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personaggio de "I promessi sposi" di Alessandro Manzoni Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Il Conte zio è un personaggio immaginario presente ne I promessi sposi, romanzo di Alessandro Manzoni.
Conte zio | |
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il Conte zio in un'illustrazione dell'"edizione quarantana" dei Promessi sposi | |
Universo | I promessi sposi |
Autore | Alessandro Manzoni |
1ª app. in | Fermo e Lucia |
Ultima app. in | I promessi sposi |
Caratteristiche immaginarie | |
Specie | umano |
Sesso | Maschio |
Etnia | italiano |
È uno zio che don Rodrigo ha in comune con il conte Attilio.
Lo incontriamo per la prima volta nel capitolo XI, ma entra nell'azione della vicenda nel capitolo XVIII, proprio a metà libro, ed è presentato con metodo ribaltato rispetto al solito: prima vi è la sua descrizione diretta da parte del narratore onnisciente, poi la verifica di tali caratteristiche "sul campo", grazie al colloquio con il padre provinciale.
Scrisse Manzoni:
«Il conte zio, togato, e uno degli anziani del consiglio, vi godeva un certo credito; ma nel farlo valere, e nel farlo rendere con gli altri, non c'era il suo compagno»
Si capisce che il conte zio era un uomo di estremo prestigio, e questo era aumentato soprattutto dopo un viaggio a Madrid, nel palazzo reale, dal Re di Spagna; il suo volere era difficilmente contrastabile ed aveva in mano un grande potere.[1] Nella storia, il conte Attilio gli chiede aiuto riguardo a Fra Cristoforo.
Il conte invita dunque il padre provinciale ad un incontro ben preparato, per far capire al religioso chi comanda (si è circondato, per l'occasione, delle più alte cariche politiche: parenti altolocati e sprezzanti, clienti ossequiosi o fidati ecc. che si comportavano con "sprezzatura signorile"). Il padre provinciale capisce e infatti, dopo mille tentennamenti, viene convinto ad allontanare da Pescarenico il Padre Cristoforo. Negli ultimi capitoli del romanzo il conte zio muore, ucciso dalla peste.
Eugenio Donadoni[2] scrive che quella del conte Zio è un'autorità "d'influenza", esercitata a fine malefico. È un anonimo, che ha la forza della sua nullità, la consapevolezza del suo niente divenuto una potenza, è ombroso del suo credito, del suo sangue, del suo nome, che son tutto per lui; la sua vanità si trasforma in ingiustizia e l'uomo ridicolo diventa cattivo. Nel colloquio con il padre provinciale appare esperto diplomatico; la sua prudenza (che è spesso viltà ed egoismo) è la sua virtù. È vacuo non men che cattivo, irriducibilmente testardo e puntiglioso. Punta alla carriera, avveduto e scaltro, ambiguo nei comportamenti ma vuoto dietro l'apparenza, "come quelle scatole [...] con su certe parole arabe: e dentro non c'è nulla."
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