è un film che lascia in letizia, con una gran voglia di nuovi propositi. Un film che dà coraggio, nel senso di saper guardare con occhi nuovi la realtà e non lasciarsi ingannare da miti, superstizioni, ignoranza, bassa cultura, sentimento. Vorrei che dicessero: è un film leale. La base del discorso presuppone un certo tipo di angoscia che non arriva alla coscienza di tutti. L'episodica invece è molto spettacolare, attinta com'è da una cronaca che ha interessato, commosso, irritato, divertito il pubblico... penso che La dolce vita possa venir accettato come un giornale filmato, un rotocalco in pellicola. Sono anni che i settimanali vanno pubblicando queste vicende.[26]
Non voglio dimostrare niente, voglio mostrare.[27]
Peppino è stato senza dubbio una delle maschere più pure ed entusiasmanti della grande barca dei comici che era la Commedia dell'arte; un capocomico surreale e imprevedibile che qualsiasi teatro del mondo ci poteva invidiare tanto era particolare e seducente.[28]
[Sulla realizzazione de La dolce vita] Poi dissi [a Pinelli e Flaiano, gli sceneggiatori]: inventiamo episodi, non preoccupiamoci per ora della logica e del racconto. Dobbiamo fare una statua, romperla e ricomporne i pezzi. Oppure tentare una scomposizione picassiana. Il cinema è narrativa nel senso ottocentesco: ora tentiamo di fare qualcosa di diverso.[30]
[A Napoli durante le riprese di Paisà]Rossellini cercava, inseguiva il suo film in mezzo alle strade, con i carri armati degli alleati che ci passavano a un metro dalla schiena, gente che gridava e cantava alle finestre, centinaia di persone intorno che cercavano di venderci o di rubarci qualcosa, in quella bolgia incandescente.[31]
Se non parlo, se non racconto le storie dei miei film, non lo faccio per civetteria (il gusto del segreto), né per ragioni scaramantiche, come qualcuno pensa, ma perché è pericoloso raccontare un film prima di averlo fatto. Almeno per me.[1]
Sono autobiografico anche quando parlo di una sogliola.[32]
Tutta l'arte è autobiografica. La perla è l'autobiografia dell'ostrica.[33]
[Su La voce della Luna] Un film sull'assenza di un sentimento, di un'ideologia; sulla frammentazione e sullo sbriciolamento contemporaneo. Comincia che è già finito, non ha un finale perché neppure ha un inizio. È soltanto una passeggiata, un percorrere il nostro tempo e i nostri giorni, che ha un certo punto s'interrompe nel modo più pertinente: con uno sberleffo.[34]
[Riferendosi a Paolo Villaggio] Un uomo evidentemente deciso a rovinarsi con le sue mani (e siccome è bravo, vedrete che ci riuscirà a furia di partecipare a tutte le scemenze televisive possibili).[3]
Un linguaggio diverso è una diversa visione della vita.[35]
Vincenzo hai il miglior divano di tutta Via Veneto.[36]
Dall'intervista di Giorgio Bocca, Milano, L’Europeo, 21 febbraio 1960, p. 40
[Dopo l’uscita de La dolce vita] Poi c'è il cosiddetto sdegno nazionale e questo non mi fa ridere. lo lo ascolto stupito. Mi ero fatto delle illusioni sul conto di una certa mentalità, la credevo meno diffusa. Che tristezza questa difesa caricaturale di valori in cui non si ha più fede.
Il mio [La dolce vita] è un film casto che descrive il male senza compiacimenti. È il film di una persona smarrita, disperata, confusa. È un'autobiografia. Marcello mi rappresenta dalla testa al piedi.
Io ho presentato il problema nella forma più efficace. Ma perché dovrei trovare la soluzione? Sono forse un santo o un capo partito? La soluzione la trovino gli altri, i pastori di anime e i riformatori di società lo sono un regista e faccio i film. Del resto La dolce vita non ha un preciso intento sociale. E una favola in chiave di ballata.
