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poema epico-mitologico di Publio Ovidio Nasone Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Le metamorfosi (in latino Metamorphosĕon libri XV) è un poema epico-mitologico di Publio Ovidio Nasone (43 a.C. - 17 d.C.) incentrato sul fenomeno della metamorfosi. Attraverso quest'opera, ultimata poco prima dell'esilio dell'8 d.C., Ovidio ha perfezionato in versi e trasmesso ai posteri le più celebri storie della mitologia antica.
Le metamorfosi | |
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Titolo originale | (LA) Metamorphosĕon libri XV |
Incipit dell'opera in un volgarizzamento stampato a Venezia nel 1492 | |
Autore | Publio Ovidio Nasone |
1ª ed. originale | ultimato nell'8 d.C. |
1ª ed. italiana | 1497 |
Editio princeps | Bologna, Baldassarre Azzoguidi, 1471 |
Genere | poema epico |
Lingua originale | latino |
Nell'ultima sua opera (Tristia) composta quando già era esule a Tomi, Ovidio scrisse che le Metamorfosi non erano ancora state ultimate e che dunque le copie esistenti altro non erano che abbozzi da bruciare[1]. Non ci sono dubbi in realtà che il suo lavoro ci sia pervenuto completo. Come ha scritto Elaine Fantham, filologa britannica, la sua affermazione altro non era che il tentativo ironico di porsi sullo stesso piano di Virgilio, il quale – come narrava una storia che non sappiamo se essere veritiera o leggendaria – prima della morte chiese che venisse bruciata l'Eneide poiché non era ancora stata completata. Solo grazie all'intervento del principe stesso, Augusto, il poema si conservò[1]. L'affermazione di Ovidio dunque è da intendersi come un'amara constatazione: lo stesso imperatore che aveva salvato l'opera virgiliana, garantendo di conseguenza la fama eterna dello scrittore, ora aveva distrutto la vita di un altro poeta allontanandolo da Roma e da tutti i suoi affetti[1].
Gli studiosi sono concordi nel datare la composizione dell'opera in un periodo compreso tra il 2 e l'8 d.C.[1] Ovidio aveva già scritto gli Amores, la Medea, le Eroidi, l'Ars amatoria, i Medicamina faciei femineae e i Remedia amoris, distinguendosi nella corte augustea come scrittore di tematiche prevalentemente amorose e licenziose. Contemporaneamente alle Metamorfosi, Ovidio lavorava anche ai Fasti.
La scelta ovidiana di usare il "mito" come materia principale dell'opera deriva dalla poesia alessandrina.[2] Infatti già in essa si trovano rappresentati dèi che si fanno promotori di azioni "galanti e perverse nei confronti degli uomini".[3] Se però nella poesia alessandrina il mito rappresenta uno spunto di riflessione che doveva avere effetti moralistici, in Ovidio diventa "il soggetto dell'opera e un ingegnoso artificio".[2] Come infatti ha sottolineato il critico e storico statunitense Karl Galinsky “Il rapporto tra Ovidio e i poeti ellenistici è simile a quello che gli stessi poeti ellenistici avevano con i loro predecessori: dimostrava di aver letto e assimilato le loro versioni, ma di saper rimodellare i miti in maniera molto personale”[4].
Probabilmente, esisteva una vera e propria tradizione di testi il cui argomento principale doveva riguardare le metamorfosi, tanto da presupporre l'esistenza di un genere a sé. Sappiamo ad esempio che Boeus, un grammatico greco di epoca ellenistica, scrisse l'Ornithogonia, un poema andato perduto che raccoglieva una serie di miti sulle trasformazioni di esseri umani in uccelli;[5] che Eratostene di Cirene stilò i Catasterismi, una prosa alessandrina che è giunta sino a noi in forma ridotta e che racconta l'origine mitica delle stelle e delle costellazioni; che Nicandro di Colofone elaborò delle Metamorfosi in cinque libri su miti di eroi ed eroine trasformati dagli dei in piante o in animali; che Partenio di Nicea scrisse gli Erotikà Pathémata (Le pene d'amore), raccolta di 36 storie d'amore dalla conclusione infelice[6]; e che un contemporaneo e amico di Ovidio, Emilio Macro, scrisse anch'egli una Ornithogonia, della quale però è rimasto solo il titolo.[6]
D'altronde, sebbene non come tema principale, anche nei poemi omerici ci sono esempi di metamorfosi: nell'Iliade assistiamo a numerose mutazioni di divinità, mentre nell'Odissea celebre è l'episodio presentato nel libro XI della trasformazione dei compagni di Ulisse in porci per opera della maga Circe.[7] Non meno importanti dovettero essere la lettura delle due principali opere di Esiodo: la Teogonia insieme a Le opere e i giorni in cui sono narrati rispettivamente la creazione del mondo e le tappe della storia dell'umanità; e degli Aitia di Callimaco che oltre a essere affini per argomento alle Metamorfosi, presentano una costruzione narrativa a incastro e a concatenazione simile[7].
Se queste sono le fonti di cui riusciamo ad avere notizia e a cui si rifece Ovidio, è vero però che questi modificò e personalizzò moltissimo questi modelli. Infatti oltre a essere il poema più lungo conosciuto tra quelli sopra elencati che affronta come tema principale le "metamorfosi", l'opera segue un ordinamento cronologico nuovo ed è inserito in un contesto storico preciso: l'età augustea[8].
Le Metamorfosi, che in 11 995 versi raccolgono e rielaborano più di 250 miti greco-romani, sono state definite più volte una "enciclopedia della mitologia classica"[9]. La narrazione copre un arco temporale che inizia con il Chaos (è lo stato primordiale di esistenza da cui emersero gli dei) e che culmina con la morte di Gaio Giulio Cesare e il suo catasterismo.
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Elaine Fantham ha provato a rintracciare i modelli filosofici e letterari a cui Ovidio si è rifatto per la sua descrizione dell'origine dell'universo. Tenendo conto che gran parte del pensiero filosofico latino derivava direttamente da quello greco, la Fantham ha introdotto prima di tutto i tre modelli fondamentali descritti da filosofi greci da cui Ovidio poteva attingere: alcuni lo rappresentavano come un organismo vivente, altri come un artificio creato da un essere divino, e altri ancora in termini di una entità politica e sociale[10]. Particolare importanza in questo senso dovette avere ad esempio il Timeo di Platone. Secondo Fantham, infatti, in Tim. 30a e 30b Platone unisce i primi due modelli[10][11]. Le teorie platoniche vennero poi riprese da Aristotele e dai Sofisti e si sviluppò una vera e propria corrente filosofica che concepiva l'universo come il prodotto di un disegno, antropocentrico e geocentrico (ovvero creato solo ed esclusivamente per il bene dell'uomo e con i corpi celesti – Sole compreso – che giravano attorno alla Terra)[10]. A questa corrente si opponeva quella atomistica di Leucippo e Democrito[11]. Quest'ultimo non credeva all'ipotesi dell'unicità e dell'immortalità del cosmo, anzi, credeva che esistessero più mondi, ognuno dei quali corruttibile e quindi “mortale”. Democrito, infatti, considerava la creazione dell'universo non come il prodotto di un disegno, ma come una interazione meccanica tra atomi che dovevano riempire un vuoto[11].
Per quanto riguarda i modelli letterari, invece, né Omero né Esiodo concepirono argomenti così complessi: per entrambi il cosmo consisteva soltanto di acqua, terra, aria e di sfere celesti. Solo Esiodo ha ipotizzato l'esistenza di un caos originario antecedente a un'era di equilibrio e stabilità in cui è venuto formandosi l'universo[11]. A Roma molta importanza ebbe il pensiero democriteo che - con la mediazione di Epicuro - fu diffuso da Lucrezio tramite il suo De Rerum Natura quasi cinquanta anni prima la nascita di Ovidio[11]. Anche Virgilio ne fu influenzato e nella celebre canzone del Sileno scrive:
«Infatti cantava come nel grande vuoto si unissero gli atomi delle terre, dell'aria, del mare e insieme del fluido fuoco; come tutto avesse inizio da questi primi elementi, e il tenero orbe si rassodasse, e il suolo si indurisse, e relegasse Nereo nel mare, e a poco a poco prendesse le forme delle cose; e come le terre si stupissero dello splendere del nuovo sole, e alzatesi le nubi, dall'alto cadessero le piogge, e le selve per la prima volta cominciassero a levarsi, e i rari animali errassero allora sugli ignari monti.»
Ovidio conosceva molto bene questo scritto di Virgilio e allo stesso modo quelli di Lucrezio, di Esiodo e di Omero. Ma secondo la Fantham Ovidio si è avvicinato al tema in maniera differente: ha elaborato una versione che ha riunito i diversi modelli filosofici e letterari che abbiamo descritto[11]. Infatti se da una parte inizia a descrivere la creazione del mondo con la triade omerica del mare, della terra e del cielo, dall'altra si getta all'indietro nel caos originario, combinando l'idea del vuoto esiodeo con lo spazio atomistico della tradizione democritea e lucreziana[10]. Descrivendo quindi l'origine dell'universo come qualcosa in continuo movimento, in cui la terra non offriva punti dove poter sostare, né l'acqua dove poter nuotare, Ovidio, spiega la Fantham, introduceva così anche il tema della metamorfosi e delle continue trasformazioni che la natura subisce[12].
