A pensarci bene, sono poi questi strumenti (l'ironia e il gusto) che impediscono lo scatto verso la grandezza. Un grande artista, un grande scrittore, non ha ironia e non ha gusto; e così anche i grandi momenti della letteratura, dell'arte, sono quelli che mancano di gusto e non sono governati dall'ironia.[1]
Arrivandovi da Gela, da Caltanissetta, da Palermo, Vittoria è come un paese di frontiera: ne ha l'animazione, la mescolanza, l'ambiguità, la contraddizione. Era l'argine contro cui si spegnevano, non senza qualche impennata, le ondate mafiose. E siamo in dubbio vi si spengano ancora, forse più di una breccia in questi ultimi anni si è aperta: ma l'impressione della frontiera ancora oggi, e ogni volta, insorge. O il pregiudizio: ché non soltanto sappiamo di star valicando il confine tra la Sicilia sedicente «sperta» (esperta per greve esperienza, e da quell'esperienza – potremmo ammettere – fatta nel «particulare» circospetta e sottile; non, come s'intende invece affermare, di assoluta intelligenza e di innarrivabile saper vivere) e la Sicilia che da quella «sperta» è definita «babba» (da intendere al meglio come ingenua; ma, più propriamente e correttamente, stupida), ma anche il confine con l'antica contea di Modica, col circondario di Modica: nella Sicilia «babba», che comprende (e meglio sarebbe dire comprendeva) le province orientali di Ragusa, Siracusa, Catania e Messina, una provincia particolarmente «babba»: questa Ragusa in cui s'irraggiava l'antica Contea.[2]
Carissimo Dino [Gesualdo Bufalino], nell'estrema debolezza in cui sono caduto[3], il parlare a telefono mi dà emozione e confusione. Ti scrivo dunque: tanto per farmi vivo (?!). Curiosamente, coi miei pensieri mi pare di stare a fare la punta a una matita: sempre più sottile, sempre più acuta, ma che non serve...[4]
Ci sono, sì, i suoi quadri: nelle case, nelle gallerie pubbliche, riprodotti a milioni di esemplari, sotto gli occhi di tutti, ad arricchire e ad abbellire la vita, a riscoprirla; ma sono come le terre al sole di don Gesualdo. «Ma egli è siciliano», dice ancora Lawrence di Gesualdo, «e qui salta fuori la difficoltà». La difficoltà, per Guttuso, per noi, per ogni uomo che è nato in quest'isola, di vivere dopo aver fatto, dopo avere accumulato quadri o libri o denaro; la difficoltà a resistere, a non soccombere «sotto il gruzzolo» della ricchezza o della gloria o soltanto e semplicemente delle cose fatte, delle cose in cui abbiamo messo e mettiamo la nostra passione.[6]
Ci sono uomini che in determinate epoche arrivano alla perfezione, sciogliendosi dall'ambiente in cui vivono e dalle cose del loro tempo, assumendo coscienza della fine e salvandosene nel distacco, nella superiorità, nell'autosufficienza. E in questo senso, Piccolo partecipa di una tale perfezione, nella sua vita come nella sua poesia.[7]
[Su Luigi Pirandello] Comunque, per schematicamente abbreviare, i punti da cui partire per un più "attendibile " discorso su Pirandello, per una più libera e acuta lettura dell'opera sua, a me pare siano questi: 1) la Sicilia: non solo come "luogo delle metamorfosi" delle creature in personaggi, dei personaggi in creature, della vita nel teatro e del teatro nella vita – un luogo, insomma, in cui più evidente, concitato e violento si fa "el gran teatro del mundo"; ma il luogo, anche, di una cultura e di una tradizione da cui Pirandello decolla verso spazi vertiginosi (e qui bisogna tenere un certo conto della sua iniziale e poi alquanto persistente affinità al mondo realistico, fiabesco e anche "spiritistico" di Luigi Capuana); 2) la "religiosità": che, si capisce, non ha nulla a che fare con le religioni rivelate, con la chiesa e con le chiese, anche se molto ha a che fare con l'essenza evangelica del Cristianesimo, ma che soprattutto si riconosce in quella che tout court possiamo dire la sua religione dello scrivere, dello scrivere come vivere, dello scrivere invece di vivere ("la vita" diceva "o la si vive o la si scrive": e nella sua scelta di scriverla c'è evidentemente un religioso eroismo); 3) il suo rapporto con Montaigne, mai finora scrutato, e l'antagonistica attrattiva che certamente Pascal esercitò su di lui: e ci vorrebbe una ricerca da elaboratore elettronico – ma meglio se fatta da mente umana – per estrarre dall'opera di Pirandello i momenti diciamo pascaliani, di sentimento e sgomento cosmico particolarmente. E avendo fatto questi due nomi – Montaigne e Pascal, grandi pilastri nell'edificio della letteratura francese – ne discende in definitiva la necessità di esaminare e puntualizzare il rapporto di Pirandello con quella cultura: rapporto che finirà col rivelarsi molto più importante ed effettuale di quello, che è ormai luogo comune riconoscergli, con la cultura tedesca. Ed anche questo punto, cui ho voluto dare rilevanza a sé, in verità si appartiene al Pirandello "siciliano", poiché il rapporto con la Francia è un dato inalienabile della cultura siciliana, e di grande intensità particolarmente lo era negli anni formativi di Pirandello.[8]
Continuo ad essere convinto che la Sicilia offre la rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo italiani ma anche europei, al punto da poter costituire la metafora del mondo odierno.[9]
Cosa rispondere, se non che il siciliano è il prodotto della sua storia? È colpa sua se non ha mai davvero deciso da solo, se sono gli altri che hanno sempre agito per lui, in sua vece e luogo, romani, bizantini, piemontesi?[9]
[Su I Viceré] Dopo I Promessi sposi, il più grande romanzo che conti la letteratura italiana.[10]
[Su Piero Guccione] E dunque la parola "astrologare", "strologare", può avere il senso proprio di scrutare e studiare gli astri, di indovinarne le leggi e quello, più abusato e comune, di indovinare negli astri – come in un sogno immenso – il destino degli uomini. In questo duplice senso, così cogliendone l'essenza, possiamo dire che Piero Guccione ha "astrologato" immagini dal Gattopardo: come dalla volta notturna che don Fabrizio contempla e che una di queste immagini rende con misteriosa e ineffabile profondità. Ed è da dire che nella storia del libro illustrato, delle interpretazioni in immagini di opere letterarie, non molti esempi abbiamo di così stretta congenialità, di così immediata e sottile affinità, paragonabili a questo incontro del siciliano Guccione col romanzo del siciliano Tomasi: onirico incontro su una irredimibile realtà.[11]
[Su Luigi Pirandello] E voglio finire con un aneddoto che riguarda il Pirandello siciliano e che, nella dilagante stupidità di oggi, che tende a relegare la Sicilia in una particolare etnia (si ha il pudore di non usare la parola "razza": ma soltanto di non usarla), assume un grande significato. Nel 1932 Emilio Cecchi, che dirigeva la Cines, comunica a Pirandello l'intenzione di trarre un film dalla novella Lontano. Ma ha uno scrupolo: "nella novella come sta scritta, il marinaio norvegese si sente irresistibilmente attratto da una vita più vasta, e dai ricordi della patria, per il fatto di trovarsi legato, con il matrimonio, ad un ambiente meno che meschino; in fondo è in lui l'insofferenza dell'uomo appartenente a civiltà più energiche e libere, naufragato in un'isola abitata da gente ristretta, fra la quale egli sente mancarsi il fiato". Cecchi, scrittore che tuttora amo, era affetto da una invincibile idiosincrasia nei riguardi della Sicilia, dei siciliani: e la si può più immediatamente riscontrare nei suoi Taccuini, oltre che in questa sua lettura della novella Lontano. La novella non sta scritta come lui la leggeva; e Pirandello infatti così risponde: "Caro Cecchi, il contrasto non è tra due civiltà; ma tra due vite naturalmente diverse, quella di un uomo del Nord e quella di una donna del Sud; e il dramma che ne nasce, il dramma di restar "lontano" tra i vicini più vicini: la propria donna, il proprio figlio. Non c'è dunque da farsi scrupoli sulla natura di quelli a cui Lei mi accenna. Tutt'altro! Non era, né poteva essere nelle mie intenzioni di rappresentar barbara o di civiltà inferiore la Sicilia...". Naturalmente, il film non si fece. Ma queste parole di Pirandello restano, ci restano.[8]
Girgenti[per Luigi Pirandello] è stata la metafora del mondo.[12]
[Su Mauro De Mauro, rapito e ucciso da Cosa nostra] Ha detto la cosa giusta all'uomo sbagliato e la cosa sbagliata all'uomo giusto.[13]
Ho conosciuto benissimo Renato Guttuso: e posso dirlo non solo per i frequenti incontri, la lunga confidenza, la simpatia e l'affetto che avevo per lui, ma anche – e soprattutto – perché il nostro essere d'accordo nel giudicare persone, fatti e libri nella loro immediata verità, se appena tentavamo di risalire ai principi, diventava fondamentale e profonda discordia. (Io lo conoscevo bene, L'Espresso, 11 ottobre 1987.)
