Loading AI tools
lista delle lingue parlate in Italia Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Le lingue dell'Italia costituiscono uno dei più ricchi e variegati patrimoni linguistici all'interno del panorama europeo[1][2][3].
Le complesse vicende storiche del paese hanno portato infatti ad un esteso multilinguismo, risultante da circa dieci secoli di divisioni politiche e diversità culturali; questa peculiarità non è data solo dalla coesistenza tra la lingua italiana e le minoranze linguistiche alloglotte (stanziate lungo i confini settentrionali o in zone di antichi insediamenti centro-meridionali), ma è dovuta anche alla presenza di tre lingue minoritarie autoctone, sviluppatesi in isolamento rispetto alle aree linguistiche vicine, e all’esistenza di diverse lingue non ufficiali e non standardizzate ancora definite “dialetti” dalla maggior parte della popolazione e delle istituzioni (comprese quelle accademiche), e poste in rapporto di diglossia con l’italiano[4][5][6][7].
Graziadio Isaia Ascoli, nel ‘’Proemio” del primo volume dell’Archivio glottologico italiano, negli anni 70 del XIX secolo, osservava che alla frammentazione linguistica del paese corrispondeva la secolare mancanza di una capitale accentratrice capace di promuovere un modello linguistico di riferimento per gli altri territori, contrariamente a quanto avvenuto precedentemente in Francia; oltre a ciò, il glottologo ravvisava l’assenza in Italia di un movimento religioso e culturale, quale fu la Riforma protestante per la Germania, che permise la circolazione di una lingua omogenea e la diffusione dell’istruzione elementare pur in assenza di un’unione politica e pur esistendo in quel paese una divisione delle Chiese[8]. A tali considerazioni, nel XX secolo, Tullio De Mauro aggiungeva questioni geografiche: non solo i confini politico-amministrativi tra gli stati preunitari, ma anche la discontinuità paesaggistica e naturale avrebbero condizionato i particolarismi regionali e dunque ostacolato l’espansione di una lingua nazionale, favorendo invece l’abbondanza di idiomi locali fortemente differenziati gli uni dagli altri[9].
Ad eccezione di taluni idiomi stranieri legati ai moderni flussi migratori, le lingue che vi si parlano comunemente sono in via esclusiva di ceppo indoeuropeo e appartenenti in larga prevalenza alla famiglia delle lingue romanze; sono presenti, altresì, varietà albanesi, germaniche, greche e slave.
La lingua ufficiale (de iure) della Repubblica Italiana, l'italiano, discende storicamente dalla variante letteraria del volgare toscano, il cui uso in letteratura è iniziato con le cosiddette "Tre Corone" (Dante, Petrarca e Boccaccio) verso il XIII secolo, e si è in seguito evoluto storicamente nella lingua italiana moderna; questa, con l'eccezione di alcune aree di più tarda italianizzazione[10], sarebbe stata ufficialmente adottata come codice linguistico di prestigio presso i vari Stati preunitari a partire dal XVI secolo.[11]
Ciononostante, la lingua italiana, utilizzata in letteratura e nell'amministrazione in maniera principalmente scritta, al momento dell'unificazione politica di gran parte dell'Italia nel Regno sabaudo, nel 1860, era parlata da una minoranza della popolazione costituita fondamentalmente dalle classi colte o semplicemente istruite[12]: secondo De Mauro gli italofoni ammontavano al 2,5%[13], mentre Arrigo Castellani ne stimava un 10%[14]. Essa poté in seguito diffondersi tra le masse popolari mediante l'istruzione obbligatoria, l’urbanesimo, le migrazioni interne, la burocrazia, il servizio militare e i mezzi di comunicazione di massa (a stampa e audiovisivi)[15].
Dal punto di vista degli idiomi locali preesistenti esclusivamente nel parlato, ne consegue un processo di erosione linguistica e di minorizzazione, processo accelerato sensibilmente dall'ampia disponibilità di mezzi di comunicazione di massa in lingua italiana e dalla mobilità della popolazione, oltre ad una scarsa volontà politica di riconoscere una minima valenza culturale ai "dialetti". Questo tipo di cambiamenti e volontà politica ha ridotto sensibilmente l'uso degli idiomi locali, molti dei quali sono ormai considerati in pericolo di estinzione, principalmente a causa dell'avanzare della lingua italiana anche nell'ambito strettamente sociale e relazionale[16].