Dopo gli uccelli, le bestie e i pesci, con tre parole Ovidio descrive la nascita dell'uomo: natus homo est. Ma il poeta sembra non sapersi decidere su quale sia il vero creatore dell'essere umano. Scrive infatti:
«Natus homo est, sive hunc divino semine fecit
ille opifex rerum, mundi melioris origo,
sive recens tellus seductaque nuper ab alto
aethere cognati retinebat semina caeli,
quam satus Iapeto mixtam pluvialibus undis
finxit in effigiem moderantum cuncta deorum.»
«Nacque l'uomo, o fatto con divina semenza da quel grande artefice,
principio di un mondo migliore, o plasmato dal figlio di Giapeto [Prometeo]
a immagine degli dèi che tutto regolano,
impastando con acqua piovana la terra ancora recente, la quale,
da poco separata dall'alto ètere, ancora conservava qualche
germe del cielo insieme a cui era nata.»
La Fantham scrive che Ovidio sembrerebbe preferire la seconda interpretazione e il racconto - insieme all'uso di alcune specifiche parole come rudis (nel senso di “materia grezza”), finxit in effigiem deorum (a immagine degli dei, col verbo fingo che può assumere proprio il significato di “modellare” “scolpire” “forgiare”) e figuras (che in latino poteva avere anche il significato di “statua”) - suggerisce l'idea che Prometeo abbia agito come un artigiano[13]. Il mito sembrerebbe la mescolanza di due versioni precedenti: quella narrata da Protagora nell'omonimo dialogo platoniano (nella quale l'uomo è forgiato dai due fratelli Prometeo ed Epimeteo) e quella più parodica di Callimaco (nella quale l'uomo viene modellato dal fango)[13].
Se dalla Teogonia Ovidio si era lasciato influenzare per spiegare una parte della sua cosmogonia, un'altra opera esiodea s'intromette nel I libro delle Metamorfosi, Le Opere e i Giorni, in cui vengono descritte le diverse età dell'uomo[14]: da quella dell'oro a quella del ferro, passando da quella argentea e del bronzo. L'età del ferro è caratterizzata da “ogni empietà; fuggirono il pudore e la sincerità e la lealtà, e al loro posto subentrarono le frodi e gli inganni e le insidie e la violenza e il gusto sciagurato di possedere” (I.128-31), si scoprirono i metalli preziosi nascosti sottoterra e gli uomini iniziarono a farsi guerra tra loro. Fu in quest'epoca che dal sangue dei Giganti (i quali avevano osato aspirare al regno del cielo ed erano stati annientati da Giove) sparso ovunque, la Terra dette vita a un'altra schiera di esseri umani, ma “anche questa schiatta fu spregiatrice degli dèi, e assetatissima di strage crudele, e violenta. Si capiva che era nata dal sangue” (I.160-2). Da questi esseri aveva origine anche Licaone, il famoso re dell'Arcadia che fu trasformato in lupo per aver servito a Giove come pasto suo figlio Arcade. Fu questo il principale motivo che causò la convocazione dell'assemblea divina nella quale venne deliberata la distruzione del genere umano. Molti critici credono che dietro al piano letterale descritto da Ovidio per l'assemblea, se ne nasconda uno metaforico: in realtà Giove altri non sarebbe che lo stesso Augusto e gli dei minori rappresenterebbero il senato[15]. D'altronde è lo stesso Ovidio a suggerire questa lettura, paragonando la decisione di Giove con quella che a sua volta fece Augusto nel cancellare tutti i traditori e assassini di Cesare (I, 200-5): “Così, quando un'empia schiera infierì per estinguere il nome di Roma nel sangue di Cesare, il genere umano restò sbigottito di fronte a tanto spaventosa e improvvisa sciagura, e un brivido d'orrore percorse il mondo intero; e la devozione dei tuoi non è meno gradita a te, Augusto, di quanto quella degli dèi fu gradita a Giove” (I.200-5).
Un diluvio quindi ha annientato non solo il genere umano, ma ogni essere vivente. Tuttavia Giove - che durante l'assemblea divina promise che “una stirpe diversa dalla prima, una stirpe di origine prodigiosa” (I.251-2) sarebbe ricomparsa sulla Terra – salvò dal diluvio gli unici due esseri umani che erano stati giudicati “innocuos ambo, cultores numinis ambo” - "entrambi innocenti, entrambi devoti agli dèi"- (I.327): Deucalione con la cugina e moglie Pirra, rispettivamente figli dei fratelli Prometeo e Epimeteo. Furono loro che ripopolarono la Terra del genere umano: lanciandosi alle spalle dei sassi (le ossa della terra), i sassi stessi si trasformavano in esseri umani. Ecco dunque che si compiva una delle “più sorprendenti metamorfosi” del libro, in cui l'intera natura viene “paragonata a uno scultore”[16]. Per quanto riguarda gli altri animali, essi furono generati dalla terra spontaneamente. In questo caso Ovidio si rifà a una teoria di Lucrezio secondo cui “l'umidità e il calore, se si temperano a vicenda, concepiscono, e dalla loro fusione nascono tutte le cose. Il fuoco, è vero, fa a pugni con l'acqua, ma la vampa umida crea tutto: discorde concordia feconda. Quando dunque la terra, tutta fangosa per il recente diluvio, si riasciugò al benefico calore dell'astro celeste, partorì un'infinità di specie e in parte riprodusse le forme di una volta, in parte creò mostri sconosciuti” (I.430-37).
Quello che viene definito come “ciclo tebano” riguarda alcune storie presenti nel III e nel IV libro delle Metamorfosi che coinvolgono una intera dinastia che ha avuto origine da Cadmo. Questi, figlio di Agenore e fratello di Europa, viene costretto dal padre a partire da casa in cerca della sorella rapita da Giove. Dopo aver errato per il mondo come un esule senza alcun risultato, si rivolge all'Oracolo di Delfi supplicando Apollo di dirgli dove fermarsi, allora il dio rispose “in una campagna deserta incontrerai una vacca che non ha mai conosciuto il giogo, non ha mai tirato l'aratro ricurvo. Seguila per dove ti guiderà, e nella pianura in cui si adagerà costruisci delle mura e chiama Beozia quella regione” (III.10-3). Cadmo riesce nell'impresa, ma in una sorgente vicina al luogo prescelto dimora un enorme e mostruoso serpente che uccide alcuni dei suoi compagni di viaggio. Il futuro re di Tebe riuscirà, dopo un eroico duello, a sconfiggere il mostro, ma non farà in tempo a godere della vittoria che immediatamente una voce misteriosa che “non era chiaro da dove venisse, ma udita fu” disse “che stai a guardare il serpente ucciso, o figlio di Agènore? Anche tu sarai guardato serpente” (III.97-8). Solo la dea Pàllade, protettrice dell'eroe, riesce a distogliere Cadmo dal terrore che lo aveva colpito dopo aver ascoltato quella voce. La dea gli ordina di seminare i denti del serpente “germi di un futuro popolo” (III.103). Allora dal terreno nascono dei guerrieri che si combattono tra loro in una “guerra civile”, solo cinque rimangono in vita - tra questi vi è anche Echione – e accordandosi con loro, Cadmo fonderà la sua nuova città, Tebe. Ma l'origine violenta della città e l'inimicizia di alcune divinità come Giunone (che odiava tutta la stirpe di Cadmo, essendo questi il fratello di Europa e padre di Sèmele, entrambe amanti di Giove) e Diana, provocheranno la rovina se non della città stessa, di tutta la dinastia di Cadmo: Atteone, Ino, Agave, Autonoe, Semele e infine Penteo. Tutte le storie di questi personaggi infatti si concludono tragicamente e Cadmo:
«vinto dal dolore, da quella serie di sciagure e dai tanti prodigi che ha visto, […] parte dalla sua città, come se la maledizione gravasse sul luogo invece che su di lui. Dopo lungo peregrinare giunge con la moglie, che lo accompagna, nella regione degli Illirii. E mentre, oppressi ormai dalle sventure e dagli anni, conversano tra di loro rievocando le prime vicende del casato e ricordando le proprie peripezie, a un tratto Cadmo dice: “Forse era un serpente sacro quello che trafissi con la mia lancia ai tempi in cui lasciammo Sidone, e del quale seminai i denti, semi mai visti, nel suolo. Se gli dèi si preoccupano di vendicarlo con un'ira così spietata, possa io stesso protendermi, serpente, su un lungo ventre”.»
E così la profezia dettata da quella misteriosa voce si avvera e Cadmo mentre sta subendo la trasformazione guardando la moglie Armonia, le dice: (IV.583-89)
«Avvicinati, avvicìnati, moglie mia infelicissima, e finché qualcosa avanza di me, toccami e prendimi la mano, finché è una mano, finché il serpente non mi invade tutto!” Vorrebbe, sì, dire di più, ma la lingua ad un tratto si è scissa in due parti, le parole che dice si spengono e ogni volta che cerca di emettere qualche lamento, sibila. È questa la sola voce che la natura gli lascia.»
