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mitologica fondatrice di Cartagine Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Didone o Elissa è una figura femminile della mitologia classica. Fu la fondatrice e prima regina di Cartagine (corrispondente all'odierna Tunisi), dopo essere stata regina consorte del regno fenicio di Sidone. Secondo la narrazione virgiliana dell'Eneide, si innamorò dell'eroe troiano Enea, figlio di Anchise, quando egli approdò a Cartagine per colpa di una tempesta causata da Giunone prima di arrivare nel Lazio ed ebbero una relazione. Disperata per la partenza improvvisa di Enea, costretto dal Fato, Didone si trafisse con la spada donatale dal troiano, chiedendo al suo popolo di vendicarla e profetizzando i futuri scontri tra Cartagine e i discendenti di Enea, ovvero i Romani.
Didone | |
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Joseph Stallaert: La morte di Didone (1872) | |
Regina di Cartagine | |
In carica | IX secolo a.C. – IX secolo a.C. |
Predecessore | carica creata |
Successore | Oligarchia poi dal VI secolo a.C. Annone I |
Nome completo | Didone o Elissa |
Religione | religione fenicia |
Primogenita di Belo, re di Tiro, la sua successione al trono fu contrastata dal fratello, Pigmalione, che ne uccise segretamente il marito Sicheo e prese il potere. Probabilmente con lo scopo di evitare la guerra civile, Didone lasciò Tiro con un largo seguito e cominciò una lunga peregrinazione, le cui tappe principali furono Cipro e Malta. Approdata infine sulle coste libiche, Didone ottenne dal re Iarba il permesso di stabilirsi lì, prendendo tanto terreno «quanto ne poteva contenere una pelle di bue» detto con irrisione. L'antico soprannome di Cartagine era Birsa, che in fenicio significa "rocca" e in greco "pelle di bue". Didone scelse una penisola, tagliò astutamente la pelle di toro in tante striscioline e le mise in fila, in modo da delimitare quello che sarebbe stato il futuro territorio della città di Cartagine e riuscì a occupare un terreno di circa ventidue stadi quadrati (uno stadio equivale a circa 185,27 m).
Secondo una leggenda, Didone sposò in seconde nozze Barca, un fedele seguace di Tiro, il cui nome potrebbe essere correlato al termine fenicio Barak, che significa "fulmine". Secondo questa versione quindi, i Barcidi, la famiglia di Annibale Barca, il più famoso e abile condottiero cartaginese e protagonista della seconda guerra punica, sarebbero discendenti di Didone. Durante la propria vedovanza, Didone venne insistentemente richiesta in moglie dal re Iarba e dai principi dei Numidi, popolazione locale. Secondo le narrazioni più antiche (ne parla a esempio Giustino nel III secolo d.C.), dopo aver finto di accettare le nozze, Didone si uccise con una spada, invocando il nome di Sicheo.[1]
«Improbe amor, quid non mortalia pectora cogis!»
Già gli storiografi romani Ennio e Nevio rielaborarono il mito di Didone, alla ricerca di una giustificazione mitica all'origine delle guerre tra Roma e Cartagine e al presunto "odio atavico" tra i due popoli. Pertanto il poeta Virgilio non fu il primo a impossessarsene, nonostante la sua versione del mito sia rimasta nei secoli di gran lunga la più celebre.
Nella versione virgiliana, Didone è la regina di Cartagine, la città che ha da poco fondato, grazie alla sua astuzia e che è ancora in costruzione. La regina appare giovane e bella, ricordando nell'aspetto la dea Artemide. Enea, giunto naufrago sulla costa di Cartagine con i suoi seguaci, parte in esplorazione e ammira i lavori di costruzione della nuova città. Grazie a una nube creata da Venere, Enea appare all'improvviso alla regina, chiedendo ospitalità.
La regina ospita generosamente i naufraghi e durante un banchetto chiede notizie della caduta della famosa Troia. L'eroe troiano, seppur a malincuore, racconta le vicende vissute a partire dalla fine di Troia (Infandum, regina, iubes renovare dolorem), suscitando la commozione di Didone. Sotto l'influenza di Cupido, istigato da Venere alleata di Giunone, Didone si innamora di Enea (I e IV libro dell'Eneide). Malconsigliata dalla sorella Anna, che la vuole felice e spera che l'unione con i Troiani assicuri stabilità a Cartagine, Didone pur volendo rimanere fedele al defunto marito accetta di procedere secondo il sentimento e di proporre a Enea di sposarla. Frattanto rallenta i lavori di costruzione della città.
Durante una caccia, a causa di un temporale Enea e Didone si riparano in una grotta e iniziano un rapporto amoroso. Anche Enea inizia a disinteressarsi della sorte dei suoi compagni. La Fama diffonde fino a Iarba, re dei Getuli, notizie del loro amore; Iarba invoca suo padre Giove Ammone, perché fermi il "Paride effeminato" che insidia la sua regina, o piuttosto le sue mire su Cartagine.
