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film del 1948 diretto da Vittorio De Sica Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Ladri di biciclette è un film del 1948 diretto, prodotto e in parte sceneggiato da Vittorio De Sica. Girato con un'ampia partecipazione di attori non professionisti, la storia fu tratta dall'omonimo romanzo del 1946 di Luigi Bartolini, con un soggetto originale scritto da Cesare Zavattini. Considerato un capolavoro universale, un classico della storia del cinema mondiale, è uno dei massimi capolavori del neorealismo cinematografico italiano.[2][3][4]
Ladri di biciclette | |
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Enzo Staiola in una scena del film | |
Lingua originale | italiano |
Paese di produzione | Italia |
Anno | 1948 |
Durata | 93 min |
Dati tecnici | B/N rapporto: 1,37:1 |
Genere | drammatico |
Regia | Vittorio De Sica |
Soggetto | Cesare Zavattini |
Sceneggiatura | Cesare Zavattini, Vittorio De Sica, Suso Cecchi d'Amico, Oreste Biancoli, Adolfo Franci, Gerardo Guerrieri e Gherardo Gherardi |
Produttore esecutivo | Vittorio De Sica |
Casa di produzione | P.D.S. |
Distribuzione in italiano | E.N.I.C. |
Fotografia | Carlo Montuori |
Montaggio | Eraldo Da Roma |
Musiche | Alessandro Cicognini |
Scenografia | Antonio Traverso |
Interpreti e personaggi | |
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Doppiatori originali | |
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«Rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, il meraviglioso nella piccola cronaca»
Quattro anni dopo la sua uscita, venne ritenuto il più grande film di tutti i tempi dalla rivista cinematografica britannica Sight & Sound.[5] Nel 1958 fu dichiarato il secondo miglior film di sempre alla Confrontation di Bruxelles, da una giuria internazionale di critici.[6][7]
Ladri di biciclette è stato in seguito inserito, come opera rappresentativa, nella lista dei 100 film italiani da salvare,[7][8][9] e oltre a ciò è stato classificato nella quarta posizione ne "I 100 migliori film del cinema mondiale - I più grandi film non in lingua inglese" dalla rivista Empire.[10] Inoltre, il magazine statunitense Rolling Stone, lo ha collocato al 55º posto nella sua speciale classifica dei migliori cento film del XX secolo.[11]
Roma, secondo dopoguerra. Antonio Ricci, un disoccupato, trova lavoro come attacchino comunale. Per lavorare deve però possedere una bicicletta e la sua è impegnata al Monte di Pietà, per cui la moglie Maria è costretta a dare in pegno le lenzuola per riscattarla. Proprio il primo giorno di lavoro, però, mentre tenta di incollare un manifesto cinematografico, la bicicletta gli viene rubata. Antonio rincorre il ladro, ma inutilmente. Andato a denunciare il furto alla polizia, si rende conto che le forze dell'ordine per quel piccolo e comune furto non potranno aiutarlo.
Tornato a casa amareggiato, capisce che l'unica possibilità è mettersi lui stesso alla ricerca della bicicletta. Chiede quindi aiuto a un suo compagno di partito, che mobilita i suoi colleghi netturbini con i quali, all'alba, insieme con il figlio Bruno, che lavora in un distributore di benzina, si reca a cercare la bicicletta: dapprima a piazza Vittorio e poi a Porta Portese, dove solitamente vengono rivenduti gli oggetti rubati. Tuttavia non c'è niente da fare: la bicicletta, probabilmente ormai smembrata nelle sue parti, non si trova.
Proprio a Porta Portese, Antonio riconosce il ladro in compagnia di un vecchio barbone, perdendolo subito di vista. Anche il vecchio vuole sfuggire a Ricci, che lo segue fino a una mensa dei poveri, dove dame di carità della pia borghesia romana distribuiscono minestra agli affamati che partecipano alla funzione religiosa. L'uomo pretende di essere accompagnato dal barbone alla casa del ladro ma, approfittando di una sua distrazione, il vecchio si dà alla fuga. Ormai perse le speranze, Antonio arriva persino a rivolgersi a una "santona", una sorta di veggente che accoglie nella sua casa un'umanità varia, afflitta e disgraziata; ma il responso sibillino della donna è quasi una presa in giro.