Esistono poi «lingue non territoriali», parlate in Italia ma non in un territorio definito: come gli idiomi dei nomadi Rom e Sinti, e la lingua dei segni italiana (LIS). Quest'ultima è parlata dalla comunità di persone sorde, diffusa in tutto il territorio italiano, e ha radici culturali, grammatica, movimento e morfologia, movimento spazio-tempo. La popolazione italiana dei sordi è composta da circa 3 524 906[52] persone che utilizzano la LIS e degli Assistenti alla Comunicazione e degli Interpreti, ed è riconosciuta dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata in Italia nel 2009. Spesso queste lingue trovano tutela solo nella legislazione regionale, come altre regioni tra cui la Sicilia che ha promosso la diffusione della LIS, con la L.R. 23/2011[53], in Piemonte la L.R. 31/2012[54], in Basilicata la LR 30/2017[55], in Lombardia la LR 20/2016[56], in Lazio con la LR 6/2015[57]. Esiste infine il metodo Malossi, una lingua tattile utilizzata dalle persone sordo-cieche e dai loro assistenti in varie parti d'Italia.
Gran parte delle lingue romanze e le loro varietà parlate entro i confini italiani – ad esclusione della lingua italiana e degli italiani regionali – sono indicate dalla letteratura specialistica italiana come dialetti italo-romanzi, in senso sociolinguistico,[58][59] in quanto dialetti romanzi che convivono con l'italiano quale lingua tetto[60][61].
I dialetti italo-romanzi sono anche descritti come lingue sorelle dell'italiano[62][63][64][65][66], essendo dialetti romanzi primari, ossia varietà indipendenti e coeve alla lingua italiana, sviluppatesi autonomamente a partire dal latino;[67][58][61][64][68] vanno perciò distinti dagli italiani regionali, che sono le varietà locali della lingua italiana, da cui derivano, e che costituiscono dei dialetti romanzi secondari.[58][63][68] Pertanto, i dialetti italo-romanzi sono da considerarsi varietà linguistiche allo stesso titolo di lingue come francese, portoghese o romeno.[69]
Va notato che la categoria "dialetti italiani", come gruppo omogeneo che racchiude le lingue italo-romanze, ha poca rilevanza da un punto di vista strettamente linguistico, data la grande differenza che può sussistere tra un dialetto e l'altro[70]; tuttavia, la dicitura dialetto milanese, dialetto napoletano, ecc. non è scorretta, data la diffusa accezione del termine in Italia nel senso sociolinguistico di "lingua sociolinguisticamente subordinata a quella nazionale"[71] o "lingua contrapposta a quella nazionale"[72].
Questo gruppo linguistico, identificato nel suo insieme per la prima volta da Graziadio Isaia Ascoli, fu per molto tempo considerato un sottogruppo del gruppo italoromanzo; attualmente, però, è generalmente considerato un sistema autonomo nell'ambito delle lingue romanze[73], come osservato già da Tullio De Mauro nel 1963[74] e da Sergio Salvi nel 1973[75]. Ciò è stato successivamente riconosciuto dal legislatore italiano con la legge 482/99. Le lingue riconosciute del gruppo sono il ladino e il friulano (vi appartiene anche il romancio del Cantone dei Grigioni, in Svizzera).
La lingua friulana è parlata nelle province di Gorizia, Pordenone, Udine e in alcuni comuni di quella di Venezia. Oltre alla tutela statale, è riconosciuta ufficialmente dalla Regione autonoma Friuli Venezia Giulia quale "lingua della comunità regionale".
La lingua ladina è parlata nell'area dolomitica (Ladinia). È lingua coufficiale nella provincia autonoma di Bolzano, ha riconoscimento nella provincia autonoma di Trento e ne è stata recentemente introdotta la tutela anche nei comuni ladini della provincia di Belluno. Varie influenze linguistiche ladine sono presenti anche nel nones, parlato in Val di Non nella provincia autonoma di Trento, tanto che alcuni linguisti considerano questa parlata appartenente al gruppo linguistico ladino.
Altrimenti dette "altoitaliane". Nella prima metà del Novecento i gruppi galloitalico e veneto erano considerati romanzi orientali[76], ora sono generalmente considerati romanzi occidentali[77][78]. È stata ipotizzata l'esistenza di una koiné lombardo-veneta, una lingua comune che nel Medioevo sarebbe arrivata ad un certo grado di assestamento, prima di retrocedere di fronte al toscano; con il quale, pare, competesse per il ruolo di lingua letteraria[79].
Tra i tratti linguistici identificati come comuni nel diasistema italoromanzo Meyer-Lübke indica il passaggio da "cl" a "chi"; ma questo, come fa notare lo stesso Tagliavini, è valido solo per toscano e centromeridionale, mentre le lingue settentrionali palatizzano (cioè passano a "ci"), anche davanti ad "a".
Il gruppo galloitalico presenta affinità con le lingue romanze occidentali ma per alcuni tratti, condivisi con le lingue Italo-romanze, se ne discosta: nel gallo-italico e nel veneto è assente il plurale sigmatico, cioè terminante in -s (il plurale è vocalico al femminile, mentre al maschile è vocalico o adesinenziale), sono assenti le s come desinenze verbali (eccetto nel piemontese occidentale nella seconda persona singolare dei verbi ausiliari e del futuro), sono pressoché assenti le "s" come desinenze pronominali ed i nessi consonantici sono semplificati (ad esempio piassa per piazza, mentre le lingue neolatine occidentali ed in misura minore le lingue neolatine orientali balcanoromanze mantengono i nessi consonantici).