[Su Andrea Finocchiaro Aprile] Ho contraddetto e mi sono contraddetto. Ma le contraddizioni e gli errori non ci consentono di ignorare i meriti di un uomo che si è battuto per tutta la vita affinché la Sicilia tornasse ad occupare in Europa, nel Mediterraneo e nel mondo il posto che la sua storia, la posizione geografica e la operosità del suo popolo le hanno assegnato.[14]
[Su Luigi Pirandello] Ho detto, e ribadisco, dell'immediatezza con cui l'opera di Pirandello, per il luogo ed il tempo in cui mi sono trovato a nascere e a vivere, si dispiegò in tutta la sua verità e profondità e sofferenza. Pirandello è nato più di mezzo secolo prima che io nascessi: ma il modo di essere, la condizione umana, la situazione economica e sociale della provincia di Girgenti non erano allora molto diverse, e si potrebbe anche dire per nulla, di quelle che mi si rivelarono appena in grado di discernerle, di coglierle, di farmene coscienza. Pirandello ha operato per me una specie di catalizzazione, di precipitazione: la realtà mi si è fatta più reale, la verità più vera. E s'intende che questa parola – verità – altra traduzione ed esplicazione non consente, in Pirandello, che questa: la verità della "trappola", della "pena di vivere così" – o quella, più umile e grottesca, per cui Tararà, dicendo la sua, si prende una condanna a tredici anni di reclusione, invece dell'assoluzione che avrebbe avuto mentendo. Da ciò è venuta l'affermazione e investigazione che vado facendo da anni sul Pirandello "siciliano".[8]
I siciliani [...] sono stati del tutto impermeabili alle dominazioni straniere, [...] un'autentica identità sicula è riuscita a conservarsi attraverso i secoli.[9]
Il cinema si interessa della Sicilia perché la Sicilia è cinema.[15]
Il cretino di sinistra ha una spiccata tendenza verso tutto ciò che è difficile. Crede che la difficoltà sia profondità. (citato in Sergio Ricossa, Straborghese, Editoriale Nuova, Milano 1980)
Il più bell'esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere (e ne raccomandiamo agli esperti la più accurata descrizione e catalogazione) è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dare del fascista a chi fascista non è.[16]
Il più grande difetto della società italiana è quello di essere senza memoria. Francesco Lanza è morto cinquanta anni fa. Ho cercato di farlo rileggere, facendo pubblicare da Sellerio, con la prefazione di Italo Calvino, i Mimi, ma il libro è andato così così. Gli italiani ancora ignorano questo scrittore che si può considerare un piccolo classico, ed è oltretutto uno scrittore molto divertente.[17]
L'aspetto peggiore della morte non è tanto il non esserci quanto il fatto che altri daranno una interpretazione delle tue parole e della tua opera.[18]
La contraddizione definisce Palermo. Pena antica e dolore nuovo, le pietre dei falansteri impastate di sangue ma anche di sudore onesto. La Mafia che distribuisce equamente lavoro e morte, soperchierìa e protezione. (citato in Specchio n. 341, La Stampa, Torino)
[Parlando di opere di esordio come La fuga dall'Etna, accostate, in chiave narrativa e poetica, a Verga] La poetica è per entrambi quella di «semplificare le umane passioni»; ma quella di Verga prende avvio da un ritorno, quella di Guttuso da una fuga. La differenza non è trascurabile. Si potrebbe dire, con una battuta, che c'è di mezzo tutta la scala zoologica: dall'ostrica all'uomo in rivolta. E tuttavia l'ostrica di Verga, l'uomo attaccato allo scoglio della miseria e degli affetti, soffre come e quanto l'uomo in fuga, l'uomo in rivolta di Guttuso. Il sistema della sofferenza, il sistema della passione. (La semplificazione delle passioni, in Catalogo della Mostra antologica dell'opera di Renato Guttuso, Palermo, Palazzo dei Normanni, 1971)
La sicurezza del potere si fonda sull'insicurezza dei cittadini. (da Il cavaliere e la morte)
La tua preoccupazione e il tuo sgomento non vengono dallo scoprirmi in contraddizione: sono un modo e del tuo modo di vivere il comunismo, e del tuo modo di intendere l'amicizia. Tu dici "La notizia della tua candidatura nel PR mi ha fatto riflettere sulla misura e qualità della mia amicizia per te". Al contrario, il tuo essere comunista negli anni del realismo socialista, durante la polemica Vittorini-Togliatti, di fronte ai fatti d'Ungheria e di Cecoslovacchia, in questi anni di compromesso storico, non mi hanno mai fatto riflettere sull'amicizia che sentivo per te anche prima di conoscerti e che poi ha trovato conferma nel conoscerti [...] Un mio concittadino usava chiudere le discussioni con questa frase: "Siamo d'accordo, ma la pensiamo diversamente". Anche noi, caro Renato, siamo d'accordo su tante cose: ma la pensiamo diversamente. Contentiamoci dell'essere d'accordo su qualche punto. E continuiamo, finché si può, a pensarla diversamente. (dalla Lettera di Leonardo Sciascia a Renato Guttuso, pubblicata su la Repubblica, maggio 1979.)