Subito dopo, solo per caso, Antonio s'imbatte nuovamente nel colpevole in un rione malfamato, dove però tutti gli abitanti prendono fermamente le difese del ladro, minacciando il derubato. Nemmeno un carabiniere, non trovando prove concrete, può fare alcunché per arrestare il colpevole. Stravolti dalla stanchezza, Antonio e Bruno attendono il tram per tornare a casa, quando Antonio nota una bicicletta incustodita e, preso dalla disperazione, tenta maldestramente di rubarla, ma viene subito fermato e aggredito dai passanti. Solo il pianto disperato del figlio, che muove a pietà i presenti, gli evita il carcere. Bruno stringe la mano al padre e i due si allontanano tra la folla, mentre su Roma scende la sera.
Dopo l'insuccesso commerciale di Sciuscià, con un pubblico abituato ai film dei "telefoni bianchi" degli anni del ventennio fascista o ai grandi film di Hollywood, De Sica volle a tutti i costi realizzare questo secondo film, al punto da investire il proprio denaro nella sua produzione.
Del romanzo originale, così come delle sceneggiature (oltre sei, più quella dello stesso De Sica), nel film non è rimasto nulla. Il racconto, adattato da Cesare Zavattini, mostra però una traccia di queste sceneggiature nella serie di quadri che accompagna la vicenda del protagonista. Sono dei bozzetti che vogliono "realisticamente" mostrare al pubblico la vita italiana dell'immediato dopoguerra.
«Un ritorno alla realtà», così avevano detto i critici in occasione della proiezione di Sciuscià; una realtà a cui voleva tornare lo stesso De Sica dopo le sue esperienze di attore giovane canterino nei film di Mario Mattoli e Mario Camerini degli anni trenta. Aveva detto De Sica: «La letteratura ha scoperto da tempo questa dimensione moderna che puntualizza le minime cose, gli stati d'animo considerati troppo comuni. Il cinema ha nella macchina da presa il mezzo più adatto per captarla. La sua sensibilità è di questa natura, e io stesso intendo così il tanto dibattuto realismo»[12].
Fu per questo che il regista, nonostante le grandi difficoltà a reperire fondi per la realizzazione del film, rifiutò i sostanziosi aiuti dei produttori statunitensi, che però avrebbero voluto al posto di Maggiorani addirittura Cary Grant.[4] Maggiorani venne scelto, come Enzo Staiola, per via del suo modo di camminare.[13]
L'attrice che interpretò il personaggio di Maria, la moglie del protagonista, fu Lianella Carell, una giovane giornalista e scrittrice romana, che, dopo un incontro con De Sica per un'intervista, fu sottoposta a un provino e inserita nel cast. In seguito la Carell girerà altri film, ma senza la fortuna professionale di quella prima pellicola.
Bruno è interpretato da Enzo Staiola, che De Sica trovò nel quartiere popolare romano della Garbatella. Bruno è un controcanto, un'ombra che, sempre all'inseguimento frenetico del padre, quasi dimentico di lui nella sua disperazione, lo accompagna per tutto il racconto del film. È un bambino nei tratti e nelle movenze, ma allo stesso tempo non lo è più poiché già condivide il malessere degli adulti.
Antonio e Bruno a Porta Portese vengono sorpresi da un temporale da cui si riparano sotto un cornicione dove arriva un gruppo di seminaristi stranieri, anche loro zuppi d'acqua, che parlano ad alta voce nella loro lingua sotto lo sguardo stupefatto dei due protagonisti, meravigliati di quel linguaggio incomprensibile. Tra questi c'è un pretino impersonato da Sergio Leone.