Disperata, anche la moglie supplica gli dèi di trasformare anche lei in serpente: "Tutti i presenti – presente è il loro seguito – guardano atterriti. Ma lei accarezza il viscido collo del serpente crestato [di Cadmo], e improvvisamente sono in due a serpeggiare con spire congiunte, finché non si ritirano nel folto di un bosco vicino. Ancora oggi non fuggono l'uomo né lo aggrediscono per ferirlo. Serpenti pacifici, non hanno dimenticato che cosa furono un tempo." (IV.598-603)
«Che pazzia vi ha sconvolto la mente, figli di serpe, progenie di Marte?» grida Penteo. «Tanto potere ha dunque il bronzo percosso dal bronzo, il flauto a becco curvo, il sortilegio della magia, che persone avvezze a non temere spade, trombe di guerra o schiere con la lancia in pugno, si lascino vincere da strepiti di femmine, dal delirio del vino, da masnade oscene e sciocchi tamburelli? Di chi stupirsi? Di voi, vecchi, che dopo avere a lungo vagato sui mari, qui avete insediato Tiro, qui i vostri Penati in fuga, e ora vi piegate senza colpo ferire? O di voi, giovani, in età più acerba e più vicina alla mia, che dovreste impugnare armi e non tirsi, cingere elmi e non ghirlande di fiori? Memori siate, vi prego, della stirpe che vi ha dato i natali, ritrovate la fierezza di quel serpente che da solo tanti sconfisse! e che morì per la sua sorgente, per il suo lago: in nome della vostra fama vincere dovete! Lui diede morte a prodi, cacciate voi questi rammolliti e salvate l'onore della patria!.»
Secondo Anderson il discorso retorico di Penteo è malfatto (non nel senso stilistico del termine, ma nel senso di identificazione emotiva tra lettore e personaggio), e non ha niente a che fare ad esempio con gli appelli fatti da Enea agli anziani, quando ricorda il viaggio pieno di pericoli per mare, o ai Penati. Cadmo non aveva con sè i Penati quando partì in cerca della sorella; il suo obiettivo non era mai stato quello di fondare una città su basi patriottiche e religiose, come invece doveva fare l'eroe troiano[22]. Inoltre, Virgilio non avrebbe mai attribuito il patetico aggettivo “profugos” a delle divinità romane così importanti come i Penati: Enea era un “profugos” (E.I.2), ma i suoi dèi non sono mai stati descritti come “deboli”[22]. Ovidio fa di Penteo un personaggio caratterizzato da un eccessivo patriottismo che oltretutto si rivela sciocco nel momento in cui, ad esempio, sprona i suoi uomini a rifarsi al coraggio e all'eroismo del mostruoso serpente originariamente ucciso da Cadmo. Tutto questo però secondo Anderson non significa che Ovidio abbia voluto creare un anti-Enea, bensì l'esempio più razionale di un essere umano[23].
Nelle Metamorfosi la gelosia, l'invidia, la vendicatività degli dèi non si riversano solo in amore, ma anche nell'arte: se un mortale osa gareggiare con un dio nel canto, nella poesia, nell'arte, non importa quanto sia bravo o quanto possa essere migliore del dio stesso: subirà una punizione[24].
«disegna Europa ingannata dalla falsa forma di toro: diresti che il toro è vero, che è vero il mare, e si vede lei che guarda indietro verso terra e invoca le sue compagne e per paura degli spruzzi tira timorosamente i piedi. E rappresenta Asterie ghermita dall'aquila a viva forza, rappresenta Leda sdraiata sotto le ali del cigno. E aggiunge le storie di Giove che sotto parvenze di Satiro ingravida di due gemelli la bella figlia di Nicteo [Antiope]; che diventa Anfitrione per possedere te, Alcmena di Tirinto; che fattosi oro inganna Danae, fattosi fuoco la figlia dell'Asopo [Egina], pastore Mnemosine, screziato serpente la figlia di Cerere [Proserpina]. Anche te, Nettuno: in figura di torvo giovenco ella ti pone sopra alla vergine figlia di Eolo [Arne?]. Tu appari come Enipeo, generi gli Aloidi; come montone, inganni la figlia di Bisalte [Teofane]. Anche la mitissima madre delle messi, della bionda chioma, ti conobbe stallone; la madre del cavallo volante, dalla chioma di serpi, ti conobbe alato; Melanto ti conobbe delfino. Ciascuno di questi personaggi è reso a perfezione, a perfezione è reso l'ambiente. E c'è anche Febo in aspetto di contadino, c'è come una volta egli prese penne di sparviero e un'altra volta pelle di leone, e come in forma di pastore ingannò Isse, figlia di Macareo. C'è come Bacco sedusse Erigone trasformandola in una costellazione, e come Saturno, fattosi cavallo, procreò il biforme Chirone. Tutt'intorno alla tela corre un fine bordo, con fiori intrecciati a rami d'edera flessuosi»
Non poteva rimanere impunito un mortale che osasse tanto contro gli dèi. Contrariamente la tela di Atena raffigura esempi di mortali puniti dagli dei:
«Pallade dipinge così la collina di Marte nella cittadella di Cecrope, e l'antica contesa per il nome da dare alla città. Sei dei più sei, e Giove nel mezzo, siedono su alti scanni con aria grave e maestosa. Ciascuno ha come scritto in fronte chi è; la figura di Giove è la figura di un re. Quindi rappresenta il dio del mare, in piedi, nell'atto di colpire l'aspra roccia col suo lungo tridente e di far balzare fuori dalla roccia squarciata un indomito cavallo, perché la città gli venga aggiudicata. Quanto a se stessa, si raffigura con lo scudo, con una lancia dalla punta acuta, con l'elmo in capo, e il petto protetto dall'egida; e rappresenta la terra che percossa dalla sua lancia dalla punta acuta produce una pallida pianta d'olivo, con tanto di olive, e gli dei stupefatti. Infine, la scena della propria vittoria. Ma perché la rivale capisca da qualche esempio che cosa dovrà aspettarsi per così folle ardire, aggiunge ai quattro angoli quattro altre sfide, a colori vivaci, con tante piccole figurine. In un angolo si vedono Rodope di Tracia ed Emo, oggi gelidi monti, ma un giorno esseri mortali, che avevano usurpato i nomi dei più grandi dei. Dall'altra parte, la miseranda sorte della regina dei Pigmei [Gerana]: Giunone, sfidata, l'aveva vinta e aveva voluto che diventasse una gru e si azzuffasse col proprio popolo. Poi rappresenta Antigone che una volta osò competere con la consorte del grande Giove, ma Giunone la trasformò in uccello: era troiana, suo padre era Laomedonte, ma ciò non valse a impedire che, messe le ali, fosse costretta ad applaudire se stessa crepitando col becco, candida cicogna. Nell'ultimo angolo che rimane c'è Cinira che ha perduto le figlie: abbracciato ai gradini del tempio – già corpi delle sue figliole -, disteso sulla pietra, lo si vede in lacrime. Contorna i bordi con rami d'olivo, segno di pace, e così conclude l'opera, con la pianta che le è sacra.»
Commentando questa gara Calvino scrisse:
«La precisione tecnica con cui Ovidio descrive il funzionamento dei telai nella sfida può indicarci una possibile identificazione del lavoro del poeta con la tessitura d'un arazzo di porpora multicolore. Ma quale? Quello di Pallade-Minerva, dove intorno alle grandi figure olimpiche coi loro tradizionali attributi sono rappresentate, in minute scenette ai quattro angoli della tela, incorniciate tra fronde d'olivo, quattro punizioni divine a mortali che hanno sfidato gli dei? Oppure quello d'Aracne, in cui le seduzioni insidiose di Giove e Nettuno e Apollo che Ovidio aveva già raccontato per disteso riappaiono come emblemi sarcastici tra ghirlande di fiori e festoni d'edera […]? Né l'uno né l'altro. Nel grande campionario di miti che è l'intero poema, il mito di Pallade e Aracne può contenere a sua volta due campionari in scala ridotta orientati in direzioni ideologiche opposte: l'uno per infondere sacro timore, l'altro per incitare all'irriverenza e alla relatività morale. Chi ne inferisse che l'intero poema debba esser letto nel primo modo – dato che la sfida d'Aracne è crudelmente punita – o nel secondo – dato che la resa poetica favorisce la colpevole e vittima – sbaglierebbe: le Metamorfosi vogliono rappresentare l'insieme del raccontabile tramandato dalla letteratura con tutta la forza d'immagini e di significati che esso convoglia, senza decidere – secondo l'ambiguità propriamente mitica – tra le chiavi di lettura possibili. Solo accogliendo nel poema tutti i racconti e le intenzioni di racconto che scorrono in ogni direzione, che s'affollano e spingono per incanalarsi nell'ordinata distesa dei suoi esametri, l'autore delle Metamorfosi sarà sicuro di non servire un disegno parziale ma la molteplicità vivente che non esclude nessun dio noto o ignoto[28].»
