I promessi sposi

romanzo di Alessandro Manzoni Da Wikipedia, l'enciclopedia libera

I promessi sposi

I promessi sposi sono un celebre romanzo storico di Alessandro Manzoni, considerato uno dei massimi capolavori della letteratura italiana[2]. Preceduto dal Fermo e Lucia, spesso ritenuto un romanzo a sé, fu pubblicato in prima edizione tra il 1825 e il 1827 (detta "ventisettana"); rivisto in seguito dallo stesso autore, soprattutto nel linguaggio, fu ripubblicato in edizione definitiva tra il 1840 e il 1842 (detta "quarantana").

Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi I promessi sposi (disambigua).
«Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; […]»

Ambientato in Lombardia tra il 1628 e il 1630[1], durante il dominio spagnolo, è il primo esempio di romanzo storico della letteratura italiana. Il racconto si basa su una rigorosa ricerca storiografica e gli episodi del XVII secolo, quali le vicende della monaca di Monza (Marianna de Leyva) e la grande peste del 1630, si fondano su documenti d'archivio e cronache dell'epoca.

I promessi sposi sono l'opera più rappresentativa del romanticismo italiano e una pietra miliare della letteratura italiana per la profondità dei temi (si pensi alla filosofia della storia in cui, cristianamente, agisce l'insondabile grazia divina nella Provvidenza), nonché un passaggio fondamentale nella nascita stessa della lingua italiana moderna[3]. Inoltre, per la prima volta in un romanzo di tale successo, i protagonisti sono gli umili e non i ricchi e i potenti della storia. Il romanzo, infine, per la sua popolarità presso il grande pubblico e per il vivace oggetto d'interesse da parte della critica letteraria tra XIX e XX secolo, è stato rielaborato in forme artistiche che vanno dalla rappresentazione teatrale al cinema, dall'opera lirica alla fumettistica ed anche alla fiction televisiva, sia in chiave originale che parodica.

Le stesure: dal Fermo e Lucia alla "quarantana"

Riepilogo
Prospettiva

Il Fermo e Lucia

Fase redazionale

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Pagina iniziale del capitolo I nel secondo manoscritto autografo de Gli sposi promessi, 1823-1825 (Milano, Biblioteca Nazionale Braidense)[4].

L'idea del romanzo risale al 24 aprile 1821[N 1][6], quando Manzoni cominciò la scrittura del Fermo e Lucia[N 2], componendo in circa un mese e mezzo i primi due capitoli e la prima stesura[N 3] dell'Introduzione. Interruppe però il lavoro per dedicarsi all'Adelchi, al progetto poi accantonato della tragedia Spartaco e all'ode Il cinque maggio. Dall'aprile del 1822 il Fermo e Lucia fu ripreso con maggiore lena e portato a termine il 17 settembre 1823[N 1][9]. Il Manzoni dichiarò, nella lettera all'amico Claude Fauriel del 3 novembre 1821, di aver cominciato una nuova creazione letteraria caratterizzata dalla tendenza al vero storico[10]. L'oggetto della vicenda fu offerto al Manzoni dalla lettura di libri e documenti riguardanti episodi realmente accaduti all'epoca dei fatti raccontati, che sono centrali per lo sviluppo della trama[N 4]. La seconda redazione del romanzo, con il titolo Gli sposi promessi, è databile tra il 1823 e il 1825[4].

Il legame con Il cinque maggio e con l'Adelchi

Per la vicinanza della loro stesura la tragedia, il carme in morte di Napoleone e il romanzo mostrano affinità tematiche molto evidenti, come lo sviluppo della Provvidenza, della vanità delle cose umane rispetto alla grandezza di quelle celesti e la negatività ontologica della realtà, dominata dal binomio oppressi-oppressori: quest'ultima concezione maturata nel soggiorno parigino del 1818-1820, grazie alla conoscenza del filosofo Augustin Thierry[13]. Ermengarda, tanto quanto Napoleone e gli umili del romanzo manzoniano sono, seppur nelle loro diversità biografiche ed esistenziali, soggetti alla legge dell'oppressione che regna nella realtà storica dell'umanità:

«Te collocò la provida
Sventura in fra gli oppressi:
Muori compianta e placida;
Scendi a dormir con essi:
Alle incolpate ceneri
Nessuno insulterà.»

La «provida sventura» di Ermengarda, che è stata liberata dal dolore per il ripudio dell'amato Carlo per giungere alla pace celeste, non è dissimile dalla sorte dell'imperatore francese che, attraverso la dura prova dell'esilio e la riflessione sulla vanità delle conquiste militari[14], è salvato dalla "disperazione" per mezzo della "valida man pietosa" che lo prese e lo portò con sé nei campi eterni[15].

Il concerto operato dalla Provvidenza nella redenzione degli oppressi dalla negatività della storia regna nell'intera economia del romanzo: le conversioni di fra Cristoforo, del Conte del Sagrato (l'Innominato), della monaca di Monza e lo sviluppo umano di Fermo (Renzo) durante le sue traversie e l'incontro finale con don Rodrigo mostrano come, nei disegni di Dio, i vari protagonisti raggiungano quella purificazione che li innalza al di sopra delle tragiche vicende di cui sono stati ora gli oppressi ora gli oppressori a seconda dei casi[16].

Lo stesso Augustin Thierry «rappresenta per Manzoni il campione della ricerca documentaria e filologica, in massima parte destinata alla scoperta di quella storia sociale che si prospettava essere un'affascinante novità intellettuale»[17]. Tale storia sociale, indagata con il metodo storico-filologico ed espressa nel Discorso sulla storia longobardica in Italia, vera e propria base storica per il dramma dell'Adelchi, trova la massima espressione nel Fermo e Lucia e quindi ne I promessi sposi[18].

Originalità e limiti del Fermo e Lucia

Il Fermo e Lucia non va considerato come laboratorio di scrittura utile a preparare il terreno al futuro romanzo, bensì come un'opera autonoma, dotata di una propria struttura narrativa del tutto indipendente dalle successive elaborazioni[19]. Rimasto per molto tempo inedito – fu pubblicato soltanto nel 1916, a cura di Giuseppe Lesca, con il titolo Gli sposi promessi[20] –, il Fermo e Lucia viene oggi guardato con grande interesse.

Nei quattro tomi del Fermo e Lucia si ravvisa però un'opera irrisolta innanzitutto a causa delle scelte linguistiche dell'autore che, ancora lontano dalle soluzioni maturate nel corso di tutti gli anni 1820 e 1830 fino alla pubblicazione della seconda e definitiva edizione de I promessi sposi, crea una prosa in cui s'intrecciano e si alternano tracce di lingua letteraria, elementi dialettali, latinismi e prestiti di lingue straniere[21]: nella prima stesura[N 3] dell'Introduzione Manzoni definì la lingua usata «un composto indigesto di frasi un po' lombarde, un po' toscane, un po' francesi, un po' anche latine»[22]. Oltre all'aspetto linguistico, il Fermo e Lucia differisce profondamente da I promessi sposi per la struttura narrativa più pesante, dovuta alla mancata scorrevolezza dell'intreccio, dominato dai frequenti interventi dell'autore e dai racconti dettagliati delle vicende di alcuni personaggi (quasi «una cooperativa di storie e "biografie"»[23]), specialmente della monaca di Monza[19].

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Andrea Gastaldi, L'Innominato, olio su tela, 1860. Nel passaggio dal Fermo e Lucia a I promessi sposi, la figura del Conte del sagrato cambia radicalmente.

La "ventisettana"

La seconda scrittura dell'opera, differente per struttura narrativa, cornice, presentazione dei personaggi e uso della lingua, fu redatta dal Manzoni con l'aiuto degli amici Ermes Visconti e Claude Fauriel[24]; la sua prima edizione (la cosiddetta "ventisettana") fu pubblicata a Milano dal tipografo Vincenzo Ferrario in tre tomi fra il 1825 e il giugno 1827 (ma con la data del 1825 nei primi due e del 1826 nel terzo)[25] con il titolo I promessi sposi e il sottotitolo Storia milanese del secolo XVII, scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni[26], riscuotendo un notevole successo.

I cambiamenti strutturali e psicologici dei personaggi

La struttura più equilibrata (trentotto capitoli raggruppabili in quattro sezioni di estensione pressoché uguale), la decisa riduzione di quello che appariva un "romanzo nel romanzo", ovvero la storia della monaca di Monza[27], e la scelta di evitare il pittoresco e le tinte più fosche a favore di una rappresentazione più aderente al vero sono le caratteristiche di quello che è un romanzo diverso dal Fermo e Lucia[28].

Cambiano anche i nomi dei personaggi e, in alcuni casi, persino il loro carattere. Oltre a Fermo che diventa Renzo, il nobile Valeriano diventa don Ferrante[N 5], così come il Conte del Sagrato diventa il ben più famoso Innominato. In quest'ultimo caso, il personaggio cambia radicalmente: il Conte del Sagrato non possiede l'indole riflessiva, tragicamente esistenziale nel rimembrare le sue colpe, tipica dell'Innominato[30][31]; il Conte del Sagrato, infatti, è «un killer d'alto rango, che delinque per lucro» e ha «una tinteggiatura politica antispagnola»[32], elementi non presenti nell'Innominato.

La scelta del toscano

Linguisticamente Manzoni abbandonò il «composto indigesto»[22] del Fermo e Lucia per avvicinarsi al toscano, ritenuto dall'autore, per il suo lessico "pratico" utilizzato sia presso gli aristocratici che i popolani, la lingua più efficace per dare un tono realistico e concreto al proprio romanzo[33]. Manzoni, che in famiglia parlava o il francese (lingua della nobiltà e delle classi colte) o il dialetto milanese, tra il 1824 (ancor prima del termine della stesura) e il 1827 cercò di imparare il toscano attraverso strumenti linguistici, utilizzando il Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini e il Nouveau dictionnaire françois-italien di Francesco Alberti di Villanova per la traduzione in italiano dei termini francesi[34][35]; si avvalse inoltre del Vocabolario degli Accademici della Crusca nella quarta edizione e precisamente nella ristampa veronese curata da Antonio Cesari[36].

La "quarantana"

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Francesco Hayez, Teresa Manzoni-Stampa-Borri, olio su tela, 1849 (Milano, Pinacoteca di Brera). La seconda moglie di Manzoni e Tommaso Grossi spinsero lo scrittore a preparare una nuova edizione del romanzo.

Genesi

L'edizione definitiva de I promessi sposi (la cosiddetta "quarantana") fu pubblicata a dispense a Milano dalla tipografia di Vincenzo Guglielmini e di Giuseppe Redaelli tra il novembre del 1840 e il novembre del 1842 (ma con la data del 1840 sul frontespizio)[37], con l'aggiunta della Storia della colonna infame[38]. La sua pubblicazione a spese del Manzoni fu decisa sia per la volontà dell'autore di rinnovare l'impianto stilistico e linguistico della "ventisettana" dopo l'esperienza fiorentina, sia per la spinta che Manzoni ricevette dalla seconda moglie, Teresa Borri – grande ammiratrice dell'opera manzoniana –, e dall'amico di lunga data Tommaso Grossi, i quali intravedevano numerosi introiti dalla nuova edizione illustrata[39].

La risciacquatura in Arno

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Il fiume Arno, dove Manzoni andò metaforicamente a risciacquare i panni

Subito dopo la pubblicazione della "ventisettana", a luglio dello stesso anno, Manzoni, che non era pienamente soddisfatto del risultato ottenuto, poiché il linguaggio dell'opera era ancora debitore delle proprie origini lombarde, si recò a Firenze per "risciacquare i panni in Arno", cioè per sottoporre il romanzo a un'ulteriore e più accurata revisione linguistica, affrancandolo anche dal dialetto toscano e rendendolo aderente al fiorentino parlato, considerato il più adatto al realismo che si prefiggeva[40].

La seconda edizione, che essenzialmente differisce dalla prima per la revisione linguistica dal toscano al fiorentino colto[41], beneficiò pure del prezioso aiuto della fiorentina Emilia Luti, che dal maggio 1841 si trasferì per un anno nella casa del Manzoni come istitutrice delle figlie dello scrittore[42]. Alcuni critici suggeriscono altresì che l'ormai ultracinquantenne Manzoni, distaccato da anni di inattività poetica, abbia deciso di smussare alcune espressioni troppo vicine alla sfera lirica[43].