I personaggi [De La dolce vita] sono immobili perché la loro società, la nostra, è ferma in un tempo d'attesa. Essi sono fermi anche nel loro frenetico girotondo. È gente che vive di miti che non reggono più. La ricerca della verità è affidata al fotoreporter, all'occhio di vetro di una macchina, Quest'occhio è talmente dilatato che non riesce più a vedere nella misura umana. La verità sfugge, il girotondo continua, il mostro si mangia la coda. Non c'è plù silenzio, ci si stordisce con la musica, tutto il film è dominato da questa ossessione sonora. La gente ha paura del silenzio perché teme di ascoltarci i suol rimorsi. Sette giorni e sette notti di immobilità. Il racconto non può esistere, può esistere solo il tempo di attesa.
Il tema dominante del mio film era il tempo di attesa: ho voluto sottolinearlo con l’attesa del miracolo. Poveri e ricchi sotto questo aspetto sono eguali. Marcello l'operaio, la pittrice e la popolana corrono sul luogo dove appare la Madonna. Corrono per dirle: Madonna spiegaci tu, dicci: che cosa è questa nostra vita, dicci cosa ci attende. Ma è un falso miracolo, il tempo d'attesa continua.
[Su 8½] [...] non è un film triste. È un film dolce, aurorale. Malinconico, semmai. Però la malinconia è uno stato d'animo nobilissimo: il più nutriente e il più fertile.
[Su 8½] Con questo non si può certo dire che il film sia autobiografico: in senso spicciolo. E se anche lo fosse? Non voglio fornire allo spettatore una interpretazione in chiave aneddotica, biografica. In chiave biografica il film diventerebbe solo una inutile, fastidiosa esibizione narcisistica.
[Su 8½] È la storia di un uomo come ce ne sono tanti: la storia di un uomo giunto a un punto di ristagno, a un ingorgo totale che lo strozza. Io spero che dopo i primi cento metri lo spettatore dimentichi che Guido è un regista, cioè un tipo che fa un mestiere insolito, e riconosca in Guido le proprie paure, i propri dubbi, le proprie canagliate, viltà, ambiguità, ipocrisie: tutte cose che sono uguali in un regista come in un avvocato padre di famiglia.
Quarantatré anni non sono un'età precoce per tirare le somme della propria vita. Proprio per questo il film mi ha fatto un gran bene: mi sento come liberato, ora, con una gran voglia di lavorare. È un film testamentario, hai ragione, eppure non mi ha svuotato. Al contrario, mi ha arricchito: fosse per me, ricomincerei a farne un altro domattina. Davvero. E certo se mi dicono che bravo Fellini, che ingegno, mi fa un gran piacere: ma non sono i complimenti che cerco con Otto e mezzo. Vorrei... vorrei che questo senso liberatorio si trasmettesse a chi lo va a vedere, che dopo averlo visto la gente si sentisse più libera, avesse il presentimento di qualche cosa di gioioso...
[Sulla scelta dell'attore protagonista in 8½] Io avevo bisogno di un italiano, di un amico che accettasse con umiltà di essere come un'ombra rispettosa, che non venisse fuori in modo eccessivo. Così ho preso Mastroianni, lo conoscevo già, ed è stato bravissimo: così allusivo, discreto, simpatico, antipatico, tenero, prepotente. C'è e non c'è. Perfetto.