Sono stati molti i critici che hanno individuato come tema principale delle Metamorfosi l'amore, e non c'è dubbio che quello che Brooks Otis nel 1970 ha definito “the patos of love” (la passione d'amore) sia il cuore dell'opera che si sviluppa a partire dall'episodio di Tireo del libro VI e si conclude al libro XI con i racconti d'amore cantati da Orfeo.
«Intanto però una gran fiamma si accende nel cuore della figlia del re, la quale dopo avere a lungo lottato, quando vede di non poter vincere con la ragione quella folle passione, dice: “Invano, Medea, cerchi di resistere: deve esserci qualche dio che si oppone. Strano comunque se non fosse questo (o almeno qualcosa di molto simile a questo), quel sentimento che è chiamato amore”.»
Il suo amore per lo straniero è avvertito come azione proibita e la maga è consapevole del suo possibile sviluppo nefasto[32]. Così, nonostante la storia di Ovidio si concentri principalmente sull'esercizio della magia da parte di Medea per salvare il padre di Giasone e distruggere il suo nemico Pelia, i lettori del primo monologo sentono la drammatica ironia generata dalle prospettive di Medea, dai tragici eventi che verranno a svilupparsi in seguito e da come un futuro immaginato riesca a innescare una serie di pensieri e desideri pieni di speranza[32]. La voce della ragione fa costantemente parlare Medea in seconda persona singolare (17-8, 21-4, 69-71). Nel monologo comprendiamo che il dovere e la castità hanno trionfato fino a quando non hanno incontrato Giasone, poi l'amore ha preso il controllo e il dovere è stato dimenticato. Da questo punto di vista, Medea anticipa gli amori incestuosi e proibiti di Scilla, di Biblide e Mirra che seguiranno nei libri successivi[32].
«“Chiediamo di essere sacerdoti e guardiani del vostro tempio, e poiché siamo vissuti d'accordo tanti anni, vorremmo andarcene nello stesso istante: che io non debba mai vedere la tomba di mia moglie, né lei debba tumulare me.” Il desiderio fu esaudito. Furono custodi del tempio finché fu loro concesso di vivere. E un giorno, mentre sfiniti dagli anni, dalla vecchiaia, stavano per caso in piedi davanti alla sacra gradinata e rinarravano le vicende del luogo, Bauci vide Filèmone coprirsi di fronde, il vecchio Filemone vide coprirsi di fronde Bauci. E mentre già una cima cresceva sui loro due volti, continuarono a scambiarsi parole, finché poterono, e “Addio, mia metà” dissero nello stesso momento, e la scorza velò e suggellò in uno stesso momento le loro bocche”.»
«“Aura, vieni, sii gentile ed insinuati, carissima, nel mio seno, e allevia, ti prego, come sai fare tu, l'ardore che mi brucia. Tu sei la mia grande gioia, tu mi accarezzi e mi ristori, tu mi fai amare i boschi, i luoghi solitari, e la mia bocca non si stanca di captare il tuo alito soave”»
Aura, viene così scambiata per una donna. Ovidio ha cambiato e semplificato i tratti tradizionali del racconto che si basava su molti più fraintendimenti. La Procri di Ovidio è innocente. Nicandro e altri scrittori greci avevano invece scritto che alcune infedeltà sia da parte di Cefalo sia da parte di Procri erano avvenute sul serio. In una versione, Cefalo era stato lontano da sua moglie per otto anni solo per verificare la sua fedeltà, prima di tornarsene travestito sul malevolo consiglio dell'Aurora. In un'altra, Procris era fuggita dal Re Minosse di Creta, diventandone la sua padrona e curandolo da una ripugnante malattia. In cambio di tale servizio Minosse, non Diana (come vuole invece la versione di Ovidio), le regalò la lancia magica. Lei stessa poi si travestì da giovane uomo, cercando l'amicizia di Cefalo e offrendogli la lancia in cambio di una relazione omosessuale (e dato che Cefalo prese la lancia, dobbiamo dedurne che accettò). Ovidio ha poi potuto giocare sulla somiglianza delle due parole latine Aurora e Aura (impossibile invece in greco), basando su quello tutto il fraintendimento del racconto[36]. La Fantham, paragonando questa storia d'amore coniugale alle altre (in particolar modo a quella di Cadmo e Armonia, di Filemone e Bauci e a quella, come vedremo, di Alcione e Ceice), crede che in realtà i due coniugi non si amassero veramente o almeno che Cefalo non amasse così tanto Procri, per quale ragione altrimenti non si sono trasformati insieme? La risposta rimane incerta, nel racconto che Cefalo fa a Foco comunque non sembrerebbero esserci dubbi sull'amore che prova lui nei confronti della moglie scomparsa[36].
Le Metamorfosi traggono molta della loro vitalità dai racconti delle imprese degli eroi, in particolar modo quelli pre-Omerici, che erano scelti per affrontare avventurose missioni o vagavano per il mondo greco quando ancora era disabitato, affrontando mostri, briganti, popolazioni selvagge e piaghe di ogni tipo. Cadmo affrontò il serpente per fondare Tebe nella Beozia, Cefalo la volpe di Teumesso, Peleo il lupo in Tessaglia, e i migliori e più brillanti eroi greci dovettero cacciare il cianghiale inviato da Diana nella Calidone[37]. Mentre col il termine di eroe si intende generalmente figlio di un dio e un mortale, non tutti gli eroi ebbero genitori divini[38]. Ovidio dedica molto spazio in particolare a questi quattro eroi: Perseo, figlio di Giove e Danae; Teseo, figlio di Nettuno e di Etra; Giasone, figlio di genitori mortali; e Ercole, figlio di Giove e Alcmena[38]. Mentre il pubblico greco e romano poteva appassionarsi ad esempio al racconto pieno di suspense del combattimento tra Cadmo e il serpente, Ovidio ha voluto prendere da queste storie solo ciò che offriva una occasione nuova e una soddisfacente messa in scena della virtus, “virilità”, mostrata sia attraverso il coraggio, ma anche con l'ingenuità[38].
D'altronde Ovidio presenterà tutti gli eroi più famosi della tradizione greco-romana (non solo quelli pre-omerici quindi, ma anche quelli omerici e romani) trascurando le loro imprese più note, non volendosi probabilmente mettere sullo stesso piano di Omero e di Virgilio. Si concentrerà invece su avventure poco conosciute e soprattutto sulle metamorfosi che con gli eroi assumono la connotazione di una vera e propria apoteosi.
«Rimase l'immagine di Ercole, ma irriconoscibile, senza più nulla di quel che poteva aver preso dalla madre; serbava unicamente l'impronta di Giove. E come il serpente, deposta con la pelle la vecchiaia, rimbaldanzito torna tutto nuovo e smalgiante di fresche squame, così l'eroe di Tirinto, spogliato del corpo mortale, rifiorì con la parte migliore [parte meliore] del suo essere, e cominciò a sembrare più grande, e ad assumere un'aria maestosa e solenne, un aspetto venerando [augusta gravitate verendus]. Il padre onnipotente, avvoltolo in una nuvola cava, lo rapì e con un cocchio tirato da quattro cavalli lo portò tra gli astri radiosi.»
La Fantham ha notato che ci sono due affermazioni particolarmente rilevanti in questa descrizione della deificazione, evidenziate in corsivo nel testo. Parte meliore è il sintagma con cui Ovidio si riferisce a sé stesso negli ultimi versi del poema (XV.875) quando eterna il proprio poema; augusta gravitate verendus era un omaggio ad Augusto stesso[42]. D'altronde i romani non distinguevano propriamente i nomi propri dagli aggettivi con la lettera maiuscola e Ovidio scelse la parola augusta verendus proprio come riferimento al proprio imperatore. Il poeta sta invitando i suoi lettori a vedere nella deificazione di Ercole una premonizione di quel che succederà successivamente a Ottaviano - conosciuto appunto come Augusto dal 27 a.C., in greco come Sebastos, in latino come verendus[42].
«E ormai la grandezza di Enea aveva costretto gli dèi tutti e la stessa Giunone a lasciare gli antichi rancori. Impostata su salde basi la potenza del crescente Iulo, l'eroe era maturo per il cielo, e Venere, la dea di Citèra, aveva sollecitato l'approvazione degli altri dèi […] e trasportata per l'aria leggera da colombe aggiogate scende sulla costa laurentina, dove nascosto da canneti il Numicio serpeggia e sfocia con le sue acque di fiume nel vicino mare. Al Numicio essa ordina di lavar via e di portare con la sua taciturna corrente negli abissi del mare tutto ciò che di Enea è soggetto alla morte. Il fiume bicorne esegue l'ordine di Venere, e con le sue acque deterge Enea di tutta la sua parte mortale, lasciando solo la parte più buona. La madre unse con divino unguento il corpo purificato, sfiorò la bocca con ambrosia mista a dolce nèttare, e fece di Enea un dio. Un dio che il popolo dei Quiriti chiama Indigete e onora con un tempio e con altari.»