Per l'Italia, la realizzazione dei manifesti e delle locandine, fu affidata al pittore cartellonista Ercole Brini, che dipinse i bozzetti ad acquarello e tempera, in uno stile che potremmo definire "neorealista" molto adatto allo spirito del film.
Il film, girato tra il giugno e l'agosto del 1948,[14] venne distribuito nelle sale italiane il 24 novembre dello stesso anno, di seguito sono riportati i vari paesi in cui venne esportato:[15]
Il pubblico del cinema Metropolitan di Roma non accolse bene il film, anzi reclamava la restituzione del prezzo del biglietto.[16] Tutt'altra l'accoglienza a Parigi, con la presenza di tremila personaggi della cultura internazionale. Entusiasta e commosso, René Clair abbracciò al termine della proiezione De Sica dando il via a quel successo mondiale che ebbe in seguito il film con i cui proventi il regista riuscì finalmente a pagare i debiti contratti per la produzione di Sciuscià.[17]
Ladri di biciclette incassò 252 000 000 L.[6][7]
Il film può essere preso come un termine di riferimento storico per un confronto della realtà sociale della Roma dell'immediato dopoguerra. Oltre alla grande interpretazione dei due protagonisti (a cui certo contribuì in modo determinante la guida della regia di De Sica) "presi dalla strada", come allora si diceva, c'è una terza protagonista nel film che è la città di Roma con i suoi abitanti.[18] È una Roma che, rappresentata nel bianco e nero della pellicola, appare nella sua grandezza.
Le sue strade appaiono semivuote, larghe, caratterizzate da una monumentalità distante dall'urbanizzazione successiva: le sue vie e le piazze del centro sono quasi libere da auto e mezzi moderni. Anche i rioni del centro, quelli allora proletari, appaiono nella loro originale struttura; così come l'estrema periferia dei palazzoni popolari, ancora più campagna che città, conserva una forma architettonica contadina che si riflette nelle fattezze e nei modi dei suoi abitanti.[19] L'estrema povertà del dopoguerra è quasi riscattata da questa originaria autenticità di una città "pulita" nella sua architettura e nella spontanea moralità dei suoi cittadini.
L'umanità romana presentata nel film è fatta di gente che, nei suoi vari strati popolari, dai compagni di partito di Ricci, ai netturbini, agli stessi malavitosi di quartiere, ai postulanti della santona, alle dame di carità, al "buon carabiniere", si caratterizza per uno spirito di partecipazione solidale con gli altri, non è chiusa nella sua indifferenza, è aperta e genuina come le strade e i palazzi della Roma di Ladri di biciclette. È ancora un'umanità che, come appare nelle scene corali del film, condivide le sue necessità e miserie.[20]
Un'altra protagonista del film è la bicicletta, divenuta da mezzo popolare di trasporto, un elemento vitale di sopravvivenza per il protagonista del film. Le biciclette attraversano tutta la storia del film, appaiono e scompaiono (isolate o in mucchi, integre o fatte a pezzi) come un incubo agli occhi del piccolo Bruno e di suo padre. La bicicletta rappresenta la tentazione che spinge Antonio a rubare, l'esca con cui il pedofilo di piazza Vittorio attira il piccolo Bruno, la perdita del lavoro e la disperazione finale di una povera famiglia che aveva riposto in quell'umile oggetto tutte le sue speranze di sopravvivenza.[21]
Il critico André Bazin, nel sottolineare l'exploit innovativo del capolavoro di De Sica, così si esprimeva:
«La riuscita suprema di De Sica, a cui altri non hanno fatto sinora che avvicinarsi più o meno, è di aver saputo trovare la dialettica cinematografica capace di superare la contraddizione dell'azione spettacolare e dell'avvenimento. In ciò, Ladri di biciclette è uno dei primi esempi di cinema puro. Niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena, cioè finalmente nell'illusione estetica perfetta della realtà: niente più cinema.»
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