La mia 500 rimase senza benzina, era notte ed un contadino in Valdorcia mi regalò un litro e mi disse che la mia unica possibilità era arrivare a Chianciano. L'ho scoperta arrivando dalla Foce, non ho più cercato la benzina, ma ho trovato benzina per la mia fonte di ispirazione[37]
[Su La strada] Credo che il film l'ho fatto perché mi sono innamorato di quella bambina-vecchina un po' matta e un po' santa, di quell'arruffato, buffo, sgraziato e tenerissimo clown che ho chiamato Gelsomina e che ancora oggi riesce a farmi ingobbire di malinconia quando sento il motivo della sua tromba. (p. 60)
Mi era simpatica la Magnani, l'ammiravo, ma mi dava un po' di soggezione con quell'aria fosca da regina degli zingari, le lunghe occhiate silenziose, scrutatrici, gli scoppi di risa rauche nei momenti più inattesi. Sembrava sempre risentita, annoiata, altera. E invece era una ragazzetta timida dietro quel cipiglio minaccioso, aggressivo nascondeva un'ingenuità, un pudore selvatico, un entusiasmo da monella, e il sentimento caldo, pieno, di una vera donna, come vorresti incontrare più spesso. (p. 61)
Il sentimento di meraviglia che Totò comunicava era quello che da bambini si prova davanti a un evento fatato, alle incarnazioni eccezionali, agli animali fantastici: la giraffa, il pellicano, il bradipo; e c'era anche la gioia e la gratitudine di vedere l'incredibile, il prodigio, la favola, materializzati, reali, viventi davanti a te. Quella faccia improbabile, una testa di creta caduta in terra dal trespolo e rimessa insieme frettolosamente prima che lo scultore rientri e se ne accorga; quel corpo disossato, di caucciù, da robot, da marziano, da incubo gioioso, da creatura di un'altra dimensione, quella voce fonda, lontana, disperata: tutto ciò rappresentava qualcosa di così inatteso, inaudito, imprevedibile, diverso, da contagiare repentinamente, oltre che un ammutolito stupore, una smemorante ribellione, un sentimento di libertà totale contro gli schemi, le regole, i tabù, contro tutto ciò che è legittimo, codificato dalla logica, lecito. (p. 128)
Col suo pancione placentario e il suo aspetto materno evita la nevrosi ma impedisce anche uno sviluppo, una vera maturazione. È una città di bambini svogliati, scettici e maleducati: anche un po' deformi, psichicamente, giacché impedire la crescita è innaturale. Anche per questo a Roma c'è un tale attaccamento alla famiglia. Io non ho mai visto una città al mondo dove si parli tanto dei parenti. "Te presento mi' cognato. Ecco Lallo, er fjo de mi' cugino". È una catena: si vive fra persone ben circoscritte e ben conoscibili, per un comune dato biologico. Vivono come nidiate, come covate... E Roma resta la madre ideale, la madre che non ti obbliga a comportarti bene. Anche la frase molto comune: "Ma chi sei? Nun sei nessuno!" è confortante. Perché non c'è solo disprezzo, ma anche una carica liberatoria. Non sei nessuno, quindi puoi anche essere tutto. Tutto può ancora essere fatto. Si può partire da zero. Insultata come nessun'altra città, Roma non reagisce. Il romano dice: "Mica è mia, Roma". Questa cancellazione della realtà che fa il romano, quando dice "ma che te ne frega!", nasce forse dal fatto che ha da temere qualcosa o dal papa o dalla gendarmeria o dai nobili. Egli si rinchiude in cerchio gastrosessuale. (p. 145)
A me sembra che un discorso onesto sulla necessità di proiettarci su qualche cosa, un discorso sulla fiducia, sulla buona volontà, sugli obiettivi comuni, sia ancora pericolosissimo. Quando ascoltiamo chi parla così, immediatamente precipitiamo in uno stato infantile; c'è subito il pericolo, mortale, di abbandonarci, di affidarci, e c'è sempre qualcuno pronto a sfruttare questo abbandono, e a far ricominciare tutta la faccenda da capo, con gli stessi errori, gli stessi equivoci, le atrocità di sempre. Forse, smascherare la bugia, identificare e smantellare l'approssimativo o il falso, continua ad essere, per ora, l'unica risorsa – una sorta di irridente, precaria salvezza – della nostra storia fallimentare. (p. 154)
