Arquata del Tronto
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Arquata del Tronto è un comune italiano di 919 abitanti della provincia di Ascoli Piceno nelle Marche.
Appartiene alla Comunità montana del Tronto, confina con tre regioni (Lazio, Umbria ed Abruzzo), è l'unico comune d'Europa racchiuso all'interno di due aree naturali protette (il Parco nazionale dei Monti Sibillini a nord e il Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga a sud.[5]), ed è noto per la presenza della storica rocca medievale che sovrasta l'abitato.
Il territorio dell'arquatano, prevalentemente montuoso, è caratterizzato dalla presenza del monte Vettore, del monte Ceresa, del massiccio dei Sibillini e della catena dei monti della Laga. Il paesaggio varia tra alpestri pareti scoscese che si avvicendano a fitti boschi di castagno, faggio e conifere; tra pendii e ampie balconate naturali, verdi campi e aree pascolive. Dalle cime più alte si scorgono i profili del Gran Sasso e del mare Adriatico.
Questa è l'area del cosiddetto "versante magico" dei Sibillini, intriso sin dal medioevo di credenze, tradizioni e storie fantastiche, animate da presenze misteriose, che ancora oggi vi aleggiano. Guido Piovene li descrive come i «monti più leggendari d'Italia».[6] Sui fianchi di queste montagne vi erano gli antichi sentieri che conducevano alla Strada delle fate, alla Grotta della Sibilla, profetessa Appenninica, e al Lago di Pilato, dove si crede sia sprofondato il carro condotto dai buoi che trasportava, ingovernato, il corpo di Ponzio Pilato.[7]
Il centro urbano di Arquata è stato costruito a cavallo di un'altura nella zona dell'Alta valle del Tronto, lungo il versante sinistro dell'omonimo fiume che attraversa la zona, alle falde delle montagne che lo circondano, tra il corso stesso del fiume e il Fosso di Camartina. L'autore Adalberto Bucciarelli individua le ragioni della scelta di edificazione dell'insediamento nella favorevole e strategica posizione topografica a vocata difesa naturale, legandola anche a questioni d'igiene come la peculiare ventosità del luogo.[8]
Il paese dista circa 30 km dal capoluogo Ascoli Piceno, 55 km dall'Adriatico e 30 km da Norcia. L'intero comprensorio comunale si estende su una superficie di circa 92 km², spaziando dai 580 ai 2.476 m s.l.m.,[9] fino all'estremo sud-occidentale delle Marche, confinando con tre regioni, (caratteristica che in Italia condivide col solo comune confinante di Accumoli), quali: Abruzzo, con la provincia di Teramo, Lazio, con la provincia di Rieti, e Umbria, con la provincia di Perugia.
Il territorio è solcato dal Sentiero europeo E1 e dalla Salaria, strada di rilevante importanza già in epoca romana. Attraverso gli snodi dell'antica consolare, presenti nell'arquatano, era possibile raggiungere molti centri dell'entroterra marchigiano, Norcia, Roma e L'Aquila.[10]
L'area comunale che ricade all'interno del Parco nazionale dei Monti Sibillini è attraversata da alcune tappe dell'itinerario del Sentiero europeo E1 che congiunge Capo Nord a Capo Passero, uno degli undici cammini di lunghezza estremamente elevata della rete sentieristica europea. Il tratto arquatano, istituito e riconosciuto dalla Federazione Italiana Escursionismo, transita con le sue varianti per: Forca di Presta, Forca Canapine, Pretare, Piedilama, Borgo, Camartina, Pescara del Tronto, Tufo, Capodacqua e raggiunge Accumoli in provincia di Rieti.[11][12]
Il tracciato della Via Salaria che percorreva la Terra d'Arquata era quel ramo di strada che derivava dalla biforcazione della consolare proveniente da Roma all'altezza della cittadina di Antrodoco e risaliva la valle del Velino per superare gli Appennini, discendere lungo la valle del Tronto fino ad Ascoli Piceno, concludendo il suo percorso a Castrum Truentinum sul litorale adriatico.[13] Le fonti non indicano il tempo della costruzione di questa diramazione della via commerciale romana[14] che si trova rappresentata sia nella Tabula Peutingeriana, copia di un'antica carta romana che illustra le strade militari dell'impero, e sia nell'Itinerario antonino, registro che annovera le stazioni e le distanze tra le località poste sulle diverse strade dell'Impero romano.[13]
In entrambe le mappe stradali, nelle indicazioni della nomenclatura delle stationes e delle mansiones, si leggono toponimi di alcune località vicine o appartenute al comprensorio arquatano. Sebbene la Tabula Peutingeriana e l'Itinerario Antonino siano considerate autorevoli prove documentali per la ricostruzione dell’impianto del sistema stradale differiscono nell'elenco delle stazioni di posta.[15] Niccolò Persichetti giustifica queste discordanze adducendo che la Salaria, snodando il suo percorso vicino all'alveo del Tronto, possa aver subito danneggiamenti dai depositi e dalle impetuose e rovinose piene del fiume. Queste potrebbero aver causato lievi mutamenti geografici e statistici rendendo necessario uno spostamento della sede stradale per il ripristino della viabilità e scrive: «Ritengo quindi che nella storia della Salaria siano da distinguersi due momenti, quello che direi della Salaria vetere e quello della nova.»
Lo storico diversifica e scinde i percorsi indicati nelle due mappe e li inquadra come esistiti in tempi diversi, ossia sostiene che nell'Itinerario antonino è descritto il corso della «Salaria vetere», costruito più vicino al Tronto e più breve rispetto al corso della «Salaria nova» che è riportato nella Tavola Peutingeriana ed aggiunge che: «lo spostamento della linea che dal basso fu fatta dolcemente salire sulla costa, portandola in curva verso il fanum Martis, oggi Tufo, e di là a Surpicanum (nei pressi di Arquata) ed indi ad Aquas (nei pressi di Acquasanta)» è la « circostanza che la rese un po' più lunga.»[16] La Salaria che solcava il territorio arquatano seguiva principalmente un percorso di fondovalle, costeggiando il Tronto,[17] ad una quota più alta dell'attuale.
Dai suoi diverticoli si generava la viabilità secondaria che s'internava e risaliva lungo i fianchi delle montagne circostanti raggiungendo i centri più distanti dal tracciato principale. Il testo di un'epigrafe affissa, presso Porta Collina, durante il consolato di Lucio Cecilio Metello Diademato, carica che quest'ultimo ha ricoperto nel 117 a.C., ricorda alcuni lavori appaltati per la «curam viarum» di due tratti della Salaria. Il primo all'altezza di Torrita ed il secondo tra Arquata e Marino del Tronto per una spesa di 7.500 sesterzi. Un completo programma di risistemazione dell'intero asse viario della consolare è ascrivibile alle opere e agli interventi augustei come confermano date ed iscrizioni dei cippi miliari di Trisungo e di Marino del Tronto.[18]
Itinerarium Antonini | Tabula Peutingeriana | Toponimo attuale |
---|---|---|
Vico Badies VIII | - | Fonte del Campo |
- | Ad Martis XVI | Tufo |
- | Surpicano VII | (nei pressi di) Arquata |
Ad Centesimum X | - | Trisungo |
Giuseppe Speranza, nel menzionare la figura di Augusto, ricorda come questi fosse stato prodigo nell'agevolare le vie di comunicazione facilitando i collegamenti con la costruzione di strade e ponti che accedessero sia alla città di Roma e sia al resto del territorio ed osserva come queste tracce fossero presenti anche nel Piceno. L'imperatore, durante il suo undicesimo consolato, e «decorato la duodecima della potestà tributizia», ha promulgato il Senato consulto per il riadattamento e la costruzione di nuove diramazioni della Salaria, lo stesso riportato sulla pietra miliare di Trisungo. Da questa restaurazione della via consolare si generò anche la diramazione che da Centesimo, località vicina a Trisungo, passando per Teramo giungeva a Castrum Novum. Tracce di questa derivazione viaria sono state rinvenute anche presso Sant'Omero.[38]
Dallo studio dell'iscrizione incisa sulla Lapis Aesinensis, condotto da Nereo Alfieri dell'Università di Bologna e dalla Cattedra di Epigrafia romana dell'Università degli Studi di Macerata, si apprende che Marco Ottavio Asiatico costruì una strada pubblica per raccordare la via Salaria Picena con la via Salaria Gallica diretta verso l'Ager Gallicus abitato dai Galli Senoni. Dall'indagine di questo reticolo stradale si evince che la Salaria Gallica era una strada che si diramava dalla Salaria tradizionale all'altezza di Arquata e proseguiva il suo percorso a ridosso dell'Appennino giungendo a Sarnano e Pian di Pieca, dove continuava verso la cittadina di Urbisaglia e raggiungeva Jesi e forse Senigallia.[39]
Dagli scritti degli storici locali si acquisisce che dalla statio di Surpicano si distaccava una derivazione della Salaria, ossia il diverticolo che raggiungeva i paesi di Piedilama e Pretare, il valico di Galluccio[40] ed il valico di Forca di Presta, aprendo una via di comunicazione con l'opposto versante della montagna.[28] Percorrendo questa strada era possibile, attraversando Montegallo, arrivare anche a Fermo, Comunanza ed Amandola.[22]
L'attuale linea di confine che demarca i limiti regionali tra Marche ed Abruzzo, nel territorio di Arquata, è sovrapponibile alla stessa linea di frontiera che separava lo Stato Pontificio dal Regno delle Due Sicilie quando si formava lo stato unitario. Il confine tra la Delegazione apostolica di Ascoli e l'Abruzzo Ulteriore Primo passava nello spartiacque appenninico e lungo i corsi del fiume Tronto e del torrente Chiarino. Questa divisione era spesso contestata dai residenti per motivi legati all'attività della pastorizia, soprattutto per l'utilizzo delle aree pascolive e del taglio del legname, per i furti di frutta e di abigeato e per la violazione delle leggi doganali.
