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attore e regista italiano (1901-1974) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Vittorio Domenico Stanislao Gaetano Sorano De Sica (Sora, 7 luglio 1901[1] – Neuilly-sur-Seine, 13 novembre 1974) è stato un attore, regista e sceneggiatore italiano. Tra i cineasti più influenti della storia del cinema, è stato inoltre attore di teatro e documentarista. È considerato uno dei padri del neorealismo e uno dei maggiori registi e interpreti della commedia all'italiana.[2] I suoi film Sciuscià, Ladri di biciclette, Ieri, oggi, domani e Il giardino dei Finzi Contini hanno vinto l'Oscar al miglior film in lingua straniera, premio al quale fu candidato anche Matrimonio all'italiana.
De Sica nacque a Sora, nell'allora provincia di Terra di Lavoro (confluito poi, nel 1927, nella recentemente costituita provincia di Frosinone), in via Cittadella nel rione omonimo, il 7 luglio del 1901, figlio di Umberto De Sica, un impiegato della Banca d'Italia sardo ma originario di Giffoni Valle Piana (in provincia di Salerno), e di Teresa Manfredi, una casalinga napoletana.[3] Nella chiesa di San Giovanni Battista, posta di fronte la casa di famiglia sorana, ricevette il battesimo con i nomi di Vittorio, Domenico, Stanislao, Gaetano, Sorano. Il padre, oltre al proprio lavoro, era un assiduo collaboratore - con lo pseudonimo di Caside - per un mensile locale, La voce del Liri, stampato dal 1909 al 1915.[4] Vittorio aveva con il padre un rapporto molto forte (a lui, infatti, dedicherà il suo film Umberto D.). Come Vittorio ebbe a dire, la sua famiglia viveva in "tragica e aristocratica povertà".
Nel 1914 si trasferì con i familiari a Napoli, per poi, dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, stabilirsi a Firenze; in seguito, avvenne il definitivo trasferimento della famiglia a Roma. A 15 anni cominciò a esibirsi come attore dilettante in piccoli spettacoli, organizzati per i militari ricoverati negli ospedali. Durante gli studi di ragioneria, grazie all'intercessione dell'amico di famiglia Edoardo Bencivenga, ottenne un piccolo ruolo (impersonava un Clémenceau giovane) in un film muto diretto da Alfredo De Antoni: Il processo Clémenceau, del 1917. Rimane però un episodio isolato, perché per tutto il corso degli anni venti il giovane De Sica si dedicò esclusivamente al teatro.
Dopo aver ottenuto il diploma di ragioniere, nel 1923 De Sica esordì in teatro, recitando come generico in Sogno d’Amore di Aleksander Kosorotov[5] con la compagnia drammatica di Tatiana Pavlova, allieva di Stanislavski, con la quale rimase per due anni, facendo anche una tournée nell’America del Sud. Passò poi al teatro leggero-sentimentale.[6] Nella primavera del 1925 era secondo attore brillante nella compagnia di Italia Almirante, celebre diva del muto. Nel 1927 fu scritturato come secondo attor giovane nella compagnia di Luigi Almirante, Sergio Tofano e Giuditta Rissone. Debuttò come "amoroso" ne Gli occhi azzurri dell'imperatore di Ferenc Molnár.[7]
Nel 1929 la compagnia si sciolse. De Sica, legato sentimentalmente a Giuditta Rissone, passò insieme a lei alla compagnia “Artisti associati”, fondata nello stesso anno da Guido Salvini. De Sica conobbe Umberto Melnati, un attore livornese con cui formerà una coppia di successo. Melnati era “attore brillante”, mentre De Sica era “primo attore”. Esordì in questo ruolo ne L’isola meravigliosa, novità di Ugo Betti, rappresentata il 3 ottobre 1930 al vecchio Teatro Manzoni di Milano. Successivamente la compagnia mise in scena L’amore fa fare questo e altro, di Achille Campanile (debutto: il 17 ottobre 1930 al Teatro Manzoni). Le commedie non incontrarono il gradimento del pubblico milanese. Ma una sera Mario Mattoli, non ancora regista, ma impresario teatrale della Compagnia Za-Bum, notò l’alta qualità della recitazione degli attori e li scritturò in blocco per la sua nuova produzione Za-Bum n. 8. Lo spettacolo mescolava la comicità degli attori del varietà al genere drammatico degli attori di prosa. Il successo fu immediato. Nelle riviste prodotte da Mattoli e da Luciano Ramo, come Lucciole della città (Falconi e Biancoli, 18 aprile 1931), nacquero i tormentoni e le gag che resero Melnati e De Sica celebri a livello nazionale, soprattutto la canzone Lodovico sei dolce come un fico e tanti sketch radiofonici, come il Düra minga, dura no.