Caratteristiche Gallo-romanze presenti negli idiomi gallo-italici sono l'indebolimento delle sillabe atone (fortissimo soprattutto nell'emiliano), la sonorizzazione delle consonanti occlusive intervocaliche e la riduzione delle geminate nella stessa posizione (lenizione), la caduta in molti casi delle consonanti finali e la presenza in molte varianti di fonemi vocalici anteriori arrotondati (/y, ø/, in passato dette "vocali turbate"). Vari linguisti hanno messo in relazione la similarità con gli idiomi gallo-romanzi con il comune sostrato storico celtico, questa ipotesi è ancora materia di discussione e alcuni linguisti attribuiscono l'indebolimento sillabico e i fonemi /y, ø/ ad un'evoluzione locale indipendente. Altre caratteristiche proprie di questo sistema sono la risoluzione palatale del gruppo cl-, gl- e, per alcuni autori, il mantenimento di ca- e ga- (caratteristica tipica dell'italoromanzo); altri autori, e fra questi il Pellegrini, sostengono che però anticamente vi fosse palatalizzazione di ca- e ga-, tratto questo rapidamente retrocesso ed infine, per influenza toscana, andato perduto[80].
All'interno del gruppo gallo-italico possiamo riconoscere, grazie a più o meno rilevanti omogeneità linguistiche, sistemi più ristretti e distinti fra loro: ligure, piemontese, lombardo, emiliano, romagnolo, galloitalico marchigiano[81], galloitalico di Sicilia, galloitalico di Basilicata.
Il veneto presenta generalmente meno innovazioni dal latino, rispetto ai dialetti galloitalici: non ha l'indebolimento delle sillabe atone e anche le vocali finali reggono abbastanza bene, fuorché dopo sonorante. Le varianti principali sono il veneto centrale o meridionale (Padova, Vicenza, Rovigo), il veneto lagunare (Laguna di Venezia), il veneto orientale (Trieste, Venezia Giulia, Istria e Fiume), il veneto occidentale (Verona, Trento) che ha alcuni caratteri in comune con le parlate orobiche e lombarde, il veneto centro-settentrionale (Treviso), il veneto settentrionale (Belluno), il veneto dalmata (Dalmazia) e i dialetti di valle e pedemontani, come il feltrino. La caratteristica più vistosa è la struttura sillabica che non tollera geminate in nessuna posizione.
Il toscano è costituito dalle varietà toscane e da quelle più o meno affini parlate in Corsica e nella Sardegna settentrionale. Nonostante non sia una lingua appartenente alla Romània occidentale, presenta molti caratteri tipici della zona altoitaliana[82]. L'italiano letterario è da considerarsi un'altra variante (sebbene molto influenzata da altri idiomi italoromanzi) del dialetto toscano. Il còrso settentrionale o di Cismonte e, in particolare, quello parlato nella regione storica del Capo Corso, è affine al toscano occidentale, dal quale però si differenzia per alcune forme lessicali e le finali in /u/.
Il gallurese, parlato nel nord-est della Sardegna, presenta notevoli influenze della lingua sarda a livello di morfologia e sintassi, ma è strettamente imparentato col còrso meridionale o di Pumonte, nello specifico con quello sartenese che si presenta praticamente identico nell'arcipelago di La Maddalena. Il sassarese condivide un'origine simile al còrso, ma è distinta da quest'ultimo: è patrimonio delle popolazioni mercantili di differente origine (sarde, còrse, toscane e liguri) che nel XII secolo diedero impulso alla neonata città di Sassari, creando un dialetto mercantile che nel corso dei secoli si è esteso a diverse città limitrofe (tutta la costa del Golfo dell'Asinara da Stintino a Sorso), subendo inevitabilmente una profonda influenza da parte del sardo logudorese, dal catalano e dallo spagnolo. Il castellanese si parla solo nel comune di Castelsardo, e una sua variante nei comuni vicini. È una varietà di transizione tra il gallurese e il sassarese.Ha una base morfologica di origine corsa mentre la sintassi è condivisa col sardo.
Lungo il crinale appenninico tra la Toscana e l'Emilia (Sambuca Pistoiese, Fiumalbo, Garfagnana e altre località) le persone più anziane usano ancora delle parlate di transizione tra il sistema toscano e il sistema gallo-italico dette parlate gallo-toscane. Tali parlate sono di grandissimo interesse per i linguisti perché formano un sistema linguistico di transizione sia tra la Romània orientale e quella occidentale, sia tra le parlate altoitaliane e quelle tosco-meridionali.