Dai documenti conservati presso l'Archivio di Stato di Ascoli, si rilevava un'intensificazione degli incidenti di frontiera tra gli anni 1816 e 1819, mentre era in corso una grave carestia, ed ancora tra il 1836 ed il 1837 durante l'epidemia del colera per l'inosservanza dei cordoni sanitari predisposti per evitarne la diffusione. Un evento documentato risale al 1819, quando le truppe regolari napoletane, dopo essere entrate nel territorio di Arquata, hanno sequestrato capi di bestiame di proprietà di alcuni pastori di Spelonga e di Pescara accusandoli di aver sconfinato nei pressi di Poggio d'Api e di fruire abusivamente del pascolo.[41]
Nell'anno 1838, papa Gregorio XVI e re Ferdinando II delle Due Sicilie, per porre fine al disordine confinario hanno effettuato una ricognizione delle loro frontiere per concordare e stabilire dei nuovi termini. Con il chirografo del 15 maggio 1838 ha avuto luogo la nomina dei delegati pontifici Pier Filippo Boatti, segretario della Congregazione dei confini, e Tommaso Bernetti, cardinale e segretario di stato, e dei plenipotenziari borbonici Francesco Saverio del Carretto, ministro di Polizia e comandante della gendarmeria, e Giuseppe Costantino Ludolf, diplomatico. Dalle carte ascolane si apprende che sul territorio di Arquata, per la ricognizione e per la rettifica dei confini, sono stati nominati ed hanno operato in qualità di assistenti tecnici locali: l'ingegnere Pietro Lanciani, in rappresentanza dello Stato Pontificio, e l'ingegnere De Benedetti, per il Regno delle Due Sicilie, affiancati anche da altri collaboratori, quali: Paolo Baldassarri, Bernardino Cordeschi, Giovanni Battista Dessi, Gennaro di Gennaro, Gabriele Gabrielli, Luigi Mazzoni e Carlo Melloni.
Il loro incarico consisteva nel compiere l'accertamento dei luoghi e confrontarlo con i dati catastali al fine di evitare ulteriori contestazioni, seguendo le regole stabilite dai delegati alla negoziazione, ossia: «privilegiare termini naturali come spartiacque, creste montuose e fondovalli», «ridurre al minimo gli scambi territoriali», «tenere in massima considerazione gli interessi reali dei frontisti e limitrofi» ed «assegnare definitivamente le zone di incerta sovranità all’uno o all’altro stato per impedire la nascita di nuove questioni.»[41] Uniformando i nuovi termini a quanto stabilito nei criteri di ripartizione territoriale, nel comprensorio di Arquata sono passati allo Stato Pontificio i paesi di Capodacqua e Tufo. La negoziazione è stata sottoscritta con il Trattato di Confinazione, siglato in Roma il 26 settembre 1840, ma non immediatamente pubblicato ed esecutivo. Nel nuovo assetto che si stava componendo, mentre i negoziatori erano ancora impegnati a sistemare la convenzione confinaria, è sopraggiunta la morte di Gregorio XVI, nel giugno del 1846. Il suo successore, papa Pio IX è stato supplicato dalla magistratura ascolana di riconsiderare gli accordi stabiliti con il predecessore, ma l'istanza non ha avuto risposta e le successive vicende della Repubblica romana del 1848-1849 hanno comportato una sospensione della negoziazione tra i due governi. A seguito del ritorno del papa nella città di Roma, nell'aprile 1850, Giacomo Antonelli, nuovo segretario dello Stato Pontificio, con Del Carretto e Ludolf ha eseguito il riesame della questione ed il 15 aprile 1852 è avvenuta la pubblicazione, a Roma e a Napoli, del testo dell'accordo concluso il 26 settembre 1840 con l'enunciazione dei nuovi confini. Il 1º luglio 1852, sono state pubblicate, sia a Roma e sia Napoli, le norme legislative della convenzione e il successivo 7 agosto Ferdinando II e Pio XI hanno preso ufficialmente possesso della nuova ripartizione territoriale.[41]
La posa dei cippi di confine, dapprima lignei ed in seguito lapidei, è avvenuta tra il 1846 ed il 1847, anni in cui hanno trovato collocazione le pietre di confine arquatane, comprese tra i numeri 580 e 592, ed impiantate come riportato nel IV Volume del Dizionario corografico universale dell'Italia del 1852.[42] Il malcontento degli abitanti delle zone interessate ha portato all’abbattimento di alcuni cippi posti sulla nuova linea di confine. La disapprovazione popolare trovava le sue ragioni nel differente trattamento giuridico ed istituzionale cui doveva uniformarsi. Gli abitanti di Capodacqua e Tufo, passando sotto l'entità statuale della Santa Sede, si sgravavano dell'osservanza della coscrizione obbligatoria che vigeva nel Regno borbonico, ma come sudditi pontifici avrebbero dovuto corrispondere più tasse.[41]
Le colonnette confinarie sono state elencate in ordine progressivo, seguendo il numero d'ordine di ciascun cippo, individuando il nome del luogo di collocazione nel Governo d'Arquata.
Numero del Cippo di confine | Luogo di collocazione nel Governo d'Arquata |
---|---|
580 | Tratturo delle Pantane |
581 | Colle della Pozza Mastrella |
582 | Colle dell'Orzatore |
583 | Scrima dell'Orzatore |
584 | Vallone del Cartofano |
585 | Colle del Vallone della Civitella o della Cappelletta |
586 | Sopra la Forcatora |
dal n. 587 al n. 591 | Cippi di confine nel territorio di Tufo |
591(A) | Strada doganale da Pescara a Grisciano |
591(B) | Capo di Cesa I o Ingrisciano |
591(C) | Capo di Cesa II o Pianella |
591(D) | Costa del Colle Cappelletta |
591(E) | Piano Ciancotta |
591(F) | Colle Puttaro |
591(G) | Mazzantina |
592 | Cima della Macera della Morte |
Il clima di Arquata e del suo territorio comunale è quello tipico di media e bassa montagna. Gli inverni sono freddi con precipitazioni prevalentemente nevose, le temperature possono scendere di diversi gradi sotto lo zero e restarci anche per molti giorni. Le estati risultano miti e mai troppo calde. Le precipitazioni sono distribuite equamente durante tutto l'arco dell'anno, con maggiore frequenza nei mesi freddi.