Le edizioni pirata e la collaborazione con Francesco Gonin

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Anonimo, Ritratto di Francesco Gonin, 1880 ca.

Il successo dell'opera manzoniana comportò, in un'epoca in cui non esisteva ancora il diritto d'autore, il proliferare di edizioni abusive in tutta la Penisola. Tali edizioni spinsero Manzoni a dotare la sua nuova edizione di alcune attrattive in più: un corredo di illustrazioni, l'utilizzo della carta e dell'inchiostro migliori e l'aggiunta dell'inedita Storia della colonna infame[39]. Per le illustrazioni Manzoni pensò dapprima a Francesco Hayez, ma il celebre pittore rinunciò affermando che un simile lavoro gli avrebbe procurato danni alla vista[39]. Lo scrittore chiese quindi aiuto in Francia all'amica Bianca Milesi, che si rivolse al pittore francese Louis Boulanger, ma nemmeno questo tentativo, testimoniato da un solo disegno, si rivelò fruttuoso[44]. Quando Francesco Gonin, giovane e promettente pittore piemontese, fu ospitato a Milano da Massimo d'Azeglio, Manzoni riconobbe in lui la persona giusta[39].

Il suo lavoro convinse pienamente l'autore, che con il Gonin intrattenne nei primi mesi del 1840 una fitta corrispondenza[45]. Il rapporto tra i due fu di grande intesa: lo scrittore guidò la mano del pittore nella composizione dei quadretti. L'aver trovato l'illustratore non era tuttavia sufficiente: era necessario anche un buon incisore. Per il tramite del pittore e incisore Giuseppe Sacchi, Manzoni riuscì a far venire dalla Francia i transalpini Bernard e Pollet e l'inglese Sheeres. La direzione del lavoro fu affidata al Gonin, incaricato di valutare e approvare le incisioni. Siccome queste andavano però a rilento, l'autore fece pressione sul Sacchi affinché venissero inviati d'oltralpe altri collaboratori, e fu accontentato con l'arrivo dei francesi Victor e Loiseau. A questo punto Manzoni poté infine occuparsi del contratto con gli stampatori Redaelli e Guglielmini, firmato il 13 giugno 1840[46]. Per stampare la "quarantana" fu per la prima volta utilizzato in Italia il torchio tipografico in ghisa inventato nel 1800 da Charles Stanhope, III conte di Stanhope[47], fabbricato su licenza dalla ditta Amos Dell'Orto di Monza[48].

Storia della colonna infame

Lo stesso argomento in dettaglio: Storia della colonna infame.
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La lapide della Colonna infame, conservata a Milano nel Castello Sforzesco

La Storia della colonna infame, ricostruzione del clima di intolleranza, ferocia e alienazione in cui si svolgevano i processi contro gli untori al tempo della peste raccontata nel romanzo, inizialmente fu un'appendice nel Fermo e Lucia[49] per poi essere aggiunta, dopo essere stata rielaborata linguisticamente e strutturalmente, alla "quarantana"[50]. L'opera, che narra la tragica vicenda del barbiere Giangiacomo Mora e dell'ufficiale di sanità Guglielmo Piazza, accusati di aver contribuito a diffondere la pestilenza e giustiziati a Milano nel 1630, è una recisa e violenta condanna della superstizione popolare e della tortura usata nei processi penali per estorcere le confessioni dei presunti colpevoli[51].

Le prime edizioni dei tre romanzi

L'opera

Riepilogo
Prospettiva

Manzoni e il modello di Walter Scott

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Henry Raeburn, Sir Walter Scott, olio su tela, 1822 (Edimburgo, Scottish National Gallery).

Il romanzo manzoniano presenta varie analogie, ma anche evidenti differenze, con il romanzo storico Ivanhoe di Walter Scott[52], ambientato nel Medioevo inglese sullo sfondo delle lotte e della successiva unione tra i Normanni invasori e le popolazioni preesistenti, soprattutto i Sassoni. Manzoni, che non conosceva l'inglese, durante il soggiorno parigino del 1818-1820 poté leggere il capolavoro di Scott in una versione francese. Una volta ritornato a Milano nella sua villa di Brusuglio, si fece inviare, per il tramite del direttore della Biblioteca di Brera Gaetano Cattaneo, altri romanzi di Scott tradotti in francese (tra cui La sposa di Lammermoor, Il monastero e Waverly)[53].

Il filo rosso conduttore tra lo scrittore scozzese e quello italiano si riscontra sul piano prettamente storico (anche se Manzoni critica le eccessive libertà creative di Scott, sottolineandone la diseguale fedeltà alle fonti[54]) e sulle ricostruzioni paesaggistiche, mentre il Nostro si disinteressa dell'avvicendarsi dei fatti avventurosi che rendono veloce e spigliata la trama dell'Ivanhoe, che richiama le antiche epopee cavalleresche del ciclo arturiano e dell'Orlando furioso di Ludovico Ariosto. I personaggi dell'Ivanhoe non rispecchiano quella complessità d'animo, quel «guazzabuglio del cuore umano»[55] che invece caratterizzano così fortemente i personaggi de I promessi sposi, costantemente immersi in un dinamismo storico realistico che sembra essere molto distante dal mondo fantastico dell'Inghilterra medioevale dipinta da Scott[56].

Per di più, se nell'opera manzoniana c'è un forte interesse civile, inteso a fornire, attraverso il romanzo, un'unità linguistica e delle solide basi morali ai lettori, in quella di Scott tale dimensione è totalmente assente, in quanto indirizzata maggiormente al divertimento dei lettori che al formarli secondo precise intenzioni civico-pedagogiche[N 6]. Tra i modelli che Manzoni fruì si ritrovano ancora Laurence Sterne, specialmente nel legame che unisce il frate cappuccino manzoniano al frate francescano descritto nel Viaggio sentimentale di Yorik[57], e i romanzi gotici, quale Il castello di Otranto di Horace Walpole[58] nella parte relativa al Castello dell'Innominato[59]. Da segnalare ancora La monaca di Denis Diderot, modello che ha potuto arricchire d'immaginazione la mente di Manzoni riguardo a suor Gertrude, anche se il critico Giovanni Macchia ne sottolinea la distanza perché «serrato in tutte le sue parti come un'opera filosofica» e quindi lontana dal realismo che Manzoni invocava[60]; e Justine del marchese de Sade, per quanto riguarda la tresca tra la monaca di Monza ed Egidio e il legame tra Lucia, pura e casta, e l'Innominato, violento e assassino[61].

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Ritratto del poeta milanese Carlo Porta (1774-1821), in un pastello di Fëdor Antonovič Bruni (1821). Porta fu, insieme a Ludovico di Breme, uno dei principali ideologi del romanticismo in Italia, corrente letteraria cui appartenne anche Manzoni e che incise sulla scelta da parte di quest'ultimo di avvalersi di «gente meccaniche, e di piccol affare»[62] come protagonisti del suo romanzo.

I "generi" del romanzo

La nascita del romanzo storico italiano

Il romanzo manzoniano rientra all'interno del genere del romanzo storico, quello che Manzoni stesso definì come un componimento misto di storia e d'invenzione[63], impresa assai ardua in Italia dove, a causa della mancanza di unità linguistica e della conseguente inesistenza di modelli (se si eccettuano i romanzi barocchi, completamente distanti dall'obiettivo della temperie romantica), di romanzi nel senso moderno del termine non erano stati scritti neppure uno[64]. L'esigenza di passare dalla tragedia al romanzo storico risiedeva in un'esigenza innanzitutto morale per la risoluzione di quello che Angelo Stella ha definito «pessimismo cristiano»[26], ovvero della necessità di far vincere in questo mondo a dei personaggi di fantasia le sfide della storia, elemento che non poteva essere accolto nella veridicità storica delle tragedie, ove la rivincita poteva avvenire solo nell'aldilà[65]. Inoltre, il genere del romanzo permetteva al narratore di far prevalere la parte del vero poetico rispetto al vero storico, come delucidato da Gino Tellini:

«Il punto fondamentale è che con il romanzo si ribalta il rapporto tra "storia" e "invenzione" così come si presentava nel teatro. Le tragedie portano in primo piano fatti e protagonisti reali, mentre all'invenzione spettano le comparse e lo scavo entro la coscienza degli eroi. Ora invece in primo piano si accampano fatti e protagonisti fantastici, mentre al vero storico si affidano le figure collaterali, la minuta filigrana degli accadimenti collettivi, del colore locale, dell'ambiente, dei costumi.»

La scelta degli "umili" quali protagonisti dell'intera storia, attorniati dai "grandi" che entrano ed escono dalle loro vite, fu una scelta maturata non solo in seno alla temperie romantica che si stava facendo sentire anche a Milano con l'attività di scrittori come Carlo Porta, Silvio Pellico, Ermes Visconti, Pietro Borsieri, Giovanni Berchet e Ludovico di Breme, ma soprattutto grazie all'incontro che Manzoni fece con lo storico e idéologue Augustin Thierry a Parigi nel suo secondo soggiorno del 1819-1820[66]. Il Thierry, sostenitore dell'ideale borghese[67] e patrocinatore di una storia in cui i protagonisti non sono i grandi, ma gli oppressi[68], gettò il seme nel cuore di Manzoni nel redigere una storia che avesse al centro non gli eroi secondo i prototipi della tradizione letteraria, ma semmai dei veri e propri "antieroi", ossia delle "vittime della storia".

L'anima verista e il Bildungsroman

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Renzo Tramaglino immaginato da Francesco Gonin. Le vicende che riguardano il giovane protagonista del romanzo, dai fatti di Milano sino al rientro in patria durante la peste, mostrano una notevole evoluzione della sua personalità.

Seppure sia considerata il modello per eccellenza del romanzo storico italiano, l'opera supera i ristretti limiti di tale genere letterario: Manzoni infatti, mediante la ricostruzione della Lombardia del Seicento, non tratteggia soltanto un grande affresco storico, ma prefigura degli evidenti parallelismi con i processi storici di cui era testimone nel suo tempo. Non limitandosi a indagare il passato, bensì riflettendo su costanti umane – di carattere culturale, psicologico, spirituale, sociale e politico – l'autore traccia anche un'idea precisa del senso della storia, oltre che del rapporto che il singolo ha con gli eventi storici che lo coinvolgono[69].

Davanti a questo rigoroso spirito d'osservazione della realtà che circonda le vicende dei protagonisti, I promessi sposi si possono ritenere un romanzo che apre la via alla corrente del realismo italiano: la descrizione dettagliata nei minuti resoconti storici delle digressioni; l'analisi psicologica e fisica dei singoli personaggi – personaggi non più solo appartenenti alla grande storia, ma anche agli umili – l'attenzione verso una realtà non più mitizzata e idealizzata come nella produzione romantica inglese o tedesca[N 7], ma inserita nella quotidianità del Seicento sono indizi che apriranno, in un certo modo, la strada al verismo verghiano[71]. Eurialo De Michelis, nel capitolo Preliminari ai "Promessi Sposi", conferma il tono profondamente realistico che il romanzo assume anche per la stessa natura del Manzoni, e non solo per esigenze estetiche:

«Tale il clima di antiromantica serietà e concretezza, entro cui quella che fu in genere la poetica del romanzo storico, comune a larghe zone del romanticismo europeo, si approfondisce a poetica di lui in proprio, il Manzoni; con uno scrupolo del vero, il vero della Storia e il vero dell'agire degli uomini, che in lui è ben più che ricetta buona a far arte, è interezza e serietà interiore, norma del vivere.»

È allo stesso tempo romanzo di formazione[72], sulla scia già tracciata dai Bildungsroman tedeschi quali il Wilhelm Meister di Goethe: si consideri in particolare il percorso umano di Renzo, da ingenuo contadino ad abile – troppo abile – attivista politico fino ad accorto e saggio nei confronti delle insidie del mondo[73], ma per alcune ambientazioni e vicende presenti (la monaca di Monza, il rapimento di Lucia segregata poi nel castello dell'Innominato), ha anche caratteristiche che lo possono accomunare ai romanzi gotici sette-ottocenteschi[74].

