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scrittura e pronuncia della lingua latina Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Un alfabeto per il latino fu adottato fin dall'VIII secolo a.C., cioè fin dagli albori della storia di Roma. Come generalmente accade quando un popolo inventa un alfabeto o ne adatta uno "straniero" alle esigenze della propria lingua, c'è un'alta corrispondenza tra grafemi e fonemi, cioè ad ogni lettera corrisponde (esclusi eventuali allofoni) un solo suono.
Questo con tutta probabilità avvenne anche con il latino. L'evoluzione di una lingua, tuttavia, porta il parlato a divergere dallo scritto (si pensi per esempio all'inglese, al gaelico o al francese). Il latino non fu esente dall'evolversi e lo testimoniano alcuni fenomeni fonetici avvenuti nel corso del tempo, in particolare il rotacismo. In generale, queste modifiche nel parlato furono introdotte anche nello scritto (talvolta, come nel caso del rotacismo, con delle apposite leggi), almeno fino all'epoca classica.
L'alfabeto latino è il sistema di scrittura sviluppato per la lingua latina. I grafemi che costituiscono l'alfabeto del latino sono i seguenti (tra parentesi quelli non usati in epoca classica):
A B C D E F G H I (J) K L M N O P Q R S T (U) V X Y Z
L'alfabeto latino deriva da un alfabeto greco occidentale (l'alfabeto greco non era uguale in tutto il territorio ellenico, ma si differenziava da regione a regione, soprattutto per quanto riguarda lettere assenti negli alfabeti più arcaici), probabilmente tramite la mediazione dall'etrusco, o forse direttamente da quello di Cuma, colonia greca nei pressi di Napoli.
Ad ogni modo, l'alfabeto arcaico era lievemente diverso da quello classico, anche per la pronuncia di alcune lettere. Tra le consonanti, le velari presentano una situazione molto interessante.
Per quanto riguarda le sibilanti, furono investite dal fenomeno del rotacismo.
Per la trascrizione di parole greche (vedi anche più avanti) furono introdotte due lettere che rappresentavano fonemi sconosciuti al latino e che andarono ad occupare la fine della serie alfabetica (da notare il ritorno del simbolo Z, scomparso dopo il rotacismo, seppur come consonante affricata e non più come fricativa).
I Romani, come d'altronde anche i Greci, utilizzavano la scriptio continua, cioè non separavano le parole le une dalle altre, se non, a volte, con un puntino medio (ad esempio, NOMENOMEN o NOMEN∙OMEN). Il senso di scrittura, come ben attestato dai reperti archeologici (il Lapis niger, ad esempio), procedette nei primi tempi in senso bustrofedico, per poi stabilizzarsi nel senso sinistra-destra proprio di tutte le lingue europee odierne.
Notevoli esempi di scrittura, anche parietale, sono stati rinvenuti a Pompei e ad Ercolano.
Dal momento in cui l'antica Roma cominciò ad assorbire aspetti della cultura greca (dal teatro alla poesia alla filosofia), si sentì la necessità di introdurre quei nuovi termini desunti dalla lingua greca che non avessero corrispondenti esatti in quella latina (i cosiddetti grecismi).
L'opera di traslitterazione risultò tutto sommato abbastanza semplice; come già accennato, gli unici fonemi greci che non si ritrovavano in latino erano la ζ zeta e la υ hȳ, i cui grafemi furono direttamente trasportati in latino, e le aspirate (φ phi, θ theta e χ chi), che invece furono rese con la lettera muta corrispondente seguita da h (rispettivamente PH, TH e CH). Anche l'aspirazione ad inizio parola (che in greco non fu segnalata che in epoca tarda con lo "spirito aspro") venne resa con H.