«L'onnipotente annuì, nascose il cielo con nuvole buie e atterrì il mondo con tuoni e folgori. Marte Gradivo capì che quei segni autorizzavano il rapimento promesso, e appoggiandosi alla lancia salì sul suo carro, incitò con la frusta gli impavidi cavalli premuti dal giogo cruento, e calatosi giù per l'aria a precipizio si fermò sulla cima del Palatino boscoso e rapì il figlio di Ilia che governava, ormai da re, sui suoi Quiriti. Il corpo mortale di Romolo si dissolve passando per l'aria leggera, come la pallottola di piombo scagliata dalla grossa fionda si strugge nella sua corsa per il cielo. Una nuova bellezza subentra, più degna per assidersi sui cuscini divini; la figura: è Quirino avvolto nel suo manto.»
«[...]la grande Venere, invisibile, si ferma in mezzo alla sede del Senato e sottrae dal corpo del suo Cesare l'anima non ancora liberatasi, e non permette che essa si dissolva nell'aria e la porta su tra gli astri del cielo. E mentre la porta, si accorge che diventa luminosa e s'infuoca, e la lascia andare dal proprio seno. Quella vola più in alto della luna e trascinandosi dietro per lungo spazio una coda fiammeggiante, brilla, ormai stella.»
Ma come comprendiamo seguitando nella lettura, anche Augusto seguirà il destino del padre[44],
«e vedendo quaggiù le meritevoli opere del figlio riconosce che sono più grandi delle sue [di Cesare], e gode che il figlio sia superiore. Questi proibisce che si considerino le sue azioni superiori a quelle del padre. Ma la Fama, che è libera e non accetta ordini da nessuno, benché egli non voglia, afferma che lui è migliore, e in questo solo lo contraddice. Così Atreo cede ai titoli del grande Agamennone, così Teseo vince Egeo e Achille vince Peleo. E insomma, per usare esempi ancor più degni, così anche Saturno è meno grande di Giove. Giove governa la città celeste e controlla anche gli altri due regni del mondo triforme; la terra è sotto Augusto. Entrambi sono padri e guide. O dèi […], vi supplico: tardi giunga, tardi, dopo la fine della mia esistenza, il giorno in cui l'Augusto, lasciato il mondo che ora governa, salirà al cielo e di lassù, non più presente esaudirà le preghiere che gli verranno rivolte.»
Nell'ultimo libro delle Metamorfosi Pitagora è il protagonista di un discorso di più di quattrocento versi (vv.60-478). Il tema centrale è il mutare del Tutto. Introdotto nel poema come maestro di Numa a Crotone, Pitagora apre la sua “lezione” con un appassionato invito, in nome della pietà, a non cibarsi di carne ma dei soli prodotti della terra, parla quindi dell'immortalità dell'anima e della metempsicosi, e dicendo di ricordarsi di essere personalmente stato, in una vita anteriore, il troiano Euforbo, spiega come tutto si trasformi e nulla si distrugga; come tutto scorre, e come le anime trasmigrano da un corpo in un altro, così il tempo al pari del fiume e il cielo e gli astri continuamente mutano, e l'anno e la vita hanno più fasi; e gli elementi trapassano l'uno nell'altro, e le figure cambiano perpetuamente, ogni cosa rinnova il proprio aspetto; si nasce e si muore, cambiano le età del mondo, la terraferma può cedere il posto al mare e viceversa, fiumi fonti laghi hanno acque con proprietà diverse, isole città monti sorgono e scompaiono, l'Etna non sempre butterà fuoco, esseri nuovi possono nascere da corpi di animali defunti, gli animali si riproducono e la crescita è cambiamento, la fenice rigenera sé stessa, la natura offre insomma infiniti esempi di trasformazioni; e anche la storia (popoli e paesi) è mutamento continuo, e mutamento sarà anche, un giorno, lo sviluppo della potenza di Roma. La chiusa è un nuovo invito al vegetarianismo.
«Alla loro determinazione e delimitazione contribuiva efficacemente la intuizione dell'animo popolare. Circolavano voci sinistre sulle pratiche della setta nigidiana, si fantasticava di sacrilegi e di misfatti che i pitagorici avrebbero perpetrato nel chiuso delle loro conventicole; ma accanto al tragico circolava anche il ridicolo, ed il teatro popolare in Roma riprendeva gli spunti e gli argomenti che già un tempo ad Atene avevano contribuito a screditare gli ultimi rappresentanti della setta crotoniate: tipici soprattutto, e che più si prestavano allo spirito comico, i temi della metempsicosi e del vegetarianismo, beffati non soltanto da Lucrezio e da Orazio, ma anche nelle produzioni dei mimografi.»
Allo stesso modo sembra poi che anche il vegetarianismo dei pitagorici sia stato oggetto di particolare scherno nella letteratura romana[56]. I divieti alimentari, naturalmente, potevano essere ammirati perché contribuivano a una vita sana e semplice, ma più spesso venivano satireggiati per la loro vacuità, come si nota in Orazio (Satire. II, VI, LXIII) e in Giovenale (III, 229). Queste restrizioni dietetiche hanno inoltre una lunga storia di dileggio letterario: erano una barzelletta corrente, ad esempio, tra i poeti comici dell'Atene del IV secolo[56]. Pertanto, quando Ovidio fa del vegetarianismo il punto focale del discorso di Pitagora, la serietà dell'intero episodio è almeno dubbia[56].
In ultimo Segal afferma che la metempsicosi descritta da Ovidio, non rassomiglia molto a quella teorizzata dal Pitagora storico[57]: l'anima è immortale, certamente, ma invece di essere infine purificata dalle impurità terrene e raggiungere il divino come dovrebbe essere nelle teorie pitagoree, sembra attraversare una serie infinita di cambiamenti di domicilio senza che questo comporti necessariamente una trasformazione in una forma migliore. Il processo cui Pitagora si riferisce è ciclico piuttosto che progressivo. L'anima non migliora, e Pitagora è infatti molto esplicito a proposito della sua immutabilità[57]: così io dico che l'anima rimane sì sempre la stessa / ma va trasmigrando in nuove, diverse figure (XV.171-2).
La dottrina del filosofo, dunque, sostiene e dichiara il tono immorale e amorale delle trasformazioni puramente mitiche precedenti, e non le eleva[57].
La critica letteraria del Novecento ha dibattuto non poco su quanto l'opera ovidiana rientrasse nei canoni dell'augusteismo. Per quanto non siano stati definiti con chiarezza che cosa siano questi canoni e quali siano i criteri che sottintendono alla parola “augusteismo”, generalmente come esempio di “opera augustea” si fa riferimento all'Eneide virgiliana. Essa, secondo certi critici, coincide perfettamente con alcune strategie politiche augustee: la finalità morale, l'eternazione di Roma, il rispetto sacrale delle divinità. Prendendo tutti questi criteri come modello, la critica letteraria, ha messo in dubbio l'“augusteismo” di Ovidio arrivando anche a delle conclusioni estreme, come quella di Brooks Otis secondo cui Ovidio fallì miseramente nelle sue intenzioni di scrivere un poema epico e come quella di Charles Segal, secondo cui la stesura delle Metamorfosi poté essere una delle possibili cause del successivo esilio del poeta sulmonese.
Il problema dell'augusteismo o antiaugusteismo delle Metamorfosi si risolve in due questione tra loro collegate[58]. Innanzitutto: quanto sul serio dobbiamo prendere la struttura filosofica che circonda gli episodi puramente mitici del poema? E, in secondo luogo, come dobbiamo considerare il materiale quasi storico del libro 11 (dal verso 194 alla fine), cioè lo spostamento da Troia a Roma, e che rapporto ha questo materiale con il poema nel suo complesso? Nella seconda edizione di Ovid as an Epic Poet Otis, Brooks Otis, abbandonando la sua precedente convinzione che le Metamorfosi “possono essere un deliberato tentativo da parte del poeta di migliorare la propria posizione nei confronti di Augusto”[59], è giunto a sottolineare le tensioni presenti in Ovidio stesso: Ovidio desidera da un lato usare gli artifici tecnici, il vocabolario e perfino le nozioni morali dei suoi contemporanei augustei, ma, d'altra parte, l'inclinazione del suo talento poetico è antiaugustea. Da questo punto di vista Ovidio voleva creare un'epica augustea, ma era incapace di farlo. Ne deriva un'incongruenza di stile e di materia che si rivela con maggior forza nei libri conclusivi del poema[60].
Per Segal la coloritura filosofica dell'introduzione del poema presenta una visione essenzialmente stoica dell'uomo come sanctius animal formato a immagine degli dei onnipotenti, che ha una posizione eretta e osserva i cieli e le stelle (1.76-88)[61]. Tuttavia la successiva narrazione delle Quattro Età si sofferma non sull'affinità dell'uomo con la divinità, quanto piuttosto sulla sua inclinazione alla violenza e al male[61]. D'altronde la prima metamorfosi del poema è proprio un racconto dell'impenitente malvagità umana: Licaone, per la sua perfidia è trasformato in un lupo[62]. Nella storia seguente, quella di Deucalione e Pirra, l'idea dell'origine divina dell'uomo (divino semine, I.78) è abbandonata a favore di una seconda creazione dalla terra e dalla pietra (I.400-15) e si scopre che questa seconda creazione è singolarmente consona alla natura umana (I.414-5)[62]. Nonostante l'idea dell'origine divina dunque, l'uomo incomincia ad apparire in una luce meno favorevole non appena Ovidio si addentra nella narrazione. Presto l'uomo diventa la parte malata e cattiva del creato, un maleficio che Giove deve distruggere allo scopo di preservare ciò che resta (I.190-3)[62].