[8] La coppia comica De Sica-Melnati lavorò per dischi e per trasmissioni radiofoniche. Con i primi soldi guadagnati De Sica si comprò una Fiat 525.[7]
Pur affermandosi come attore famoso nei primi anni trenta, De Sica continuò a calcare la scena teatrale con impegno immutato, sfruttando anzi la notorietà del cinema per impegnarsi, dopo la fine di Za-Bum, in altre produzioni. D’inverno recitava a teatro, mentre in estate era impegnato nel cinema. L’attività teatrale proseguì con la compagnia Tofano-Rissone-De Sica, dal 1933 al 1935, e con la Rissone-De Sica-Melnati fino al 1939. Con Giuditta Rissone e Sergio Tofano, De Sica mise in scena pièce soprattutto comiche. Il cartellone, dichiaratamente boulevardier, attingeva al Barrie, a Ladislao Födor,[9] a Ivan Noé.[10] Il periodo della Tofano-Rissone-De Sica segnò anche l'inizio del lungo sodalizio con due autori italiani, che scrissero per De Sica alcuni dei loro testi più noti e furono fra gli sceneggiatori dei film da lui interpretati: Aldo De Benedetti e Gherardo Gherardi. Ricordiamo per il primo il Lohengrin (debutto: Teatro Argentina di Roma, 28 dicembre 1933), per il secondo Questi ragazzi! (debutto: Teatro Quirino, 28 maggio 1934).
Nel triennio 1936-39 fu la volta della compagnia De Sica-Rissone-Melnati, diretta dallo stesso De Sica: il repertorio era sempre votato all’intrattenimento. Aldo De Benedetti scrisse appositamente per i tre attori Due dozzine di rose scarlatte, che andò in scena al Teatro Argentina l'11 marzo 1936[11] ed è considerata la più celebre commedia degli anni trenta, apprezzata sia in Italia che all'estero.[12] Rotto il felice sodalizio con Umberto Melnati, nel 1940 De Sica e Giuditta Rissone, marito e moglie dal 7 luglio 1937, si unirono a Sergio Tofano per formare una nuova compagnia. De Sica era il terzo nome in ditta e lasciò la responsabilità della gestione a Tofano. Fino al 1942 la compagnia allestì una nutrita serie di drammi di rilievo: La scuola della maldicenza, opera del 1777 dell'irlandese Richard Brinsley Sheridan (Teatro Nuovo di Milano, 11 febbraio 1941, parte di Charles con finale canoro); Ma non è una cosa seria di Pirandello (marzo 1941, parte di Memmo Speranza); Il paese delle vacanze di Ugo Betti (20 febbraio 1942); Liolà, recitato in lingua, (Teatro Nuovo, 8 giugno 1942).
De Sica cominciò a essere conosciuto anche come regista cinematografico. Con Paolo Stoppa e Vivi Gioi, dal 1944 portò in scena anche drammi di notevole valore, come Catene di Langdon Martin. Nella stagione 1945-1946 partecipò a due spettacoli diretti da Alessandro Blasetti: Il tempo e la famiglia Conway, di John Boynton Priestley, e Ma non è una cosa seria, di Luigi Pirandello. Nella stagione 1946-1947 lavorò con Luchino Visconti, insieme a Vivi Gioi e a Nino Besozzi, nello spettacolo Il matrimonio di Figaro di Beaumarchais, e nella rivista Ah... ci risiamo!, scritta da Oreste Biancoli. Nella stagione 1948-1949 partecipò a due novità dirette da Mario Chiari: I giorni della vita, di William Saroyan, e Il magnifico cornuto, di Fernand Crommelynck. Quella fu la sua ultima apparizione sul palcoscenico: in seguito, sempre più assorbito da impegni cinematografici e televisivi, non vi fece più ritorno. Si calcola che De Sica, tra il 1923 e il 1949, abbia preso parte, tra commedie, spettacoli di rivista e drammi in prosa, a oltre 120 rappresentazioni.