Fonti

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Ritratto di Melchiorre Gioia

Le fonti cui Manzoni attinse per la ricostruzione delle vicende della Milano seicentesca e di alcuni personaggi sono essenzialmente: l'Historia patria di Giuseppe Ripamonti, fondamentale storia di Milano, dal cui volume terzo furono tratte le notizie principali sulla vita del cardinale Federigo Borromeo, sulla figura di Bernardino Visconti (il personaggio storico cui Manzoni s'ispirò per l'Innominato[N 8]) e sulla tragica vicenda di suor Marianna de Leyva[75]; il De peste quae fuit anno MDCXXX dello stesso autore, cronaca ricchissima di informazioni sulla peste del 1630; il De pestilentia di Federigo Borromeo, dalla cui lettura Manzoni prese spunto in generale per l'ambientazione della Milano devastata dal morbo e in particolare per l'episodio della madre di Cecilia[76]; il Raguaglio dell'origine et giornali successi della gran peste di Alessandro Tadino, come ricordato dallo stesso Manzoni nel capitolo XXXI del romanzo, sempre per la nitida narrazione della pestilenza; l'opera Sul commercio de' commestibili e caro prezzo del vitto di Melchiorre Gioia, utile per ricostruire la crisi sociale ed economica in cui versava la Lombardia spagnola, dove operai e artigiani erano costretti a emigrare nelle regioni vicine[75]. Il critico Giovanni Getto ha individuato un'ulteriore fonte nell'Historia del cavalier perduto di Pace Pasini[77]. Sono state altresì rilevate notevoli analogie con la storia di un signorotto, Paolo Orgiano, che tiranneggiava nel basso Vicentino nel paese di Orgiano[78][N 4].

Caratteristiche generali

La finzione dell'Anonimo del manoscritto

Il romanzo prende le mosse da un presunto manoscritto anonimo del XVII secolo, che racconta la storia di Renzo e Lucia, "scoperta e rifatta" dal Manzoni: un topos che nella letteratura mondiale era già stato utilizzato spesse volte e che, nel caso de I promessi sposi, ha il suo precedente più stretto nel Don Quijote di Miguel de Cervantes[79], basato sul manoscritto fittizio in aljamiado di Cide Hamete Benengeli[80]. Nulla è noto dell'autore del manoscritto, tranne che ha conosciuto da vicino i protagonisti della vicenda[81] e che quindi si esprime in uno stile seicentesco, ironicamente criticato dal Manzoni e perciò modernizzato nella prosa[82].

Il topos del rifacimento della vicenda narrata da un testo o trascritta dalla voce diretta di uno dei protagonisti, inoltre, consente al romanziere di giocare sull'ambiguità stessa che sta alla base del moderno romanzo realistico-borghese, ovvero il suo essere un componimento di fantasia che spesso non disdegna di proporsi ai suoi lettori come documento storico reale e attendibile. Si viene a creare un trinomio Renzo-Anonimo-Manzoni, in cui la finzione letteraria adoperata da quest'ultimo permette una falsa stratificazione delle opinioni dei singoli narratori[83], determinando di conseguenza una duplice prospettiva nella quale vengono visti gli avvenimenti: una secondo i fatti narrati, attribuiti all'autore del manoscritto; l'altra secondo i commenti e le riflessioni dell'autore del romanzo sulle vicende trattate[84].

I ritagli del narratore/autore

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La processione dei resti di San Carlo. La funzione religiosa, sconsigliata perché propagatrice del contagio tra i milanesi secondo la scienza moderna, fu criticata dal Manzoni.

La finzione narrativa dell'Anonimo del manoscritto permette all'autore di intervenire nel corso della vicenda, sentenziando dei veri e propri commenti sulle azioni dei suoi personaggi[83] in modo ironico e paternalistico. Per l'ironia, basti pensare al paragone che Manzoni usò per tratteggiare il carattere pavido di don Abbondio con la risolutezza del principe di Condé prima della Battaglia di Rocroi[85] o alla famosa locuzione «La sventurata rispose»[86] in riferimento al traviamento interiore di Gertrude[83]; per il paternalismo, concetto sviluppato da Antonio Gramsci nei Quaderni dal carcere, s'intende la posizione bonaria e protettrice dell'aristocratico Manzoni, che mostra compassione verso gli ultimi solo in nome della morale cattolica e non per una vera solidarietà tra classi sociali, la cui distanza deve rimanere inalterata[87]. Ancora, il narratore Manzoni giudica con acrimonia i vizi del Seicento, la sua corruzione, il suo modo di intendere cultura e tutta l'ortoprassi degli uomini di quell'epoca: l'ironia amara verso la cultura di don Ferrante, che nega l'esistenza della peste e ne resta vittima[88]; la condanna sferzante verso il presunto ruolo malefico degli untori[89]; l'ironia patetica mostrata verso la decisione del cardinale Federigo di indire la processione con le reliquie di san Carlo per porre fine alla pestilenza e l'aggravamento della diffusione del contagio il giorno dopo[90] sono solo alcuni dei numerosi interventi dell'autore nel commentare lo sviluppo della storia, rendendo più fluido e diretto il suo ingresso che, nelle tragedie, era relegato ai cori[91]. Ne consegue, infine, che il narratore del romanzo è un narratore onnisciente:

«[…]: la voce che narra distingue nettamente se stessa dai personaggi, dalle loro azioni, dalla realtà rappresentata, ne conosce dall'esterno i caratteri, gli aspetti particolari, le motivazioni più interne, fruendo di uno sguardo "centrale" che pare avere l'ampiezza di uno sguardo divino.»

La funzione del romanzo: l'utile, il vero e l'interessante

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Francesco Hayez, Ritratto di Alessandro Manzoni, olio su tela, 1841 (Milano, Pinacoteca di Brera).

Manzoni, nella sua lettera Sul romanticismo al marchese Cesare Taparelli d'Azeglio del 1823, aveva dichiarato esplicitamente che la funzione dell'arte e della letteratura, per lui, deve orientare i lettori secondo tre coordinate estetico-paideutiche ben precise:

«Il principio, di necessità tanto più indeterminato quanto più esteso, mi sembra poter esser questo: che la poesia o la letteratura in genere debba proporsi l'utile per iscopo, il vero per soggetto, e l'interessante per mezzo.»

Nel caso del romanzo, il veicolo morale dunque deve passare attraverso una narrazione che attiri l'attenzione del lettore per la veridicità delle vicende[92] in cui, grazie all'infusione della finzione narrativa, si è capaci di rendere attraente e piacevole al lettore la vicenda narrata, purché vi sia l'utile come finalità. Tale scopo è quello di elevare moralmente il lettore che legge il romanzo, eliminando qualsiasi parte sconveniente o che possa, in qualche modo, traviare la sensibilità di determinati lettori. Questo proposito è soprattutto esposto nel Fermo e Lucia, come risulta dalle stesse parole del Manzoni:

«Ma ponete il caso, che questa storia venisse alle mani per esempio d'una vergine non più acerba, più saggia che avvenente (non mi direte che non ve n'abbia), e di anguste fortune, la quale perduto già ogni pensiero di nozze, se ne va campucchiando quietamente, […]; ditemi un po' che bell'acconcio potrebbe fare a questa creatura una storia che le venisse a rimescolare in cuore quei sentimenti, che molto saggiamente ella vi ha sopiti. Ponete il caso, che un giovane prete il quale coi gravi uficj del suo ministero, colle fatiche della carità, con la preghiera, con lo studio, attende a sdrucciolare sugli anni pericolosi che gli rimangono da trascorrere, ponendo ogni cura di non cadere, […] si ponga a leggere questa storia: giacché non vorreste che si pubblicasse un libro che un prete non abbia da leggere: e ditemi un po' che vantaggio gli farebbe una descrizione di quei sentimenti ch'egli debba soffocare ben bene nel suo cuore, […].»

Il romanzo, dunque, deve attendere ad altri scopi, che siano di utilità alla società e alla fratellanza umana: «Concludo che l'amore è necessario a questo mondo: ma ve n'ha, quanto basta, […]. Vi hanno altri sentimenti dei quali il mondo ha bisogno, e che uno scrittore secondo le sue forze può diffondere un po' più negli animi: come sarebbe la commiserazione, l'affetto al prossimo, la dolcezza, l'indulgenza, il sacrificio di se stesso: […]»[93].

La Provvidenza

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Pietro da Cortona, Trionfo della Divina Provvidenza, affresco, 1632-1639 (Roma, Palazzo Barberini).

Oltre al proposito espresso nel Fermo e Lucia, Manzoni spinge l'intenzione moralista a più alte vette. Il romanzo, infatti, assume una forte connotazione morale intrisa dell'escatologia cristiana, dominata dalla presenza della Provvidenza nella storia e nelle vicende umane. Il male è presente, il gioco di forze contrapposte genera effetti a volte disastrosi nella storia dei protagonisti[N 10], ma Dio non abbandona gli uomini e la fede nella Provvidenza, nell'opera manzoniana, permette di dare un senso ai fatti e alla storia dell'uomo, come emerge alla conclusione del romanzo stesso:

«Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perchè ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore.»

Luciano Parisi, sulla scia della conclusione formulata dal Manzoni per bocca di Renzo e Lucia, asserisce per l'appunto che la Provvidenza è «l'oggetto imprecisato ed imprecisabile di una 'fiducia indeterminata'[95] […], di una fede più istintiva che razionale, che sopravvive ai dolori e fortifica contro di essi»[96].

La Provvidenza agisce in modo misterioso e secondo schemi che non seguono i ragionamenti degli uomini, raggiungendo il suo scopo anche attraverso eventi dolorosi, concretizzandosi nella famosa espressione della «provida sventura»[97]. Si possono recare numerosi esempi al riguardo: le conversioni di Ludovico (fra Cristoforo) e dell'Innominato avvengono nel corso del tempo, dopo eventi traumatici (l'omicidio causato da Ludovico, evento che lo spingerà a riprendere in considerazione il desiderio di un tempo di farsi frate[98]) o ripetuti (gli omicidi perpetrati dall'Innominato nel corso degli anni[99]). Nel primo caso, l'arrogante Ludovico si macchia di un delitto e, ricoverato presso il vicino convento dei cappuccini, durante la convalescenza, «gli parve che Dio medesimo l'avesse messo sulla strada, e datogli un segno del suo volere, facendolo capitare in un convento, in quella congiuntura»[98]; nel secondo, la Provvidenza fa breccia nel cuore già tumultuante dell'Innominato per mezzo di una spaventata Lucia che, nella foga, proferisce la frase che scatenerà la conversione del criminale: «Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia!»[100], conversione che giungerà a pieno compimento dopo la terribile notte e l'incontro col cardinale Federigo Borromeo nel capitolo seguente.

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«"La c'è la Provvidenza!" disse Renzo; e, cacciata subito la mano in tasca, la votò di que' pochi soldi; li mise nella mano che si trovò più vicina, e riprese la sua strada» (I promessi sposi, cap. XVII, p. 338).

Ma la questione della Provvidenza delineata da Manzoni è assai diversa, invece, da quella presentata dai suoi personaggi: nessuno di loro (se non fra Cristoforo e il cardinale) definisce in modo nitido come Dio operi nella storia, passando da interpretazioni perlomeno accettabili (il voto alla Madonna che Lucia compie mentre è prigioniera dell'Innominato, e la sua liberazione intravista quale segno della benevolenza divina) a quelle blasfeme di don Abbondio, dal quale la peste è vista come «una scopa» provvidenziale[101], e di don Gonzalo Fernandez de Cordova che, davanti all'arrivo della peste portata dai Lanzichenecchi, invita a sperare nella Provvidenza[102][103]. Si ha quindi una pluralità di visioni, che tolgono a I promessi sposi l'epiteto di «epopea della Provvidenza»[104], di cui si parla continuamente[105], ma «tali discorsi sono quasi esclusivamente messi in bocca ai personaggi e solo di rado sono propri del narratore», il cui commento occasionale è sempre distinto dalle loro opinioni[106]. Solo alla fine del romanzo emerge il vero volto della Provvidenza divina, scoperta che illumina la realtà dell'agire di Dio nella Storia e che spinse Parisi a "ridefinire" l'epiteto dell'opera manzoniana: «Si potrebbe dire, in questo senso, che i Promessi sposi sono il romanzo della fede nella Provvidenza, più che il romanzo della Provvidenza […]»[96].