Appartengono al gruppo delle lingue centrali tutti i dialetti parlati in gran parte del Lazio (ad esclusione delle regioni più meridionali, dove i dialetti appartengono al gruppo meridionale intermedio), in Umbria, le aree più meridionali della provincia di Grosseto (in Toscana), e nelle province di Ancona, Macerata e Fermo nelle Marche.
Il gruppo italiano mediano è quello di più difficile classificazione. Infatti le parlate si sono influenzate tra di loro in maniera considerevole e non lineare. Si distinguono i seguenti idiomi o sottogruppi:
I gruppi toscano e mediano sono comunque gruppi abbastanza conservativi: nel còrso non esiste nessun tipo di indebolimento consonantico, nel toscano e in parte dei dialetti umbri e marchigiani c'è la gorgia, altrove una lenizione non fonologica. Comune è la realizzazione fricativa delle affricate mediopalatali e nelle zone meridionali i raddoppiamenti di /b dZ/ semplici intervocalici.
Il dialetto romanesco, diffuso prevalentemente nella città di Roma ed in misura minore ad ovest della Capitale (lungo la fascia costiera intercorrente tra Civitavecchia ed Anzio),[senza fonte] risulta aver subito una considerevole influenza da parte del toscano diffusa in molti ambienti capitolini (legati in particolare alla Curia) nel XVI secolo e XVII secolo; è quindi molto diverso dall'antico dialetto di Roma, che era invece «sottoposto a influenze meridionali e orientali»[85]. Per questa ragione, molti linguisti tendono a considerare tale dialetto indipendente e separato dai restanti dialetti mediani.[senza fonte]
Il gruppo italiano meridionale, o alto-meridionale, è caratterizzato dall'indebolimento delle vocali non accentate (atone) e la loro riduzione alla vocale indistinta (rappresentata dai linguisti come ə o talvolta come ë). A nord della linea Circeo-Sora-Avezzano-L'Aquila-Accumoli-fiume Aso, le vocali atone sono pronunciate chiaramente; a sud di questa linea già si presenta il suono ə, che si ritrova poi fino ai confini meridionali con le aree in cui i dialetti sono classificati come meridionali estremi, ossia alla linea Cetraro-Bisignano-Melissa.
Il gruppo meridionale estremo comprende il siciliano, il calabrese centro-meridionale ed il salentino.
La caratteristica fonetica che accomuna i dialetti del gruppo siciliano è l'esito delle vocali finali che presenta una costante territoriale fortemente caratterizzata e assente nelle altre lingue e dialetti italiani:
Assenza totale delle mute e dello scevà.
È inoltre caratteristica principale e singolarità di molte varianti (ma non tutte), la presenza dei fonemi tr, str, e dd, i quali possiedono un suono retroflesso probabilmente derivante da un sostrato linguistico probabilmente pre-indeuropeo. Il siciliano non è attualmente riconosciuto come lingua a livello nazionale.
La lingua sarda è costituita da un continuum di dialetti interni reciprocamente comprensibili e solitamente ricompresi in due norme ortografiche: quella logudorese, nella zona centro-settentrionale, e quella campidanese, in quella centro-meridionale.
Attualmente la lingua sarda è co-ufficiale (insieme all'italiano) nella Regione Autonoma della Sardegna ed è ufficialmente riconosciuta dalla Repubblica come una delle dodici minoranze linguistiche storicamente parlate nel suo territorio. Nel periodo corrente, il sardo è una lingua in pericolo di estinzione, minacciata dal processo di deriva linguistica verso l'italiano ufficialmente avviato nel VIII secolo e ora in stadio piuttosto avanzato.
Si caratterizza in quanto estremamente conservativa, tanto da essere considerata la lingua che nei secoli si sia meno discostata dal latino. Si ritiene che il gruppo sardo sia da considerarsi autonomo nell'ambito delle lingue romanze[73], come evidenziato già da De Mauro e Salvi[74][75], e si ipotizza che costituisca l'unico esponente ancora in vita di in un sistema linguistico romanzo "meridionale"[86], insieme agli ormai estinti dialetti corsi cronologicamente precedenti alla toscanizzazione dell'isola e all'altrettanto estinta parlata latina dell'Africa settentrionale che, fino all'invasione araba, coesistette col berbero e il punico.