Sull'origine del paese si hanno notizie incerte. Alcuni storici riconducono l'odierna Arquata all'antica Surpicanum, uno dei centri della Regio V Picenum collocata tra le Statio della Tavola Peutingeriana Ad Martis e Ad Aquas l'attuale Acquasanta Terme.[43] Un'altra ipotesi ne attribuisce la nascita ad un insediamento fortificato d'epoca romana dislocato sulla Consolare Salaria, strada che all'epoca era la via commerciale del trasporto del sale prodotto nelle saline di Truentum.[43] Si suppone, inoltre, che Arquata possa essere un paese fondato dai Sabini, correlando la vicinanza di questo popolo già presente a Norcia e ad Ascoli, originato dalla migrazione di queste genti col ver sacrum, e che solo in seguito è appartenuto ai Romani. Nel I secolo d.C. la località e tutta l'area dell'Alta valle del Tronto appartenevano alla famiglia imperiale di Vespasiano, detta famiglia dei Flavi, originaria appunto della Sabina.[43]
Le prime notizie certe e documentate su Arquata si trovano nel periodo dell'alto medioevo quando, nel VI secolo, era definita Terra Summantina. Ulteriore e successivo riferimento storico è fornito dall'invasione del popolo longobardo che è giunto fino a Spelonga, dove forse esisteva un castrum. Ne ricompare la citazione nella cronaca del viaggio intrapreso da Carlo Magno che, nell'800, ha attraversato questi luoghi per recarsi a Roma in occasione della sua incoronazione.[44] Nel XIII secolo[45] la città di Ascoli, con il contributo di Amatrice e Castel Trione, ha costruito la fortezza sulla sommità della rupe a nord[46] del paese e, da questo momento, la storia di Arquata si confonderà e si sovrapporrà a quella della sua Rocca, aspramente contesa tra norcini e ascolani per circa tre secoli.[47] Nell'anno 1215, si ricorda la visita di san Francesco d'Assisi, qui giunto nella sua missione di apostolato,[44] mentre nel 1354, ad Avignone, è morto sul rogo il fraticello predicatore Francesco da Arquata per opera dell'Inquisizione.[48] Nello Statuto d'Arquata del 1574 si legge una delle frasi più note legate a questo comune: «Che alcuno non se parta della terra d'Arquata e suo contado con animo de non ritornare a detta terra».[49]
È possibile ricavare ed aggiungere altri riferimenti sulla storia di questo comune dalla lettura della Relazione, redatta dal delegato apostolico, Angelo Benucci inviato ad «Arquata e suo contado» nel 1781 per la revisione dei Catasti nella Provincia dell'Umbria e Prefettura di Norcia.[50] Il manoscritto propone la descrizione e la misurazione della divisione territoriale dei luoghi ed anche un preciso resoconto sulla vita e sull'economia rurale degli abitanti sul finire del XVIII secolo,[50] quando Arquata dipendeva per la giurisdizione temporale, ossia per il potere politico ed economico, dal prefetto di Norcia ed era retta da un luogotenente, mentre per la giurisdizione spirituale apparteneva al vescovo di Ascoli.[51]
Dalla Relazione si acquisiscono anche informazioni sullo stato presente del tempo e si legge che: «Arquata è posta sopra d'una collina che comincia a sorgere alle radici dell'Appennino (...) circondata da asprissime montagne. (...) Il suo clima è rigido e molto umido; la prima neve si fa vedere; le fabriche umili e mal costrutte (...) Le strade pessime. Nella sommità d'Arquata c'è una bella fortezza all'uso antico.» «I confini dell'Arquatano sono, a levante, il Presidiato di Montalto e l'Ascolano; a ponente ed a tramontana, il Norcino; a mezzogiorno, il Regno di Napoli. I paesi confinanti con il Regno di Napoli sono Colle, Spelonca, Pescara e Vezzano. Tra l'uno e l'altro c'è la divisione di un fosso.»[52] L'intero contado è costituito da 11 paesi,[53] a Borgo dimorano le famiglie più abbienti[52] e vi si trova un convento di frati, l'unico che vi sia nell'arquatano. In tutto il comprensorio si contano 16 presbiteri, tre povere confraternite[51] ed un modestissimo Monte frumentario.[54]
Benucci afferma che non è stato possibile estrarre indicazioni dai vecchi Catasti del 1740, redatti per ordine della Congregazione del buon governo, poiché non riportavano indicazioni sulle misure del territorio. Si apprende che la realtà catastale fosse costituita da una moltitudine di piccole particelle, ordinate in otto volumi, sebbene vi fossero 11 paesi, e che vi fossero numerosi rapporti di enfiteusi.[50] L'arquatano risultava essere molto popolato in rapporto alla sua estensione e vi si contava la presenza di circa 5.000 anime.[54] Quasi ogni abitante era possidente di un lembo di terra. Per calcolare le dimensioni di ogni proprietà rurale si applicava come unità di misura una canna. Per ogni canna misurata si raccoglieva un sassolino ed a conclusione dell'operazione di calcolo si contavano i sassolini per stabilire quante canne misurasse un terreno.[50] Il funzionario apostolico delinea anche la generale situazione delle misere condizione degli abitanti che vivevano dei proventi della produzione e vendita di uva e di castagne. Aggiunge che, a volte, il pane di segale e i prodotti derivati dalla panificazione contenevano anche un po' di farina di grano, prodotto in loco in scarse quantità che coprivano a stento il fabbisogno del consumo della popolazione per un terzo dell'anno.[55] I Cavalieri Ospitalieri, che Benucci menziona con il nome di «Ordine dei Cavalieri di Malta», avevano numerose proprietà a Pescara e Vezzano[56] e riscuotevano i canoni dagli affittuari dei terreni che, spesso, consistevano in «un piatto di grano, in una fiaschetta» oppure in «ovi freschi, galline, pollastri ed altre cose di simil natura.»[54]
Nella narrazione descrittiva dell'indole degli arquatani si legge che fossero «quèruli[57] di natura e non cessano mai di ricorrere, onde un prefetto di Norcia diceva ch'era più abbondante Arquata di ricorsi che non era la Montagna della Sibilla di brugnoli.[58] Offesi una volta, più non la perdonano; molto propensi e quel ch'è peggio dediti, ai vizi della lussuria e del vino.»[51]
Nel Paragrafo LVI, Benucci redige una sintesi delle cause per le contese e dissensi intercorsi tra Arquata e Norcia. Sottolinea come gli arquatani si siano sempre intesi maggiormente con gli Ascolani ed i Regnicoli piuttosto che con i Norcini. Quest'ultimi avevano costantemente cercato di soggiogare il contado arquatano per avere un completo controllo delle montagne e quando non vi riuscirono, ottennero il loro scopo inviando ambasciatori a papa Martino V che Il 19 luglio 1429 concesse il feudo arquatano in vicariato agli umbri.[59] Le trattative erano state condotte dal cardinale Prospero Colonna, nipote del pontefice, che ne accordò la competenza giurisdizionale in cambio di 7.000 fiorini ed un cane da punta con una rete per le cattura delle quaglie da presentarsi come canone in Roma nel giorno dell'Assunta.[51]
Nel 1809, il territorio di Arquata è tornato ad essere assoggettato allo Stato Pontificio. A seguito dell'invasione francese, la caduta della prefettura di Norcia ha determinato l'entrata di Arquata, estremo baluardo meridionale dell'Impero Napoleonico, come Cantone nel Dipartimento del Trasimeno.[60]
Con l'emanazione del motu proprio "Quando per ammirabile disposizione" di papa Pio VII dell'anno 1816[61] si è avuta una nuova suddivisione amministrativa dello Stato Pontificio che ha generato l'istituzione della delegazione apostolica di Ascoli. Il successivo editto Consalvi, promulgato dall'omonimo cardinale e Segretario di Stato il 26 novembre 1817, in vigore dal 1º gennaio 1818, ha eretto Arquata a Governo nel distretto di Ascoli. Il disposto ha sancito così il distaccamento dei possedimenti arquatani dalla delegazione di Spoleto e la loro aggregazione al territorio marchigiano, circostanza che ha determinato anche la rimozione dei carteggi di questo comune, conservati presso la delegazione spoletina, ed il loro trasferimento alla nuova sede di Ascoli.[62]
Ha mantenuto le competenze di Governo di Arquata anche nella successiva ripartizione amministrativa voluta da papa Gregorio XVI, nell'anno 1831, quando Ascoli e Fermo, dopo la restaurazione dello Stato Pontificio, sono state nuovamente separate e la delegazione ascolana è tornata a beneficiare della sua autonomia. L'editto del cardinale Bernetti, del 5 luglio 1831, stabiliva che la delegazione ascolana fosse divisa in due distretti:
Nel riparto territoriale dello Stato Pontificio del 1833 Arquata è Comune di residenza del Governatore e comprende nella sua giurisdizione i paesi di Borgo, Camartina, Colle, Faete, Pescara, Piedilama, Pretare, Spelonga, Trisungo e Vezzano.[64]
Nel 1860, a seguito dell'emanazione del Regio decreto n. 4495[65] del 22 dicembre 1860, nella ripartizione territoriale del circondario di Ascoli Arquata è divenuta sede del II Mandamento di Ascoli.[66]
Tra gli eventi accaduti nel paese di Arquata vanno ricordati l'arrivo e il pernottamento di Giuseppe Garibaldi, nell'anno 1849, che qui si è fermato quando è partito alla volta di Roma. Questa è stata la terza e ultima tappa in territorio ascolano. La cronaca ci perviene dagli scritti di Candido Augusto Vecchi, fermano, capitano del 23º di linea piemontese e storiografo della guerra del 1848, che è stato tra i più fedeli e cari amici del generale. Questi, al passaggio dell'eroe dei due mondi nella città di Ascoli Piceno si è unito al gruppo, ma lo ha seguito fino a Rieti per poi proseguire da solo e raggiungere Roma dove ha svolto il suo mandato di deputato partecipando ai lavori dell'Assemblea Costituente.