L'alfabeto greco veniva quindi traslitterato: Α > A; Β > B; Γ > G; Δ > D; Ε > E (breve); Ζ > Z; Η > E (lunga); Θ > TH; Ι > I; Κ > C o K; Λ > L; Μ > M; Ν > N; Ξ > X; Ο > O (breve); Π > P; Ρ > R o RH; Σ > S; Τ > T; Υ > Y (o anche, soprattutto inizialmente, V); Φ > PH (inizialmente anche solo P); Χ > CH; Ψ > PS; Ω > O (lunga).
La lettera gamma (Γ) veniva tuttavia traslitterata in N davanti ad altra consonante velare (Γ, Κ, Χ, Ξ), corrispondentemente alla pronuncia greca in quanto prendeva in questa posizione suono nasale (come in vanga); ad esempio, ἄγγελος divenne angelus.
Per quanto riguarda i dittonghi, non tutti vennero traslitterati vocale per vocale; a causa dei mutamenti che già in epoca ellenistica erano avvenuti nella fonetica greca, alcuni dittonghi venivano già pronunciati diversamente da come erano scritti. In particolare, αι venne reso come ae (αἰθήρ passò a aethēr), οι come oe (il prefisso οἰκο- divenne oeco-), ει come ī (Ἡράκλειτος fu reso Hēraclītus) e ου come ū (Οὐρανός divenne Ūrānus). I dittonghi impropri (quelli formati da vocale lunga e iota, che nelle moderne edizioni vengono resi con uno "iota sottoscritto" sotto la vocale) vennero trascritti con la sola vocale lunga, trascurando la i (Ἅιδης divenne Hādēs), tranne che in alcune voci entrate molto presto nel lessico (come ad esempio κωμῳδία, che fu resa, tenendo conto dello iota, in cōmoedia).
Nel corso dei secoli, il latino ha subito delle modificazioni e il sistema di lettura che ci è pervenuto è quello usato dall'Alto Medioevo in poi dalla Chiesa e, fino alla nascita delle varie lingue nazionali, anche come lingua ufficiale dei documenti scritti, oltre che della cultura in generale. Questo sistema viene chiamato pronuncia ecclesiastica o scolastica proprio perché divulgato dalla Chiesa; tuttavia questo differisce dal sistema originario della lingua latina.
Linguisti e filologi si sono cimentati nella ricostruzione del sistema fonologico del latino, come avvenne per quella del greco antico; in particolare va ricordato il lavoro dell'umanista Erasmo da Rotterdam nel saggio De recta Latini Graecique sermonis pronuntiatione. Il sistema fonologico ricostruito (noto come pronuncia restituta o classica, facendo così riferimento più alla lettura dell'alfabeto, che alla fonologia stessa della lingua) esiste in varie versioni: in seguito se ne offrirà un quadro più dettagliato e una variante più semplificata, normalmente accettata come standard nelle università europee.
La pronuncia insegnata nella maggior parte delle scuole europee corrisponde alla restituta, mentre in Italia viene generalmente utilizzata la pronuncia ecclesiastica, che ha una tradizione legata al cattolicesimo e tende anche ad una maggiore simiglianza con la fonetica della lingua italiana.
Ai fini dell'accentazione è necessario dividere correttamente le sillabe di una parola. Di seguito le regole generali:
Le cinque vocali latine (a, e, i, o, u, più la y greca) possono essere sia lunghe, soprassegnate nella trascrizione moderna con il diacritico ˉ (ā /a:/, ē /e:/-/ε:/, ī /i:/, ō /o:/-/ɔ:/, ū /u:/, ȳ /y:/), sia brevi, soprassegnate con ˘ (ă /a/; ĕ /e/-/ε/; ĭ /i/; ŏ /o/-/ɔ/; ŭ /u/; y̆ /y/). Se una vocale può essere sia lunga sia breve, si dice ancipite o bifronte. I dittonghi (che in latino classico erano solo discendenti, costituiti da vocale+semivocale, come au, ae e oe) sono sempre lunghi; se due vocali accostate che normalmente sono dittongo non lo formano, si pone sulla seconda vocale la dieresi (se ae e oe sono dittonghi, non lo sono aë e oë che sono generalmente derivati dal greco) e ciascuna delle due vocali avrà una propria quantità.