La scelta del Seicento: un secolo di decadenza e di violenza

Affinché la Provvidenza potesse manifestarsi, secondo l'intendimento dell'autore, al massimo della sua epifania salvifica, era necessario che il retroterra storico culturale in cui ambientare il romanzo fosse dominato dal male, dalla violenza e dall'ignoranza[107]. La profonda disistima che l'illuminista Manzoni nutriva verso il Seicento, secolo di decadenza morale, civile e culturale, rendeva tale periodo perfetto nelle intenzioni programmatiche dell'autore:

«Caso mai egli trova motivazioni per occuparsi del Seicento nel fatto che questa gli appare un'età sostanzialmente negativa, l'osservatorio ideale per cogliere il dramma di due antieroi popolani coinvolti e quasi stritolati negli ingranaggi del potere, […]. Il Seicento può così diventare il simbolo da un lato dell'immobilismo della storia italiana (secondo una polemica di stampo illuministico), dall'altro forse addirittura della condizione umana.»
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Il conte zio e il padre provinciale parlano di fra Cristoforo. Il conte zio è l'espressione della rapacità e della corruzione clientelare tipica della nobiltà ispanica.

La Lombardia, nella prima metà del XVII secolo, viveva uno dei periodi più bui della sua storia. Retta da una classe di potenti inetta e corrotta e da un governatore assente e dedito esclusivamente all'esecuzione degli ordini imposti da Madrid, quello che era stato il Ducato di Milano divenne il crocevia degli eserciti ispano-imperiali impegnati nella sanguinosa guerra dei trent'anni (1618-1648), che in Italia si declinò nella guerra di successione al Ducato di Mantova e del Monferrato[108]. Sul finire degli anni 1620, prima dello scoppio della terribile pestilenza che decimerà la popolazione lombarda, si era abbattuta una rovinosa carestia – accennata in più passaggi nel corso del romanzo[109] – che porta alla rivolta dei forni nel capitolo XII. Il malcostume, l'inefficacia delle gride di giustizia e la violenza che dilaga a livello regionale nel fenomeno dei bravi si riflettono inevitabilmente nel vissuto quotidiano dei protagonisti[110][111].

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Don Abbondio, dietro la minaccia dei bravi, comunica a Renzo i vari impedimenti alla celebrazione del matrimonio

Gli esempi di questa violenza dal sapore – secondo l'espressione di Vittorio Spinazzola – "politico"[112] sono molteplici: le minacce compiute dai bravi di don Rodrigo a don Abbondio nel capitolo I; i tentativi, sempre da parte del signorotto spagnolo, di sottomettere Lucia ai suoi desideri; l'inganno pretestuoso che don Abbondio compie su Renzo, sfoggiando una cultura classicheggiante e teologica che il giovane analfabeta non può comprendere[113]; la coercizione psicologica perpetrata dal padre di Gertrude per monacarla forzatamente[N 11] e quella fisica che la stessa userà contro la conversa Caterina insieme all'amante Egidio per farla tacere della relazione segreta[N 12]. Il culmine della violenza, «nella quale affoga collettivamente una civiltà sbagliata […] per una purificazione […] quale premessa necessaria alla ricostruzione della società»[114], è la peste finale, in cui le vicende dei personaggi si riallacciano in una Milano completamente devastata in ogni aspetto della vita sociale. Nonostante la desolazione e la morte imperante, è allora che Renzo trova quella pietà che lo spinge a riconciliarsi con don Rodrigo morente e che spinge Lucia a riconsiderare il voto per unirsi definitivamente con Renzo[115], aprendo i propri cuori agli imperscrutabili disegni della Provvidenza[116].

Il paesaggio manzoniano

Un ruolo fondamentale nell'economia del romanzo è la presenza del paesaggio, inteso sia nella sua veste naturalistica, sia in quella antropologica. Domina, infatti, il paesaggio familiare di Lombardia, con i suoi cieli, i suoi monti, le sue acque e la sua mite luce autunnale: «quel cielo di Lombardia, così bello quand'è bello, così splendido, così in pace»[117]. Il paesaggio è calato nella realtà storica e umana del romanzo. La sobrietà delle descrizioni è il risultato di uno scarnimento ricco di possibilità liriche ed evocative; i passi descrittivi sono trascrizioni di un momento di vita interiore. In effetti l'intero incipit dell'opera è una dettagliata descrizione del paesaggio del Lecchese che, secondo un andamento geo-descrittivo centripeto adottato dal Manzoni, giunge a inquadrare Lecco e il viottolo su cui cammina don Abbondio, per poi riportare l'attenzione del lettore all'orizzonte e ai monti circostanti[118].

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Veduta panoramica del ramo lecchese del Lago di Como

Un'altra caratteristica del paesaggio, oltre a quella di essere storicamente realistico, come nel capitolo I («Quel ramo del lago di Como»), è di essere funzionale alle esigenze del racconto, per cui esso fa da sfondo e cornice alle vicende dei personaggi, come nella scena dell'incontro di don Abbondio con i bravi di don Rodrigo[119]. Nella concezione propria del Romanticismo seguita da Manzoni, il paesaggio è anche proiezione degli stati d'animo dei personaggi[120]; ad esempio, è descritto con affettuosa nostalgia e profonda, accorata intimità da Lucia nell'Addio ai monti, mentre è percepito come pauroso e ostile durante la fuga di Renzo da Milano verso l'Adda[121]. Un discorso a parte merita la descrizione dettagliata del paesaggio minaccioso e solitario intorno al castello dell'Innominato e del castello stesso[122], che rispecchia la personalità e lo stile di vita del suo proprietario e incute paura, ma, dopo la conversione di quest'ultimo, diventa un luogo di asilo[123].

Nell'indicazione dei luoghi, bisogna ricordare l'uso degli asterischi, come in occasione di due analessi, nella biografia di fra Cristoforo[124] e in quella di Gertrude[125]. L'espediente, come dichiara l'Anonimo manzoniano nell'Introduzione[126], è motivato con l'opportunità di attribuire un certo anonimato e una certa indefinitezza alla vicenda, per rispetto e prudenza nei riguardi di casate e personaggi che, quando egli scriveva (l'ipotetico autore del manoscritto afferma di raccontare fatti avvenuti al tempo della sua giovinezza), potessero essere ancora vivi: «questi asterischi vengon tutti dalla circospezione del mio anonimo», riferisce Manzoni nel capitolo IV[127].

Il rifiuto dell'idillio

Il critico Ezio Raimondi ha intitolato il volume contenente i suoi saggi sul capolavoro manzoniano col seguente titolo: Il romanzo senza idillio. Nel romanzo manzoniano, difatti, manca il lieto fine tipico delle favole o dei racconti della tradizione letteraria, in nome del realismo cui l'autore intende ispirarsi. Ne sono segno il fatto che don Abbondio si abbandoni ad una "danza macabra" per l'annuncio della morte di don Rodrigo[128]; e che il marchese erede di don Rodrigo non prenda parte al convito nuziale allo stesso tavolo coi due sposi, segno della rinnovata disparità sociale[129]; e che la gente, la quale tanto aveva sentito delle vicende di Renzo e Lucia, al vedere la giovane, ne rimanesse delusa, credendo che la giovane avesse «i capelli proprio d'oro, e le gote proprio di rosa, e due occhi l'uno più bello dell'altro»[130]. Il matrimonio tra Renzo e Lucia, l'avviamento dell'attività mercantile di Renzo e l'allietamento della loro unione con l'arrivo dei figli si inserisce in un quadro denotato da forti tinte realiste, dove la vita quotidiana è costellata sia da lieti eventi, ma anche da altre sventure o grattacapi[131]. Insomma, una «quotidianità disabbellita e diseroicizzata»[132].

Struttura

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«Quel ramo del lago di Como»

Il romanzo, nel passaggio dal Fermo e Lucia a I promessi sposi, cambiò notevolmente, passando da una struttura in quattro grandi blocchi narrativi (i "tomi") alla semplice divisione in trentotto capitoli, così organizzati[133]:

  • I-VIII: introduzione, presentazione dei personaggi e vicende all'interno del villaggio natio (definita anche «parte paesana»[20]).
  • IX: separazione di Renzo da Lucia; presentazione della giovane a suor Gertrude e analessi biografica di quest'ultima.
  • X: prosecuzione della vicenda di Gertrude, della sua relazione con Egidio e dell'omicidio della conversa; don Rodrigo si informa su dove si trovino Renzo e Lucia.
  • XI-XVII: «romanzo cittadino»[59] di Renzo e suo riparo nella Bergamasca dal cugino Bortolo.
  • XVIII: Lucia e Gertrude; trasferimento di fra Cristoforo a Rimini e introduzione al flashback sul motivo di tale trasferimento.
  • XIX: colloquio tra il conte zio e il padre provinciale dei cappuccini; presentazione dell'Innominato.
  • XX: don Rodrigo chiede aiuto all'Innominato per rapire Lucia; l'Innominato incarica Egidio del rapimento, il quale a sua volta ricatta Gertrude, restia a tradire la giovane; rapimento di Lucia.
  • XXI: arrivo di Lucia al castello dell'Innominato e descrizione della tormentata notte di quest'ultimo; arrivo, nel paese vicino, del cardinale Federigo Borromeo.
  • XXII: ritratto del cardinale Federigo.
  • XXIII: colloquio tra il Borromeo e l'Innominato; conversione di quest'ultimo.
  • XXIV: liberazione di Lucia; la famiglia del sarto del paese accoglie Lucia e la madre in casa propria; colloquio tra Federigo, Lucia e Agnese; l'Innominato annuncia a chi abita con lui la sua intenzione di cambiare vita.
  • XXV: Lucia è affidata alle cure di don Ferrante e di donna Prassede; rimprovero di Federigo a don Abbondio.
  • XXVI: continua il colloquio tra i due prelati; Lucia parte per Milano insieme ai suoi nuovi protettori, senza aver avvisato prima la madre del voto che fece alla Madonna per uscire sana e salva dalle mani dell'Innominato.
  • XXVII: digressione storica sulla guerra di successione al Ducato di Mantova; rapporto tra donna Prassede e Lucia; la figura di don Ferrante.
  • XXVIII-XXX: peggioramento della carestia; discesa dei lanzichenecchi; don Abbondio, Agnese e Perpetua trovano rifugio nel castello dell'Innominato; ritorno dei tre al villaggio non appena l'esercito è passato.
  • XXXI-XXXII: diffusione della pestilenza prima nel contado, poi a Milano; la psicosi generale e gli untori; processione con le reliquie di san Carlo per implorare la fine del contagio.
  • XXXIII: don Rodrigo si ammala di peste; Renzo, guarito dal morbo, si accinge a ritornare a Milano a cercare Lucia, passando prima dal suo villaggio, dove trova don Abbondio, afflitto dal dolore per la morte di Perpetua, e un amico del paese. Alla sera Renzo giunge alle porte di Milano.
  • XXXIV: desolazione di Milano martoriata dalla peste; episodio della madre di Cecilia.
  • XXXV-XXXVI: Renzo al Lazzaretto, incontro con fra Cristoforo, con don Rodrigo morente e lo scioglimento del voto di Lucia. Pioggia purificatrice e fine della pestilenza.
  • XXXVII-XXXVIII: ritorno al paese, matrimonio tra Renzo e Lucia e loro trasferimento nella Bergamasca dove Renzo avvia una piccola attività come filatore.

Nella narrazione l'intreccio si discosta poco dalla fabula e solo quando la trama lo richiede. Ciò accade per esempio quando l'autore tratta parallelamente le vicende di Renzo e Lucia, le vicende storico-sociali (carestia, guerra, peste) o quando compie delle analessi per le biografie di fra Cristoforo (capitolo IV), della monaca di Monza (capitoli IX-X), dell'Innominato (capitolo XIX) e del cardinale Federigo Borromeo (capitolo XXII).