Ci conoscevamo, ma era un altro mondo; non gli sono mai interessata, non mi ha mai chiamata perché non mi vedeva come un suo personaggio. Non cercava persone come me, ma donne formose, io ero reale ed ero lì, lui era un sognatore e creava fantasmi. (Florinda Bolkan)
Ci usava come degli oggetti, mentre con Pier Paolo si era coinvolti in un processo molto più misterioso. Con Federico, era chiaro che eravamo degli oggetti e lui manipolava l'attore in tutti i modi, ma io non mi lasciavo manipolare. Non andavamo d'accordo, non eravamo sulla stessa lunghezza d'onda. Era carino, a me era anche abbastanza simpatico, dico "abbastanza", ma non del tutto... Non mi piaceva il suo spirito da "Marc'Aurelio". (Laura Betti)
Con Fellini ho creato una sorta di amicizia spirituale eterna. Aver condiviso pensieri, captando la sua enorme poesia, gentilezza e grandezza non solo di regista, ma anche di uomo, mi fa affermare che questa vita mi ha fatto un regalo enorme. (Mirella D'Angelo)
È stato Fellini a spingermi verso il mio cinema. Ci sono pochi registi che hanno allargato il nostro modo di vedere e hanno completamente cambiato il modo in cui sperimentiamo questa forma d'arte. Fellini è uno di loro. Non basta chiamarlo regista, era un maestro. (Martin Scorsese)
Era sempre alla ricerca di soldi. È come un bambino, molto sensibile. Cosciente di tutto ciò che gli accade intorno. (Reggie Nalder)
Era solito fare schizzi e giochi, come fosse un gesto di scrittura automatica, poi li strappava, li buttava. Se eri bravo glieli sottraevi. Ha disegnato per me due vignette con i pennarelli a spirito, una in particolare recita una cosa del tipo "Grandi applausi del pubblico per la piccola Domitilla" e ci sono io che mi inchino sul palcoscenico, la dedica e la firma. Me le diede ridendo, le ho entrambe incorniciate a casa. Era un bravo vignettista! (Domitilla D'Amico)
Eravamo due poveracci. Andavamo a mangiare in una latteria in via Frattina e c'eravamo accattivati la simpatia della cuoca. ordinavamo uno spaghetto e lei sotto ci metteva due bistecche e due uova. Io e Federico Fellini facevamo lunghe passeggiate la sera: sognavamo, parlavamo di aspirazioni, progettavamo di diventare io un grande attore e lui sosteneva sempre, diceva: «Ti assicuro, Albè, che io un giorno diventerò un grande regista, forse il regista più grande del mondo». Solo che lo dovevo sostenere, lui c'aveva fame. Gli era rimasta solo una testa così, piena di capelli, su un corpo che ormai non si sosteneva più perché...perché era debole, deperiva di giorno in giorno. E io non potevo fare niente per lui...potevo divertirlo, potevamo ridere, scherzare insieme, ma non potevo sfamarlo perché anch'io ero un poveraccio. Non c'avevo 'na lira. E poi arrivò il suo angelo salvatore: conobbe una ragazzina che faceva la radio, si chiamava Giulietta. Lui scrisse per lei una rubrichetta alla radio e si fidanzarono. Lei da buona emiliana cominciò a cucinare agnolotti, lasagne, tortellini e cominciò a ingrassare Federico. Cominciò a camminare da solo, cominciò a scrivere e cominciò a lavorare. Tutto quello che vi racconteranno che non sia quello che vi ho raccontato io, probabilmente non è la verità. E sapete perché? Perché probabilmente gliel'ha raccontata lui. Perché, dovete sapere, oltre ad essere un grande regista, Federico è anche un grande bugiardo, forse l'uomo più bugiardo del mondo. Però, aò, Federico c'ha una capoccia così! (Alberto Sordi)
Fellini, come artista, è un cultore del rito filosofico della cosmofagia, mangiare il mondo. (Morando Morandini)
Fellini era una delle persone più divertenti e curiose che abbia mai conosciuto. Un enorme, meraviglioso bambino. Aveva terrore dell'aereo. Nel '65, in volo verso New York per la presentazione di Giulietta degli spiriti, vedo che senza muovere la mano, solo con la punta delle dita, fa un gesto impercettibile, dall'alto in basso e da destra a sinistra. Un segno della croce concentrato. Siamo scoppiati a ridere: guarda che così Dio s'incavola... (Marina Cicogna)
Fellini? Lo incontravi e subito lo adoravi. Era speciale anche nei provini. Non ti chiedeva 'che hai fatto finora' o 'hai studiato recitazione'. Le domande erano 'hai un amante?', 'qual è il tuo profumo preferito?', 'hai un gatto?', 'cosa pensi dell'aglio?' (Barbara Steele)