Le sillabe si dicono aperte se terminano per vocale o dittongo, chiuse se terminano per consonante.
Nella metrica latina la quantità di una sillaba non corrisponde sempre a quella del suo nucleo vocalico:
Spesso, quando si parla di sillaba chiusa con vocale breve (quindi una sillaba lunga) si dice che la vocale è lunga "per posizione". In realtà, "posizione" è in questo caso un'errata traduzione di positio, che significherebbe invece convenzione: non è infatti la vocale che si allunga, ma la sillaba, che, a causa della somma della vocale con l'elemento consonantico finale, era percepita come lunga.[7]
Non è chiaro se il latino possedesse un accento di tipo musicale (come nel greco antico e probabilmente nel protoindoeuropeo) o di tipo tonico-dinamico (come nelle moderne lingue neolatine). Le lingue italiche, di cui fa parte il latino, avevano un accento intensivo fisso sulla prima sillaba. Si ritiene che il latino avesse sviluppato indipendentemente un accento musicale a tono unico (di elevazione della voce), che durante l'evoluzione della lingua si mutò in accento tonico.
L'accento latino, quale che sia la sua natura, segue tre regole fondamentali:
In pratica, quindi, per le parole con meno di tre sillabe il problema non si pone. In quelle di più di due sillabe, invece, l'accento può cadere solo sulla terzultima e penultima sillaba e la quantità di quest'ultima è il discrimine tra le due opzioni. Ad esempio, roris si accenterà senza dubbio ròris; recrĕo, la cui penultima sillaba è la e breve, si leggerà rècreo; pensitātor, la cui penultima sillaba contiene una vocale lunga, si leggerà pensitàtor; superfundo ha la penultima sillaba chiusa, quindi lunga, e sarà letto superfùndo.
Bisogna tuttavia tenere presente che le particelle enclitiche (-que, -ve, -ne, -dum, -pte, -ce, -dum) attirano l'accento sulla sillaba che le precede (di fatto l'ultima della parola cui si legano), sia essa breve o lunga. Ad esempio, marĕque si leggerà marèque, anche se la penultima sillaba della parola complessiva è breve;[8] questo fenomeno si chiama accento d'ènclisi. Può anche capitare che, sebbene una parola porti una particella enclitica, l'accento venga calcolato sulla penultima sillaba reale e l'intera parola considerata un'unica entità: è il fenomeno dell'epèctasi. A causa dell'epectasi possono quindi formarsi coppie come itàque (ită + que: "e così") e ìtăque ("pertanto"). Nel secondo caso, la sensibilità dei parlanti aveva perso coscienza delle due componenti, considerando la parola come una nuova entità a sé e risemantizzandola.[9]
Il modo di leggere il latino così come era giunto fino al XX secolo (soprattutto nel contesto scolastico ed ecclesiastico) mostrava diverse divergenze dalla relazione "ad ogni grafema un fonema"; ciò spinse ad avviare una ricerca approfondita su quale potesse essere l'effettiva pronuncia originaria del latino.
La pronuncia nota come restituta è frutto del lavoro di glottologi, linguisti e filologi che, a partire dalla fine del XIX secolo, hanno tentato di ricostruire, sulla base di studi comparati con altre lingue antiche o dei (pochi) indizi che possono giungere dalla trattatistica di epoca classica, la pronuncia originale dei Romani di quel periodo.
È opinione di vari studiosi[11][12] [13]che, in epoca classica, la pronuncia delle vocali postulasse una differenza tra lunghe e brevi. La pronuncia restituta ripropone questa distinzione.
Da notare che nei fonemi della ''e'' e della ''o'' le brevi sono aperte e le lunghe chiuse, a differenza del greco dove le brevi ε ed ο sono chiuse e le lunghe η ed ω sono aperte.