In questo viaggio Garibaldi era già accompagnato da Nino Bixio, quale ufficiale d'ordinanza, Gaetano Sacchi, Marocchetti, Andrea d'Aguyar, servitore, e Guerrillo il suo piccolo cane, azzoppato da una ferita, che aveva l'abitudine di seguire il suo padrone camminando tra le zampe del suo cavallo. Durante il trasferimento da Ascoli a San Pellegrino di Norcia è stato ospitato ad Arquata dal locale governatore Gaetano Rinaldi, capo della reazione clericale. Il generale ha penottato presso casa Ambrosi nella notte tra il 26 e il 27 gennaio 1849. Era giunto nel giorno di venerdì 26 quando, dopo aver lasciato la città di Ascoli, si era avviato verso le zone montane attraversando la parte più alta della valle del Tronto tra gli Appennini. Egli e il suo seguito hanno lasciato Ascoli intorno alle dieci del mattino raggiungendo la consolare Salaria accompagnati dai carabinieri a cavallo, dalla guardia civica, dalla banda comunale, da dodici carrozze e da una folla festante. Giunti a porta Romana il generale ha congedato tutti ed ha regalato una spada a Matteo Costantini, (anch'egli come Giuseppe Costantini, suo padre, era detto Sciabolone), quale segno della sua amicizia ed ha rifiutato, per l'ennesima volta, la sua scorta sulle strade di montagna.
La prima sosta di ristoro è avvenuta ad Acquasanta Terme, dove Garibaldi, sceso da cavallo, si è accomodato su un sedile di travertino per accendere un sigaro. Ripreso il cammino, la spedizione è arrivata ad Arquata accolta ed ospitata con molto riguardo. Candido Augusto Vecchi racconta di un lungo pranzo che si è prolungato fino a mezzanotte. Al mattino seguente, il 27 gennaio, prima del sorgere del sole, il generale e i suoi hanno lasciato il paese per dirigersi verso Rieti. Il governatore d'Arquata ha regalato loro quattro libbre di tartufi come viatico. Partiti alla volta di San Pellegrino hanno percorso la strada che conduce a Pretare e quindi a Forca di Presta, scortati dal figlio del governatore d'Arquata che ha portato con sé, e in loro onore, fin sulla cima della montagna, un vessillo tricolore di seta.
Il generale ha ricordato la sosta ad Arquata nelle sue Memorie scrivendo: «(...) ed io per le vie di Ascoli e la Valle del Tronto, con tre compagni per percorrere ed osservare la frontiera napoletana. Valicammo gli Appennini, per le scoscese alture della Sibilla, la neve imperversava, mi assalirono i dolori reumatici che scemarono tutto il pittoresco del mio viaggio. Vidi le robuste popolazioni della montagna, e fummo ben accolti, festeggiati dovunque, e scortati da loro con entusiasmo.»
Ad Arquata quali segni di questo evento rimangono la Via Garibaldi ed una lapide affissa sulla parete esterna di casa Ambrosi, qui spostata dalla primaria collocazione sul muro della Torre civica, in cui si ricorda la sosta del generale.
Un violento terremoto di magnitudo 6.0 la notte del 24 agosto ha colpito l'area di Accumoli ed Amatrice, causando gravi danni anche ad Arquata, facendo sprofondare a valle metà del paese. La frazione di Pescara del Tronto è stata completamente rasa al suolo, con solo poche case rimaste in piedi. Ulteriori danni sono stati provocati con le successive scosse del 26 ottobre presso Castelsantangelo sul Nera e Ussita. Il 30 ottobre la scossa più forte di magnitudo 6.5 a Norcia ha raso al suolo quasi tutta Arquata, con il collasso delle case, delle chiese e lo smottamento parziale della parte del bastione a valle. Solo la Rocca è rimasta in piedi, benché danneggiata anch'essa.
Il paese ha assunto il nome ufficiale di Arquata del Tronto nell'anno successivo alla nascita del Regno d'Italia, come riportato nel Regio decreto 9 novembre 1862 n. 978 e nella la delibera del consiglio comunale del 5 agosto 1862.[67]
Il toponimo di Arquata del Tronto è composto dall'accostamento di due termini:
La blasonatura del gonfalone civico è riportata nel testo del vigente statuto comunale:
«Di forma rettangolare, con dicitura Comune di Arquata del Tronto, è ornato da due rami, di cui uno di mirto a sinistra e l'altro di quercia a destra, riporta in oro sullo sfondo verde due stemmi, di cui quello di sinistra con descrizione REG TEB AR POT, l'altro di destra con descrizione 1572 TEPOR LAURI COLE PR, sovrastati entrambi da una corona turrita»[70]
Lo stendardo è costituito da un drappo rettangolare di seta di colore verde che termina in tre bande e reca, nella parte più alta, l'iscrizione centrata e convessa verso l'alto: Comune di Arquata del Tronto. Il vessillo è completato dalla cravatta e i nastri tricolore. Al centro sono rappresentati affiancati i due scudi araldici adottati quali simboli della municipalità. Gli stemmi sono sormontati da una corona turrita in argento murata di nero che indica il titolo di comune, come previsto dal regio decreto del 1943.[71] Il drappo è custodito ed esposto presso la Sala del Consiglio del locale Municipio.
L'araldica dello stemma è descritta nello statuto comunale:
«Presenta una figura ovoidale a strisce bianche e rosse su fondo oro sovrastato da una corona turrita»[70]
Lo stemma più antico della comunità di Arquata è datato XIV secolo. Mostrava all'interno di uno scudo l'effigie di san Pietro, patrono del castello, ritratto sopra una montagna con cinque cime, munito di chiavi e di Sacre Scritture. La rappresentazione era riproposta anche nei sigilli del XV e XVI secolo ritrovati in alcuni atti amministrativi sia presso l'Archivio Storico del Comune di Norcia sia presso l'Archivio di Stato di Ascoli.