Ma subito trovò da esaltarsi di fronte al mare di Taormina. – Che mare! E dove c'è un mare così? – Sembra vino – disse Nené. – Vino? – fece il professore perplesso. – Io non so questo bambino come veda i colori: come se ancora non li conoscesse. A voi sembra colore di vino, questo mare? – Non so: ma mi pare ci sia qualche vena rossastra – disse la ragazza. – L'ho sentito dire, o l'ho letto da qualche parte: il mare colore del vino – disse l'ingegnere. – Qualche poeta l'avrà magari scritto, ma io un mare colore del vino non l'ho mai visto – disse il professore; e a Nené spiegò – Vedi: qui sotto, vicino agli scogli, il mare è verde, più lontano è azzurro, azzurro cupo. – A me sembra vino – disse il bambino, con sicurezza. [...] «Il mare colore del vino: ma dove l'ho sentito?» si chiedeva l'ingegnere. – «Il mare non è colore del vino, ha ragione il professore. Forse nella prima aurora, o nel tramonto: ma non in quest'ora. Eppure, il bambino ha colto qualcosa di vero: forse l'effetto, come di vino, che un mare come questo produce. Non ubriaca: si impadronisce dei pensieri, suscita antica saggezza. I dialoghi di Platone dovrebbe recitarli Eduardo De Filippo: in napoletano. Ma qui siamo in Sicilia, forse non è la stessa cosa». Il treno correva lungo il più splendido mare che avesse mai visto: a momenti pareva assumere l'inclinazione dell'aereo quando decolla, il paesaggio rovesciato da un lato, a filo del volo. (da Il mare colore del vino[19])
Mi ripugna quando mi sento dire che sono un garantista. Io non sono un garantista: sono uno che crede nel diritto, che crede nella giustizia.[20]
Nessuna crisi può segnare il punto del cedimento per un uomo, per un artista, il cui elemento di vita è appunto la crisi. Guttuso è sempre in crisi: sicché nessuna crisi può coglierlo con insidia o alla sprovvista. Il suo essere pittore è una passione, una febbre – cioè, propriamente, una crisi. (La semplificazione delle passioni, in Catalogo della Mostra antologica dell'opera di Renato Guttuso, Palermo, Palazzo dei Normanni, 1971)
Non c'è nulla di più falso che il proclama di Mussolini secondo cui la Sicilia era fascista fino al midollo. La Sicilia non era per niente fascista. Naturalmente la gente si iscriveva al fascio, andava alle adunate e gridava «Duce! Duce!», ma senza crederci molto. Qui è così per ogni idea. Allo stesso modo si spiega la refrattarietà alla Chiesa cattolica. Si osservano i riti, la messa di mezzogiorno e tutte le regole, ma senza crederci intimamente. (da Fuoco all'anima, Mondadori, p. 19)
Non di solo barocco è fatta Palermo. C'è anche una città modernista che tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento scelse l'art-nouveau per realizzare i teatri, le ville e i palazzi di una borghesia che voleva sentirsi all'altezza della vecchia aristocrazia cittadina. Per sensazioni ed immagini lontane, di quando ci sono venuto per la prima volta verso il 1930, spesso riesco a estrarre dal bellissimo caos che è Palermo una città essenzialmente liberty, quasi una piccola capitale dell'art-nouveau.[21]
Oltre le cronache, le relazioni, gli studi qui citati, ho letto (o presumo di aver letto) tutto quel che c'era da leggere, relativamente all'Inquisizione di Sicilia: e posso dire di aver lavorato a questo saggio più, e con più impegno e passione, che a ogni altro mio libro. (da Morte dell'Inquisitore)
Per un artista vero – qual è per esempio Guttuso – il "realismo socialista" non esiste. Guttuso è un grande pittore più quando fa I tetti di Sicilia che quando dipinge i Funerali di Togliatti. Le etichette esistono in senso deteriore, e per la parte deteriore. (Leonardo Sciascia, intervista su Critica Sociale, gennaio 1978, p. 17)
Poiché nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende. (da La strega e il capitano, Adelphi)
[Su Antonio Veneziano (poeta)] Perché questo è il punto che fa della poesia del Veneziano un caso assolutamente unico: per circa due secoli e mezzo (fino all'edizione, peraltro scorrettissima, dell'Arceri, nel 1859) ha avuto una ristretta circolazione manoscritta ma una vastissima diffusione e tradizione nella memoria del popolo fin quasi ai nostri giorni, e anzi la tradizione manoscritta indubbiamente è stata influenzata dalla tradizione mnemonica in cui, attraverso un continuo processo di cristallizzazione, veniva a realizzarsi quella tendenza a reputare da lui ogni cosa bella già abbastanza evidente nei primi decenni del Seicento. Ma questo non è, fortunatamente, problema nostro. Noi abbiamo voluto raccontarne la vita, cosí appassionata, tribolata e drammatica che degnamente avrebbe potuto trovar posto in quelle «di avventure di fede e di passione» del Croce (il quale, notizia di non scarso rilievo, aveva pensato ad una edizione delle opere del Veneziano negli «Scrittori d'Italia» del Laterza) e che è rimasta, appunto perché cosí travagliata e tragica, nella leggenda e nella fantasia del popolo siciliano.[22]
Pubblicata, tra il 1909 e il 1928, da editori come Sandron e Treves, recensita con attenzione da Giuseppe Antonio Borgese, Maria Messina è stata finora dimenticata anche nel fervente recupero della letteratura femminile e femminista che si è avviato in Italia negli ultimi anni.[23]
[ In risposta al concetto di Otto Weininger sulla città di Siracusa] Niente di meno vero: Siracusa non solo è una città in cui si può vivere, ma da vivere: nessun'altra città al tempo stesso che come città si nega, si dissimula, si fa segreta e visionaria; da scoprire. (Opere, 1984.1989, p. 664)
In Rome, Naples, et Florence en 1817 dice di trovarsi ad Ancona il 27 maggio e a Loreto il 30. In Rome, Naples, et Florence en 1817 del 1826, alla data 29 maggio 1817, dice di trovarsi a Reggio Calabria. La verità è che dai primi di maggio alla fine di luglio di quel 1817 se ne stette a Parigi. A Reggio Calabria non andò quell'anno, né mai andrà. La sua visione, dalle finestre dell'albergo di Reggio, delle case di Messina; il suo desiderio di attraversare quel braccio di mare e di arrivare in Sicilia – l'ottica, insomma, e lo stato d'animo, sembrano provenire da una lettera, che probabilmente non gli era ignota, di Paul Louis Courier (del 15 aprile 1806, appunto da Reggio): "Noi la vediamo come dalle Tuileries voi vedete il faubourg Saint-Germain; il canale non è, in fede mia, più largo; e tuttavia abbiamo difficoltà ad attraversarlo. Lo credereste? Se soltanto mancasse il vento, noi faremmo come Agamennone: sacrificheremmo una fanciulla. Grazie a Dio, ne abbiamo in abbondanza. Ma non abbiamo una sola barca, ecco il guaio. Ci dicono che arriveranno; e fino a quando avrò questa speranza, credetemi, signora, che non volgerò lo sguardo indietro, verso i luoghi dove voi abitate, anche se tanto mi piacciono. Voglio vedere la patria di Proserpina, e sapere perché il diavolo ha preso moglie proprio in quel paese". (Stendhal e la Sicilia in Fatti diversi di storia letteraria e civile, Opere 1984.1989, p. 696, Bompiani)
Paolo Luigi Courier, vignaiuolo della Turenna e membro della Legion d'onore, sapeva dare colpi di penna che erano come colpi di spada; mi piacerebbe avere il polso di Paolo Luigi per dare qualche buon colpo di penna: una "petizione alle due Camere" per i salinari di Regalpetra per i braccianti per i vecchi senza pensione per i bambini che vanno a servizio. (Le parrocchie di Regalpetra, Opere 1956.1971, p. 10, Bompiani)
[...] ricordando una frase che è nella voce «letterati» del dizionario di Voltaire – «la più grande sventura dell'uomo di lettere forse non è quella di essere oggetto della gelosia dei colleghi, vittima dell'intrigo, disprezzato dai potenti; ma quella di essere giudicato dagli imbecilli» – possiamo aggiungere, ricordando questa frase, che Borgese ebbe, davvero in questo senso, «tutto»: tanti altri scrittori lo invidiarono, qualche intrigo fu ordito a suo danno, qualche potente lo disprezzò al punto di volerlo perdonare. Ma sopratutto ebbe quella che, secondo Voltaire, è la sventura maggiore: che molti imbecilli lo giudicarono e forse ancora, senza conoscerlo, continuano a giudicarlo. (Nota di Leonardo Sciascia a Le belle, p. 176)
Se come marxista non ignora che il mondo non deve essere soltanto contemplato, ma mutato, la sua sicilianità di fondo lo condanna a sentire, da artista, solo il lirico disordine degli oltraggi, da ciò, possiamo anticipare, il suo incontro col più lirico – anche nel senso del melodramma – degli oltraggi che siano stati consumati in Sicilia: quello che diede esca al Vespro. Il suo sentimento e giudizio del Vespro, in queste immagini, è quello stesso che trascorre nei versi di Dante, nella Storia di Amari, nell'opera di Verdi. (Il Vespro Siciliano, presentazione della mostra di Guttuso, Galleria "La Tavolozza", Palermo 1975-1976.)