Sul grande schermo, dopo due partecipazioni a film muti diretti da Mario Almirante nel biennio 1927-1928 (La bellezza del mondo e La compagnia dei matti), dal 1932 diventò un divo tra i più richiesti (alla pari con Amedeo Nazzari, Gino Cervi e Fosco Giachetti), con molte commedie garbate e gradevoli dirette da Mario Camerini e interpretate anche da Lya Franca e da Assia Noris. Tra queste si ricordano: Gli uomini, che mascalzoni... del 1932, in cui De Sica cantava la canzone Parlami d'amore Mariù, che diventò celeberrima e suo cavallo di battaglia per il resto della carriera; Darò un milione del 1935, dove incontrò Cesare Zavattini; Il signor Max del 1937; I grandi magazzini del 1939; Manon Lescaut del 1940.
Anche dopo iniziata la sua prestigiosa attività di regista, continuò a recitare: apparve in un centinaio di pellicole, a volte in brevi ruoli di contorno, vincendo un Nastro d'argento nel 1948 e ottenendo numerosi premi negli anni seguenti a diversi festival. Per motivi ideologici rifiutò la proposta di dirigere il film Don Camillo. Nei primi anni cinquanta, ottenne un notevole successo di pubblico come interprete in due pellicole dirette da Alessandro Blasetti e da Luigi Comencini e nelle quali recitò a fianco di Gina Lollobrigida: Altri tempi - Zibaldone n. 1 (1952), nell'episodio Il processo di Frine; Pane, amore e fantasia (1953), dove interpretava l'esuberante maresciallo Carotenuto, film che ebbe un enorme successo, così come i tre séguiti Pane, amore e gelosia del 1954, sempre a fianco di Gina Lollobrigida, Pane, amore e... del 1955, questa volta a fianco di Sophia Loren, e Pane, amore e Andalusia del 1958 con Peppino De Filippo. Sempre nel 1958 affiancò di nuovo la Lollobrigida in Anna di Brooklyn. Divertente la sua interpretazione al fianco di Totò in I due marescialli (1961).
Ebbe un proficuo rapporto con Alberto Sordi, che tentò di lanciare nel 1951 producendo e dirigendo anonimamente Mamma mia, che impressione! e con il quale recitò in diversi film, tra i quali sono da menzionare Il conte Max, Il moralista e Il vigile. Il risultato più alto del connubio è probabilmente in un film diretto dallo stesso Sordi: Un italiano in America del 1967, dove interpretò un incisivo e malinconico ruolo di uno sfaccendato squattrinato emigrato negli Stati Uniti d'America, che sfrutta la partecipazione a una trasmissione televisiva per incontrare il figlio che non vedeva da tempo e al quale fa credere di essere ricco.
Molto intense anche le sue interpretazioni drammatiche: quella nel remake di Addio alle armi di Charles Vidor (1957) e, soprattutto, quella de Il generale Della Rovere, di Roberto Rossellini (1959). Nella sua carriera artistica si trovò a interpretare ruoli secondari in film anche molto lontani dalla sua immagine, come nel caso di Dracula cerca sangue di vergine... e morì di sete!!! di Paul Morrissey (1974).
De Sica compì il suo esordio dietro la macchina da presa nel 1939 sotto l'egida di un potente produttore dell'epoca, Giuseppe Amato, che lo fece debuttare nella commedia Rose scarlatte. Fino al 1942 la sua produzione da regista non si discostò molto dalle commedie misurate e garbate di Mario Camerini: ricordiamo Maddalena... zero in condotta, con Carla Del Poggio e Irasema Dilian 1940; Teresa Venerdì, con Adriana Benetti e Anna Magnani (1941). A partire dal 1943, con I bambini ci guardano (tratto dal romanzo Pricò di Giulio Cesare Viola) iniziò, insieme a Zavattini ad esplorare le tematiche neorealiste.