[Fellini è ricoverato in un ospedale di Roma] Fellini mi fece accomodare. Era seduto su una piccola sedia a rotelle tra i due letti; mi prese la mano e rimanemmo seduti a parlare per mezz'ora. Non penso di avergli fatto molte domande. Lo ascoltai tantissimo e basta. Mi parlò dei vecchi tempi, di come andassero le cose. Raccontò alcune storie. Mi piaceva terribilmente stare seduto accanto a lui. Poi andammo via. Era venerdì sera, la domenica entrò in coma e non si risvegliò più. (David Lynch)
Fellini, quello che non poteva memorizzare, lo appuntava sui manifesti degli uffici di produzione: i telefoni delle generichette, quelli delle facce importanti, dei caratteristi imprescindibili transitati per caso negli uffici volanti delle produzioni. (Tatti Sanguineti)
Guardare i loro film, sia quelli di Fellini che quelli di Bava, provoca in me uno stato di sogno. Sebbene siano molto diversi tra loro, mi danno entrambi una condizione onirica molto viva. (Tim Burton)
Ho visto l'ultimo Fellini l'altro giorno, non è uno dei suoi migliori, è mancante di strutture coesive, si ha la sensazione che non sia del tutto sicuro di quello che vuole dire. Oddio, io l'ho sempre definito essenzialmente "un grande tecnico del cinema". D'accordo, La strada era un buon grandissimo film. Grandissimo nell'uso dell'energia negativa... [...] Mettiamo ad esempio in Giulietta degli spiriti o in Satyricon, io lo trovo incredibilmente indulgente, sai veramente, uno degli autori più indulgenti, ma veramente, sai... (Io e Annie)
Il suo amore per gli attori, per i suoi attori, lo esprimeva anche in certi dettagli che non mi è capitato di ritrovare in altri registi, forse anche perché le sue storie erano diverse. (Marcello Mastroianni)
Internazionalmente parlando il cinema italiano è soltanto Fellini. (Dino De Laurentiis)
L'ultima ripresa de La nave va è un punto mai raggiunto da nessun'altra cinematografia al mondo. I miei film sono così pesanti. Lui invece arrivava molto più in profondità saltellando sulla spiaggia. (Sidney Lumet)
La prima volta che ho fatto visita a Federico Fellini, al suo studio in corso d'Italia 35 a Roma, era un giorno freddo e ventoso di marzo del 1990. Quel mattino avevamo un appuntamento telefonico: doveva confermarmi se avrebbe potuto incontrarmi per un'intervista. La cosa non era certa. Qualche giorno prima, al telefono, mi aveva detto:
Le notti di Cabiria e La strada di Fellini sono film in piena sintonia con lo spirito del cattolicesimo. Credo che oggi guardando un film considerato una volta scandaloso come La dolce vita, si colga in esso il grande grido di sete metafisica, pure nel tragico suicidio dell'intellettuale disperato amico del protagonista. (Krzysztof Zanussi)
Lo sconforto e il dolore per aver perso un grande amico e un grande regista, un genio, mi fecero decidere di cambiare direzione. Lasciai l’Italia. La mia vita e il mio essere attrice sembravano avere meno senso. Per come era magico, anche dopo la sua morte Fellini mi arrivava in sogno e, da lì a poco, rimasi incinta. Nel 1994 nacque mia figlia Angelica e io restai a Londra per tantissimi anni, in un’altra vita che mi avrebbe dato quei tasselli umani e la forza che mi mancavano. (Mirella D'Angelo)
Lui non capì un bel niente del suo tempo, dei costumi e del clima spensierato di quella stagione. La decadenza rappresentata nella sua "Dolce Vita" non era quella del '58. Cominciò dieci anni dopo, con le discoteche, i salotti, i palazzinari, la mafia e la cocaina che pioveva come borotalco, imbiancando anche i nasi più ingenui. Lo dissi a Federico, che si arrabbiò. Ma poi facemmo pace. (Olghina di Robilant)
Molto simpatico, intelligentissimo, spiritoso. Grandissimo talento creativo e notevolissimo scrittore. [...] Fui entusiasta de I vitelloni [...] Mi piace moltissimo anche Amarcord e la prima parte di E la nave va. Non sono una patita de La dolce vita, e giudico Otto e mezzo il più bel film di Fellini. Un film molto importante. Quanto a Satyricon, Roma, La città delle donne, La voce della luna, mi mettono lo sgomento che provo nei musei quando imbocco una di quelle sale piene dei quadroni di Rubens. (Suso Cecchi D'Amico)