È inoltre possibile (ma tutt'altro che certo) che ove ci fosse nella scrittura un'oscillazione tra la ''i'' e la ''u'' (come in ''maxumus''/''maximus'' od "optumus/optimus"), vi fosse la presenza di un suono simile ai fonemi della ''y'', questo fenomeno fonetico era noto ai grammatici Romani come sonus medius.[10][15]
I dittonghi classici sono quattro:[11]
Nella scrittura del Latino antico, AE ed OE erano scritti rispettivamente come AI ed OI.[16]
Ad essi vanno aggiunte due coppie di vocali probabilmente dittongatesi con il passare del tempo, e il dittongo greco yi:
Bilabiali | Labio-dentali | Dentali/ | Post-alveolari | Palatali | Velari | Glottidali | Aspirate | Labiovelari | |
---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|
Nasali | m | n~n̪ | (ŋ) | ||||||
Occlusive | p b | t d | (c)[17] (kʲ)[18] | k g | kʰ[19] tʰ[19] pʰ[19] | kʷ gʷ | |||
Affricate | d͡z[20] | ||||||||
Fricative | (ɸ[21] β) | f | (θ)[22] s (z) (ð) | (ɣ[23] x[24]) | h[25] | ||||
Vibranti | r | ||||||||
Laterali | l | (ɫ) | |||||||
Approssimanti | j[26] | w[27] |
Per quanto riguarda alcuni digrammi:
La pronuncia scientifica tiene conto delle possibili mutazioni che le consonanti possono avere le une vicine alle altre.
Le consonanti sonore b e d, qualora fossero seguite da consonante non sonora, diverrebbero le corrispettive sorde p e t (assimilazione parziale). In particolare, alcuni nominativi di nomi con tema in b della terza declinazione presenterebbero questa assimilazione: nubs, ad esempio, sarebbe letto (in trascrizione fonetica larga) /nups/ (questo accade in modo più trasparente con i temi in g, che presentano al nominativo una x, cioè k+s, e non g+s; inoltre, questo fenomeno avviene chiaramente in greco, dove i nominativi sigmatici dei temi in p e b presentano in ambo i casi la lettera psi, indicante /ps/). Altri esempi intercorrono anche tra parole distinte: ad portum sarebbe /ɐtˈpɔr.tʊm/, sub ponte /sʊpˈpɔn.tɛ/, obtulistī /ɔp.tʊˈlɪs.tiː/.
Per le tre preposizioni sub, ob e ad può anche sussistere un'assimilazione totale: questo è testimoniato dalle grafie evolute di alcune parole composte (ad esempio, il composto sub+fero può essere scritto sia subfero sia suffero); questa assimilazione è possibile anche tra parole distinte in sandhi; così, ad fīnēs verrebbe pronunciato o /ɐtˈfiː.neːs/ (assimilazione parziale) o /ɐfˈfiː.neːs/ (assimilazione totale), piuttosto che /ɐdˈfiː.neːs/, ob castra sarebbe letto /ɔpˈkɐs.trɐ/ oppure /ɔkˈkɐs.trɐ/ e sub flūmine /sʊpˈfluː.mɪ.nɛ/ o /sʊfˈfluː.mɪ.nɛ/.[39]
Si può assumere una pronuncia semplificata per la restituta, che si basa sul principio generale di far corrispondere a ciascun grafema un solo fonema, cioè di far corrispondere ad ogni lettera un particolare suono. Questo è vero eccezion fatta per gli allofoni della n, per la doppia natura (aperta o chiusa) della e e della o e per i doppi valori (vocalici e consonantici) della i e della u.