Dopo un film a carattere religioso realizzato nella Città del Vaticano durante l'occupazione della capitale, La porta del cielo (1944), il regista firmò, uno dietro l'altro, quattro grandi capolavori del cinema mondiale, che sono pietre miliari del neorealismo cinematografico italiano: Sciuscià (1946); Ladri di biciclette (1948), ricavato dal romanzo omonimo di Luigi Bartolini; Miracolo a Milano (1951), tratto dal romanzo Totò il buono dello stesso Zavattini; Umberto D. (1952). I primi due ottennero l'Oscar al miglior film in lingua straniera e il Nastro d'argento per la migliore regia. Nonostante ciò, alla presentazione di Sciuscià in un cinema milanese il regista venne accusato da uno spettatore presente in sala di rendere una cattiva immagine dell'Italia.[13]
Dopo questa quadrilogia, De Sica firmò altre opere importanti: L'oro di Napoli (1954), tratto da una raccolta di racconti di Giuseppe Marotta; Il tetto (1956), che è considerato il suo passo d'addio al neorealismo; l'acclamato La ciociara, del 1960, tratto dal romanzo omonimo di Alberto Moravia, che vanta una vibrante interpretazione di Sophia Loren, la quale vinse numerosi premi: Nastro d'argento, David di Donatello, Palma d'oro al Festival di Cannes e Oscar alla miglior attrice. Con la Loren lavorò anche in seguito: nell'episodio La riffa inserito nel film Boccaccio '70 (1962); in coppia con Marcello Mastroianni in Ieri, oggi e domani (1963), con tre ritratti di donna (la popolana, la snob e la mondana), Matrimonio all'italiana (1964), trasposizione di Filumena Marturano di Eduardo De Filippo, e I girasoli (1970).
Nel 1972 ottenne un quarto Premio Oscar con la trasposizione filmica del romanzo di Giorgio Bassani Il giardino dei Finzi Contini, storia drammatica della persecuzione di una famiglia ebrea ferrarese durante il fascismo; quest'opera ottenne anche l'Orso d'oro al Festival di Berlino del 1971. L'ultimo film da lui diretto è la riduzione di una novella di Luigi Pirandello: Il viaggio (1974).
Nel 1911, a causa di un'epidemia di colera, le autorità gli avevano proibito di mangiare i fichi: pur di procurarsene, anche perché costavano poco, la sua cara madre si faceva aiutare dal piccolo Vittorio durante gli acquisti dagli ambulanti. L'attore in questo caso fungeva da palo per dare l'allarme all'arrivo della legge. In un'occasione, quando si profilarono due carabinieri, lui intonava Torna a Surriento. Ai militi piacque e chiesero di continuare; De Sica si trovò così a interpretare tutto il repertorio napoletano a lui noto. Negli anni seguenti, divenuto attore, incise numerose versioni dei classici napoletani.[14]
Ernesto Murolo lo bocciò, esclamando durante una sua esibizione "Tene sulo nu filo 'e voce". Inoltre, alludendo alla sua magrezza, aggiunse: "Pare nu miezo tisico". Lo apprezzò, invece, Enzo Lucio Murolo, l'inventore della sceneggiata. Disse Dino Falconi, autore di riviste: "Nessuno meglio di me può assicurare che Vittorio De Sica cantava come soltanto un napoletano sa cantare". Nella maturità, incise Signorinella di Libero Bovio. Fece in TV a Studio Uno un duetto con Mina in Amarsi quando piove. Per la collana Recital dedicò album a Salvatore Di Giacomo, Ernesto Murolo e Michele Galdieri, in cui interpretava canzoni e recitava poesie.
Nel 1968 partecipò come autore a un Festival di Napoli. La sua Dimme che tuorne a mme!, musicata dal primo figlio Manuel, nel Festival di Napoli 1968 fu interpretata da Nunzio Gallo e da Luciano Tomei, ma non entrò in finale. Più volte progettò di prendere casa a Posillipo: De Sica sosteneva che "nu cafone 'e fora" (come lui si definiva) può amare Napoli più di un napoletano. Incise l'ultimo album nel 1971: De Sica anni Trenta, realizzato con gli arrangiamenti del figlio Manuel. La sua interpretazione più nota, tuttavia, resta quella di Munasterio 'e santa Chiara.