Nella seconda metà del XVI secolo, nell'anno 1572, sebbene non si conoscano le ragioni politiche, lo stemma è stato cambiato dai priori comunali che hanno commissionato la realizzazione di uno scudo palato che recava la rappresentazione di sei pali verticali contigui e smaltati alternando i colori del bianco e del rosso. Nell'anno 1852 lo scudo è stato annoverato nel primo censimento ricognitivo degli stemmi comunali, ma nella rappresentazione grafica sono state erroneamente confusi i pali con le sbarre. Il simbolo araldico è stato, quindi, rappresentato con strisce diagonali anziché verticali. Il disegno dello scudo arquatano è essenziale e propone tre pali rossi verticali in campo bianco. Non esiste nell'archivio storico del comune alcuna traccia che possa precisare la sua origine o concessione. Al di fuori dell'arma e nella riproduzione lapidea sono proposti due motti: "Arquata Potest" ed "Arquata Reggia Terra". Gli amministratori arquatani hanno equivocato ciò che avevano trovato scolpito nella pietra dell'arma gentilizia di Regolo Tebaldeschi di Norcia. Questi aveva condotto la podesteria arquatana durante un ignoto periodo del XVI secolo. Lo stemma conservato presso il palazzo del municipio reca l'iscrizione “REG TEB AR POT” che per esteso va interpretato come: "REG(OLVS) TEB(ALDESCVS) AR(QUATE) POT(ESTAS)" ossia "Regolo Tebaldeschi Podestà d'Arquata", la stessa epigrafe che è stata intesa anche come "Regia Terra Arquata Potens".[72]
È la chiesa parrocchiale di Arquata del Tronto. L'edificio religioso si trova nella zona centrale del paese, lungo la via che conduce alla Rocca. Di dimensioni modeste ha una facciata molto semplice con un importante portale scolpito in pietra arenaria. Il suo interno è costituito da un unico ambiente dove si trovano altari lignei, la cantoria, e collocata, sulla parete di fondo, una tela dell'Annunciazione del XVI secolo. L'arredo storico più noto di questa chiesa è costituito dal Crocifisso ligneo policromo della seconda metà del XIII secolo, esposto su di un capitello di tufo e considerato la statua sacra più antica delle Marche. L'opera proviene dalla chiesa di San Salvatore di Sotto di Ascoli e qui portata da un gruppo di arquatani che, nell'anno 1680, hanno avuto una disputa con gli ascolani.[73] Il crocifisso, per le sue dimensioni, è idealmente collocabile al centro di un quadrato di metri 1.45 per 1.45. Ha uno spessore medio di 20 centimetri e si presenta come un'opera policroma con evidenti riferimenti allo stile bizantino. Dopo il suo restauro, avvenuto nel 1973, si apprezza maggiormente il suo originale rivestimento pittorico, prima nascosto da altri strati di ridipinture. Secondo alcuni esperti, l'opera è riferibile all'arte spoletina del XII secolo e del XIII secolo. Raffigura, come avveniva nell'arte popolare del tempo, un rigido Cristo crocifisso con braccia distese e arti inferiori paralleli. È stato realizzato da due frati benedettini, Raniero e Bernardo, che lo hanno firmato alla base. L'attuale lacunosa iscrizione riporta: «...TER RANIERI DOM... R ...DUS T AIDA... NU TP SU» che è stata letta, da Italo Zicari, con questa interpretazione: «frater Ranieri dominus corpus fecit (o pinxit) frater Berardus aidavit», traducibile come: «Frate Raniero scalpellò (o dipinse) il corpo del Signore, Frate Berardo lo aiutò». Sul capo di Gesù è posta una corona in argento sbalzato, ex voto degli abitanti di Arquata, che reca inciso: «ARQUATA COLERAE MORBO SERVATA SALVATORI SUO D.D. 1855» Il crocifisso è sempre stato particolarmente venerato dagli arquatani e non solo. Ancora oggi è condotto per le vie del paese in processione solenne.
L'edificio religioso si eleva nella frazione Borgo e rientra fra le proprietà dell'Amministrazione comunale di Arquata.
Antonio Salvi ricorda che il tempo di erezione della chiesa e della casa dei religiosi dell'Ordine francescano si colloca verso la metà del XIII secolo.[74] Questa informazione sulle origini del complesso conventuale è riportata anche negli scritti dello Statuto Deruta, del 1465, in cui si legge che alcune fonti indicano come anno di edificazione il 1218. Al tempo la chiesa era intitolata a Santa Maria ma, in seguito, come è accaduto per altre sedi francescane, la dedicazione è stata cambiata e destinata a san Francesco.[75]
Di stile romanico conserva un portale del Cinquecento, la cantoria, il pulpito e altari lignei del XVI e XVII secolo. Al suo interno si trova custodita anche la cosiddetta "Sindone di Arquata". L'aula liturgica è adorna di un ricco corredo sacro costituito da opere lignee. Si mostra suddivisa in due navate scandite da colonne, a base quadrata, elevate con conci di pietra. Il soffitto, la cui esecuzione è attribuita alla scuola di Norcia, è realizzato interamente in legno lavorato a cassettoni modellati con forma quadrangolare recanti una decorazione circolare centrale a rilievo. Meritevole di interesse è anche la cantoria lignea, collocata all'ingresso, sostenuta da una colonna in pietra arenaria, a base ottagonale liscia, sormontata da un capitello quadrangolare scolpito con motivi fogliari. Vi è anche un pulpito ligneo poggiato su colonne tortili. Sulla parete di fondo si trova il coro ligneo, del Quattrocento, arricchito, in alto, dalla presenza di un crocifisso. Nella parete di sinistra sono presenti un altare realizzato in stucco dedicato alla Madonna del Rosario circondata dalla rappresentazione di quindici misteri, seguito dalla nicchia scavata in cui si scorge l'affresco, del 1527, di contesa attribuzione fra la scuola di Cola dell'Amatrice e la scuola di Norcia, raffigurante la Madonna col Bambino tra due santi. A questo si trova affiancato un altro altare ligneo che ospita il reliquiario di legno dorato. La tradizione attribuisce a questa raccolta, come ad altre affini, la provenienza dalla terra della Palestina. Diametralmente opposto, sulla parete di destra, vi è ancora un altare ligneo del Seicento dedicato a san Carlo Borromeo. Al centro, tra le colonne, si trova il dipinto dell'olio su tela che ritrae la figura del santo, adoratore della Sacra Sindone, la cui copia estratta è collocata a fianco. Alle opere ricordate si aggiungono le statue di san Francesco, realizzata in terracotta e legno, del XV secolo e sant'Antonio di Padova, posta all'interno di un'edicola votiva del XVI secolo. Durante i lavori di restauro, del 1980, sono stati scoperti sotto allo strato d'intonaco esterno della facciata due bassorilievi, di pietra arenaria, del X secolo. Il primo mezzo tondo è un lavoro piuttosto ricercato, finemente scolpito e particolareggiato, che raffigura la Madre di Dio e il Sacrificio del Cristo per la redenzione dell'umanità. L'umanità è rappresentata da piccole figure antropomorfe in basso. Il secondo bassorilievo reca scolpito un angelo che stringe nelle sue mani una bilancia. Il significato allegorico di questa rappresentazione è il riferimento al Giudizio universale e alla pesatura delle anime. Questi due rinvenimenti sono stati posti all'interno della parete della facciata della chiesa, mantenendo le stesse caratteristiche di altezza della primaria sistemazione sulla parete esterna d'ingresso.
A questa chiesa appartengono 2 campanili che accolgono 2 campane di diversa grandezza. La maggiore risale al XVII secolo ed è dedicata a Santa Maria degli Angeli e a san Francesco. La minore, (49 cm in altezza e 45,5 di diametro alla bocca), reca impressa l'iscrizione: «+ Laud[i]b(us) elatu(m) Fra(n)cisscu(s) canoniza(n)t.»[75]
In pochi sanno che nella chiesa di San Francesco, di questa remota località appenninica si trova una copia della Sacra Sindone custodita a Torino. Si tratta di una fedele riproduzione del sacro lino che reca il dipinto[77] della stessa immagine dell'uomo sindonico, flagellato e crocifisso. Il telo si compone di un unico panno tessuto in filo di lino lavorato con trama e ordito perpendicolari.[78] Il lenzuolo, di forma rettangolare (440 cm in lunghezza e 114 cm in altezza), mostra al centro, nello spazio tra le impronte del viso e della nuca, la scritta in stampatello «EXTRACTVM AB ORIGINALI» (estratto dall'originale). La sindone di Arquata fu rinvenuta nel corso di lavori di conservazione e restauro della chiesa dedicata a san Francesco, eseguiti nel XVII secolo.[79] Il telo si trovava piegato e racchiuso in un'urna dorata, nascosta dentro la nicchia di un altare.
Esiste una pergamena datata 1º maggio 1655, redatta ad Alba, firmata da Guglielmo Sanzia, cancelliere vescovile e notaio, e Paolo Brizio, vescovo e conte della città piemontese (1642 - 1665), che ne costituisce il certificato di autenticazione. Nel documento vi è scritto che nello stesso anno su petizione del vescovo Massimo Bucciarelli, segretario del cardinale Federico Borromeo, alla presenza di una commissione incaricata, nella piazza di Castelgrande di Torino, un lenzuolo di lino di egual misura è stato fatto combaciare con la Sindone. La reliquia è considerata un prezioso oggetto di venerazione per tutti i credenti arquatani, poiché la sua sacralità è stata ricavata dal contatto diretto con il telo funebre che ha avvolto il corpo di Cristo.