Inoltre:
Per quanto riguarda i dittonghi, va ricordato che i digrafemi formati da vocale+i (ei, ui) non sono dittonghi nel latino classico; ad esempio rei si pronuncerà /ˈrε.i/ e non /rεj/; portui sarà /ˈpɔrtu.i/, e non /ˈpɔrtuj/, né /pɔrtwi/); dei dittonghi di questo genere derivati dal greco, gli originali αι /aj/, οι /oj/ e υι /yj/ passano rispettivamente ai dittonghi ae /ae/, oe /oe/ e yi /yj/; mentre ει /e:/ che non è un dittongo passa a ī /iː/.
Dei digrafemi vocale+u, invece, au è sempre dittongo (/aw/), mentre eu, quasi sempre derivato dal greco, è dittongo solo se lo era anche in greco (come in euphōnia /ewˈɸonia/); se invece eu deriva dall'unione tra radice greca e desinenza nominale latina (come in Perseus, radice perse- più desinenza -us) non è dittongo (/ˈperse.us/ e non /ˈpersews/).
Anche ae ed oe (salvo i casi particolari con dieresi, come aër e poëta) sono dittonghi e si pronunciano normalmente /ae/ e /oe/.
La pronuncia ecclesiastica era quella abitualmente in uso nella Chiesa cattolica di rito latino per la propria liturgia, soprattutto prima della riforma voluta dal Concilio Vaticano II che ha introdotto l'uso della lingua volgare nella liturgia cristiana ("introdotto" e non "reintrodotto" perché, sebbene per diversi secoli la liturgia a Roma fosse stata celebrata in greco, l'introduzione del latino non fu, a suo tempo, l'adozione di una lingua del popolo, ma di una lingua standard, già molto diversa da quella effettivamente parlata dal popolo).
Essendo la pronuncia ecclesiastica improntata sul latino volgare parlato in epoche successive alla classicità, essa risulta più variegata e, nel complesso, meno uniforme di quella classica. In linea generale, si può dire che la pronuncia ecclesiastica risenta della fonetica e spesso anche delle convenzioni grafiche delle diverse lingue locali: pertanto il latino letto in Francia suonava molto simile al francese, in Germania al tedesco e naturalmente in Italia all'italiano. In Francia fu fondata una Société des amis de la prononciation française du latin in opposizione alla proposta di adottare la pronuncia italianizzante[46].
Peraltro, è anche possibile che alcuni fenomeni fonetici presenti in questo sistema di lettura del latino risalgano ad una pronuncia più antica di questa lingua (per esempio la palatalizzazione delle velari che le ha portate a mutarsi in affricate, oppure l'assibilazione di /tj/ seguito da vocale in /t͡sj/).
Lungo i secoli, la pronuncia del latino finì comunque per essere dominata dalla fonologia delle lingue locali, con il risultato di una grande varietà di sistemi di pronuncia.
A causa della centralità di Roma all'interno della Chiesa cattolica, tuttavia, una pronuncia italianizzante del latino fu via via sempre più consigliata: prima di allora, la pronuncia del latino anche nella liturgia cattolico-romana rifletteva la pronuncia del latino utilizzata localmente in altri ambiti (accademico, scientifico, giuridico, etc.). Il papa Pio X nel 1912 raccomandò ai paesi cattolici il mantenimento della pronuncia ecclesiastica del latino nelle scuole, ed anche il suo motu proprio Tra le sollecitudini,[47] del 1903, venne normalmente interpretato come un invito a fare della pronuncia "romana" lo standard del latino per ogni ministro di culto cattolico che celebrasse un atto liturgico, si trattasse della messa, dell'amministrazione di un sacramento o della celebrazione delle ore canoniche. La pronuncia ecclesiastica italianizzante divenne da allora la più diffusa nella liturgia cattolica, e fu anche la pronuncia preferita dai cattolici anche al di fuori della liturgia (sebbene gli studi di Fred Brittain[48] abbiano mostrato che la diffusione di questo tipo di pronuncia non era ancora del tutto consolidata alla fine del XIX secolo).
La Pontificia accademia di latinità è un organismo della Curia romana che regola autorevolmente l'uso del latino nell'ambito della Chiesa cattolica.