Trama

L'incontro coi bravi e la minaccia di don Rodrigo (capitoli I-II)

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«Due uomini stavano, l'uno dirimpetto all'altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: […]» (I promessi sposi, cap. I, p. 12).

Dopo l'ampia descrizione del paesaggio del Lecchese con cui il romanzo si apre, Manzoni sente la necessità di datare precisamente la vicenda: è la sera del 7 novembre 1628, al tempo della dominazione spagnola[134]. I protagonisti sono Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, due giovani operai tessili che vivono in una località nei pressi del lago di Como. Manzoni non si riferiva a luoghi precisi e nel romanzo gli unici indicati chiaramente sono il quartiere di Pescarenico a Lecco, dove si trovava il convento di padre Cristoforo, e il castello della guarnigione spagnola, posto in riva al lago.

Ogni cosa è pronta per il matrimonio di Renzo e Lucia, quando un signore locale, don Rodrigo, scommette con suo cugino il conte Attilio che sarebbe riuscito a possedere Lucia[135]. Don Abbondio, il curato del paese incaricato di celebrare il matrimonio, viene così minacciato durante la sua solita passeggiata serale da due bravi di don Rodrigo, affinché non sposi i giovani. In preda al panico don Abbondio cede subito: il giorno dopo imbastisce delle scuse a Renzo per prendere tempo e rinviare il matrimonio, non esitando ad approfittare della sua ignoranza per utilizzare come spiegazione frasi in latino. Stizzito dal comportamento evasivo di don Abbondio, Renzo decide di uscire dalla canonica, dove incontra Perpetua, la domestica di don Abbondio, dalla quale, seppur per vie traverse, comprende la natura della titubanza del parroco e lo costringe a rivelare la verità.

Dall'Azzecca-garbugli all'incontro tra fra Cristoforo e don Rodrigo (capitoli III-VI)

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Fra Cristoforo inveisce contro don Rodrigo: «Ho compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. […] e in quanto a voi, sentite bene quel ch'io vi prometto. Verrà un giorno....» (I promessi sposi, cap. VI, p. 104).

Renzo si consulta con Lucia e con sua madre Agnese e insieme decidono di chiedere consiglio a un avvocato, detto Azzecca-garbugli; questi inizialmente crede che Renzo sia un bravo e come tale è disposto ad aiutarlo, ma, non appena capisce che il giovane è venuto a chiedergli assistenza legale nei confronti di don Rodrigo, lo manda via bruscamente[136]. Così i tre si rivolgono a fra Cristoforo, cappuccino di un convento poco distante e loro padre spirituale, che si convertì in gioventù dopo aver ucciso un uomo[137]. Volendo compiere il proprio dovere di proteggere i più deboli dai soprusi dei potenti, il frate decide di affrontare don Rodrigo e si reca al suo palazzo, ma quegli, intento a pranzare con il cugino Attilio, il podestà di Lecco e l'Azzecca-garbugli, lo accoglie con malumore, intuendo il motivo della visita[138]. Cristoforo tenta di farlo recedere dal suo proposito, ma, vista la risolutezza del nobile, gli ricorda il giorno del giudizio in cui dovrà render conto del suo operato davanti a Dio. Irato e al contempo intimorito nel profondo della sua coscienza, don Rodrigo scaccia in malo modo il frate[139].

La notte degli imbrogli e dei sotterfugi: la fuga (capitoli VI-VIII)

Agnese propone ai due promessi un matrimonio a sorpresa, da celebrarsi pronunciando davanti al curato le frasi rituali alla presenza di due testimoni. Con molte riserve da parte di Lucia il piano viene accettato quando fra Cristoforo annuncia il fallimento del suo tentativo di dissuadere don Rodrigo. Questi ordina al Griso di rapire Lucia e una sera alcuni bravi irrompono nella casa delle due donne, che però trovano deserta: Lucia, Agnese e Renzo sono infatti a casa di don Abbondio per tentare di sposarsi con l'inganno[140], ma falliscono e devono riparare al convento di fra Cristoforo, perché intanto sono venuti a sapere del tentato rapimento. Contemporaneamente fallisce anche il rapimento di Lucia da parte dei bravi, che scappano al trambusto scoppiato nel villaggio a seguito dell'allarme dato dallo scampanio del sagrestano, che don Abbondio chiamato in suo soccorso contro il tentativo di nozze irregolari. Renzo, Lucia e Agnese giungono poi al convento di Pescarenico, dove padre Cristoforo ha già organizzato la loro fuga: Renzo si sarebbe rifugiato presso il convento dei cappuccini a Milano rivolgendosi a padre Bonaventura, mentre Lucia con Agnese avrebbe trovato aiuto dal padre guardiano del convento nei pressi di Monza.

L'"Addio ai monti"
Lo stesso argomento in dettaglio: Addio ai monti.
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L'Addio ai monti illustrato da Francesco Gonin
«Addio, monti sorgenti dall'acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l'aspetto de' suoi più familiari; […]»

Secondo quanto padre Cristoforo ha preordinato, Renzo, Lucia e Agnese scendono alle rive dell'Adda e salgono su una piccola barca. Lucia medita sull'addio ai monti, in una pagina permeata di spiritualità ed elegia[76] dove domina fin dalle prime note un movimento verticale, che va dal cielo alla terra, per risalire di nuovo al cielo e che è come un preludio all'ascensione spirituale contenuta nella chiusa.

Il pianto segreto di Lucia sulle cose più care che deve abbandonare si compone di un gesto che è tra i più belli che la poesia italiana ha saputo attribuire alle creature femminili. È la grande notte di Lucia, il suo paesaggio trepido e segreto: senza l'Addio ai monti Lucia non avrebbe mai rivelato la parte più gelosamente custodita del proprio cuore. Il notturno vigilante del lago è uno dei più belli di malinconia e serenità della poesia italiana[141].

In convento a Monza (capitoli IX-X)

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La monaca di Monza. «Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un'impressione di bellezza, ma d'una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta» (I promessi sposi, cap. IX, p. 170).

Lucia viene accompagnata dal padre guardiano al convento nei pressi di Monza retto da Gertrude, la "signora" (la cui storia è ispirata a quella di suor Marianna de Leyva), che prende la giovane sotto la sua protezione. Dopo l'incontro con Lucia, Manzoni racconta la biografia della monaca di Monza. Gertrude è figlia del principe padre, feudatario di Monza[142], di cui il narratore, seguendo l'Anonimo, tralascia il nome (Antonio de Leyva). Per conservare intatto il patrimonio del primogenito si era deciso, prima ancora che nascesse, che sarebbe entrata in convento. L'educazione della bambina è dunque continuamente orientata a convincerla che il suo destino di monaca sia il più desiderabile[143].

Divenuta adolescente Gertrude comincia a dubitare di tale scelta, ma un po' per timore, un po' per riconquistare l'affetto dei genitori, compie i vari passi previsti per diventare monaca. In convento soggiace alle attenzioni di Egidio, uno «scellerato di professione», in una relazione che avviluppa la «sventurata», colpevole non meno che vittima, in un gorgo di menzogne, intimidazioni, ricatti – proferiti e subiti – e complicità, persino nell'omicidio di una conversa, che minacciava di far scoppiare lo scandalo rivelando la tresca[N 12].

I tumulti di Milano e la fuga nella Bergamasca (capitoli XI-XVII)

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L'arresto di Renzo a Milano

A Milano, Renzo, non potendo subito ricoverarsi nel convento indicatogli da fra Cristoforo poiché padre Bonaventura quel giorno era assente, rimane coinvolto nei tumulti allora scoppiati per il rincaro del pane: il gran cancelliere spagnolo Antonio Ferrer aveva fissato un prezzo politico per la vendita del pane, che non era stato rispettato in quanto troppo basso ed era diventato la causa della carestia e dei tumulti popolari che andranno sotto il nome di tumulti di San Martino, perché avvenuti per l'appunto l'11 novembre[144]. Renzo si fa trascinare dalla folla e pronuncia un discorso in cui critica la giustizia, che sta sempre dalla parte dei potenti[145]; è tra i suoi ascoltatori un «birro» in borghese, intenzionato a trovare il modo per arrestarlo. Renzo si ferma in un'osteria dove, con uno stratagemma, il poliziotto viene a conoscenza del suo nome. Una volta andato via costui, Renzo si ubriaca e rivolge nuovi appelli alla giustizia agli altri avventori[146].

Il mattino dopo Renzo viene arrestato, ma riesce a fuggire dopo aver incitato la folla contro le poche guardie che scappano, e si ripara nella zona di Bergamo, nella Repubblica di Venezia, da suo cugino Bortolo, che lo ospita e gli procura un lavoro sotto falso nome[147]. Intanto la sua casa viene perquisita ed egli viene fatto credere che sia uno dei capi della rivolta. Nel frattempo il conte Attilio chiede a suo zio, membro del Consiglio segreto, di far allontanare fra Cristoforo, cosa che il conte zio ottiene dal padre provinciale dei cappuccini: in questo modo padre Cristoforo viene trasferito a Rimini[148].

Il rapimento di Lucia e l'Innominato (capitoli XIX-XXIV)

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L'Innominato.
«Di costui non possiam dare nè il nome, nè il cognome, nè un titolo, e nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio troviamo memoria in più d'un libro (libri stampati, dico) di quel tempo.»

Don Rodrigo chiede aiuto all'Innominato, potentissimo e sanguinario signore, che però da qualche tempo riflette sulle proprie responsabilità, sulle vessazioni di cui si è reso autore o complice per attestare la propria autorità sui signorotti e al di là della legge, e sul senso della propria vita. Con l'aiuto di Egidio e la complicità di Gertrude, l'Innominato fa rapire Lucia dal Nibbio, e la fa portare al suo castello[149]. Terrorizzata, la ragazza supplica l'Innominato di lasciarla libera e lo esorta a redimersi dicendo che «Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia»[100]. La notte che segue è per Lucia e per l'Innominato molto intensa: la prima fa un voto di castità alla Madonna perché la salvi e quindi rinuncia al suo amore per Renzo; l'altro trascorre una notte orribile e piena di rimorsi, e sta per uccidersi quando scopre, quasi per volere divino (le campane suonano a festa in tutta la vallata), che il cardinale Federigo Borromeo è in visita pastorale nel paese[150]. Spinto dall'inquietudine che lo tormenta, la mattina si presenta in canonica per parlare con il cardinale. Il colloquio giunge al culmine di una tormentata crisi di coscienza che egli maturava da tempo e sconvolge l'Innominato, che si converte impegnandosi a cambiare vita, iniziando con il liberare Lucia[151].

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Il colloquio tra il cardinale Federigo Borromeo e don Abbondio.

Tra calamità naturali ed eserciti (capitoli XXV-XXX)

Dopo aver provveduto ad ospitare Lucia presso due aristocratici milanesi, don Ferrante e donna Prassede, il cardinale rimprovera duramente don Abbondio per non aver celebrato il matrimonio[152]. I capitoli successivi alternano digressioni storiche e le vicende dei vari protagonisti[153]: da un lato la discesa in Italia dei Lanzichenecchi, mercenari tedeschi che combattono nella guerra di successione al Ducato di Mantova, i quali mettono a sacco il paese di Renzo e Lucia e diffondono il morbo della peste. Agnese, rimasta nel suo paese natio, parte insieme a Perpetua e don Abbondio e i tre si rifugiano presso l'Innominato, il quale ha aperto il suo castello ai contadini in fuga dalle soldataglie alemanne. D'altro canto, il Manzoni si sofferma nel narrare della permanenza di Lucia presso il palazzo milanese di don Ferrante e donna Prassede: il primo, simbolo della decadenza culturale barocca[154], tutto preso dai suoi studi astrusi; la seconda, invece, caratterizzata da una forte volontà e da uno spirito dominatore, è intenta a far dimenticare Lucia di Renzo, sulla base anche delle accuse che le autorità milanesi hanno lanciato contro di lui per la responsabilità nei tumulti di san Martino.

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Donna Prassede e Lucia.

