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opera di Ovidio Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
I Fasti sono un'opera di Ovidio, un poema in distici elegiaci a carattere calendariale ed eziologico che espone le origini delle festività romane, ad imitazione degli Aitia ("Cause") di Callimaco, di cui riprende, oltre che il metro, anche alcune soluzioni formali e narratologiche.
Fasti | |
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Mosaico romano con i 12 mesi dell'anno, III secolo, da Thysdrus (El Jem); Museo archeologico di Susa, Tunisia | |
Autore | Publio Ovidio Nasone |
1ª ed. originale | dal 9 d.C. |
Editio princeps | Bologna, Baldassarre Azzoguidi, 1471 |
Genere | poema epico |
Lingua originale | latino |
L'opera, scritta molto probabilmente per aderire alla propaganda moralizzatrice tipica dell'età augustea, fu progettata in un totale di 12 libri, secondo l'andamento del calendario: con essa l'autore - che probabilmente attingeva a Varrone Reatino e a Verrio Flacco - si era proposto di spiegare l'origine della differenza tra i giorni fasti (dalla parola latina "fas", lecito) in cui i Romani potevano trattare gli affari pubblici e privati, e i giorni infasti, nei quali era vietato. Al tempo stesso il poeta, parlando con il dio di turno, indaga e rivisita, mese per mese, tutti i molteplici riti, le festività e le consuetudini, tipiche del costume e dell'uomo romano, che, al suo tempo, si praticavano senza ormai conoscerne l'esatta origine o valenza.
Tuttavia, dei Fasti si sono conservati solamente 6 libri, da gennaio a giugno: questo fatto si spiega con la famosa relegatio (esilio che non comportava la perdita dei beni né tantomeno dei diritti civili) che colpì Ovidio e che non gli permise di terminarla.
Il primo libro doveva presentare una dedica ad Augusto. Quest'ultima, ora spostata al secondo libro, è stata sostituita (verosimilmente nell'esilio di Tomi, l'attuale Costanza, in Romania) con una al nipote adottivo di Augusto stesso, Germanico[1].
Dopo la dedica, Ovidio rievoca brevemente la nascita del calendario romano e il significato dei giorni fortunati o dies fasti[2], per poi passare al mito di Giano, esposto dal dio stesso in colloquio con il poeta, sul modello degli Aitia callimachei[3] e, dopo un distico sulle None di gennaio, modellato sulle sezioni astronomiche di Arato[4], all'esposizione dell'origine dei riti agonali[5], dei riti in onore di Carmenta[6], inframmezzato da una esposizione sulle Idi, che divide questo mini-epillio in due sezioni, la prima delle quali è una lunga profezia sulle origini di Roma recitata dalla stessa ninfa.
Dopo un'apostrofe al distico elegiaco, che Ovidio afferma di aver piegato alla poesia eziologica, dopo che in gioventù fu il suo verso d'amore e ad una dedica a Cesare (forse Augusto)[7], si passa a parlare dell'origine del nome februarius[8], per poi discutere delle calende, con la rievocazione del mito di Arione[9], delle none, con il mito dell'Orsa Callisto[10], di Fauno, dei Lupercali e di Roma arcaica[11].
Ovidio rievoca, poi, le feste Quirinalia[12], le cerimonie ferali[13] e la festa del dio Terminus[14] e si sofferma a parlare del regifugium, con la leggenda di Lucrezia[15]. Infine, parla della festa degli Equirria[16].
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