Non si deve dunque pensare che questa introduzione implichi una qualche visione filosofica più alta, che sarà ripresa nella conclusione[63]. È anzi interpretabile come una preparazione per le narrazioni successive di amore passione e violenza. Benché sembri iniziare con un linguaggio e un atteggiamento verso la natura umana che sono lontani dalla giocosa sensualità e amoralità delle storie immediatamente seguenti, essa giunge ben presto a una posizione coerente con l'impostazione della maggior parte del poema: la natura umana è incline a passione malvagie, ed esiste, accanto all'uomo una classe privilegiata di potenze semidivine che appartengono a una concezione del mondo più mitica che filosofica[63].
Le storie di Licaone, del diluvio e di Pitone sono abbastanza augustee nella loro enfasi sul potere ordinatore e sul carattere morale degli dei[63]. Ma i racconti che presto definiscono il vero tono del poema disperdono nettamente questa impressione positiva. Nelle storie immediatamente seguenti di Dafne e Io, i protagonisti sono le divinità preferite di Augusto, Apollo e Giove. Quest'ultimo ha appena sconvolto l'equilibrio degli elementi allo scopo di purificare la terra dall'influenza corrutrice dell'uomo[63]. Ma gli dei ora appaiono in atteggiamento tutt'altro che edificante. Il contrasto cancella l'immagine degli dei onnipotenti costruito nella prima parte del libro[63].
Un passo molto noto sarà sufficiente a mostrare in che modo la divinità responsabile e giusta degli episodi di Licaone e Deucalione ceda di fronte a una visione meno nobile. Giove (I.595-7) invita Io a condividere con lui l'intimità di un pergolato ombroso, assicurandole: “-nec de plebe deo, sed qui caelestia magna/ sceptra manu teneo, sed qui vaga fulmina mitto. / Ne fuge me-. Fugiebat enim" (“ -non un dio comune: io sono il dio che tiene nella mano lo scettro del cielo e lancia i fulmini vaganti. Non fuggirmi!-. Sì, perché lei fuggiva”).
Questo è l'effetto di cui Ovidio è consumato maestro, la riduzione del sublime al ridicolo[64]. L'ironica semplicità dell'eco, fugiebat enim, sottolinea l'imbarazzo amoroso e l'impotenza del re degli dei, nel momento in cui l'oggetto del desiderio preferisce fuggire. Questo è lo spirito che domina l'intero poema: una sicura, arguta, ironica padronanza della realtà delle passioni e delle follie umane, perfino quando esse appaiono in veste divina[64].
Nel poema manca un'immagine unitaria dell'umano e del divino. Il ritratto che ne consegue è incoerente e, nella migliore delle ipotesi, amorale. Manca anche una chiara definizione dell'ordine della natura; e vi è corrispondentemente una mancanza di definizione dell'uomo e degli dei. Il libro I per esempio presenta da un lato il malvagio Licaone e il pio Deucalione dall'altro; questa giustapposizione è ripetuta nel libro 8, con Filemone e Bauci che sono premiati per la loro sincera pietà, e il superbo e violento Erisittone che è orrendamente punito per la sua empietà. Ma tali esempi non fanno parte di nessuno schema coerente, né toccano realmente l'essenza del poema.
In un mondo in costante cambiamento fra un ordine di creature più alto e uno più basso, la differenza fra il divino e il bestiale può talvolta sembrare davvero molto sottile: la storia di Europa è una drammatica riprova di quanto sia trascurabile questa differenza[64]. Se gli uomini diventano animali o piante e se gli dei diventano animali o uomini, ogni prospettiva morale unitaria si dissolve. La metamorfosi può anche eliminare una vera soluzione ai problemi morali sollevati dai miti, poiché spesso distrugge l'integrità interna e l'unità della persona di fronte al dilemma morale[65]. Nel mondo di Ovidio passione e lussuria sono raramente vinte o contrastate, raramente affrontate in un autentico conflitto morale tale da essere risolto solo in termini morali. Invece le passioni lavorano sulla personalità dell'individuo coinvolto finché questi è trasformato nell'equivalente bestiale o elementare di quella passione: il crudele Licaone in lupo, il lussurioso Giove in toro, Aracne dall'efficienza meccanica e sciocca, in un ragno, Tereo in un'upupa dal becco lungo, gli impetuosi Ippomene e Atalanta in leoni, e così via[66].
«Ormai ho compiuto un'opera che né l'ira di Giove né il fuoco
potranno distruggere, né il ferro o il vorace passare del tempo.
Quando vorrà, ponga fine al corso incerto della mia vita
quel giorno che solo sul mio corpo ha dei diritti:
ma con la parte migliore di me stesso per sempre volerò
oltre le stelle e il nostro nome resterà immortale;
e fin dove si estende, sulle terre conquistate, la potenza di Roma,
il popolo mi leggerà e per tutti i secoli,
se ha qualche verità il presagio dei poeti,
vivrò, per la mia fama.»
Così è solo l'opera del poeta a essere eterna, non Roma, e la “potenza di Roma” è solo la cornice e il veicolo della fama del poeta. È importante considerare anche il contesto immediato di questo passo[74]. I 125 versi precedenti (XV.745-870) sono stati dedicati all'apoteosi dei Cesari, Giulio e Augusto. Secondo Segal, passare alla deificazione dell'imperatore a un autoencomio in prima persone è, da un punto di vista augusteo, un anticlimax molto brusco[75]. Dal momento che Ovidio sta scrivendo una lunga narrazione, un carme perpetuum modellato almeno in parte su di un'epica impersonale, l'effetto è di gran lunga più violento di quanto lo sarebbe nel caso della conclusione di un poema più personale. Qui dunque, nel punto cruciale della conclusione del poema, Ovidio fa seguire all'adulazione convenzionale dell'imperatore una sottile affermazione del trionfo finale del poeta sui fasti dei governanti e dei governi e sui loro programmi, culturali e ideologici. Questa ironia sembra proprio dello stile di Ovidio, benché nella sua finezza sia forse più coraggiosa e sferzante di quanto ci si potrebbe aspettare[75]. Secondo Segal quindi, è probabile che Ovidio sentisse necessaria o utile la presenza di un augusteismo di facciata alla fine della sua opera. Ma queste sezioni del poema rimangono, appunto, solo una facciata, un educato assenso alle direttive ufficiali al di sopra dell'amoralità che resiste nei racconti, che dopo tutto costituiscono il nerbo del poema. Un esame più attento degli ultimi libri rivela che la serietà augustea è rovesciata almeno in parte dalla vivacità non augustea della passione di Circe e da tocchi esagerati che sfiorano la parodia nel discorso di Pitagora[76]. Quest'ultima – poi – non contiene una dottrina filosofica positiva capace di fornie una giustificazione morale e spirituale al poema nel suo complesso, ma si limita a riaffermare il principio del cambiamento senza fine e senza uno scopo definito. Questi caratteri della narrazione per il critico statunitense, suggeriscono che l'assenso di Ovidio agli ideali augustei è, più che solamente formale, deliberatamente ironico[76].
Galinsky nel saggio Ovid's Metamorphoses and Augustan cultural thematics (1999) crede che sia importante mettere in chiaro tre concetti prima di poter parlare di “augusteismo” o “antiaugusteismo” di Ovidio:
1) Già il titolo dell'opera Metamorfosi, rappresenta di per sé un elemento costitutivo dell'epoca augustea: il cambiamento[81]. Dopo la battaglia di Azio, ogni cosa stava cambiando. Nell'incipit del poema In nova fert animus mutatas dicere formas / corpora, la parola forma, come Lothar Spahlinger[82] ha recentemente notato, connota l'“essenza psichica”, mentre corpora riguarda la presenza fisica, l'apparenza concreta (Spahlinger 1996 28-29)[81]. Questo è un concetto molto presente all'interno dell'opera ed è sottolineato in gran parte di tutte le metamorfosi: la forma cambia, ma l'essenza è preservata. Questo avrebbe potuto offendere un Augusto che stava cambiando ogni cosa? Secondo Galinsky no. Anzi lo storico statunitense prosegue la sua analisi apportando una serie di esempi che dimostrano quanto lo stesso Augusto si facesse promotore di un cambiamento che comunque si fondava sull'antico e questa convergenza di cambiamento e conservazione dell'originaria essenza era un concetto fondamentale per la politica augustea[81]. In questo senso anche il concetto di Roma aeterna, tante volte usato dai critici per dimostrare l'anti-augusteismo di Ovidio, perde di significato perché lo stesso Augusto predicava il cambiamento[83].
2) Anche nelle riforme augustee della religiose era molto palpabile questo concetto tra cambiamento e conservazione. Galinsky fa molti esempi, basti quello del tempio di Castore e Saturno ricostruito splendidamente sulle vecchie fondamenta[83].