Il catalano è parlato, nella varietà cittadina, ad Alghero (provincia di Sassari), limitatamente al centro storico. La città, di fondazione genovese, è diventata catalanofona nel 1350, dopo la conquista aragonese. Nonostante l'influenza del sardo, dello spagnolo e dell'italiano e la presenza di tratti arcaizzanti, l'algherese è ascritto al gruppo dialettale orientale del catalano (in virtù di certe peculiarità, è discussa anche l'ipotesi di una lingua autonoma di matrice catalana).[87][88]
Varietà della lingua albanese (arbërishtja) sono parlate storicamente da meno di cinquanta comunità distribuite in Campania, Puglia, Basilicata, Molise, Calabria e Sicilia; non è più albanofona invece la comunità albanese di Villa Badessa (comune di Rosciano, provincia di Pescara), analogamente a diverse altre del Mezzogiorno. Dette varietà, che tra di esse presentano un grado variabile di mutua intelligibilità, sono riconducibili al tosco, il quale è simile alla koinè letteraria d’Albania. Pertanto, non esistono grandi difficoltà di reciproca comprensione tra i parlanti dell’Arberia e quelli dell’altra sponda adriatica. Gli albanofoni discendono dai militari chiamati da Alfonso V d’Aragona nel Regno di Napoli nel XV secolo, dagli esuli in fuga dalla dominazione ottomana in patria e da quelli giunti con le ondate migratorie proseguite fino al XVIII secolo. Si stima che i parlanti siano 100.000 circa.[89][90][91][92]
Oltre alla provincia autonoma di Bolzano, nei cui comuni vige il bilinguismo italiano-tedesco, in tutto il Triveneto sussistono alcune isole linguistiche germanofone, sparse nelle regioni prealpine e alpine.
La lingua cimbra è un idioma di tipo bavarese, portato da un gruppo di migranti tedeschi che nel medioevo colonizzarono le zone al confine tra le provincie di Trento, Verona (Tredici Comuni) e Vicenza (Sette Comuni). Incalzato dai dialetti della lingua veneta, il cimbro è entrato in crisi già secoli fa e attualmente è parlato soltanto da poche centinaia di persone. La comunità più vivace è quella di Luserna (Lusern, TN), mentre sono ridotti a poche decine i parlanti di Giazza (Ljetzan, VR) e Roana (Robaan, VI). Praticamente scomparsa l'isola cimbra del Cansiglio (provincie di Belluno e Treviso), fondata all'inizio dell'Ottocento da un gruppo di roanesi.
La lingua mochena è ancora parlata nei villaggi della Val Fersina (collaterale alla Valsugana) e ha origini affini al cimbro, ovvero deriva da uno stanziamento di coloni tedeschi in epoca antica.
Isole germanofone si trovano anche in Carnia (Sauris, Zahre, Timau, Tischlbong e Sappada, Plodn) e hanno un'origine simile alle precedenti. Infine, il tedesco è diffuso su buona parte della Val Canale (Kanaltal), al confine con l'Austria.
In Piemonte e Valle d'Aosta, al gruppo tedesco (precisamente alemanno) appartengono le parlate walser presenti in alcuni comuni e imparentate con quelle del vicino cantone svizzero del Vallese.
In alcuni centri dell'Italia meridionale esistono isole linguistiche dove si parla il greco antico. In particolare le comunità grecofone o grecaniche sono presenti in Salento ed in Calabria.
Nel gennaio 2012 il Comune e la Provincia di Messina riconoscono ufficialmente la lingua greca moderna e grecanica di Calabria[93].
Il romaní è parlato dai sinti e dai rom d'Italia in diverse forme dialettali influenzate dalle lingue dei paesi attraversati in passato, nonché dalle parlate regionali italiane con cui esse sono in contatto. Nell'Italia insulare il romaní è riscontrabile residualmente nei gerghi dei camminanti siciliani e dei calderari ambulanti sardi[94].
In Friuli-Venezia Giulia esiste una comunità che parla lo sloveno in tutta la fascia confinaria delle province di Trieste, Gorizia e Udine. In provincia di Udine esiste inoltre la comunità slovena nella Val di Resia, parlante, secondo alcuni studiosi, una variante dialettale distinta dello sloveno: il resiano. Il dialetto resiano, molto simile ai dialetti sloveni della vicina Carinzia (Austria), è ritenuto a livello internazionale [senza fonte][95][96][97], un dialetto della lingua slovena e il comune di Resia si è dichiarato, ai sensi della L. 482/99, di lingua slovena, ottenendo annualmente i fondi per la tutela come "minoranza linguistica slovena".
In Molise in alcuni centri esistono ancora comunità parlanti il ("na-našu"), antico dialetto slavo originario dell'entroterra dalmata, che discendono dagli slavi che arrivarono in Italia tra il XV-XVI secolo per sfuggire all'avanzata ottomana nei Balcani e si stanziarono nei paesi di Acquaviva Collecroce (Kruč), San Felice del Molise (Sti Filić) e Montemitro (Mundimitar) nell'attuale provincia di Campobasso; la lingua viene parlata da poco più di duemila persone[senza fonte]. Questi profughi e i loro discendenti venivano e vengono chiamati con la denominazione antica di Schiavoni (dal latino Sclaveni ovvero Slavi, da cui deriva anche sclavus ovvero schiavo), nome che è rimasto anche nella toponomastica del territorio.