La peste (capitoli XXXI-XXXVI)

Con i Lanzichenecchi la peste entra in Lombardia e infine a Milano, sottovalutata inizialmente dalle autorità, in particolar modo dal governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova, preso dall'assedio di Casale Monferrato, e dal Senato: solo il cardinale Federigo si prodigherà nell'assistenza ai malati, unica autorità rimasta in una Milano abbandonata a sé stessa[155]. Di peste si ammalano Renzo, che guarisce, e don Rodrigo, che viene invece tradito e derubato dal Griso, il capo dei suoi bravi che, contagiato anch'egli dalla peste, non riuscirà però a godere dei frutti del suo tradimento[156].

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«Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; […]» (I promessi sposi, cap. XXXIV, p. 661).

Una volta guarito, Renzo, preoccupato dagli accenni fatti da Lucia per lettera a un suo voto di castità fatto quando era dall'Innominato, torna nel suo paese a cercarla, ma trova una grande desolazione e scopre da un convalescente don Abbondio della morte di Perpetua. Non incontrando Lucia, il giovane viene indirizzato a Milano, dove apprende che è ricoverata nel Lazzaretto. Nella descrizione della città colpita dal morbo v'è una spaventevole verosimiglianza: non più la luce dell'alba cara al Manzoni, ma la spietata intensità del sole a picco. La descrizione dei carri dei monatti è pagina potente e sinistra. L'accordo dei vari temi dell'episodio si rivela però nelle note soavi della scena della madre di Cecilia, nell'umoristico contrasto tra l'angoscia dell'ambiente e il comico errore dei monatti su Renzo scambiato per untore[157].

La madre di Cecilia

Oltre a raccontare le nuove disavventure di Renzo scambiato per untore e una Milano trasformata in un grande cimitero, il capitolo XXXIV si sofferma anche sull'episodio della madre di Cecilia, una bambina ormai morta la quale è posta sul carro dei monatti dalla madre, che li implora di non toccare il piccolo corpo composto con tanto amore e chiede poi di tornare dopo «a prendere anche me, e non me sola»[158]. La donna è presentata piena di dignità umana e di amore materno che riesce a impietosire anche il "turpe monatto" che le voleva strappare la bambina. Il personaggio è descritto accostando coppie di termini in antitesi collegati da forme oppositive e negative: «una giovinezza avanzata, ma non trascorsa», «una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale», «la sua andatura era affaticata, ma non cascante»[159].

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L'incontro tra Renzo e Lucia al Lazzaretto.
Il ricongiungimento di Renzo e Lucia

Renzo giunge al Lazzaretto, dove, in mezzo al dolore e alla morte degli appestati, trova fra Cristoforo, giunto in città per soccorrere i più bisognosi. Benché afflitto dalla malattia che l'ha colpito (mortalmente, come si saprà alla fine del romanzo), il vecchio cappuccino si prodiga con tutte le sue forze per alleviare le sofferenze altrui, e inveisce contro Renzo quando quest'ultimo gli parla dei sentimenti di vendetta che nutre verso don Rodrigo, indegni in un animo che aspira ad essere cristiano[160]. Pentitosi, Renzo si riconcilia con il nobile, ormai morente, e parte alla ricerca di Lucia, senza sapere se sia viva o morta. Trovata risanata, la giovane manifesta ritrosia nel ricongiungersi al suo promesso a causa del voto pronunciato quando era prigioniera dell'Innominato, ma fra Cristoforo, saputo di tale inghippo (non valido perché non teneva conto della volontà di Renzo), la scioglie dai voti pronunciati. Il seguente arrivo della pioggia purificatrice annuncia la prossima fine della pestilenza[161].

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Il matrimonio tra Renzo e Lucia.

Conclusione (capitoli XXXVII-XXXVIII)

Lucia viene a sapere dell'arresto di suor Gertrude e sia lei che Renzo tornano al loro paese insieme ad Agnese per potersi finalmente unire in matrimonio. Don Abbondio prima tentenna ma poi, saputo della morte di don Rodrigo, acconsente a celebrare le nozze, allietate dal benvolere della mercantessa amica di Lucia e del marchese, erede dei beni di don Rodrigo. Finalmente sposati, Renzo e Lucia si trasferiscono nella Bergamasca ove Renzo acquista con il cugino una piccola azienda tessile e Lucia, aiutata dalla madre, si occupa dei figli. Hanno una prima figlia che chiamano Maria, come segno di gratitudine alla Madonna, cui ne seguono altri. Solo alla fine dell'ultimo capitolo, però, viene esplicitato il messaggio che Manzoni vuole trasmettere, quello che lui definisce «sugo di tutta la storia», «che [i guai] quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore»[162]. Il narratore si congeda con una diretta allocuzione al pubblico dei lettori, una captatio benevolentiae tipica dei congedi teatrali[N 13]. Chiedendo venia per sé e per l'anonimo autore dell'ipotetico manoscritto, Manzoni conclude la storia:

«La quale, se non v'è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l'ha scritta, e anche un pochino a chi l'ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s'è fatto apposta.»

Personaggi

Lo stesso argomento in dettaglio: Personaggi de I promessi sposi.

Analisi interiore ed evoluzione

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Costantino Corti, Monumento a Federico Borromeo (Milano, Biblioteca Ambrosiana). Anche nei personaggi storici, Manzoni ritaglia degli spazi trascurati dalla storia per inserirvi monologhi o pensieri in linea col carattere del personaggio.

Già delineati nel corso del riassunto della trama, i personaggi manzoniani sono soggetti, costantemente, ad un'acuta analisi delle proprie dinamiche interiori, quel «guazzabuglio del cuore umano»[55] tanto caro all'autore[163], e quindi al primato della coscienza individuale nell'affrontare le dinamiche psico-religiose[164] e a riemergere dalla propria condizione più o meno negativa[165]. Ciò emerge specialmente nelle figure di Renzo e dell'Innominato, ma in modo più sottile anche in personaggi che appaiono già "positivi" fin dal principio come padre Cristoforo – di cui si è stilato un excursus giovanile, dove il futuro cappuccino appariva simile in tutto ai suoi coetanei nei modi spagnoleggianti –, fino a giungere al personaggio di Lucia[166]. Questa, apparentemente, per via del suo carattere dimesso, sembra non subire un processo di maturazione nel corso dei due anni in cui si sviluppa la vicenda; in realtà, il suo far "luce" nel cuore dei personaggi che la circondano e la maturazione progressiva che spingerà Manzoni a metterle in bocca la morale della favola indicano come questo personaggio "antieroico" (rispetto alla tradizione letteraria italiana)[167] sia centrale nel concetto di bildungsroman che il Nostro aveva in mente.

Gli umili, i grandi e l'invenzione

I personaggi, in virtù del genere compositivo adottato da Manzoni, si distinguono in due tipologie: quelli inventati dall'autore, di cui la storia dei grandi non ha lasciato traccia, ovvero gli umili; e i grandi personaggi della storia – quali il cardinale Federigo, la monaca di Monza, il governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova – che sono posti a far da contorno ai protagonisti, che nell'economia del romanzo manzoniano appartengono alla prima categoria[13].

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Ritratto di Augustin Thierry, disegnato e litografato da Émile Lassalle (1840).

Alla luce delle teorie degli idéologues e di Augustin Thierry[168], che ebbe modo di frequentare durante il suo secondo soggiorno parigino del 1819-1820, Manzoni rivaluta quelle persone che, prive di lignaggio e perciò non sufficientemente importanti, hanno camminato sul palcoscenico della storia senza lasciar traccia e che sono oggetto di violenza da parte di eventi più grandi di loro. Grazie a queste convinzioni, l'autore può modellare totalmente delle nuove figure umane basandosi esclusivamente sull'invenzione, facendole vivere nel loro ambiente socio-culturale perché possano trovare una maggior carica realistica nell'espressione della loro personalità[167]. L'invenzione, o come è più comunemente chiamato vero poetico, non si limita a personaggi quali don Abbondio, don Rodrigo, Renzo e Lucia, ma anche ai personaggi storici che si inquadrano in quella ricostruzione storica su cui si basa il vero storico. Quando la storia non riporta i loro pensieri, interviene la poesia:

«[…] la poesia: sì, la poesia. Perché, alla fin fine, che cosa ci dà la storia? ci dà avvenimenti che, per così dire, sono conosciuti soltanto nel loro esterno; ci dà ciò che gli uomini hanno fatto. Ma quel che essi hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro successi e i loro scacchi; i discorsi coi quali hanno fatto prevalere, o hanno tentato di far prevalere, le loro passioni e le loro volontà su altre passioni o su altre volontà, coi quali hanno espresso la loro collera, han dato sfogo alla loro tristezza, coi quali, in una parola, hanno rivelato la loro personalità: tutto questo, o quasi, la storia lo passa sotto silenzio; e tutto questo è invece dominio della poesia.»

Il nuovo prototipo del personaggio

Manzoni, facendo di due semplici popolani i protagonisti del suo romanzo, attua anche un radicale cambiamento delle qualità dei personaggi principali: se prima nella letteratura i protagonisti e gli antagonisti dei cicli epici o dei poemi cavallereschi erano presi dal mondo eroico o perlomeno nobiliare e ricalcavano, per quanto riguarda le donne, il modello provenzale/stilnovista, ora invece con Manzoni e il romanticismo s'impone un modello di personaggio preso dal mondo degli umili, che ricalca qualità naturali e non stereotipate ed è calato nel quotidiano[170]. Infatti, gli eroi della cantafavola[N 14] sono «gente meccaniche, e di piccol affare»[62], ossia del volgo, che pratica lavori manuali, «riserva[ndo] finalmente la ribalta a quel 'volgo' senza 'nome' che già aveva bussato, urgendo, alle porte del suo teatro e della sua innografia sacra e patriottica»[173]. Per esempio, Lucia rompe definitivamente con il resto della tradizione letteraria italiana su come deve essere rappresentata la donna ideale. Nel capitolo XXXVIII, infatti, la giovane suscita la delusione dei molti che erano venuti a vederla e che si aspettavano una bellissima principessa:

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Lucia Mondella immaginata da Francesco Gonin
«Quando comparve questa Lucia, molti i quali credevan forse che dovesse avere i capelli proprio d'oro, e le gote proprio di rosa, e due occhi l'uno più bello dell'altro, e che so io? cominciarono a alzar le spalle, ad arricciare il naso, e a dire: "eh! l'è questa? Dopo tanto tempo, dopo tanti discorsi, s'aspettava qualcosa di meglio. Cos'è poi? Una contadina come tant'altre. Eh! di queste e delle meglio, ce n'è per tutto". Venendo poi a esaminarla in particolare, notavan chi un difetto, chi un altro: e ci furon fin di quelli che la trovavan brutta affatto.»

Basti pensare a come non molti anni prima Foscolo aveva rappresentato, nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, la donna amata da quest'ultimo, Teresa: «Era neglettamente vestita di bianco; il tesoro delle sue chiome biondissime diffuse su le spalle e sul petto, i suoi divini occhi nuotanti nel piacere, il suo viso sparso di un soave languore, il suo braccio di rose, il suo piede, le sue dita arpeggianti mollemente... tutto tutto era armonia: ed io mi sentiva una certa delizia nel contemplarla»[174][175].

Personaggi principali

Renzo Tramaglino
Lo stesso argomento in dettaglio: Renzo Tramaglino.
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Renzo, di ritorno dall'Azzecca-garbugli, racconta ad Agnese e Lucia che l'avvocato non l'ha aiutato.

Orfano di entrambi i genitori, è allevato da Agnese, della cui figlia Lucia si innamora. Filatore e possessore di un piccolo podere, all'inizio del romanzo viene descritto come un giovane dai modi bruschi e con un'aria da bravo. Animato da buoni propositi, si dimostra ancora ingenuo nell'affrontare le problematiche della vita, come nell'incontro con l'Azzecca-garbugli prima, e durante i moti di Milano poi. Rifugiatosi nella Bergamasca dopo un viaggio avventuroso (si ricordi la celebre notte passata nel bosco in riva all'Adda), viene aiutato dal cugino Bortolo, filandiere, a sfuggire al mandato di cattura. È a partire soprattutto dai capitoli del "romanzo cittadino" che si sviluppa il personaggio di Renzo, divenuto, all'indomani dello scoppio della pestilenza, accorto nell'affrontare eventuali imprevisti nel Ducato di Milano. Dopo aver ritrovato Lucia e averla convinta, con l'ausilio di padre Cristoforo, della non validità del suo voto, i due si sposano e vanno a vivere nella Bergamasca, dove Renzo si dà alla tessitura come piccolo imprenditore insieme al cugino, anche lui scampato alla peste.