3) Un altro carattere distintivo della cultura augustea rintracciabile nelle Metamorfosi era l'inclusione e l'unione di tutte le precedenti tradizioni e modelli. Augusto stesso, come subito è reso chiaro dalle prime parole delle Res geastae (ma anche tramite altre fonti), si considerava non l'erede o di Cesare o di Pompeo o di Alessandro o di Scipione o di Romolo o di Numa, ma di tutti loro insieme. E abbiamo visto quanto sia appunto importante questa commistione di stili, generi, tradizioni diverse anche nelle Metamorfosi[84].
Galinsky conclude affermando quindi che è inutile parlare di “augusteismo” o di “antiaugusteismo” ovidiano. Quando guardiamo alle Metamorfosi dovremmo allargare i nostri orizzonti invece di rimanere legati a una prospettiva che, a suo modo di vedere, limita la comprensione del genio artistico ovidiano. Le Metamorfosi, come ha dimostrato il critico statunitense con gli esempi precedenti, non sono né augustee né antiaugustee, ma sono semplicemente un prodotto della cultura augustea. Nel periodo successivo alle guerre civili, Virgilio scrisse, nella prima decade della politica augustea, un “monumento poetico” al desiderio di stabilità e conservazione. Le Metamorfosi, invece si sono concentrate sull'altro aspetto della cultura augustea, più caratteristico della decade successiva: il cambiamento[85].
A lungo si è discusso a quale genere appartenesse un'opera tanto innovativa come quella ovidiana. Per gli studiosi è stato subito chiaro che l'intenzione di Ovidio fosse quella di scrivere un poema epico[86]. D'altronde l'utilizzo dell'esametro, il tipico metro della tradizione epica usato da Omero e da Virgilio, presupponeva proprio questo, che ci trovassimo di fronte a un altro poema epico. Quello che però non ha convinto - e su cui i critici hanno dibattuto per tutto l'inizio del XX secolo - è stata la scelta tematica fatta da Ovidio: non l'epopea di un unico eroe, ma un'infinità di storie legate insieme da un unico elemento, le metamorfosi. D'altronde non dobbiamo scordare che Ovidio, prima di scrivere il poema, era considerato il più famoso poeta elegiaco della corte augustea insieme a Properzio[87]. Anderson ha notato che proprio i primi due versi delle Metamorfosi sono in un certo senso esemplificative del passaggio da poeta elegiaco a epico[87]:
«In nova Fert animus mutatas dicere formas
corpora. Di coeptis (nam vos mutastis et illas)»
«L'estro mi spinge a narrare di forme mutate in corpi nuovi.
Oh dèi (anche queste trasformazioni furono pure opera vostra)»
Tenendo presente che un distico elegiaco è formato da un esametro e da un pentametro, il critico statunitense scrive che l'uso delle parentesi nel secondo verso trasformava quello che il pubblico augusteo si aspettava essere un pentametro, in esametro[87]. La cesura del verso infatti cade proprio lì, sulla parola coeptis, ovvero al punto in cui un poeta elegiaco sarebbe andato a capo per comporre di seguito un altro esametro e poi un altro pentametro e così via. Detto questo Anderson crede che confinare l'opera ovidiana in un'etichetta come quella di "poema epico" solo per il fatto che sia stata scritta in esametri non abbia nessun senso[88]. Brooks Otis prima di lui in un saggio che ebbe molta fortuna, Ovid as an Epic Poet, affermò che Ovidio avesse sì, l'intenzione di scrivere un poema epico in linea con la tradizione virgiliana, ma che alla fine riuscì soltanto a scriverne una parodia, una copia inferiore, naufragando disastrosamente nel suo iniziale obiettivo: questo perché in realtà Ovidio non riuscì mai a liberarsi della sua vera natura di poeta elegiaco, una natura che mal si addice ad essere combinata con l'epica[89]. Gli esempi che Brooks portava a convalidamento della sua teoria erano moltissimi: si concentravano soprattutto sul ciclo di Cadmo e su quello della guerra di Troia, nei quali il tipico eroismo omerico-virgiliano viene ridotto, secondo il critico statunitense, a pura parodia. Brooks ripudiò poi, con l'edizione successiva dello stesso saggio, la sua interpretazione, scrivendo infatti:
"Io avevo parlato di due Ovidio, di uno augusteo e di uno, se così si può dire, comico-amoroso, che continuamente si influenzavano a vicenda. Ho anche affermato che l'Ovidio augusteo impediva all'Ovidio comico-amoroso di realizzare in pieno i suoi propositi e alla fine l'ho condannato, constatando che aveva composto un buon lavoro di poesia inferiore. Quello che ho scritto, ora lo ripudio totalmente."[90]
Eppure Brooks, anche nella seconda edizione, persisteva nel voler inserire l'opera ovidiana in un genere preciso, commettendo, secondo Anderson, un errore perché spesso questa problematica appartiene più al critico moderno che non alle reali intenzioni dell'autore[88]. D'altronde nella letteratura latina si trovano esempi di satire e di poemi didascalici composti in esametri e che nulla hanno a che fare con il poema epico[88]. Secondo Anderson, dunque, e secondo la critica più recente che comprende anche gli scritti di Segal e di Bernardini, l'opera ovidiana non si può etichettare in un genere preciso, potremmo dire semplicemente che le Metamorfosi sono un poema in esametri che abbraccia tutta una serie di generi letterari esistenti fino a quel momento a Roma: dal parodico al satirico comprendendo anche, ovviamente, l'epico[91].
Come scrive Charles Segal “quale che sia la legittimità con cui possono aspirare allo status di poema epico, le Metamorfosi si inseriscono senz'altro in questa tradizione e la reinterpretano per la letteratura occidentale. In questa reinterpretazione Ovidio utilizza soprattutto due tecniche: la soppressione o la svalutazione dell'elemento eroico grazie allo spostamento del centro del racconto e alla leggerezza dei toni; e la combinazione con altri generi e stili, in special modo con i temi erotici dell'elegia e i caratteri intellettualistici, eruditi ed eleganti della narrativa e della poesia didascalica ellenistiche (in primis callimachee)"[92].
Gli esempi che Segal porta a compimento della sua tesi si concentrano soprattutto sui tipici eroi della tradizione epica omerica e virgiliana e più in generale della mitografia greca (Achille, Ulisse ed Enea, ma anche Peleo o Perseo). Peleo e Achille nel poema ovidiano sfuggono continuamente al combattimento o al duello e non vengono connotati dai tratti eroici tipici della tradizione che li ha tramandati a Ovidio[93].
Peleo, innamorato di Teti, cerca di accoppiarvisi: lei, spaventata si trasforma per ben due volte, prima in un uccello, poi in un albero, eppure “Peleo continua a insistere” solo “quando la dea si trasforma in una tigre striata, egli, ben poco eroicamente, rimane atterrito e “lascia la stretta” (11 246)”. Quando invece, ormai sposato con Teti, Peleo dovrà affrontare un lupo mostruoso che distrugge gli armenti di Ceice, non ci sarà nessun combattimento eroico, perché la stessa Teti trasformerà quel lupo in roccia (11 397-406).
Allo stesso modo Achille, quando compare per la prima volta nel poema ovidiano, ci viene presentato come “un giovane deluso la cui iniziale spavalderia si trasforma in un'angosciante mancanza di fiducia in sé stesso, non appena il corpo di Cigno [la cui pelle era invulnerabile al ferro] piega la sua spada (12, 86 -113). Anche in questo caso, come nell'episodio precedente, la metamorfosi si sostituisce alla dura necessità di una battaglia omerica”[94]. Achille infatti riuscirà a battere (strozzandolo) Cigno solo perché questi inciamperà sbadatamente su un sasso, ma non farà neppure in tempo a godere della vittoria che guarderà lo sconfitto volare via dall'armatura in forma di cigno, trasformato così dal padre Nettuno: “un improvviso finale a sorpresa ritrae l'eroe in un atteggiamento piuttosto realistico: perplesso, deluso, disorientato, e inerme”[94].
Come si capisce dunque, “la negazione dell'attivismo eroico - di cui l'Iliade e l'Eneide sono insieme simbolo e modello - costituisce uno dei motivi conduttori del poema.” D'altronde la metamorfosi è in sé stessa una modalità di ridimensionamento dell'eroismo epico-tradizionale. Proprio scegliendo questo tema Ovidio si poneva in un rapporto ambiguo con quella tradizione[95]. Segal individua quattro modi in cui il tema delle metamorfosi ridimensiona l'eroismo epico tradizionale:
Le metamorfosi possiedono una struttura ipotattica: l'autore, consapevole della sua bravura, articola i periodi attraverso l'utilizzo di molte proposizioni subordinate. Ne deriva una struttura articolata e sfarzosa. L'autore predilige aggiungere piuttosto che eliminare: abbondano, ad esempio, gli aggettivi che ricorrono nelle descrizioni dei personaggi.
Tutti gli episodi cantati nel poema hanno come origine una delle cinque grandi forze motrici del mondo antico: Amore, Ira, Invidia, Paura e Sete di conoscenza; non esistono azioni, né di dei né di uomini, non riconducibili a questi motori invisibili. I racconti delle metamorfosi presentano una struttura fissa; sono quattro le tipologie di miti presenti:
Nei primi dieci libri i miti vengono raccontati senza rispettare un preciso ordine cronologico, molte volte Ovidio utilizza i suoi personaggi per raccontare miti che sono antecedenti al periodo in cui vivono i protagonisti, Orfeo, Nestore dopo la morte di Cigno, sono solo alcuni degli svariati episodi in cui l'autore utilizza questo espediente.