Se la Spagna è, come qualcuno ha detto, più che una nazione un modo di essere, è un modo di essere anche la Sicilia; e il più vicino che si possa immaginare al modo di essere spagnolo.[24]
[Su Renato Guttuso] Sempre la sigaretta fra le dita, una appresso all'altra, consumate in poche boccate, nervosamente. Sempre quell'onda di fumo davanti al volto, come negli autoritratti, e sempre pieno d'angoscia, mi dice la persona che meglio lo conosce. Ci sono sì i suoi quadri nelle case, nelle gallerie pubbliche, riprodotti a milioni di esemplari, sotto gli occhi di tutti, ad arricchire e ad abbellire la vita, a riscoprila, ma sono come le terre al sole di Mastro don Gesualdo, un grande tumore di sofferenza. La difficoltà a resistere, a non soccombere sotto il gruzzolo delle cose fatte in cui abbiamo messo e mettiamo la nostra passione, questa è la lotta di Guttuso, la sua angoscia. E il suo tornare alla Sicilia, il legame fisico che ristabilisce con la sua terra, ha questo senso, di porsi faccia a faccia con la verità, di godere il suo tumore di sofferenza. Vedendolo in luce verghiana, come personaggio sconfitto nel momento stesso in cui vince, vincitore nel momento in cui è sconfitto, si capiscono tante cose di Guttuso, della sua pittura. In fondo su Guttuso, e in Guttuso, c'è un equivoco: quando dicono, o lui dice, "ideologia", bisogna intendere la vita, la morte.[25]
Si può sfuggire alla polizia italiana – alla polizia italiana così come è istruita, organizzata e diretta – ma non al calcolo delle probabilità. E stando alle statistiche diffuse dal ministero degli Interni, relative alle operazioni condotte dalla polizia nel periodo che va dal rapimento di Moro al ritrovamento del cadavere, le Brigate rosse appunto sono sfuggite al calcolo delle probabilità. Il che è verosimile, ma non può essere vero e reale.[26]
Scrittori e artisti, poeti e pittori, attraverso la particolarità e le particolarità della Sicilia, hanno raggiunto l'universalità. (da Come si può essere siciliani, in Id., Fatti diversi di storia letteraria e civile, Adelphi, Milano 2009, p. 20)
[Presentandosi a Danilo Dolci] Sono un maestro delle elementari che si è messo a scrivere libri. Forse perché non riuscivo ad essere un buon maestro delle elementari.[4]
La crisi dell'Italia è un nord indifferente e un sud in continua crescita, ma non sempre il sud ha le capacità di trasformare il prodotto interno lordo in termini guadagnazionali per l'economia dell'intera nazione. (da una intervista sul Corriere della sera, 16 gennaio 1970)
La lettera arrivò con la distribuzione del pomeriggio. Il postino posò prima sul banco, come al solito, il fascio versicolore delle stampe pubblicitarie; poi con precauzione, quasi ci fosse il pericolo di vederla esplodere, la lettera: busta gialla, indirizzo a stampa su un rettangolino bianco incollato alla busta. «Questa lettera non mi piace» disse il postino. (p. 9)
Citazioni
Arrovellarsi con la politica era del resto tempo perso: e chi non se ne rendeva conto o ci trovava il suo interesse o era cieco nato. (p. 12)
Lei l'ha mai sentita la barzelletta della perpetua giovane, dell'inchiesta del vescovo...? No? Gliela voglio raccontare: per una volta, sentirà una barzelletta sui preti raccontata da un prete... Dunque: al vescovo vanno a riferire che in un paese c'è un prete che non solo tiene una perpetua di età molto al di sotto, come dice Manzoni (lupus in fabula), della sinodale; ma che se la corica a lato, nello stesso letto. Il vescovo, naturalmente, corre: piomba in casa del prete, vede la perpetua, giovane e belloccia davvero, poi la camera da letto, il letto a due piazze e mezza. Contesta al prete l'accusa. Il prete non nega "È vero" dice "eccellenza che lei dorme da questo lato e io da quest'altro: ma, come vede, al muro, tra il mio lato e il suo, ci sono dei cardini; e a questi cardini io ogni sera, prima di andare a letto, attacco questa grande e robusta tavola, che è come un muro" e mostra la tavola. Il vescovo si addolcisce, è stupito da tanto candore: ricorda qualcuno di quei santi del medioevo che andavano a letto con una donna ma mettendo una croce o una spada nel mezzo; con dolcezza dice "Ma figliuolo mio, la tavola sì, non c'è dubbio, è una precauzione; ma la tentazione, se la tentazione ti assale furiosa, rabbiosa, infernale qual è? E tu che fai, quando la tentazione ti assale?". "Oh eccellenza" risponde il prete "non ci vuole poi tanto: levo la tavola". (parroco, pp. 33-34)
Ma la Sicilia, forse l'Italia intera [...] è fatta di tanti personaggi simpatici cui bisognerebbe tagliare la testa. (Laurana, p. 37)
Che un delitto si offra agli inquirenti come un quadro i cui elementi materiali e, per così dire, stilistici consentano, se sottilmente reperiti e analizzati, una sicura attribuzione, è corollario di tutti quei romanzi polizieschi cui buona parte dell'umanità si abbevera. Nella realtà le cose stanno però diversamente: e i coefficienti dell'impunità e dell'errore sono alti non perché (o non soltanto, o non sempre) è basso l'intelletto degli inquirenti, ma perché gli elementi che un delitto offre sono di solito assolutamente insufficienti. Un delitto, diciamo, commesso o organizzato da gente che ha tutta la buona volontà di contribuire a tenere alto il coefficiente di impunità. Gli elementi che portano a risolvere i delitti che si presentano con carattere di mistero o di gratuità sono la confidenza diciamo professionale, la delazione anonima, il caso. E un po', soltanto un po', l'acutezza degli inquirenti. (pp. 59-60)
Dico cattolici per modo di dire, mai conosciuto in vita mia, qui, un cattolico vero: e sto per compiere novantadue anni... C'è gente che in vita sua ha mangiato magari una mezza salma di grano maiorchino fatto ad ostie: ed è sempre pronta a mettere la mano nella tasca degli altri, a tirare un calcio alla faccia di un moribondo e un colpo a lupara alle reni di uno in buona salute... (professore Roscio, p. 69)
E sa che penso? Che la Chiesa cattolica stia registrando oggi il suo più grande trionfo: l'uomo odia finalmente la donna. Non c'era riuscita nemmeno nei secoli più grevi, più oscuri. (professore Roscio, pp. 69-70)
Proverbio, regola: il morto è morto, diamo aiuto al vivo. (professore Roscio, pp. 70-71)
Ecco come siete, voi comunisti: di una frase fate una corda, e ci impiccate un uomo... (Rosello, p. 95)
«Non esce mai di casa?». «Mai, da parecchi anni... Ad un certo punto della mia vita ho fatto dei calcoli precisi: che se io esco di casa per trovare la compagnia di una persona intelligente, di una persona onesta, mi trovo ad affrontare, in media, il rischio di incontrare dodici ladri e sette imbecilli che stanno lì, pronti a comunicarmi le loro opinioni sull'umanità, sul governo, sull'amministrazione municipale, su Moravia... Le pare che valga la pena?». (p. 100)
«Qual è l'animale che tiene il becco sottoterra?» domandò Arturo Pecorilla dalla soglia. [...] Quelli che più avevano dimestichezza col mondo animale, e cioè i cacciatori, nominarono la beccaccia, il formichiere; i più sprovveduti diedero invece nell'esotico con gru, cicogne, struzzi e condor. Il giovane Pecorilla li lasciò cuocere un poco; poi trionfalmente rivelò «La vedova». (pp. 105-106)
'Che popolo', pensò con un disprezzo venato di gelosia: e che in qualunque posto del mondo, là dove l'orlo di una gonna saliva di qualche centimetro sul ginocchio, nel raggio di trenta metri c'era sicuramente un siciliano, almeno uno, a spiare il fenomeno. (p. 118)
«Sai come si dice? Tre c sono pericolose: cugini, cognati e compari. Le tresche più gravi si verificano quasi sempre nella parentela e nel comparatico». (madre di Laurana, pp. 119-120)
«Poveri innocenti» vezzeggiò con ironia il commendatore «poveri innocenti che non sanno niente, che non capiscono niente... Tenete, mordete questo ditino, mordetelo» e accostò prima alla bocca del notaro e poi a quella di don Luigi il mignolo che usciva dal pugno chiuso, così come in tempi meno asettici dei nostri le mamme usavano fare coi bambini cui stavano per spuntare i denti. Risero tutti e tre. Poi Zerillo disse «Ho saputo una cosa, una cosa che deve restare tra me e voi: mi raccomando... Riguarda il povero Laurana...». «Era un cretino» disse don Luigi. (p. 151)