Molto attivo anche sul piccolo schermo, sebbene non lo amasse molto, partecipò a diverse trasmissioni statunitensi e italiane di intrattenimento leggero come Il Musichiere (1960), Studio Uno (1965), Colonna Sonora (1966), Sabato Sera con Corrado (1967), Delia Scala Story (1968), Stasera Gina Lollobrigida (1969), Canzonissima con Corrado e Raffaella Carrà (1970-71) e nuovamente in quella del 1972/1973 con Pippo Baudo e Loretta Goggi e Adesso musica (1972), nonché nel ruolo del giudice chiamato a processare il burattino Pinocchio nello sceneggiato Le avventure di Pinocchio di Luigi Comencini (1972). Nel 1971 diresse due documentari, e inoltre molti uomini di cultura gli dedicarono diversi documentari onorifici.
Era nota la sua grande passione per il gioco, per la quale si trovò a volte a perdere somme anche ingenti e che, probabilmente, spiega la sua partecipazione a qualche film non alla sua altezza;[15] nell'immediato dopoguerra fu assiduo frequentatore di roulette nel Casinò Municipale del Castello di Rivoli.[16] Quella per il gioco fu una passione che non nascose mai e che anzi riportò, con grande autoironia, in diversi suoi personaggi cinematografici, come in Il conte Max, Un italiano in America e L'oro di Napoli.
Il 10 aprile del 1937, nella chiesa di Borgo San Pietro ad Asti, De Sica si sposò con l'attrice torinese Giuditta Rissone, che aveva conosciuto dieci anni prima e dalla quale ebbe la figlia Emilia, detta Emi (1938-2021).[17] Nel 1942, sul set del film Un garibaldino al convento, conobbe l'attrice catalana María Mercader, con la quale andò in seguito a convivere. Dopo il divorzio dalla Rissone, ottenuto in Messico nel 1954, si sposò con l'attrice catalana nel 1959 sempre in Messico, ma in Italia l'unione fu ritenuta "nulla" perché non riconosciuta dalla legge italiana; allora De Sica nel 1968 ottenne la cittadinanza francese e si sposò con María Mercader a Parigi. Da lei aveva nel frattempo avuto due figli: Manuel (1949-2014),[18] musicista, e Christian (1951), che ha seguito le sue orme come attore e regista. Anche due nipoti sono registi: Andrea (1981), figlio di Manuel e sceneggiatore, e Brando (1983), figlio di Christian, che è anche attore.
Seppur divorziato, Vittorio De Sica non seppe rinunciare alla sua prima famiglia. Avviò così un doppio ménage, con doppi pranzi nelle feste e un conseguente logoramento: si racconta che alla Vigilia di Natale e all'ultimo dell'anno regolasse l'orologio avanti di due ore in casa della Mercader, per poter fare il brindisi di mezzanotte con tutte e due le famiglie. La prima moglie accettò di mantenere una sorta di matrimonio apparente, pur di non togliere alla figlia la figura paterna. A questi aspetti della sua vita è in parte ispirato il film L'immorale, diretto da Pietro Germi nel 1967 e interpretato da Ugo Tognazzi.
De Sica sosteneva che nu cafone 'e fora, come lui si definiva, può amare Napoli più di un napoletano e più volte pensò di prendere casa a Posillipo. Era amante dell'Isola d'Ischia e non perdeva mai occasione di trascorrere le vacanze lì; infatti, affermava che l'unico motivo per cui non si trasferiva definitivamente nell'isola del golfo di Napoli era che a Ischia non vi era alcun casinò.[14]
Era un appassionato tifoso del Napoli[14] e un ammiratore personale del calciatore Giuseppe Meazza.[19]
Vittorio De Sica morì il 13 novembre 1974 a 73 anni, in seguito a un intervento chirurgico per curare un tumore ai polmoni di cui soffriva, all'ospedale americano di Neuilly-sur-Seine, presso Parigi;[20] nello stesso anno, Ettore Scola gli dedicò il suo capolavoro C'eravamo tanto amati. Il funerale fu celebrato, dopo tre giorni, nella basilica di San Lorenzo fuori le mura a Roma; riposa nel cimitero del Verano. Come ha ricordato suo figlio Christian durante un'intervista a Le invasioni barbariche, Vittorio De Sica era comunista[21] e questo fatto, unito alle sopraccitate vicende matrimoniali, gli impedì di ricevere un funerale particolarmente fastoso.[22][23] Trentacinque anni dopo, Annarosa Morri e Mario Canale gli hanno dedicato il documentario Vittorio D., presentato alla 66ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia e successivamente trasmesso da LA7.
A Napoli gli fu dedicata una strada nel quartiere Stella, alle spalle di piazza Cavour.
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