Lucia Mondella
Lo stesso argomento in dettaglio: Lucia Mondella.
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Giuseppe Pensabene, Fra' Cristoforo, Renzo e Lucia, olio su tela, 1861 (Palermo, Galleria d'arte moderna Empedocle Restivo).

Figlia di Agnese e promessa sposa di Renzo, nel Fermo e Lucia vengono descritti in modo più dettagliato i vari approcci amorosi di don Rodrigo nei suoi confronti, che suscitano in lei ribrezzo e paura. Dopo essere fuggita dal paese natale per trovare rifugio presso la monaca di Monza, verrà poi da lei gettata – con la complicità dell'amante Egidio – nelle mani dell'Innominato. Grazie al suo candore e purezza, la giovane farà breccia nell'animo già tormentato di quest'ultimo, spingendo il potente a lasciarla libera di andare. Affidata poi dal cardinal Federigo Borromeo alla famiglia di don Ferrante e di donna Prassede, Lucia risiederà coi due nobili fino alla loro dipartita a causa della peste. Ammalatasi lei stessa del feroce morbo, la giovane verrà ritrovata da Renzo nel Lazzaretto dove però rivelerà al promesso sposo di aver fatto un voto alla Madonna qualora fosse riuscita a salvarsi dalla prigionia presso l'Innominato. Sciolta poi dal voto da parte di padre Cristoforo, Lucia si sposerà alla conclusione del romanzo con Renzo, andando a vivere con lui e la madre Agnese nella Bergamasca. Sarà lei a far "luce" a Renzo sul senso finale della loro vicenda, ricordando che lei non era andata a cercarsi i guai in cui era finito lo sposo e che l'unico significato delle sue sventure poteva trovarlo nella divina Provvidenza.

Nel corso de I promessi sposi, il personaggio di Lucia è sembrato ad alcuni lettori incolore, mentre la critica intravede dei lucidi risvolti nella personalità della protagonista all'interno dell'economia del romanzo[N 15]. Nell'affidarsi costantemente alla preghiera come risoluzione dei mali che le capitano, Lucia è presentata nella sua veste realistica di contadina lombarda, "antieroina" rispetto alla tradizione letteraria in quanto quintessenza della donna di questa condizione sociale[176].

Don Rodrigo
Lo stesso argomento in dettaglio: Don Rodrigo.
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Il Griso tradisce don Rodrigo.

Nobilotto di provincia, gestisce con tirannia il suo feudo, importunando le giovani donne e punendo chi non gli va a genio. Persecutore di Lucia – oggetto di una scommessa tra Rodrigo e il suo cugino, il conte Attilio –, nei primi capitoli del romanzo è la "macchina" che fa scattare il susseguirsi delle vicende: il mancato matrimonio tra Renzo e Lucia; lo scontro con fra Cristoforo; il tentato rapimento di Lucia ad opera dei suoi bravi capeggiati dal Griso nella notte degli inganni[177]. Infuriato per la dipartita della coppia, non appena sa che Lucia si è riparata a Monza, decide di recarsi dall'Innominato perché si occupi lui di rapire una protetta di un'esponente della potente famiglia De Leyva[178]. Anche questo tentativo fallirà a causa della conversione dell'Innominato: una frustrazione che spingerà Rodrigo a ritirarsi a Milano, vittorioso soltanto sul fronte con fra Cristoforo, esiliato a Rimini dopo l'intervento dell'influente conte zio. All'arrivo della pestilenza, Rodrigo si trova da tempo a Milano e tenta di ignorare il contagio dedicandosi a una vita mondana: verrà colpito e contagiato poco dopo l'orazione funebre del conte Attilio, morto per il morbo[156]. Tradito dal Griso, desideroso dei suoi tesori, Rodrigo viene portato al Lazzaretto in condizioni pietose, dove Renzo, guidato da fra Cristoforo, lo trova ormai semincosciente in una capanna e lo perdona[160][N 16]. Suo erede sarà un lontano parente, anonimamente definito «il signor marchese», il quale si rivelerà l'esatto opposto del defunto[180].

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«Il nostro Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d'essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro» (I promessi sposi, cap. I, p. 23).
Don Abbondio
Lo stesso argomento in dettaglio: Don Abbondio.

Curato del paese in cui vivono Renzo e Lucia, l'uomo è presentato, nella sua fragile compostezza morale, già dal primo capitolo, mostrandone poi l'evoluzione nel corso dei capitoli successivi in riferimento alla paura delle minacce di don Rodrigo qualora avesse celebrato il matrimonio dei due giovani. Divenuto sacerdote non per vocazione, ma per avere protezione[181], don Abbondio è dipinto in tinte comiche dal Manzoni, per diventare sempre più fosche (e perciò più odiose) davanti alla persistenza del curato nell'affrontare i suoi compiti di ministro della Chiesa e, più in generale, quelli come uomo. Risulta, infatti, avaro, oppressore a sua volta nell'usare la sua cultura ai danni di Renzo, per non parlare di quella che è stata definita una "danza macabra"[182][183] allorquando sa della morte di peste di don Rodrigo definendo l'epidemia una "gran scopa" voluta dalla Provvidenza. Verso la conclusione del romanzo don Abbondio, resosi certo della morte di don Rodrigo, celebrerà il matrimonio tra Renzo e Lucia.

Fra Cristoforo
Lo stesso argomento in dettaglio: Fra Cristoforo.
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«Il qual padre Cristoforo si fermò ritto sulla soglia, […]. Onde, con quel tono d'interrogazione che va incontro a una trista risposta, alzando la barba con un moto leggiero della testa all'indietro, disse: "ebbene?" Lucia rispose con uno scoppio di pianto» (I promessi sposi, cap. V, p. 83).

Fra (o padre) Cristoforo, appartenente all'ordine dei Cappuccini, in gioventù si chiamava Ludovico. Giovane focoso e puntiglioso di emulare i nobili spagnoli, un giorno entra in lite con uno di essi, causando la morte non solo del nobile spagnolo, ma anche del suo servitore, di nome Cristoforo. Ricoverato presso un convento di Cappuccini, ha qui quel moto dell'anima che lo spinge alla conversione[184], manifestando il desiderio di diventare lui stesso frate – col nome di Cristoforo – e poi di chiedere pubblicamente perdono al fratello e alla famiglia di colui che aveva assassinato. Colpiti da quest'intenzione così virtuosa, i famigliari dell'ucciso avrebbero voluto farlo rimanere a cena ma Cristoforo, desideroso di andare a soccorrere i più bisognosi[N 17], chiese solo un pezzo di pane come segno della ritrovata concordia[185]. Entrato in scena nel romanzo, Cristoforo, profondamente legato ai protagonisti, si assume la difesa di Lucia e Renzo davanti a don Rodrigo, arrivando ad intavolare una discussione alquanto tesa che comporta inevitabilmente l'allontanamento del frate dal palazzotto del nobile. Questi e il cugino di lui, il conte Attilio, per vendicarsi dello sgarbo ricevuto in casa loro, si rivolgono al conte zio, membro del Consiglio segreto, il quale a sua volta porta avanti varie maldicenze costruite ad arte davanti al padre provinciale[186]. Questi, per non inimicarsi il conte zio, anche se consapevole delle accuse infondate rivolte a padre Cristoforo, decide di trasferirlo a Rimini (a Palermo nel Fermo e Lucia[187]), località da cui tornerà a Milano per soccorrere gli appestati nel lazzaretto. Il ruolo di padre Cristoforo risulterà fondamentale per lo sciogliersi del nodo della vicenda: non solo libererà Lucia dal voto fatto alla Madonna, ma spingerà un vendicativo Renzo al perdono e alla conversione del cuore davanti a un don Rodrigo completamente devastato dalla pestilenza[188]. Il santo frate morirà poi di peste lui stesso, come si scoprirà nell'ultimo capitolo.

La monaca di Monza
Lo stesso argomento in dettaglio: Monaca di Monza.
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Mosè Bianchi, Monaca di Monza, olio su tela, 1865 (Milano, Galleria d'Arte Moderna).

Suor Gertrude, personaggio ricostruito sul modello di Marianna, figlia del principe Antonio de Leyva feudatario di Monza, è uno dei personaggi più complessi e angoscianti che Manzoni propone al pubblico dei lettori. L'analisi psicologica ed esistenziale della donna dal suo permanere in monastero fino alle scelleratezze compiute con Egidio – dettagliatissime nel Fermo e Lucia[189] – si riducono a due capitoli (il IX e il X) ne I promessi sposi. Costretta a prendere i voti contro la sua volontà, dopo essere stata violentata psicologicamente dal padre[190] desideroso di non scialacquare parte dei suoi beni in una dote matrimoniale, Gertrude viene coinvolta in una relazione amorosa con un giovane scapestrato del luogo, Egidio[191], con cui ha dei figli, dai quali è costretta a separarsi non appena li ha partoriti. La figura di Gertrude, capace di suscitare forti sentimenti di rammarico e di compassione verso la sua triste vicenda, subisce una netta svolta quando acconsente, senza parteciparvi materialmente, all'assassinio della conversa Caterina, la quale aveva scoperto la tresca tra i due e minacciava di rivelarla[N 12][192]. Da quel momento, la sventurata[N 18] continua a vivere nell'oscurità dei rimorsi e dei gravi peccati commessi, stato d'animo da cui sembra che sia risollevata grazie al candore e alla gentilezza della sua protetta Lucia, ivi mandata da padre Cristoforo per sfuggire alle grinfie di don Rodrigo. Davanti però ai ricatti morali di Egidio, incaricato per conto dell'Innominato di indurre l'amante a far uscire la sua protetta dal convento, Gertrude non può che cedere, lasciando che i bravi dell'Innominato la rapiscano[193]. La conclusione della vicenda della monaca di Monza è descritta nel capitolo XXXVII quando, scoperti i suoi delitti, Gertrude viene trasferita in un monastero a Milano per scontare i suoi peccati; qui comprende i suoi errori e incomincia a condurre una vita di penitenza irreprensibile.

L'Innominato
Lo stesso argomento in dettaglio: Innominato.
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«[…]; i suoi occhi, che dall'infanzia più non conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, si coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto, che fu come l'ultima e più chiara risposta» (I promessi sposi, cap. XXIII, pp. 431).

L'Innominato (il Conte del Sagrato nel Fermo e Lucia) è uno dei personaggi più complessi e inquietanti dell'intero romanzo. Identificato storicamente con Bernardino Visconti[N 8][195], nobile che si dedicava a guerreggiare con gli spagnoli, l'Innominato è presentato ormai sul limitare della vecchiaia, e roso interiormente dai dubbi di una vita condotta a perpetrare assassini e altre scelleratezze nei confronti dei più deboli. Incaricatosi di rapire Lucia dal monastero di Monza con un inganno, l'Innominato si lascia turbare dalla semplicità e dalla fragilità emotiva della giovane, che scatenano in lui quel turbamento interiore già iniziato prima dell'arrivo della giovane al suo castello[196]. La notte successiva all'arrivo di Lucia, conosciuta come notte dell'Innominato[197], vede l'uomo fronteggiarsi con la propria coscienza, talmente lacerata dal senso di colpa che lo spinge ad un passo dal suicidio. Soltanto l'alba e il suono delle campane, annuncianti l'arrivo del cardinale Federico Borromeo in visita pastorale presso quei luoghi, lo deviano dal mortale proposito, spingendolo anzi a recarsi al villaggio vicino per parlare con l'alto prelato. Questi, che lo accoglie con fare paternalistico (quasi a ricordare la parabola del figliol prodigo[198]), lo spinge definitivamente alla conversione: l'Innominato, cambiato radicalmente, si dedica ad una vita di opere buone e di misericordia, liberando in primis Lucia e poi ospitando, durante la discesa dei lanzichenecchi, gli abitanti della zona nella sua fortezza[199].

Fortuna del romanzo e critica letteraria

Riepilogo
Prospettiva
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Emilio Praga, uno dei più rappresentativi esponenti della Scapigliatura e avversario implacabile di Manzoni.