Sulle motivazioni che hanno spinto a eseguire la copia della sacra Sindone, la teoria più fondata sarebbe quella secondo la quale ci si volesse tutelare da possibili incidenti che potessero occorrere all'originale che, oltretutto, non era in possesso della Chiesa ma di Casa Savoia. L'aver posto la copia in un luogo così remoto dello Stato Pontificio conforta la tesi che questa volesse essere una sorta di "copia di sicurezza". Qui i francescani l'hanno custodita gelosamente per secoli, limitando le ostensioni e utilizzandola per le processioni solo in casi eccezionali; l'ultima volta fu in occasione della seconda guerra mondiale. Anche la copia della Sindone d'Arquata, come le altre esistenti, è stata messa di nuovo a contatto con il Sacro Lino torinese. L'ultimo accostamento dei due teli è avvenuto nell'anno 1931 in occasione dell'ostensione della Sindone. Questi contatti hanno lo scopo di rafforzare i poteri sacri delle copie che, secondo la credenza popolare, si trasmettono alle riproduzioni al momento della loro creazione. La reliquia, in perfetto stato di conservazione, è stata protetta in una teca su iniziativa della locale Amministrazione comunale per preservarla da atti vandalici o da possibili furti e si trova permanentemente esposta in chiesa.
Nel gennaio 2015 sono stati pubblicati i risultati di uno studio multidisciplinare sulla Sindone di Arquata, condotto dall'Unità Tecnica Sviluppo di Applicazioni delle Radiazioni del Centro Ricerche Frascati dell'ENEA, congiuntamente al CNR, all'Accademia di belle arti di Roma e al Dipartimento di Ingegneria Elettronica dell'Università degli studi di Tor Vergata (Roma).[80]
Dopo gli eventi sismici che hanno interessato l'Italia centrale, la chiesa di San Francesco è risultata inagibile ed il telo della Sindone di Arquata, recuperato tra le macerie, è stato spostato ed esposto all'interno della cattedrale di Sant'Emidio.[81]
Abitanti censiti[84]
Nel comune di Arquata del Tronto è stata istituita, negli anni ottanta, la sede del Gruppo degli alpini di Arquata del Tronto Giuseppe Crisciotti, Associazione Nazionale Alpini, Sezione Marche.
La sezione arquatana, dapprima ospitata nello stabile del vecchio asilo comunale sulla via Vecchia Salaria, è stata trasferita nella nuova sede di Borgo. È stata intitolata all'alpino Giuseppe Crisciotti, (1918-1943), appartenuto alla Divisione Julia, IX Reggimento, Battaglione L'Aquila, caduto nella campagna di Russia durante la seconda guerra mondiale e insignito della medaglia di bronzo al valor militare.[85]
La manifestazione è una rievocazione storica, in costume, che si tiene ogni anno ad Arquata. Ha luogo nel pomeriggio del giorno 19 agosto ed è stata istituita a ricordo del soggiorno, presso la Rocca, di Giovanna d'Angiò durante la prima metà del XV secolo. Per il paese l'evento rappresenta la sintesi dell'espressione della storia e delle tradizioni legate alla fortificazione che sovrasta il borgo. Lo svolgimento della manifestazione si compone di due momenti. Il primo è costituito dalla cerimonia detta “la discesa della regina”, ossia dalla sfilata in costume di molti figuranti che indossano abiti ispirati al Quattrocento.
Il corteo storico inizia a comporsi dalla Rocca e, percorrendo le strette vie del borgo, giunge fino a Piazza Umberto I. L'ordine di sfilata è aperto dai musici che con le loro chiarine e i loro tamburi annunciano l'arrivo della sovrana. Dopo questi c'è la regina, seguita dai paggetti che sostengono il lungo strascico dell'abito, accompagnata dalle sue dame di corte. Si aggiungono i notabili, le damigelle, gli armigeri, gli arcieri, i pastori e gli sbandieratori che si esibiranno mostrando abilità nelle coreografie create per maneggiare con destrezza i loro vessilli. La piazza del paese è la sede del secondo momento della rievocazione. Qui, dopo l'arrivo del corteo, si tiene una cena all'aperto presieduta dalla castellana. Il banchetto propone un menù a base di pietanze medievali. Tutti gli ospiti sono intrattenuti da danzatori, musici e artisti che propongono giochi di strada.[86]
Arquata si trova lungo la Strada statale 4, l'antica Via Salaria, che oggi è una strada ad una sola carreggiata ma in buona parte a scorrimento veloce (con diversi tratti ancora da ammodernare). La Salaria collega Arquata da un lato a Roma, Rieti e Amatrice, dall'altro al capoluogo Ascoli Piceno e al mare Adriatico. Inoltre, nei pressi di Arquata, dalla Salaria si stacca la strada statale 685 delle Tre Valli Umbre, che la collega a Norcia e Spoleto.
Arquata non è servita da alcuna linea ferroviaria. Il paese avrebbe dovuto essere collegato dalla Ferrovia Salaria (Roma-Rieti-Ascoli Piceno-San Benedetto del Tronto), che fu più volte progettata ma mai realizzata.
Periodo | Primo cittadino | Partito | Carica | Note | |
---|---|---|---|---|---|
1946 | 1952 | Mario Cataldi | Sindaco | ||
1952 | 1960 | Ennio Petrucci | Sindaco | ||
1960 | 1966 | Luigi Fede | Sindaco | ||
1966 | 1971 | Augusto Giammiro | Sindaco | ||
1971 | 1977 | Alberto Piermarini | Sindaco | ||
1977 | 1982 | Augusto Giammiro | Sindaco | ||
1982 | 1987 | Alberto Piermarini | Sindaco | ||
1987 | 1988 | Francesco Di Cola | Sindaco | ||
7 luglio 1988 | 6 giugno 1993 | Guido Franchi | Sindaco | ||
7 giugno 1993 | 27 aprile 1997 | Guido Franchi | Sindaco | ||
28 aprile 1997 | 13 maggio 2001 | Guido Franchi | Lista civica | Sindaco | |
14 maggio 2001 | 28 maggio 2006 | Aleandro Petrucci | Lista civica | Sindaco | |
29 maggio 2006 | 15 maggio 2011 | Aleandro Petrucci | Lista civica | Sindaco | |
16 maggio 2011 | 5 giugno 2016 | Domenico Pala | Insieme per Arquata | Sindaco | |
6 giugno 2016 | 23 dicembre 2020 | Aleandro Petrucci | Esperienza rinnovamento | Sindaco[87] | deceduto[88] |
24 dicembre 2020 | 3 ottobre 2021 | Michele Franchi | Lista civica | Vicesindaco | |
4 ottobre 2021 | in carica | Michele Franchi | Lista civica | Sindaco |
L'economia di questo piccolo comune è principalmente legata alle risorse del territorio. Vicino al paese di Capodacqua è presente un impianto per la produzione idroelettrica. Come per tutte le popolazioni di montagna, anche nel comprensorio arquatano, la risorsa del bosco è, ed è stata, storicamente uno dei maggiori riferimenti per l'intera vita della comunità. Ai nostri giorni, sebbene alcune fonti di reddito siano cambiate, la generosa biodiversità che offrono le estese realtà boschive costituisce il serbatoio di un importante capitolo di rendita. Ancora oggi le attività lavorative sono attuate con tecniche di sfruttamento e produzione assolutamente tradizionali. Dalla prodigalità dei boschi provengono: alcune varietà di mele antiche di montagna tra le quali la mela rozza[89] utilizzata per le composte e per le marmellate, le mele rosa dei monti Sibillini, more di rovo, miele. Buona parte delle occupazioni ruotano intorno all'agricoltura, all'allevamento ovino ed ai prodotti derivati, alla raccolta di frutta, alla fruizione del patrimonio forestale della montagna e del bosco ceduo.[90]
Le castagne rappresentano un prodotto tipico dell'arquatano e della media ed alta valle del Tronto. Il castagno è un'essenza arborea delle Fagacee, di grosse dimensioni ed assai longeva, cresce sia spontaneamente e sia coltivata fra altitudini variabili comprese tra i 400 e 1.200 metri slm. È l'albero caratteristico della fascia sub-montana e nel territorio d'Arquata se ne trovano fitti boschi tra querceti e faggete. È nota la loro presenza già in epoca romana, in quella medievale e durante l'Ottocento, da queste informazioni è desumibile che la coltivazione sia stata favorita dall'opera dell'uomo mediante la cura e la coltivazione. Dai castagneti a fustaia si ottengono i frutti eduli, definiti «il pane della montagna». In passato le castagne si conservavano essiccate e da queste si ricavava la farina destinata all'alimentazione umana. Nell'arquatano la raccolta delle castagne costituisce un'importante voce per l'economia locale. Vi sono:
I funghi sono una delle ricchezze di questo territorio, noti già ai tempi dei Romani, crescono tra pascoli e boschi, anche se ai nostri giorni è sempre più raro trovarli. Da sempre hanno costituito per gli abitanti una sicura fonte di reddito. La varietà più raccolta è quella dei porcini, il loro habitat si trova «sul limitar del bosco» tra alberi fruttiferi al di sotto delle chiome di querce, castagni e faggi. Il territorio offre altre specie commestibili come: le spugnole, gli spinaroli, i galletti, i prataioli, le mazze di tamburo.[92]
L'attuale utilizzo delle risorse boschive avviene sulla base delle vigenti norme codificate. Va ricordato che già in età medievale, nel territorio di Arquata, era in vigore la tassa del legnatico da versare al proprietario del bosco o all'Università agraria, una forma di proprietà collettiva molto diffusa sulle montagne marchigiane. Si trattava di un antico diritto che consentiva di entrare nelle proprietà altrui per raccogliere legna.[90] Il governo del bosco ceduo è attualmente regolamentato da turni di taglio stabiliti a seconda dell'essenza arborea e consente la pratica del diritto di legnare, ossia di tagliare e raccogliere legna come attuazione di usi civici riconosciuti ai residenti. Il circondario arquatano propone diverse tipologie di bosco ceduo come:
La produzione di questo combustibile è circoscritta al paese di Colle, dove si pratica ancora l'arte del carbonaio. Mediante l'allestimento delle "piazze", costituite da cumuli di legna sistemata a cupola, con al centro un foro che permette l'accensione della catasta ricoperta da strati di fogliame secco, frasche di faggio e terra umida, la legna arde per 15 giorni circa, alla temperatura di 500/600 °C, e si trasforma in carbone.[93]
La tradizione della coltivazione delle viti nel comprensorio arquatano è stata da sempre strettamente legata al clima, all'altitudine ed alla morfologia del territorio, caratterizzato da aspre pendenze, che ha consentito la crescita di vigneti impiantati seguendo le pratiche delle sistemazioni di colle, disposti a rittochino, a cavalcapoggio, a tagliapoggio a superficie unita o divisa in ciglioni.[94] La storia, fino ad ora emersa, prende consistenza da fonti documentali che giungono dal XVI secolo ed arrivano fino ai nostri giorni. Dagli scritti di Olimpia Gobbi si apprende che la tradizione della «coltivazione estesa di viti a vigna» si perde in epoche lontane rivestendo un rilevante e vivace ruolo economico e commerciale della produzione di vino almeno fin dal XIV secolo. Dall'esame dei documenti del Catasto Gregoriano e dalle inchieste storiche, fra le quali l'Inchiesta Jacini, condotta dal Ministro dei lavori pubblici del Regno d'Italia Stefano Jacini e la Relazione Benucci del 1781, è possibile affermare che la viticoltura si concentrava maggiormente in questa zona dell'ascolano con l'impiego di strutture di «sproporzionata distanza fra filonata e filonata» armate «con tanto lusso di legname da spaventarare un economo coltivàtore». Nell'area della montagna di Ascoli, compresa tra le falde del monte Vettore e quelle del monte Sibilla, si rilevava una spiccata specializzazione delle colture di viti come riportato e comprovato da documenti catastali che elencavano numerosissime particelle inscritte e localizzate anche tra aree boschive, frutteti, canneti e radure. Le caratteristiche ambientali del terreno ne imponevano la concentrazione in prossimità di terreni favorevoli a garantire l'attecchimento delle barbatelle e un'adeguata esposizione al sole per assicurare la maturazione dei grappoli. Gli impianti erano distribuiti in tutto il comune e la loro altitudine variava tra i 601 m s.l.m. di Trisungo fino agli 818-920 e 946 di Piedilama, Pretare e Spelonga oltre che nelle frazioni di Pescara del Tronto e Vezzano.[95] La coltivazione dei vigneti richiedeva un importante impegno lavorativo e la necessità di un agevole controllo al fine di evitare che vi fossero furti del raccolto. Per queste ragioni, spesso, si trovavano nelle immediate vicinanze dei centri abitati, protetti e chiusi da muri o dotati di modesti «atterrati», piccole case con «torculari» ed attrezzature idonee alla vinificazione, dove risiedevano i guardiani dal mese luglio fino alla conclusione della vendemmia, come avveniva a Pescara del Tronto e a Vezzano, oppure erano direttamente all'interno del paese come a Trisungo dove se ne contavano 11.[95] Dai riscontri documentali dell'antico catasto risulta che nella «Villa di Pescara» vi era «Filminisse di Sante», uno dei maggiori proprietari terrieri, intestatario di 76 particelle delle quali molte destinate alla viticoltura.[95] La produzione, il commercio e la vendita del vino alle limitrofe comunità rappresentavano un'indispensabile fonte di reddito che si concretizzava ed integrava anche con la stagionale prestazione d'opera dei viticoltori arquatani presso le vigne della nobiltà romana dove erano molto apprezzati per le loro competenze. Il ricavato proveniente dalla viticoltura era indispensabile all'economia ed a questo proposito Benucci riporta una singolare ed originalissima forma di contratto di enfiteusi adottato nei casi di forte indebitamento del proprietario. Lo descrive e definisce come «un'invenzione arquatana» consistente «nel passare la proprietà della vigna al creditore, il quale però la riconcede in locazione al debitore a terza generazione dietro la corrisposta di una parte del prodotto. In tal modo quest’ultimo, pur perdendo la proprietà della terra, ne conserva l’uso e lo garantisce a lungo ai suoi discendenti tentando così di preservarli dalla totale miseria.»[95]
Negli Statuti d'Arquata del 1574 si trova l'intera raccolta organica delle norme che costituivano l'ordinamento giuridico del comune tra le quali vi sono anche le disposizioni rivolte all'attività della viticoltura. Il complesso delle statuizioni perseguiva l'intento di garantire e disciplinare la produttività dei terreni agricoli, il mantenimento della coltura delle viti e del prodotto ottenuto dal processo di vinificazione, divenuti importanti per l'economia della comunità. Vi sono innumerevoli rubriche, concentrate in particolare nel Libro delli Estraordinarii, dedicate agli atti normativi da osservare per la cura dei vigneti.
Le regole imponevano agli arquatani di coltivare le loro terre seminando grano o impiantando vigne. Si trattava di disposizioni con carattere prescrittivo che individuavano precise sanzioni pecuniarie in caso di inosservanza. Inoltre, per ogni danno commesso all'interno delle terre vignate corrispondeva l'obbligo di versare una somma di denaro prestabilita che raddoppiava se il danneggiante avesse agito durante le ore notturne.
Dalla lettura degli enunciati si evince, ancora oggi, il particolare riguardo che l'autorità amministrativa riservava alla viticoltura con l'adozione di regolamentazioni volte a stabilire che:
«Delle Terre da lavorarsi nella Terra d'Arquata suo Contado, & distretto.»
«Il Podestà della Terra d'Arquata che sarà per li tempi sia tenuto & debbia sotto il vincolo del suo giuramento & alla pena di cinquanta libre di denari nel Principio del suo officio bandire & far bandire per luochi publichi di detta Terra che ciaschuno habitatore di detta Terra & suo contado tanto cittadino & contadino, quanto forestiero sia tenuto & debbia in ciaschuno anno lavorare & far lavorare o per se o per altro nel Territorio di detta Terra del suo terreno o d'altro terreno per una rasiera e mezza di grano da seminarsi in detto terreno così lavorato o vigne, acciò nella Terra d'Arquata sia abbudantia di vettuaglia sotto pena di diece libre de denari per ciascheduno che contrafarà & per cisachuno anno, & a ciaschuno di detti cittadini contadini o habitatori siano tenuti detto terreno di sopradetto lavorare & far lavorare del suo o altro terreno nello distretto di detta Terra si & in tal modo che per tal causa se viva abundantemente & si ricoglia quantità de biade & vino sotto la detta pena, & contra tali delinquenti detto Podestà & suoi officiali debbiano procedere ad elettione & denuntiatione de ciaschuno per il suo offitio una volta il mese & gli ritrovati culpabili punire & condennare sotto detta pena & da ciaschuno si possa accusare & habbia l'accusatore la quarta parte, alla quale siano escluse, donne, pupilli & vedove & vechii sopra sessanta anni & altre persone gravate d'infirmità & impediti per giusta causa.»
«De statuire il termine per il conseglio alle Vellegne.»