Dopo l’unificazione nazionale è emerso in Italia un fenomeno di stigmatizzazione delle lingue locali, giudicate come destabilizzanti e dannose; il prestigio dell’italiano scritto, e da allora anche parlato, dalle élite culturali e politiche ha così fatto cambiare le abitudini linguistiche della popolazione, sebbene le lingue locali non siano state vietate[98]. Tuttavia, nelle scuole esse sono sempre state disapprovate a favore dell'italiano che in passato[quando] era per molti bambini una lingua del tutto straniera e difficilmente comprensibile: da qui l'erronea convinzione che i "dialetti" fossero una corruzione della lingua nazionale, peraltro insegnata malamente da maestri che ne avevano una scarsa conoscenza e che così tolleravano, magari inavvertitamente, deviazioni dalla norma teorica[99] (ispezioni ministeriali effettuate negli anni postunitari evidenziarono casi di grave inadeguatezza da parte di insegnanti che sfioravano l’analfabetismo e che in classe si esprimevano nel proprio idioma locale)[100]. Pregiudizi e opinioni denigratorie sul valore delle varietà locali, levatesi dal mondo della cultura, sono stati assecondati da politiche che svalutavano e non rispettavano i patrimoni linguistici italiani, in particolare durante il regime fascista, che addirittura attuò una persecuzione delle minoranze alloglotte[101]. La scuola, anche in seguito, fu teatro di un’aspra battaglia contro tali idiomi, giudicati come il principale ostacolo nell'apprendimento di un italiano corretto: questa generale “dialettofobia” istituzionale perdurò fin oltre la metà del XX secolo (simbolicamente viene da alcuni indicata la data del 1962, anno dell’istituzione della scuola media unica, seppure in essa si siano verificati anche successivamente atteggiamenti “antidialettali”)[102]. La politica "antidialettale" della scuola italiana, l'influenza dei mezzi di comunicazione e il parere - talvolta apertamente ostile - di alcuni autorevoli intellettuali[non chiaro] sono all'origine di una connotazione negativa degli idiomi locali, dei quali l'opinione pubblica ha un'immagine sfavorevole, burlesca e distorta, vedendo in essi "dialetti" culturalmente inferiori e idonei solo a dare un senso di spontaneità al parlato o a suscitare ilarità[103], se non addirittura un insieme di parole prevalentemente scurrili e inadeguate[104].
Invece, dal punto di vista della linguistica, la discriminazione dei cosiddetti "dialetti" è ingiustificata, così come la presunzione di superiorità di alcune varietà rispetto ad altre[105] (vista la difficoltà di definire il confine tra dialetto e lingua, gli studiosi impiegano anche l'espressione "varietà linguistica", che assieme alla "varietà standard" forma un sistema linguistico; tra i dialetti neolatini la varietà standard è quella diventata l'idioma di riferimento tra gli eruditi in virtù del proprio prestigio letterario).
I dialetti presenti in Italia hanno infatti una loro grammatica, un loro lessico e spesso una letteratura. La stessa lingua italiana deriva dal dialetto toscano letterario di base fiorentina del XIV secolo, che dal XVI secolo venne progressivamente impiegato nella penisola italiana e in Sicilia come modello linguistico esemplare[106].
Poiché per la linguistica tutti i dialetti e le lingue sono pertanto insiemi di segni e regole ordinati e funzionanti analogamente, secondo alcuni studiosi la distinzione avviene esclusivamente a livello politico e storico: ricorrendo al termine "lingua" molte culture fanno riferimento all'esistenza di un sistema riconosciuto dalle istituzioni, codificato e con a disposizione testi letterari e/o ufficiali scritti in quella lingua. È questo il caso del sardo e del friulano, che hanno anche ottenuto il riconoscimento statale di minoranze linguistiche per i propri parlanti[107].
A prescindere dal loro riconoscimento politico, la maggioranza dei dialetti d'Italia non è comunque costituita da corruzioni, deviazioni o alterazioni della lingua nazionale di base toscana, bensì da parallele continuazioni del latino e pertanto lingue “sorelle” dell'italiano[108][109]. In questo senso, è improprio parlare di "dialetto della lingua ufficiale" in riferimento, ad esempio, al piemontese o al napoletano: essendo sì idiomi sviluppatisi dal latino, ma in modo indipendente dal toscano, non possono essere considerati varietà locali della lingua italiana. È infatti in virtù della loro storia e distanza dall'italiano che dette varietà possono essere categorizzate come lingue autonome[110]. Più opportuno è allora parlare di dialetti italiani o dialetti d'Italia in riferimento alle varianti italo-romanze diffuse presso una regione, zona o città e non invece dialetti dell'italiano (ad esempio, si può affermare che il lombardo occidentale è un dialetto italiano perché parlato all'interno dei confini italiani, ma non è corretto dire che sia un dialetto dell'italiano, poiché è un dialetto della lingua lombarda). Tali parlate sono considerate dialetti romanzi primari, storicamente subordinate all'italiano solo da un punto di vista sociolinguistico a fronte di un'origine latina comune. Inoltre, per definire queste parlate si può fare ricorso appunto al termine varietà, che indica un sistema linguistico indipendentemente da riferimenti legati al prestigio, alla diffusione geografica e a tutte le equivocità veicolate dalla parola dialetto nell'uso comune[109]. O ancora, in gergo scientifico, è possibile riferirsi ai singoli dialetti locali utilizzati in condizione di diglossia o di bilinguismo con la lingua ufficiale.