Tramite Mercurio, Giove impone la nuova partenza all'eroe troiano, che lascia Didone dopo un ultimo terribile incontro, in cui lei prima lo supplica di non partire, e poi lo maledice e prevede eterna inimicizia tra i popoli e un "vendicatore" che sorgerà dalle sue ossa (inimicizia che infatti porterà secondo Virgilio alle guerre puniche tra Roma e Cartagine e alle imprese di Annibale), con un discorso che ricorda in parte la maledizione di Polifemo su Odisseo, ma su scala temporale ben più lunga:
«Se forza, se destino, se decreto / È di Giove e del cielo, e fisso e saldo / È pur che questo iniquo in porto arrivi / E terra acquisti; almen da fiera gente / Sia combattuto, e, de’ suoi fini in bando, / Da suo figlio divelto implori aiuto, / E perir veggia i suoi di morte indegna. / Né leggi che riceva, o pace iniqua / Che accetti, anco gli giovi; né del regno, / Né de la vita lungamente goda: / Ma caggia anzi al suo giorno, e ne l’arena / Giaccia insepolto. Questi prieghi estremi / Col mio sangue consacro. E voi, miei Tirii, / Coi discesi da voi tenete seco / E co’ posteri suoi guerra mai sempre. / Questi doni al mio cenere mandate, / Morta ch’io sia. Né mai tra queste genti / Amor nasca, né pace; anzi alcun sorga / De l’ossa mie, che di mia morte prenda / Alta vendetta, e la dardania gente / Con le fiamme e col ferro assalga e spenga / Ora, in futuro e sempre; e sian le forze / A quest’animo eguali: i liti ai liti / Contrari eternamente, l’onde a l’onde, / E l’armi incontro a l’armi, e i nostri ai loro / In ogni tempo. E ciò detto, imprecando, / Schiva di più veder l’eterea luce, / Affrettò di morire.»
Poi, sviata Anna e la nutrice Barce (altro richiamo al cognome di Annibale Barca, il terribile condottiero cartaginese la cui memoria era ancora viva tra i lettori contemporanei di Virgilio) con delle scuse, disperata si uccide con la stessa spada che Enea le aveva donato, gettandosi poi nel fuoco di una pira sacrificale.
Enea incontrerà poi di nuovo la regina nell'Ade, nel bosco del pianto (VI libro), e manifesterà sincero dolore per la sua repentina fine, non meno, forse, che immutata incapacità di comprenderne e ricambiarne l'amore e la dedizione; ma l'ombra di Didone non lo guarderà neppure negli occhi e resterà gelida, rifugiandosi poi dal marito Sicheo, con cui si era ricongiunta nell'oltretomba («…coniunx ubi pristinus illi / respondet curis aequatque Sychaeus amorem»). Il silenzio finale di Didone è, secondo Eliot, un riflesso del senso di impossibilità di amare dello stesso Enea, schiavo del fato.[2]
«Grido e brucia il mio cuore senza pace
Da quando più non sono
Se non cosa in rovina e abbandonata»
Dante nella Divina Commedia colloca Didone nel Canto V dell'Inferno, in compagnia dei celebri Paolo e Francesca, nella schiera degli spiriti lussuriosi. Nel canto Dante inizialmente non cita per nome Didone, ma la descrive mediante una perifrasi che ne indica i peccati e il nome del marito («L'altra è colei che s'ancise amorosa, /E ruppe fede al cener di Sicheo»); successivamente, sempre nello stesso canto, viene nominata esplicitamente da Virgilio («cotali uscir de la schiera ov'é Dido, a noi venendo per l'aere maligno, sì forte fu l'affettuoso grido»). Didone, infatti, legandosi a Enea si rese colpevole del tradimento della memoria del marito morto Sicheo, e infine si tolse la vita una volta che Enea l'abbandonò per continuare il viaggio indicatogli dagli dèi.
Al contrario San Girolamo nell'Adversus Jovinianum, in particolare nel cap. 43 del primo libro intitolato Viduae gentiles, aveva esaltato l'immagine di una Didone fedele a Sicheo; Petrarca e Boccaccio si riallacciarono a tale rielaborazione patristica del mito della regina fenicia, e la dipinsero anche loro come una casta vedova.[4]
Il topos letterario della donna abbandonata, di cui Didone fa parte, ha viaggiato nella letteratura fino ad Ungaretti in età moderna. Dalla Medea di Euripide, e Apollonio Rodio (che ne descrive la giovinezza e l'ingenuità), fino all'Arianna di Catullo del carme LXIV e alla Didone virgiliana e a quella ovidiana della VII epistola, a tutti gli effetti più donna che regina.
Come sopradetto, la tradizione romana ha successivamente indicato Didone come antenata di Annibale Barca, tuttavia, l'ipotesi più accettata dagli storici contemporanei, invece, afferma che la famiglia di Annibale fosse di umili origini. Molto più tardi, anche la regina Zenobia di Palmira si proclamò discendente ed erede politica di Didone, ponendosi in una prospettiva anti-romani.
Nel 2005 la Tunisia celebrò Didone quale mitologica fondatrice della sua capitale con una banconota che ne ritrae il volto.[7]
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