Al di fuori dell'Italia e della liturgia cattolica, la pronuncia ecclesiastica è utilizzata soltanto nel canto corale, che molto spesso ha uno stretto legame con i testi liturgici (sebbene vi siano anche delle eccezioni, come l'Oedipus rex di Stravinskij, che è in latino ma non tratta un tema cristiano). Una pronuncia del latino improntata all'ecclesiastica è stata utilizzata anche nel film La passione di Cristo.[49] Anche le corali della Chiesa anglicana usano spesso la pronuncia ecclesiastica. La ricerca di una resa dei brani musicali filologicamente più attendibile, tuttavia, porta spesso a rivalutare le pronunce regionali del latino, e ad eseguire i testi musicati come li avrebbe pronunciati l'autore o l'esecutore per il quale erano stati scritti.
In Italia, a differenza del resto del mondo (escluse alcune scuole cattoliche all'estero), la pronuncia ecclesiastica è tuttora insegnata nella maggior parte dei licei; essa adotta le seguenti regole:
Inoltre:
Per quanto concerne i dittonghi, anche i grafemi vocale+i (ei, ui) vengono usualmente letti nell'ecclesiastico come dittonghi: rei si pronuncerà /rεj/ e portui sarà /ˈpɔrtui/ o anche /ˈpɔrtwi/; per quanto riguarda yi, esso è pronunciato come semplice i allungata (/iː/).
Come per la pronuncia classica, dei digrafemi vocale+u, au è sempre dittongo (/au̯/), mentre eu, quasi sempre derivato dal greco, è dittongo solo se lo era anche in greco, altrimenti no.
I dittonghi ae ed oe (salvo i casi particolari con dieresi, come aër e poëta), come abbiamo accennato, si leggono come i fonemi della e.
La seguente tabella confronta le due pronunce.
Lettera | Pronuncia classica | Pronuncia ecclesiastica |
---|---|---|
A | /ɐ/, /aː/ | /a/ |
B | /b/ (/β/) | /b/ |
C | /k/ (/c/) | /k/, /t͡ʃ/ |
D | /d/ | /d/ |
E | /e/, /ε/, /eː/, /εː/ | /e/, /ε/ |
F | /f/ | /f/ |
G | /ɡ/ (/ɟ/) | /ɡ/, /d͡ʒ/ |
H | /h/, muta | muta |
I | /ɪ/, /iː/, /j/, /jː/ | /i/, /j/ |
K | /k/ | /k/ |
L | /l/, /ɫ/ | /l/ |
M | /m/ | /m/, /ɱ/ |
N | /n/, /ɱ/, /ŋ/ | /n/, /ɱ/, /ŋ/ |
O | /o/, /ɔ/, /oː/, /ɔː/ | /o/, /ɔ/ |
P | /p/ | /p/ |
Q | /kw/ | /k(w)/ |
R | /r/, /rː/ | /r/, /rː/ |
S | /s/ (/z/) | /s/, /z/ |
T | /t/ | /t/, /t͡s/ |
V | /ʊ/, /uː/, /w/-/β/ | /u/ e /w/ (lettera U, u), /v/ (lettera V, v) |
X | /ks/ | /ks/, /ɡz/ |
Y | /yː/, /ʏ/ | /i/ |
Z | /dz/-/z/ | /d͡z/, /t͡s/ |
AE | /aɛ̯/ | /e/, /ε/, /ae/ (solo se lo iato è marcato con dieresi) |
OE | /ɔɛ̯/ | /e/, /ε/, /oe/ (solo se lo iato è marcato con dieresi) |
AU | /aʊ̯/ | /aw/ |
CH | /kʰ/ | /k/ |
PH | /pʰ/ (/ɸ/, /f/) | /f/ |
TH | /tʰ/ | /t/ |
GN | /ɡn/-/ŋn/ | /ɲ/ |
SC | /sk/ | /sk/, /ʃ/ |
Riassumendo le differenze:
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