L'Ottocento

Già quand'era in vita, Manzoni ebbe ammiratori incondizionati e osteggiatori implacabili: ammirazione sconfinata venne da Francesco de Sanctis, Giovanni Verga, Luigi Capuana[200] e da Giovanni Pascoli, che al suo «immortale romanzo» dedicò in seguito il saggio L'eco d'una notte mitica (1896), ravvisando nella notte degli imbrogli e dei sotterfugi la trasformazione dell'ultima notte di Ilio[201]. Nel secondo gruppo, invece, rientrano gli Scapigliati, che videro in Manzoni l'espressione del perbenismo borghese da loro tanto detestato e che si rivela anche nei confronti del romanzo, pieno di buoni sentimenti e perciò tendente ad un ricercato patetismo[202]; Giosuè Carducci, estimatore dell'Adelchi, fu implacabile critico del romanzo e della scelta linguistica adottata da Manzoni[203].

Il successo del romanzo manzoniano diede inoltre il via al fenomeno del manzonismo, sia in campo linguistico (Ruggiero Bonghi, Edmondo de Amicis), sia in quello prettamente creativo, originando un «parassitismo manzoneggiante» che spinse Luigi Gualtieri a comporre L'Innominato e Antonio Balbiani romanzi come Lasco il bandito della Valsassina: sessant'anni dopo I promessi sposi, I figli di Renzo Tramaglino e di Lucia Mondella, L'ultimo della famiglia Tramaglino[204].

Il Novecento

Il primo Novecento

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Benedetto Croce inizialmente condannò il romanzo manzoniano, per poi ritornare sui suoi passi a distanza di anni.

Nel Novecento, a causa dei movimenti anticlassicisti delle avanguardie, dell'evoluzione della lingua e all'edulcoramento della figura del romanziere che veniva insegnata nelle scuole, Manzoni subì varie critiche da parte di letterati e intellettuali: tra questi, il "primo" Croce[N 19] e il marxista Gramsci, che accusò Manzoni di paternalismo. Nel campo strettamente letterario, invece, in difesa di Manzoni si schierò Carlo Emilio Gadda, che ai suoi esordi pubblicò nel 1927 l'Apologia manzoniana[205] e, decenni dopo, nel 1960 attaccò il piano di Alberto Moravia di affossarne la proposta linguistica[206]. La più importante apologia del Manzoni fu operata dal filosofo e pedagogista Giovanni Gentile, che elevò I promessi sposi al rango di «libro nazionale» al pari della Divina Commedia, giudicandolo un «libro di vita» basato sul discernimento concreto del vero, con cui Manzoni accoglieva le istanze morali e risorgimentali di Rosmini e Gioberti[207].

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Gadda fu uno dei pochi difensori dell'operato manzoniano durante l'epoca delle avanguardie.

Guido da Verona considerava Alessandro Manzoni un letterato paternalista e dannoso, pertanto tolse dal romanzo tutti gli elementi da lui considerati manieristici e futili e li sostituì con passaggi erotici e anche politici, suscitando la vivace reazione di parte del mondo della cultura e di un discendente del poeta, l'avvocato Enrico Manzoni[208]. La satira contro il fascismo, seppur mai esplicita, fu ben percepita dai lettori del tempo[209].

Il secondo Novecento

Soltanto nel Secondo Novecento, dal punto di vista della critica letteraria, grazie agli studi di Luigi Russo, Giovanni Getto, Lanfranco Caretti, Ezio Raimondi e Salvatore Silvano Nigro si è riusciti a "liberare" Manzoni dalla patina ideologica di cui era stato rivestito già all'indomani della sua morte, indagandone con occhio più libero di pregiudizi la poetica e, anche, la modernità dell'opera[210]. Comunque sia, il modello tematico e immaginifico del Manzoni si fece sentire anche in un secolo non tanto favorevole al Nostro quanto il precedente: nel 1956 Dino Buzzati scrisse – sulla base del capitolo manzoniano sulla malattia di don Rodrigo – il racconto La peste motoria[211], vivace parodia in cui la malattia aggredisce non gli uomini, ma le autovetture, e i monatti sono dipendenti degli sfasciacarrozze[212]. Ebbe inoltre fortuna il romanzo manzoniano presso Andrea Camilleri, che lo definì «il capolavoro del nostro Novecento»[213], e ricevette un omaggio da Umberto Eco[213], il quale, nel suo romanzo storico Il nome della rosa, scrive di Malachia dicendo che è «vaso di coccio tra vasi di ferro»[214], riprendendo la celebre metafora manzoniana riferita a don Abbondio.

La prima ricezione de I promessi sposi in Europa e nel mondo

Lo stesso argomento in dettaglio: Traduzioni de I promessi sposi.
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Goethe fu il principale promotore dell'opera manzoniana in seno alla cultura europea.

Il successo internazionale del romanzo manzoniano, divenuto noto soprattutto grazie al grande poeta tedesco Johann Wolfgang von Goethe[215], è testimoniato dalla contemporanea uscita di traduzioni in Europa e negli Stati Uniti d'America, e specialmente:

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Frontespizio della riedizione illustrata della traduzione francese di Jean-Baptiste de Montgrand, Les Fiancés (1877)
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Frontespizio del primo volume della traduzione inglese di Charles Swan, The Betrothed Lovers (1828)
  1. In Francia. Nella patria elettiva di Manzoni, dove lo scrittore risiedette per vari anni e strinse amicizia con gli idéologues e in particolar modo con il linguista Claude Fauriel, I promessi sposi ebbero inizialmente un'edizione pirata in italiano, pubblicata a Parigi da Louis Claude Baudry nel 1827. La prima traduzione francese, con il titolo Les Fiancés, fu eseguita da Antoine Rey-Dussueil e fu pubblicata con il permesso dell'autore sempre a Parigi da Charles Gosselin nel 1828; nello stesso anno uscì anche la versione di Pierre Joseph Gosselin per la libreria editrice Dauthereau. Il romanzo riscosse successo presso i letterati del tempo, quali Alphonse de Lamartine, François-René de Chateaubriand e Auguste Comte, meno invece presso Honoré de Balzac[216].
  2. Nel Regno Unito. La prima traduzione inglese, con il titolo The Betrothed Lovers, fu fatta dal pastore anglicano Charles Swan e pubblicata a Pisa da Niccolò Capurro nel 1828. A parte un'incomprensione, dovuta alla vena ironica di Manzoni non congeniale ai britannici[N 20], il romanzo fu accolto in Inghilterra con luci e ombre: Mary Shelley, ad esempio, l'autrice del Frankenstein, elogiò Manzoni per il suo realismo e per la sua acutezza psicologica, ma ne condannò l'ideologia cristiana e, a suo dire, bigotta di fondo[218].
  3. In Spagna. A causa del decennio nefasto (1823-1833), ultima parte del regno di Ferdinando VII determinata dalla lotta al liberalismo e alla cultura in generale, Manzoni approdò in Spagna solo nel 1823 con la rivista catalana «El Europeo». Su questa rivista il letterato italiano esule Luigi Monteggia pubblicò un lungo articolo, intitolato Il Romanticismo, in cui Manzoni figura tra i massimi esponenti del romanticismo europeo. Chiusa nel 1824 per ordine reale, l'eredità della rivista catalana fu raccolta poi da «El Vapor», aperta nel 1833[219].
  4. In Germania. Le prime traduzioni tedesche de I promessi sposi, con il titolo Die Verlobten, furono quella di Daniel Lessmann, pubblicata a Berlino nel 1827, e quella di Eduard von Bülow, edita a Lipsia nel 1828[220]. Dopo aver letto il romanzo manzoniano appena uscito, in una conversazione del 23 luglio 1827 Goethe espresse a Johann Peter Eckermann il suo famoso giudizio, secondo cui Manzoni era "un poeta nato" («ein geborener Poet»), ma la sua opera soffriva di "un eccessivo peso della storia" («ein Übergewicht der Geschichte»)[221]. In generale però l'opinione pubblica tedesca, fino agli anni '20 del XX secolo, avrebbe trovato gradevole il romanzo italiano[220].
  5. Negli Stati Uniti. In America uscirono nel 1834 due diverse traduzioni: una del geologo di origine inglese George William Featherstonhaugh, con il titolo I Promessi Sposi; or, The Betrothed Lovers, pubblicata a Washington sulla rivista The Metropolitan e anche in volume da Duff Green; l'altra di Andrews Norton, con il titolo Lucia, the Betrothed, edita a New York da George Dearborn. Il pubblico americano apprezzò il romanzo manzoniano per lo sfondo gotico e per le scene di violenza e i personaggi dalle tinte noires come la monaca di Monza e l'Innominato. Tra i principali ammiratori dell'opera vi furono lo scrittore Edgar Allan Poe e il futuro politico Charles Sumner[222].

Nella cultura di massa

Riepilogo
Prospettiva

L'influsso del romanzo nella cultura popolare, oltre che in una serie di parole ed espressioni entrate nell'uso comune[223], ha dato origine a tutta una serie di prodotti editoriali dalle cartoline alle figurine Liebig, ai fotoromanzi[224] e ai fumetti. Nel 2017, al "museo del fumetto e dell'immagine" di Milano è stata allestita una mostra intitolata Alla scoperta dei Promessi sposi e dedicata al romanzo di Alessandro Manzoni raccontato in 190 anni di illustrazioni e fumetti da Francesco Gonin a Paperino[225].

Adattamenti artistici

Opera lirica

Musical

Teatro

  • I promessi sposi, regista e interprete Massimiliano Finazzer Flory (2011)[227].
  • Una storia lombarda nel 1600. Da "I promessi sposi" di Alessandro Manzoni, adattamento teatrale e regia di Luisa Borsieri (2014)[228].
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Armando Falconi nei panni di don Abbondio nel film I promessi sposi del 1941 diretto da Mario Camerini.

Cinema

Sceneggiati televisivi

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Tullio Solenghi, Massimo Lopez e Anna Marchesini sul set de I promessi sposi, celebre parodia dell'opera manzoniana.

Parodie

Parodie a fumetti

  • I promessi paperi (1976), versione molto rivisitata in cui Paperino e i suoi amici di Paperopoli interpretano ciascuno un ruolo del romanzo manzoniano.
  • I promessi topi (1989), versione che cerca di avvicinarsi all'originale manzoniano, dove è invece Topolino a interpretare Renzo, fiancheggiato dagli abitanti di Topolinia.
  • Renzo e Lucia - I promessi sposi a fumetti di Marcello Toninelli, versione che coniuga la trama originale e lo stile irriverente del fumettista senese[225].

Luoghi manzoniani

Lo stesso argomento in dettaglio: Luoghi manzoniani.
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I resti del presunto Castello dell'Innominato tra Vercurago e Lecco.

Il profondo tocco realistico proprio de I promessi sposi, ambientato tra il Lecchese, il Milanese e la Bergamasca, ha fatto nascere presso il grande pubblico il desiderio di identificare i luoghi citati nel romanzo con alcuni castelli, palazzi o altri siti paesaggistici. Nel rione di Pescarenico a Lecco è sicura l'identificazione del convento dei cappuccini di fra Cristoforo, adiacente alla chiesa dei Santi Materno e Lucia, mentre è incerta la collocazione del paesello dei due promessi sposi (Olate o Acquate); interessante anche il tentativo di individuare il Palazzotto di don Rodrigo e il Castello dell'Innominato[230]. A Monza, la chiesa di San Maurizio che un tempo faceva parte del monastero di Santa Margherita, dove si svolsero realmente le vicende relative a suor Marianna de Leyva[231]. A Milano, infine, il forno delle grucce da cui partì il tumulto di San Martino (oggi in via Vittorio Emanuele II, nº 3-5), ma anche la parte del Lazzaretto ancora oggi esistente[232]. Oltre ai luoghi del romanzo, si associano anche i luoghi legati alla memoria dello scrittore: il Palazzo del Caleotto a Lecco[230]; la Villa di Brusuglio (Cormano); Casa Manzoni in via del Morone; e la chiesa di San Fedele dove il Nostro ebbe l'infortunio che lo condusse alla morte[232].

Note

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