Al contrario, si parla di "dialetti secondari" in riferimento alle manifestazioni linguistiche generate dalla diversificazione di un'unica lingua in vari territori, come nel caso dello spagnolo in America latina, dei vari dialetti arabi o del già citato inglese americano: non si tratta quindi di dialetti originati autonomamente dal latino o dal proto-germanico, ma varianti dello stesso sistema. I dialetti secondari dell'italiano sono quelli noti come "italiani regionali", cioè le varietà intermedie tra lingua standard nazionale e le altre varietà autonome[109].
Tuttavia, l'accezione di dialetto inteso come "varietà della lingua nazionale" è ancora radicata, con ambiguità e relativismo semantici. In particolare dal punto di vista politico, legislativo e giurisprudenziale, il termine "dialetto" è usato in questa accezione per definire qualsiasi idioma storico, romanzo e talvolta anche non-romanzo, parlato in un'area geografica del paese e che non goda dello status di "lingua" in regime di ufficialità, coufficialità e/o bilinguismo. Nella categoria ricadono numerosi idiomi italiani dotati di storia propria, non intercomprensibili e spesso fregiati di una propria tradizione letteraria di rilievo, come, ad esempio, il veneto e tanti altri. Eppure, nonostante la presenza di un corpus letterario, essi continuano ad essere percepiti come "dialetti" o lingue orali dalla popolazione, gran parte della quale - compreso chi li parla - non è in grado di scriverli. Ciò è anche dovuto all'abitudine di ricorrere ad un'incompatibile ortografia italiana, che genera sistemi di scrittura variabili laddove questi idiomi vengano usati in forma scritta (internet, segnaletica e cartellonistica, messaggi)[111].
L'opinione alternativa, che sta incominciando a farsi strada anche tra alcuni linguisti di lingua italiana[senza fonte], rifiuta l'accezione di dialetto inteso come varietà della lingua nazionale preferendo quella di sistema linguistico indipendente dalla lingua nazionale. Ciò ha portato dunque a utilizzare il termine "lingua" in luogo di "dialetto" (ad esempio, lingua siciliana o lingua romagnola); questa posizione è stata condivisa, nel Parlamento Europeo, dal gruppo Verdi/ALE, in un convegno internazionale che ha avuto luogo nel 1999[112]. Il Consiglio d'Europa nei suoi trattati non indica le lingue (e relative popolazione) da tutelare, né indica i criteri per distinguere una lingua da un dialetto, né riconosce ad alcun idioma lo status di lingua; tale competenza è sempre degli Stati, i quali hanno firmato e ratificato il trattato internazionale europeo.
Nonostante la mancata tutela dei "dialetti" da parte dello Stato (che anzi attuò diverse iniziative di contrasto verso manifestazioni linguistiche derubricate a "malerba dialettale"[113]) si è assistito a una rivalutazione di tali idiomi sul piano culturale.
Forti di una radicata tradizione verbale ma anche letteraria, le lingue italo-romanze non riconosciute, tradizionalmente chiamate dialetti, in Italia sono servite nel tempo da spunto per la realizzazione di molti lavori teatrali entrati poi stabilmente nel repertorio di uno specifico genere chiamato teatro dialettale.
Secondo Tullio De Mauro, il plurilinguismo "italiano più dialetti o una delle tredici lingue di minoranza" (egli vi includeva anche il romaní, poi escluso dall'art. 2 della L. 482/1999 perché privo dell'elemento della "territorialità") gioca un ruolo positivo in quanto «i ragazzi che parlano costantemente e solo italiano hanno punteggi meno brillanti di ragazzi che hanno anche qualche rapporto con la realtà dialettale»[114].