Citazioni
Il Globo, 24 luglio 1982 [...] direi che il dato più probante e preoccupante della corruzione italiana non tanto risieda nel fatto che si rubi nella cosa pubblica e nella privata, quanto nel fatto che si rubi senza l'intelligenza del fare e che persone di assoluta mediocrità si trovino al vertice di pubbliche e private imprese. In queste persone la mediocrità si accompagna ad un elemento maniacale, di follia, che nel favore della fortuna non appare se non per qualche innocuo segno, ma che alle prime difficoltà comincia a manifestarsi e a crescere fino a travolgerli. Si può dire di loro quel che D'Annunzio diceva di Marinetti: che sono dei cretini con qualche lampo di imbecillità: solo che nel contesto in cui agiscono l'imbecillità appare – e in un certo senso e fino a un certo punto è – fantasia. In una società bene ordinata non sarebbero andati molto al di là della qualifica di "impiegati d'ordine"; in una società in fermento, in trasformazione, sarebbero stati subito emarginati – non resistendo alla competizione con gli intelligenti – come poveri "cavalieri d'industria"; in una società non società arrivano ai vertici e ci stanno fin tanto che il contesto stesso che li ha prodotti non li ringoia. (pp. 24-25)
L'espresso, 20 febbraio 1983 [...] Non credendo, dunque, di far parte di una categoria, corporazione o sindacato, se qualcuno mi corre dietro chiamandomi "intellettuale" non mi volto nemmeno. (p. 56)
La Stampa, 6 agosto 1988 [...] Voglio quel che non c'è mai stato e che evidentemente non c'è; e che continuando si fa meta sempre più lontana. Il che mi fa ancora e sempre apparire come un pessimista: e pare non sia permesso esserlo neppure di fronte al pessimo. Allegria, allegria. (p. 153)
Del luogo e della notte in cui nacque Candido Munafò; e della ragione per cui si ebbe il nome di Candido.
Candido Munafò nacque in una grotta, che si apriva vasta e profonda al piede di una collina di olivi, nella notte dal 9 al 10 luglio del 1943. Niente di più facile che nascere in una grotta o in una stalla, in quell'estate e specialmente in quella notte: nella Sicilia guerreggiata dalla settima armata americana del generale Patton, dall'ottava britannica del generale Montgomery, dalla divisione tedesca Hermann Goering, da qualche sparuto, quasi sparito, reggimento italiano. E proprio quella notte, illuminato sinistramente il cielo dell'isola di bengala multicolori, arate le città di bombe, le armate di Patton e Montgomery sbarcavano.
Citazioni
Una sola complicazione: e veniva da Candido. Entrambi, marito e moglie, si tenevano in obbligo, e così li teneva la società in cui vivevano i parenti, gli amici, i preti e gli avvocati, di una terribile finzione: dovevano fingere, l'uno contro l'altra, di volerlo e di non essere lei disposta a cederlo a lui e lui a lei. Ci fosse stato un re Salomone, a decidere se al padre o alla madre Candido doveva essere affidato, forse il povero bambino sarebbe stato tagliato a metà: tanta era l'ostinazione che padre e madre mostravano nel volerlo. (1977, p. 23)
E proprio durante una di queste messe, a Candido avvenne di scoprire, un pensiero dietro l'altro, che la morte è terribile non per il non esserci più ma, al contrario, per l'esserci ancora e in balìa dei mutevoli ricordi, dei mutevoli sentimenti, dei mutevoli pensieri di coloro che restavano: così come suo padre nei ricordi, nei sentimenti e nei pensieri di Concetta. Doveva essere una fatica, per il morto, aggirarsi ancora in quello che i vivi ricordavano, sentivano e pensavano; e persino in quello che sognavano. Nella immaginazione di Candido, era come una specie di violento richiamo, un fischio cui corrispondeva una corsa, un bolso e ansante arrivare. Quella che Concetta chiamava l'altra vita, era propriamente una vita da cani. (1977, p. 34)
Dell'esortazione Candido non aveva bisogno: era deciso a continuare il suo doposcuola dall'arciprete. Ora però sapeva che la sua decisione poteva mantenerla su un potere che aveva e che fino a quel momento aveva ignorato di avere. Mai aveva pensato che un uomo potesse avere su un altro un potere che venisse dal denaro, dalle terre, dalle pecore, dai buoi. E tanto meno che un potere simile potesse averlo lui. (1977, p. 50)
"Tutto quello che vogliamo combattere fuori di noi è dentro di noi; e dentro di noi bisogna prima cercarlo e combatterlo." (1977, p. 50)
E poi, diceva il dotto teologo, non che la verità non sia bella: ma a volte fa tanto di quel danno che il tacerla non è colpa ma merito. Consegnando al teologo il foglio delle dimissioni, l'arciprete non più arciprete con tono parodiante, quasi cantando, disse: «Io sono la via; la verità e la vita; ma a volte sono il vicolo cieco, la menzogna e la morte». Il teologo se l'ebbe a male. Ma l'ex arciprete era in uno stato d'animo che quasi toccava l'allegria. (1977, p. 57)
Essere comunista era insomma, per Candido, un fatto quasi di natura: il capitalismo portava l'uomo alla dissoluzione, alla fine; l'istinto della conservazione, la volontà di sopravvivere, ecco che avevano trovato forma nel comunismo. Il comunismo era insomma qualcosa che aveva a che fare con l'amore, anche col fare all'amore: nel letto di Paola, in casa del generale. Don Antonio questo lo capiva e, generalmente e genericamente, lo approvava; ma riguardo a sé, al suo essere comunista, aveva idea diversa. «Un prete che non è più prete» diceva «o si sposa o diventa comunista. In un modo o nell'altro deve continuare a stare dalla parte della speranza: ma in un modo o nell'altro, non in tutti e due i modi». (1977, p. 76)
Noi siamo quel che facciamo. Le intenzioni, specialmente se buone, e i rimorsi, specialmente se giusti, ognuno, dentro di sé, può giocarseli come vuole, fino alla disintegrazione, alla follia. Ma un fatto è un fatto: non ha contraddizioni, non ha ambiguità, non contiene il diverso e il contrario. (1977, p. 100)
Poi, forse, il corpo di Paola aveva ceduto all'anima. All'anima immortale, all'anima sentimentale, all'anima bella: ed ecco che la gioiosa verità del corpo le si era appannata, le si era stravolta; era diventata un bene inferiore. La tentazione, la menzogna: come nel libro del Genesi. Solo che la tentazione era stata l'anima: l'immortale o la sentimentale o la bella. È l'anima che mente, non il corpo. «Il nostro corpo è il buon cane che guida il cieco». (1977, p. 100)
Tante cose si fanno per il bene degli altri che diventano il male degli altri e il proprio. (1977, p. 108)
Ché a vederle, le cose si semplificano: e noi abbiamo invece bisogno di complicarle, di farne complicate analisi, di trovarne complicate cause, ragioni, giustificazioni. Ed ecco che a vederle non ne hanno più; e a soffrirle, ancora di meno. (1977, p. 116)
Sai cos'è la nostra vita? La tua e la mia? Un sogno fatto in Sicilia. Forse stiamo ancora lì e stiamo sognando. (1977, p. 122)
Passarono davanti alle statue di Maillol: don Antonio vagheggiò di dormire accanto ad una di quelle donne di bronzo. «Di dormire» disse «di dormire castamente: il più casto sonno della mia vita». Lungamente parlò della castità, e col latino dei santi padri. Passarono il ponte Saint-Michele don Antonio, quasi predicando, cominciò: «Qui, nel 1968, nel mese di maggio...». «Erano i nostri nonni o i nostri nipoti?» lo interruppe Candido. «Domanda inquietante» disse don Antonio. E si zittì. Pensava, borbottava. Dal quai, imboccarono rue de Seine. Davanti alla statua di Voltaire don Antonio si fermò, si afferrò al palo della segnaletica, chinò la testa. Pareva si fosse messo a pregare. «Questo è il nostro padre» gridò poi «questo è il nostro vero padre». Dolcemente ma con forza Candido lo staccò dal palo, lo sorresse, lo trascinò. «Non ricominciamo coi padri» disse. Si sentiva figlio della fortuna; e felice.