Non dico il pubblico, ma neanche i registi, salvo eccezioni come Mario Monicelli o Blasetti, danno credito al lavoro degli sceneggiatori. Fellini mise a dura prova il fegato di Flaiano, dichiarando sempre a destra e a sinistra di non avere sceneggiatura, e di andare sul set con in tasca un fogliettino grande quanto il biglietto dell'autobus, sul quale nottetempo aveva segnato qualche appunto. Sfacciato. Le sceneggiature le aveva eccome, almeno fino agli ultimi tempi. (Suso Cecchi D'Amico)
Non era solo colpa sua, ma a forza di sentirsi chiamare genio aveva finito per sentirsi tale... Mi dispiace dirlo, ma penso che Fellini sia stato sopravvalutato. Aveva, è vero, qualità enormi prima tra tutte la curiosità. Ma quando andammo a vedere La strada con De Feo ed Ercole Patti ci annoiammo mortalmente. (Franca Valeri)
Non mi piacciono le immoralità di gruppo. Le orge vanno bene solo nei film di Fellini. (Manuel Vázquez Montalbán)
Non sono mai appartenuta al mondo cinematografico di Fellini. Io e mio marito Carlo Ponti avevamo dei progetti con lui, ma a volte le cose non riescono, cosa che mi dispiace molto. Così recuperare Fellini, attraverso un musical americano [Nine, ispirato a 8 1/2], è stato bello e commovente. Io poi ho sempre voluto recitare in un musical, dai tempi in cui bambina guardavo quelli con Betty Grable o Carmen Miranda. (Sophia Loren)
Ogni tanto Dio sembra che si risvegli dall'assenza, dal torpore in cui appare avviluppato, o in cui noi lo abbiamo costretto, e accadono i miracoli, che non hanno niente a che vedere con le Madonnine che lacrimano sangue, ma che si esprimono nella dimensione concreta di certi uomini. Sono quelle genialità imprevedibili, quelle umanità inspiegabili coi criteri razionalistici, che innestano un pezzetto di cielo nella nostra quotidianità. Capita solo qualche volta nell'arco di un secolo. Ma capita. Il miracolo della grazia che talvolta si incarna in una precisa personalità artistica è quello che ci fa dire che Dio non si è dimenticato di noi. E la controprova del genio sta nel fatto che gli viene tutto facile, che la melodia scorre come l'acqua di un ruscello e si fissa sul pentagramma, come per Mozart che non aveva bisogno di cancellature. Come per Fellini che ha avuto il dono di una enorme facilità espressiva e in più si sentiva investito di quella felicità tipica dell'uomo che si accorge che l'immagine interiore aderisce perfettamente alla forma visiva. E noi, il pubblico, ne percepiamo immediatamente il valore e la grandezza. (Mina)
Parlavamo di ogni cosa: letteratura, raramente cinema, aneddoti, ricordi, persone, misteri, dèmoni, religioni, vita, morte, persino gli dèi o Dio. Se parlava di libri, sembrava che nessuno vivesse, come lui, dentro un libro: se parlava di persone, le auscultava, le decomponeva, conosceva tutte le molle che le facevano agire; e su qualsiasi cosa lasciava cadere la sua luce mite, pigra ed estrosa. Aveva un'intelligenza morbida, rapida, colorata, senza schemi né presupposti, pronta a trasformarsi nello scintillio di un'onda o nell'ombra di una nuvola rosa. Capiva tutto al volo: anche quello che non avevo ancora pensato. (Pietro Citati)
Per uno scrittore che viveva in una società chiusa, Fellini ha rappresentato molto. Possedeva un'energia enorme, quando sfiorava il cuore del destino umano. (Norman Manea)
[Spiegando perché Fellini avrebbe scelto lei nella parte di Emma ne La dolce vita contro il parere di molti suoi collaboratori] Perché Fellini ha l'occhio che vede più lontano. Solo le piccole persone non rischiano. Lui, invece, non è una piccola persona. Vive nell'immaginazione. (Yvonne Furneaux)
Poi c'è Federico Fellini, un'enorme fonte di ispirazione. Dei suoi film mi piacciono La strada e Otto e mezzo. No, in realtà mi piacciono tutti, sempre per lo stesso motivo: il mondo, i personaggi, l'atmosfera e questo sottofondo, inafferrabile, che affiora in ciascuno di essi. (David Lynch)