«Aciò che il vino al tempo congruo se riponga, li magnifici signori priori della terra d'Arquata che per il tempo saranno al regimento de detta terra siano tenuti, & debbiano circa il principio del mese di settembre far congregare il conseglio nel qual ce si proponga della Vellegna da farsi, & secondo che parirà & sarà deliberato in detto conseglio, quando detta vellegna si debbia fare, & le cose predette il podestà di detta terra & detti signori priori siano tenuti osservare & far osservare sotto pena i diece libre di denari da ritenersi del suo salario & d'applicarsi alla camera del commune d'Arquata, & e qualunque vellegnerà contra la forma de detta reformanza paga per il banno per ciascuno & ciascuna volta soldi quaranta di denari d'applicarsi como di sopra.»
«Della conservatione delle vigne»
«Qualunque ha vigna o pastino sia tenuto esso o essa conservare & non guastarla, sotto pena di cento soldi & il podestà sia tenuto farne inquisitione, alla pena di diece libre di denari, da ritenersi del suo salario.»
«Che quelli che tagliano li maglioli nelle vigne d'altri habbiano la licentia dalli patroni & ch'apparisca in scripsit»
«Statuimo & ordinamo che nissuna persona d'Arquata & suo contado e distretto ardisca ne presuma, intrare nelle vigne de altri per tagliare sarmenti o maglioli sotto la pena de vinti soldi de dinari, se non haverà licenza dalli patroni delle vigne inscripsit, o che li patroni delle vigne siano presenti dette vigne, al tempo che si tagliano detti maglioli o sarmenti che tale incidente o chi taglia non sia tenuto a pena alcuna, Aggiongendo ancora questo che s'intenda haver licenza dalli patroni & che appara in scritto nelli atti della corte del commune o per testimonii, tale licenza data vaglia & tenga altramente data, essa licenza a chi taglierà non habbia luoco.»
«De quelli che fanno danno nelle vigne & pastini.»
« Acciò li huomini sbigottiscano per lo fare delli danni nelle possessioni di altri, statuimo & ordinamo che se alcuno ho alcuna darrà danno nelle vigne & pastini de alcuno da calende de Luglio & sinchè dette uve saranno vendegnate personalmente, tanto, in vigne & pastini paga de pena per ciascheduno & ciascheduna volta fiorino uno de moneta de dì, de notte se raddoppia senza alcuna remissione, ma capra se porco, cane, pecora, bove, ho vacca Asino ho asina, mulo, ò mula, cavallo, ho cavalla ò altri animali simili ha questo daranno danno in dette vigne & pastini de detto tempo li detti animali paga di pena soldi quaranta per ciascheduno animale & per ciascheduna volta & de notte se raddoppia, della quale pena la terza parte sia dell'officiale che esequirà & lo resto se applica al commone d'Arquata. (...) Item che nissuna persona, de qualunque stato o conditione se sia ardisca & presuma ha detto tempo sonno fatte l'uve reportare dalla sua vigna più de sei racimi ho graspi d'uva, pena al portante doi soldi per racimo ho graspo. Item se li detti animali daranno danno in dette vigne & pastini dal dì che dette vigne & pastini saranno vellegnate fino a calende d'Aprile cioè bestie Cavalline, Muline Asinine, & Vaccine cadano in pena de diece soldi per ciaschuno animale e ciascheduna volta de dì & de notte se raddoppia, & se altri animali menuti, come sonno Capre Pecore Porci daranno danno come de sopra in dette vigne & pastini nel tempo predetto, cadano in pena per ciascheduno de detti animali & ciascheduna volta de soldi cinque. Item se detti animali grossi daranno danno in dette vigne & pastini assiemi con le capre, da calende d'Aprile fino a calende de Luglio cada in pena de vinti soldi per ciascheduno animale & capra, & per ciascheduna volta & bestie minute come sonno pecore e porci in soldi diece per ciascheduna volta & ciascheduni animali, reservati li cani quali finchè non saranno fatte l'uve non siano tenuti ha pena in dette vigne & pastini. (…) Item se alcuna persona toglierà pali & vite de dette vigne & pastini, cadano in pena de cinque soldi per ciaschedun palo & per ciascheduna manocchia de vite & e ciascheduna volta de dì ma de notte se dupplica. (…) Item se alcuno darrà danno in pergoli & arbori dove sonno le vite se personalmente coglierà l'uva casca in pena de quaranta soli ma de notte radoppia, ma se con animali darrà danno nelle pergoli esistenti fuora della vigna cioè Capra, Asino, Asina, ho bestia cavallina & bovina casca in pena de diece soldi per ciascuno & ciascuna volta. Item se alcuno taglierà vite dal piede in dette vigne & pastini studiosamente et malitiosamente casca in pena de cento soldi, per ciaun pede de dì & de notte radoppia. Item se alcuno taglierà vite dalle sopradette percole & arbori ho li piedi de gli arbori dove sonno le vite, se de dì casca in pena de diece libre de denari & de notte radoppia. Item che li cani al tempo dell'uve che son fatte & mature cioè da calende de Settembre non possono gire disligati, ma li patroni d'essi, siano tenuti essi cani tenere in detti tempi legati, & se saranno trovati altramente casca il patrone de detto cane in pena de vinti soldi per ciascuno & per ciascuna volta (…)»
Vi sono, inoltre, alcune rubriche che contengono anche i principi regolatori per la commercializzazione del vino cui dovevano attenersi gli osti ed i gestori di locande, chiamati tavernari, e prevedevano pene pecuniarie in caso di inosservanza.
Ulteriori informazioni sulla viticoltura della Terra d'Arquata pervengono dalla lettura della Relazione redatta dall'avvocato romano Angelo Benucci nell'anno 1781.[50] Questi era stato inviato dall'Amministrazione del papa Pio VI, in qualità di funzionario apostolico, nel territorio umbro con lo scopo di riordinare le particelle catastali del comprensorio assoggettato alla giurisdizione norcina, cui appartenevano anche Arquata e il suo contado. L'intera Relazione, destinata alla Sacra Congregazione di Roma, è costituita da un manoscritto, conservato presso l'Archivio comunale di Norcia, ed il suo testo è ripartito in 55 paragrafi.[96] Nel rapporto burocratico Benucci, riguardo alle attività agricole dell'arquatano, nel capitolo XXXIV, riferisce che nonostante vi fosse l'avversità delle condizioni climatiche, si trovava abbondanza di «frutta e uva molto agra» con cui si produceva un'abbondante quantità di vino. I proventi ricavati dalla vendita della produzione vinicola aiutavano la popolazione a mitigare la gravante e diffusa indigenza.[55] Inoltre, nel paragrafo LII, dedicato alla descrizione dell'Industria degli abitanti, annovera le attività legate e derivanti dal mondo dell'enologia. Ricorda che molti residenti praticavano l'arte dei vignaioli, recandosi a lavorare per tre stagioni all'anno nei vigneti del vicino Lazio, mentre altri si dedicavano all'artigianato come bottai.[54]
Tra le colture viticole del territorio arquatano si ricorda il Pecorino, un vitigno di cui restano, come segni evidenti nel panorama enologico italiano, i sinonimi con cui la cultivar è indicata nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite, menzionato come: Pecorina Arquatanella o Arquitano e Pecorino di Arquata.[97]
Diego Della Valle ha inaugurato, il 20 dicembre 2017, un nuovo stabilimento del marchio Tod's da 2000 metri quadrati per la produzione di calzature che a regime occuperà cento dipendenti.[98]
Il territorio arquatano ha sempre avuto una buona valenza turistica storico-artistica per la presenza della Rocca medievale e di numerosi edifici storici e religiosi. L'interesse naturalistico e l'escursionistica attraversano i percorsi della sentieristica del monte Vettore ed i rilievi Sibillini. È possibile praticare attività sciistica in inverno a Forca di Presta e a Forca Canapine. A testimonianza della crescita turistica c'è stato il proliferare di strutture microricettive come bed and breakfast e agriturismi.
Nel territorio arquatano, a carattere prevalentemente montuoso, nei mesi invernali si può praticare lo sci sulle piste della stazione di Forca Canapine.
Nella frazione di Borgo, lungo la via Vecchia Salaria, si trova il locale campo sportivo comunale, che misura m 100 x 63, che ha il terreno da gioco di erba naturale. Dal 2016 il campo sportivo comunale ha lasciato spazio alle SAE (Soluzioni Abitative in Emergenza).
Inoltre è presente una palestra dove gioca le partite in casa la squadra di futsal Arquata C5, unica società sportiva presente nel paese (anche se una volta vi era anche una squadra di calcio a 11).
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