Un valore particolare ai dialetti è stato attribuito specialmente in tempi relativamente recenti, da quando si è avuta piena consapevolezza dell'ormai predominanza nella comunicazione della lingua nazionale sulle parlate regionali. Affinché i dialetti non scompaiano diventando lingue morte, si è tentato e si tenta di studiare e recuperare appieno il significato storico e il senso culturale della parlata locale, anche in chiave di un recupero delle radici e dell'identità propri di ogni regione. All'interno di queste dinamiche si assiste recentemente ad un uso del dialetto nelle tifoserie di calcio, specie con l'esposizione di striscioni in dialetto che evidenziano un recupero dei dialetti con finalità di rivendicazione identitaria[115]. Secondo l'Istat,[116][117]|titolo=nel 2015 il 45,9% degli italiani parla in modo esclusivo o prevalente l'italiano, il 32,2% lo alterna con un dialetto o lingua locale, il 14% si esprime esclusivamente nell'idioma locale, mentre il resto ricorre a un'altra lingua. Il linguista [[Tullio De Mauro}}]], intervistato dal quotidiano La Repubblica il 29 settembre 2014, affermava che l'uso alternante di italiano e dialetto (con riferimento ai dialetti dell'Italia, non ai dialetti dell'italiano) arrivava allora al 44,1% e coloro che adoperano solo l'italiano erano il 45,5%.[118]
L'utilizzo frequente dei cosiddetti dialettismi, ovvero espressioni derivate da una lingua locale, sarebbe piuttosto diffuso anche nel linguaggio giovanile[119][120]; tra i vari motivi, i più importanti sono: il desiderio di creare un legame forte con la propria famiglia (67%), volontà di conoscere la storia di determinati termini ed espressioni (59%) o possibilità di arricchire il proprio parlato con espressioni colloquiali (52%) e lo spirito di appartenenza alla propria terra.[121]
Nella Repubblica Italiana la lingua ufficiale è l'italiano. Oltre alla consuetudine, il riconoscimento si può ricavare indirettamente dal fatto che la Costituzione è redatta solo in italiano, mentre un riconoscimento espresso si trova nello statuto del Trentino-Alto Adige, che è una legge costituzionale della Repubblica:
«[...] la lingua [...] italiana [...] è la lingua ufficiale dello Stato.»
Ulteriori riconoscimenti sono presenti nell'articolo 122 del codice di procedura civile, nell'articolo 109 del codice di procedura penale, e nell'articolo 1 della legge 482/1999.
«In tutto il processo è prescritto l'uso della lingua italiana.»
«Gli atti del procedimento penale sono compiuti in lingua italiana.»
«La lingua ufficiale della Repubblica è l'italiano.»
La Costituzione prevede all'articolo 6[122] la tutela delle minoranze linguistiche, che ne riconosce i diritti linguistici. Per due minoranze in particolare delle dodici, la tutela della lingua e della cultura sono esplicitate negli statuti di autonomia del Trentino-Alto Adige e della Valle d'Aosta.
«La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.»
«Nella regione la lingua tedesca è parificata a quella italiana [...].»
«Nella Valle d'Aosta la lingua francese è parificata a quella italiana.»
In seguito a un assai travagliato processo normativo[124], la Legge 15 dicembre 1999, n. 482 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche) ha infine dato applicazione all'Art. 6 della Costituzione, riconoscendo la tutela della lingua e della cultura di dodici popolazioni autoctone storicamente parlanti idiomi diversi dall'italiano (oltre ad avere altre caratteristiche che le distinguono) e elencate in due gruppi di sei: nel primo albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate, nel secondo francesi, francoprovenzali, friulane, ladine, occitane e sarde[125][126]. La Repubblica ha inoltre firmato e ratificato nel 1997 la Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, e ha firmato la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie il 27 giugno del 2000, ma non l'ha ratificata per cui non trova applicazione nel territorio della Repubblica.
Nella quotidianità non tutte le dodici lingue riconosciute a livello nazionale godono della stessa considerazione[124]: ad esempio, l'Agenzia delle Entrate mette a disposizione il modello 730 e le relative istruzioni, oltre che in italiano, solo in tedesco e in sloveno. I siti governativi e parlamentari non hanno una versione, nemmeno ridotta, in queste lingue, salvo rare eccezioni come la versione in francese del sito della Camera dei deputati[127]. Pur essendo vietato discriminare tra le dodici minoranze linguistiche che hanno pari diritti linguistici e costituzionali, solo tre di queste (minoranza francese della Valle d'Aosta; minoranza germanofona della provincia di Bolzano; minoranza slovena della provincia di Trieste) godono di una maggiore tutela, grazie a trattati internazionali stipulati prima della approvazione della L. 482/1999 e ratificati dal Parlamento italiano, avendo scuole pubbliche statali in cui la lingua curriculare è quella propria della minoranza, nonché un canale televisivo nella sola lingua della minoranza.
Diverse regioni italiane hanno prodotto nel corso degli anni ulteriori leggi regionali a riconoscimento e tutela di vari idiomi, fra cui in ordine cronologico:
Tutti gli idiomi diversi dalle lingue parlate dalle "minoranze linguistiche storiche" riconosciute e tutelate ai sensi dell'art. 6 della Costituzione italiana, elencate nell'art. 2 della legge 482/99, possono essere esclusivamente valorizzati sul solo piano culturale ai sensi dell'art. 9 della Costituzione italiana, quale patrimonio culturale immateriale regionale.[148]
Seamless Wikipedia browsing. On steroids.
Every time you click a link to Wikipedia, Wiktionary or Wikiquote in your browser's search results, it will show the modern Wikiwand interface.
Wikiwand extension is a five stars, simple, with minimum permission required to keep your browsing private, safe and transparent.