Antonello, dunque: e il suo essere siciliano, come personaggio e come artista; come uomo insomma la cui vita, la cui visione della vita, il cui modo di esprimere nell'arte la vita, sono irreversibilmente condizionati dai luoghi dagli ambienti dalle persone tra cui si trova a nascere e a passare l'infanzia, l'adolescenza. (p. 35)
I ritratti di Antonello «somigliano»; sono l'idea stessa, l'archè, della somiglianza. (p. 36)
E di fronte all'Annunciata di Palermo, si noti la piega della mantellina che scende al centro della fronte: che per il pittore, al momento, avrà avuto un valore soltanto compositivo, ma a noi dice di un capo conservato nella cassapanca tra gli altri del corredo, e tirato fuori nei giorni solenni, nelle feste grandi; e si noti anche l'incongruenza, peraltro stupenda, della destra sospesa nel gesto ieratico (mentre è del tutto naturale al soggetto — diciamo alla donna contadina — il gesto della sinistra a chiudere i lembi della mantellina); e l'altra incongruenza di quel libro aperto, sul quale si ha il dubbio che mai gli occhi della giovane donna potrebbero posarsi a cogliere le parole e il senso; e poi il mistero del sorriso e dello sguardo, in cui aleggia carnale consapevolezza e nessun rapimento, nessuno stupore (se non si vuole, nel sorriso che appena affiora, scorgere magari un'ombra di malizia). (pp. 37-38)
E questa può essere la più ovvia conclusione su Antonello: che un uomo straordinariamente «oggettivo» si è trovato a vivere e ad esprimere compiutamente, impareggiabilmente, il momento più «oggettivo» che la storia della pittura abbia mai toccato. (p. 39)
Non c'è turista che viaggiando per la Sicilia – minimo che sia il suo interesse alle cose dell'arte – tra Palermo e Messina non si senta obbligato o desideroso di fermarsi a Cefalù: e dopo averne ammirato il Duomo e sostato nella piazza luminosa che lo inquadra, non imbocchi la stradetta di fronte a destra per visitare, fatti pochi passi, il Museo Mandralisca. Dove sono tante cose – libri, conchiglie e quadri – legati, per testamento del barone Enrico Mandralisca di Pirajno, al Comune di Cefalù: ma soprattutto vi è splendidamente isolato, folgorante, quel ritratto virile che, tra quelli di Antonello da Messina che conosciamo, è forse il più vigoroso e certamente il più misterioso e inquietante. (p. 40)
[...] che cosa è la fotografia se non verità momentanea, verità di un momento che contraddice altre verità di altri momenti? (p. 188)
Un libro, dunque, è come riscritto in ogni epoca in cui lo si legge e ogni volta che lo si legge. E sarebbe allora il rileggere un leggere: ma un leggere inconsapevolmente carico di tutto ciò che tra una lettura e l'altra è passato su quel libro e attraverso quel libro, nella storia umana e dentro di noi. (p. 291)
Filippo fischiò dalla strada alle tre del pomeriggio. Mi affacciai alla finestra. Gridò "arrivano". Di corsa infilai le scale, mia madre mi gridò dietro qualcosa.
Nella strada che abbagliava di sole non c'era un cane. Filippo stava mezzo nascosto nel portone della casa di fronte. Mi raccontò che in piazza stavano il podestà l'arciprete e il maresciallo, aspettavano gli americani, un contadino aveva portato la notizia che arrivavano, erano al ponte di Canalotto.