Prova d'orchestra di Fellini è uno dei film più amati dai musicisti. All'epoca sembrò una metafora dell'Italia del 1979, sindacalizzata e allo sbando; ma il caos che mette in scena è universale. (Alberto Pezzotta)
Se Fellini mi dicesse: «Albe', ho una parte per te nel mio prossimo film...» Eh, allora come faccio a dire di no? Con Federico ho fatto Lo sceicco bianco, I vitelloni, e se so' quello che sono, oggi, lo devo anche a lui, no? (Alberto Sordi)
Sentiva che le porte del cinema, che per lui erano sempre state spalancate, non si aprivano più. (Milena Vukotic)
Sfido chiunque ad aprirsi così. Un karakiri simile, con fuori frattaglie e pezzi grossi. Forse Fellini. Lui appena vede un giornalista s'apre tutto. Mostra tutto, ma non si squarta. No. Ha la chiusura lampo. Dopo richiude subito. Per la prossima volta. (Marcello Marchesi)
Sì, ero amico di Federico, moltissimo. Mi telefonava spesso, in occasione delle mie vicende giudiziarie, e da lui ho avuto le parole più belle di solidarietà e amicizia. (Giulio Andreotti)
Sono sempre stato un fannullone. Quando incontravo Fellini in piazza di Spagna, facevo finta di non vederlo. Lui eccome se mi vedeva. Allora io cominciavo a correre, e Federico dietro: «Piero, ti prego, per il prossimo film mi farai almeno una scarpina?». (Piero Tosi)
"Un'intervista? E perché? Le intervista mi imbarazzano e i giornalisti mi annoiano". Io gli avevo timidamente risposto: "Non sono giornalista, sono poetessa...". Quel fatto gli era piaciuto: "Meglio così" – aveva risposto – "mi telefoni alle otto del mattino di giovedì". Tuttavia, alle otto di quel lontano giovedì piovoso in cui dovevo telefonargli per fissare l'appuntamento, mi ero svegliata senza voce! Dopo qualche saggio gargarismo con acqua tiepida e sale, mi ero fatta coraggio e gli avevo telefonato. "Signor Fellini" – gli dissi con voce rauca e quasi inaudibile – "mi sono svegliata senza voce; come faremo l'intervista se lei accetta di vedermi oggi?". Al che egli rispose: "Mia cara, venga, venga subito al mio studio; è meraviglioso, resteremo zitti tutti e due...". (Toni Maraini)
Con Federico ho girato un solo film. Mi ha fatto sentire il centro del mondo: la più bella, la «più speciale» di tutte, la più importante [...] Mi manca tanto [...] la sua dolcezza, la sua tenerezza, quella vocina: «Claudina...»
Con Federico, recitare era una specie di happening: tu credevi di improvvisare, di fare delle cose assolutamente spontanee, e poi, alla fin fine, ti rendevi conto che in realtà lui ti aveva portato, senza che tu te ne accorgessi, esattamente dove lui voleva.
Federico Fellini, al contrario, quando lavorava aveva bisogno della confusione: sceglieva di essere circondato dal massimo della volgarità e della «caciaroneria». [...] Federico Fellini si isolava all'interno del massimo del rumore e del disordine.
Era un tipo molto esigente quando dirigeva, incline a improvvisi attacchi d'ira. Sul set era un padrone assoluto, d'altronde lui stesso lo diceva che fuori dal set si sentiva vuoto. Apparentemente gentile, in realtà un despota. In privato era un disastro. [...] Prima di tutto non aveva rispetto delle donne, affamato di sesso chiedeva prestazioni particolari.
Gli devo certamente molto, ma anche lui deve molto a me. Anzi, forse più lui a me che io a lui per la famosa scena nella fontana di Trevi. Fellini era uno che carpiva idee agli altri, persino all'ultimo dei macchinisti, e le faceva proprie, senza poi riconoscerne la paternità a chi di dovere.
Quello che mi dava fastidio è che lui era falso, voleva apparire diverso da ciò che era, non era coerente. Era un uomo razionale che dimostrava poi di essere assolutamente irrazionale. [...] Tutti sanno che era fissato con maghi e veggenti, come una donnetta... diciamola tutta, era un provinciale. Si affidava alla divinazione di sensitivi, figuriamoci... e per me, che sono sempre stata con i piedi piantati a terra, era francamente insopportabile.
↑ Dall'intervista di Claudio Castellacci, L'America voleva colorare La dolce vita, Corriere della Sera, 30 marzo 1993, p. 33; citato Eugenio Spagnuolo, Federico Fellini: 8 curiosità e 1/2 sul grande regista, Panorama.it, 31 ottobre 2013.