Dopo il decimo libro, con la trattazione della guerra di Troia, le storie iniziano a essere raccontate con una successione cronologica ben scandita. La scelta non è casuale: con Omero i miti, che prima erano confusamente tramandati per via orale, vengono riordinati e scritti per la prima volta, allo stesso modo Ovidio inizia a raccontare i miti con una scansione temporale ordinata solo dopo aver trattato i racconti che furono cantati dal sommo poeta greco.
In tutto il poema ricorrono anche numerosi elogi ad Augusto molte sono le lodi che Ovidio compie, le più articolate sono presenti nell'episodio di Apollo e Dafne e negli ultimi versi del XV libro.
Come annota Bernardini: “In Storia della tradizione e critica del testo (1934), Giorgio Pasquali scriveva che nel caso delle Metamorfosi la recensione rimane, almeno sin qui, tipicamente aperta: cioè essendo escluso che i codici a noi pervenuti discendano da un unico archetipo, e dovendosi invece pensare che essi continuino una pluralità di edizioni antiche, non è possibile fissare una lezione meccanicamente, in base al criterio genealogico; si deve ricorrere al iudicium, fondandosi di volta in volta su criteri interni.”[101] Infatti, nonostante la grande popolarità che le Metamorfosi ebbero sin da quando vennero composte - intorno quindi all'anno dell'esilio (8 d.C.) - nessun manoscritto ci è pervenuto di quell'epoca.[102] D'altronde il poema venne bollato come "opera pericolosamente pagana" e probabilmente molti manoscritti vennero distrutti o andarono persi soprattutto durante il periodo della cristianizzazione dell'Impero.[103] Esistono dei frammenti risalenti al IX e al X secolo;[102] ma i primi veri manoscritti che siamo in grado di utilizzare per la ricostruzione testuale, sono databili intorno all'XI secolo.[104] Vi sono due editiones principes: quella bolognese del 1471 e quella romana del 1471-72.[105] Tra le edizioni successive, notevole è quella di Daniel Heinsius (Leida, 1629)[105], ma un primo fondamentale lavoro di collatio venne svolto dall'olandese Nikolaes Heinsius che tra il 1640-52 riuscì a collazionare più di cento manoscritti e a pubblicare poi l'edizione critica dell'opera (Amsterdam, 1652).[106] Con i criteri della filologia moderna, sono da segnalare l'importante edizione del Merkel (Lipsia, 1851)[105] sulla quale si fonda la recentio dell'attuale testo teubneriano e quella di Von Hugo Magnus (Berlino, 1914).[105] A oggi si conoscono più di 400 manoscritti registrati da Franco Munari nel suo “Catalogue” (London, 1957). Ma per quanto il numero dei manoscritti disponibili sia notevolmente aumentato durante il XX secolo (il filologo Lafaye nel 1928 segnalava che se conoscevano poco più di 150[101]), la situazione non è cambiata da come la descrisse Pasquali nel 1934. “Anzi” come annota ancora Bernardini “si è in un certo senso aggravata, essendo ormai chiaro che codici prima considerati deteriori rispetto alla classe battezzata O da Magnus presentano in molti luoghi lezioni buone.[101]
Il testo antico fu perduto, ma esistono oltre quattrocento manoscritti di epoca medioevale, completi o frammentari. Una lista non esaustiva di questi testi è stata compilato dal filologo classico e traduttore italiano Franco Munari.
Una delle più celebri traduzioni delle Metamorfosi edita in Francia risale al 1557. Pubblicata con il titolo La Métamorphose d'Ovide figurée (La Metamorfosi di Ovidio illustrata) dalla Maison Tournes (1542-1567) a Lione, è il risultato della collaborazione dell'editore Jean de Tournes e Bernard Salomon, importante incisore del XVI secolo. La pubblicazione è edita in formato in-ottavo e presenta i testi di Ovidio accompagnati da 178 illustrazioni incise.
Tra gli anni 1540-1550 si instaura a Lione tra i vari editori una vera e propria corsa alla pubblicazione dei testi del poeta antico. Jean de Tournes si trova così a far fronte ad un’aspra concorrenza che pubblica anch’essa nuove edizioni delle Metamorfosi, la cui diffusione nel campo dell’editoria contemporanea fa seguito al moltiplicarsi delle traduzioni. Jean de Tournes pubblica per la prima volta i primi due libri di Ovidio nel 1456, versione a cui fa seguito una ristampa illustrata nel 1549. Il suo principale concorrente è Guillaume Roville, il quale pubblica i testi illustrati da Pierre Eskrich nel 1550 e successivamente nel 1551. Nel 1553, egli pubblica i primi tre libri con la traduzione di Barthélémy Aneau, che segue alla traduzione dei primi due libri da parte di Clément Marot. Tuttavia, la versione del 1557 pubblicata dalla Maison Tournes rimane la versione che gode di maggiore fortuna, come attestato dalle menzioni storiografiche.
Le edizioni cinquecentesche delle Metamorfosi costituiscono un cambiamento radicale nel modo di percepire i miti. Nei secoli precedenti, i versi del poeta antico erano stati letti soprattutto in funzione del loro impatto moralizzante, mentre a partire dal sedicesimo ne viene esaltata la qualità estetica ed edonistica. Il contesto letterario dell'epoca, marcato dalla nascita della Pléiade, è indicativo di questo gusto per la bellezza della poesia.
“La scomparsa dell'Ars Amatoria e dei Remedia amoris segna la fine di un'epoca gotica nell'editoria ovidiana, così come la pubblicazione nel 1557 della Métamorphose figurée segna l'appropriazione da parte del Rinascimento di un'opera che è tanto in linea con i suoi gusti quanto la moralizzazione delle Metamorfosi lo era stata con le aspirazioni del XIV e XV secolo"[109].
L'opera fu ripubblicata in francese nel 1564 e nel 1583, sebbene fosse già stata pubblicata in italiano da Gabriel Simeoni nel 1559 con alcune incisioni aggiuntive.
Alcune copie del 1557 sono oggi conservate in collezioni pubbliche, presso la Biblioteca nazionale di Francia, la biblioteca municipale di Lione, la Brandeis University Library di Waltham (MA) e la Biblioteca del Congresso a Washington D.C., negli Stati Uniti. Una copia digitale è disponibile su Gallica. Sembrerebbe inoltre che una copia sia stata messa in vendita da Sotheby's.
Nell'edizione del 1557 pubblicata da Jean de Tournes figurano 178 incisioni di Bernard Salomon[110] che accompagnano il testo di Ovidio. Il formato è emblematico della collaborazione tra Tournes e Salomon, che esiste fin dal loro sodalizio a metà degli anni 1540: le pagine si sviluppano attorno ad un titolo, un'incisione con una strofa ottonaria e un bordo ordinato.
Le 178 incisioni non sono state realizzate tutte in una volta per il testo integrale, ma hanno origine da una ripubblicazione dei primi due libri nel 1549. Nel 1546 Jean de Tournes pubblicò una prima versione non illustrata dei primi due libri delle Metamorfosi, per la quale Bernard Salomon preparò ventidue incisioni iniziali. Salomon esaminò diverse edizioni illustrate delle Metamorfosi antecedenti prima di lavorare alle sue incisioni, che nonostante ciò non mancano di una spiccata originalità.
Nel libro Bernard Salomon. Illustrateur lyonnais, Peter Sharratt afferma che le tavole di questa edizione, assieme a quella della Bibbia illustrata dal pittore nel 1557, sono i lavori di Salomon che evidenziano maggiormente il processo illustrativo basato su "un miscuglio di ricordi "[108]. Tra le edizioni precedenti da lui consultate, ne spicca una in particolare: Metamorphoseos Vulgare, pubblicata a Venezia nel 1497, la quale presenta analogie nella composizione di alcuni episodi, come la "Creazione del mondo" e "Apollo e Dafne". Nel disegnare le sue figure, Salomon utilizza inoltre il canone di Bellifontaine, a testimonianza dei suoi primi anni da pittore. Tra le altre opere, realizzò alcuni affreschi a Lione - affreschi per i quali si ispirò ai recenti lavori a Fontainebleau.
Più noto in vita per la sua attività di pittore, il lavoro di Salomon su La Métamorphose d'Ovide figurée lasciò comunque un segno sui suoi contemporanei. Tali illustrazioni contribuirono alla celebrazione dei testi ovidiani nella loro dimensione edonistica. A questo proposito, Panofsky parla di "xilografie di straordinaria influenza"[111] e lo storico dell'arte americano Rensselaer W. Lee definisce l’opera come "un evento di grande portata nella storia dell'arte"[108].
Ad oggi, nel Musée des Beaux-arts et des fabrics di Lione, è possibile osservare pannelli di legno che riproducono il modello delle incisioni di Salomon per le Metamorfosi di Ovidio del 1557.
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