In piazza c'erano invece due tedeschi: avevano spiegata per terra una carta e uno di loro vi segnava con la matita una strada, pronunciava un nome e alzava gli occhi verso il maresciallo che diceva "sì, va bene". (dal racconto La zia d'America, Opere – 1956.1971, p. 175)
Citazioni
Il 18 aprile del 1948, nel sonno dell'alba, Calogero Schirò vide Stalin. Era un sogno dentro un sogno, Calogero stava sognando un gran mucchio di schede elettorali, ne aveva firmate un migliaio la sera prima poiché il partito l'aveva designato scrutinatore; vedeva tutte quelle schede e a un certo punto sulle schede una mano pesante che usciva dalla manica di una giubba militare di quelle all'antica. Nel sogno pensò 'ora sto sognando, questo è Stalin' e alzo gli occhi a guardare Stalin in faccia. Aveva una faccia scura, Calogero pensò 'è incazzato, c'è qualcosa che va per traverso' e subito fece un esame di coscienza per sé e per la sezione di Regalpetra, trovò piccole macule, il vice che in municipio aveva fregato un po' di zucchero Unrra e non era stato espulso, il segretario dei minatori che prendeva soldi per il disbrigo di certe pratiche: cominciò a sentirsi inquieto. Stalin parlò con marcato accento napoletano, disse "Calì, in queste elezioni abbiamo da perdere, non c'è niente da fare, i preti hanno la prima mano". (Incipit del racconto La morte di Stalin, Opere – 1956.1971, p. 225)
"D'accordo su Carini" disse Garibaldi. "Ma non capisco perché all'altro estremo mettiate questo povero barone: che ci apre, sì, il palazzo e le cantine, ed è già molto... ma non credo abbia a farsi perdonare, e che nasconda odio per noi." "Perché" disse Nievo "io credo nei siciliani che parlano poco, nei siciliani che non si agitano, nei siciliani che si rodono dentro e soffrono: i poveri che ci salutano con un gesto stanco, come da una lontananza di secoli; e il colonnello Carini sempre così silenzioso e lontano, impastato di malinconia e di noia ma ad ogni momento pronto all'azione: un uomo che pare non abbia molte speranze, eppure è il cuore stesso della speranza, la silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori... una speranza, vorrei dire, che teme se stessa, che ha paura delle parole ed ha invece vicina e famigliare la morte... Questo popolo ha bisogno di essere conosciuto ed amato in ciò che tace, nelle parole che nutre nel cuore e non dice..." "Questa è poesia" disse Sirtori. "Oh, certamente" disse Nievo. "Ma per far prosa vi dirò, e il generale vorrà perdonarmi, che non mi piace questo barone; e non mi piacciono i siciliani come Cri..." Garibaldi fece un gesto reciso "torniamo alla poesia" disse. (dal racconto Il Quarantotto, Opere – 1956.1971, p. 321)
Ma il socialismo cosa era? Certo era una buona bandiera, mio padre diceva: "giustizia, uguaglianza" ma non ci può essere uguaglianza se Dio non c'è, non si può fare il regno dell'uguaglianza davanti a un notaro, solo davanti a Dio si può fare. O davanti alla morte: se tutti ad ogni momento, nella morte ci specchiassimo. Sarebbe così ingiusto il mondo dell'uguaglianza che solo in nome di Dio, o specchiandoci nella morte, potremmo viverlo. Senza Dio si può però fare giustizia, non ho mai pensato che Dio fosse giustizia, dalla nostra speranza di giustizia è lontano. Mio padre non si contentava della giustizia, voleva l'uguaglianza: credeva che quei grandi avvocati con cappello largo e cravatta a fiocco stessero al posto di Dio, l'avvocato Ferri e l'avvocato Cigna al posto di Dio. (dal racconto L'antimonio, Opere – 1956.1971, p. 342)
Io non sarei riuscito a fare amicizia con un uomo spagnuolo come lei pieno d'odio; con una donna era cosa diversa, il suo odio diventava per me un fatto d'amore; e non perché dall'odio per gli altri le nascesse amore per me, ma proprio perché odiava mi piaceva, per quel suo fare magia dell'odio, per quel suo essere un po' strega. Il piacere dell'amore è molto complicato: ed è più grande quando c'è nella donna oscura dannazione, un centro di maligno mistero nel suo essere; dico il piacere, ché l'amore è un fatto più semplice e chiaro. (dal racconto L'antimonio, Opere – 1956.1971, p. 353)
Il benedettino passò un mazzetto di penne variopinte sul taglio del libro, dal faccione tondo soffiò come il dio dei venti delle carte nautiche a disperdere la nera polvere, lo aprì con un ribrezzo che nella circostanza apparve delicatezza, trepidazione. Per la luce che cadeva obliqua dall'alta finestra, sul foglio color sabbia i caratteri presero rilievo: un grottesco drappello di formiche nere spiaccicato, secco. Sua eccellenza Abdallah Mohamed ben Olman si chinò su quei segni, il suo occhio abitualmente languido, stracco, annoiato era diventato vivo ed acuto. Si rialzò un momento dopo, a frugarsi con la destra sotto la giamberga: tirò fuori una lente montata, oro e pietre verdi, a fingerla fiore o frutto su esile tralcio.
Citazioni
Perché questo poteva ora con più coscienza affermare, dopo aver subito per cinque volte la corda, per quarantotto ore la veglia, per sette volte il fuoco: che coloro che avevano concepito la tortura e coloro che la sostenevano erano degli stolti; gente che aveva del uomo, e della propria umanità, la nozione che ne può avere il coniglio selvatico, la lepre. Braccati dall'uomo, dalla loro stessa umanità, stoltamente ne facevano vendetta nella questione: il giurista, il giudice, il boia. "Forse il boia no, forse per il boia è che, considerato immondizia, dall'esercizio della crudeltà ottiene almeno, di umano, la coscienza di essere veramente immondo." (Opere – 1956.1971, p. 620)
Il barone Fisichella, che tra monsignor Airoldi e l'abate Vella faceva la spola, arrivò in casa dell'abate di prima mattina: a sorpresa, ché di solito compariva nel pomeriggio; e trafelato, sudato, confuso. Disse subito che aveva brutte nuove, ma ce ne volle prima che arrivasse a dire chiaro e tondo "Vi arresteranno, prima di sera vi arresteranno." L'abate restò Impassibile. "Monsignore è dispiaciuto, amareggiato... Proprio non se l'aspettava." "Io me l'aspettavo" disse l'abate. "Ma santo cristiano, e non potevate difilarvi da qualche parte, nascondervi?" "Non ho voglia di muovermi, sono stanco... E poi, chiamatemi pazzo, ma ho il desiderio di vedere dove si va a finire." "Ma questo posso dirlo io che ne sono fuori: vediamo come finisce quest'imbroglio, stiamo a vedere come se la cava l'abate Vella... Ma voi ci siete infilato così" portò la mano di taglio al disotto della bocca, ad indicare il livello d'acqua in cui l'abate stava per affogare. L'abate scrollò di noncuranza le spalle. "Non vi capisco" disse il barone "parola mia d'onore, non vi capisco." "Nemmeno io" disse l'abate. "Ma, dico: il carcere... Non vi impressiona, non vi spaventa?" "Mi mancava a provarlo." "A me manca di provare... Scusatemi, stavo per dirla grossa... Beh sì, mi manca di provare... Voi mi capite... E che, mi faccio...?" "Quello che a voi manca di provare non appartiene all'uomo: ché capisco quello che volete dire... Ma il carcere sì, il carcere è dell'uomo; direi anzi che è nell'uomo." (Opere – 1956.1971, pp. 623-624)
L'autobus stava per partire, rombava sordo con improvvisi raschi e singulti. La piazza era silenziosa nel grigio dell'alba, sfilacce di nebbia ai campanili della Matrice: solo il rombo dell'autobus e la voce del venditore di panelle, panelle calde panelle, implorante e ironica. Il bigliettaio chiuse lo sportello, l'autobus si mosse con un rumore di sfasciume. L'ultima occhiata che il bigliettaio girò sulla piazza, colse l'uomo vestito di scuro che veniva correndo; il bigliettaio disse all'autista "un momento" e aprì lo sportello mentre l'autobus ancora si muoveva. Si sentirono due colpi squarciati: l'uomo vestito di scuro, che stava per saltare sul predellino, restò per un attimo sospeso, come tirato su per i capelli da una mano invisibile; gli cadde la cartella di mano e sulla cartella lentamente si afflosciò. (Opere – 1956.1971, p. 391)
Citazioni
Nelle statistiche criminali relative alla Sicilia e nelle combinazioni del giuoco del lotto, tra corna e morti ammazzati si è istituito un più frequente rapporto. L'omicidio passionale si scopre subito: ed entra dunque nell'indice attivo della polizia; l'omicidio passionale si paga poco: ed entra perciò nell'indice attivo della mafia.
«Il popolo» sogghignò il vecchio «il popolo... Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... [...]»
Nel '35, ricordo, c'era qui un brigadiere che aveva il fiuto di un bracco, e anche la faccia aveva da cane. Succedeva un fatto: e quello si metteva sulle peste, ti prendeva come si prende una lepre appena smammata. Che fiuto aveva, figlio di...: era nato sbirro così come si nasce preti o cornuti. Non credere che uno è cornuto perché le corna gliele mettono in testa le donne, o si fa prete perché ad un certo punto gli viene la vocazione: ci si nasce. Ed uno non si fa sbirro perché ad un certo punto ha bisogno di buscare qualcosa, o perché legge un bando d'arruolamento: si fa sbirro perché sbirro era nato.
Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero alla memoria le repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti. Ma durava la collera, la sua collera di uomo del nord che investiva la Sicilia intera: questa regione che, sola in Italia, dalla dittatura fascista aveva avuto in effetti libertà, la libertà che è nella sicurezza della vita e dei beni. [...] "È questa forse la ragione per cui in Sicilia" pensava il capitano "ci sono tanti fascisti: non è che loro abbiano visto il fascismo solo come una pagliacciata e noi, dopo l'otto settembre, l'abbiamo sofferto come una tragedia, non è soltanto questo; è che nello stato in cui si trovavano una sola libertà gli bastava, e delle altre non sapevano che farsene." Ma non era ancora sereno giudizio.
E non è che avesse torto, pensava il capitano: da secoli i bargelli mordevano gli uomini come lui, magari la facevano assicurare, come diceva il vecchio, e poi mordevano. Che cosa erano stati i bargelli se non strumenti della usurpazione e dell'arbitrio?
«La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c'è più né sole né luna, c'è la verità».
«E lei, è uomo da sentire rimorso?». «Né rimorso né paura; mai».
Avrebbero dovuto darlo come precetto alla polizia, in Sicilia, pensava il capitano, bisognava non cercare la donna: perché si finiva sempre col trovarla, e a danno della giustizia.
E ciò discendeva dal fatto, pensava il capitano, che la famiglia è l'unico istituto veramente vivo nella coscienza del siciliano: ma vivo più come drammatico nodo contrattuale, giuridico, che come aggregato naturale e sentimentale. La famiglia è lo Stato del siciliano. Lo Stato, quello che per noi è lo Stato, è fuori: entità di fatto realizzata dalla forza; e impone le tasse, il servizio militare, le guerre, il carabiniere. Dentro quell'istituto che è la famiglia, il siciliano valica il confine della propria naturale e tragica solitudine e si adatta, come in una sofisticata contrattualità di rapporti, alla convivenza. Sarebbe troppo chiedergli di valicare il confine tra la famiglia e lo Stato. Magari si infiammerà dell'idea dello Stato o salirà a dirigerne il governo: ma la forma precisa e definitiva del suo diritto e del suo dovere sarà la famiglia, che consente più breve il passo verso la vittoriosa solitudine.
«Io» proseguì don Mariano «ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà... Pochissimi gli uomini; i mezz'uomini pochi, ché mi contenterei l'umanità si fermasse ai mezz'uomini... E invece no, scende ancora più in giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi... E ancora di più: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito... E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre... [...]»
"Questo è il punto su cui bisognerebbe far leva. È inutile tentare di incastrare nel penale un uomo come costui: non ci saranno mai prove sufficienti, il silenzio degli onesti e dei disonesti lo proteggerà sempre. Ed è inutile, oltre che pericoloso, vagheggiare una sospensione di diritti costituzionali. Un nuovo Mori diventerebbe subito strumento politico- elettoralistico, braccio non del regime, ma di una porzione del regime. Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell'inadempienza fiscale come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe di colpo piombare sulle banche; mettere mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi e tirarne il giusto senso. Soltanto così ad uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi. In ogni altro paese del mondo, una evasione fiscale come quella che sto constatando, sarebbe duramente punita. Qui con Mariano se ne ride, sa che non gli ci vorrà molto ad imbrogliare le carte." (Capitano Bellodi)
«La Chiesa è grande perché ognuno ci sta dentro a modo proprio» (Don Mariano)
«Belle parole: la Chiesa è tutta una bellezza» (Don Mariano)
"Forse tutta l'Italia va diventando Sicilia... A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno... La linea della palma... Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato... E sale come l'ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l'Italia, ed è già oltre Roma..." (Opere – 1956.1971, p. 479)
Rincasò verso mezzanotte, attraversando tutta la città a piedi. Parma era incantata di neve, silenziosa, deserta. 'In Sicilia le nevicate sono rare' pensò: e che forse il carattere delle civiltà era dato dalla neve o dal sole, secondo che neve o sole prevalessero. Si sentiva un po' confuso. Ma prima di arrivare a casa sapeva, lucidamente, di amare la Sicilia: e che ci sarebbe tornato.
"Mi ci romperò la testa" disse a voce alta. (Opere – 1956.1971, p. 481)
Nota
«Scusate la lunghezza di questa lettera – scriveva un francese (o una francese) del gran settecento – poiché non ho avuto tempo di farla più corta». Ora io, per quanto riguarda l'osservanza di quella che e la buona regola di far corto anche un racconto, non posso dire mi sia mancato il tempo: ho impiegato addirittura un anno, da una estate all'altra, per far più corto questo racconto; non intensamente, si capisce, ma in margine ad altri lavori e a ben altre preoccupazioni. Ma il risultato cui questo mio lavoro di cavare voleva giungere era rivolto più che a dare misura, essenzialità e ritmo, al racconto, a parare le eventuali e possibili intolleranze di coloro che dalla mia rappresentazione potessero ritenersi, più o meno direttamente, colpiti. Perché in Italia, si sa, non si può scherzare né coi santi né coi fanti: e figuriamoci se, invece che scherzare, si vuol fare sul serio. Gli Stati Uniti d'America possono avere, nella narrativa e nei films, generali imbecilli, giudici corrotti e poliziotti farabutti. Anche l'Inghilterra, la Francia (almeno fino ad oggi), la Svezia e cosí via. L'Italia non né ha mai avuti, non ne ha, non ne avrà mai. Cosi è.
Citazioni su Il giorno della civetta
È uno di quei libri che non avrei voluto fossero mai stati scritti. Ho una mia personale teoria. Non si può fare di un mafioso un protagonista, perché diventa eroe e viene nobilitato dalla scrittura. Don Mariano Arena, il capomafia del Giorno della civetta, giganteggia. Quella sua classificazione degli uomini – omini, sott'omini, ominicchi, piglia 'n culo e quaquaraquà – la condividiamo tutti. Quindi finisce con l'essere indirettamente una sorta di illustrazione positiva del mafioso e ci fa dimenticare che è il mandante di omicidi e fatti di sangue. Questi sono i pericoli che si corrono quando si scrive di mafia. La letteratura migliore per parlare di mafia sono i verbali dei poliziotti e le sentenze dei giudici. (Andrea Camilleri)
Bellodi non è, come spesso si dice in letteratura, un personaggio realmente esistito, ma è una folla di personaggi che realmente esisteranno, non è ispirato ma ispiratore, è tutti gli eroi antimafia che l'Italia ha conosciuto, come Renzo è tutti i promessi sposi, Ulisse è tutti i vagabondi, Pinocchio è tutti i bambini del mondo.
Eppure chi non ha letto Il giorno della civetta – ma chi non l'ha letto? – scoprirà di conoscere anche i dettagli, di averlo già tutto dentro la testa, di abitare in un'Italia che da questo libro è stata arredata e che senza questo libro non esisterebbe. E gli sembrerà persino di averlo già letto in molti altri libri che ha letto, e magari pure in troppi.
Libro audace e radicale, di cultura impetuosa e vibrante nella Sicilia criminale e indolente di quegli anni e dei successivi – i Sessanta e i Settanta –, Il giorno della civetta è stato il Sessantotto, quel che di Sessantotto poteva esserci in Sicilia, il sessantotto siciliano che ha cambiato il mondo.
Il procuratore Varga era impegnato nel processo Reis, che durava da circa un mese e si sarebbe trascinato almeno per altri due, quando in una dolcissima sera di maggio, dopo le dieci e non oltre la mezzanotte secondo testimonianza e necroscopia, lo ammazzarono.[28]
Citazioni
aveva dei principi, in un paese in cui quasi nessuno ne aveva.
Un qualsiasi fatto, una volta fermato nella parola scritta, ripetesse il problema che i professori ritengono s’appartenga soltanto all’arte, alla poesia.
All’ispettore, che un marito tentasse di far fuori la moglie perché «fredda» non parve una ragione seria, un movente attendibile: tutte le donne sono «fredde».
Il richiamo al buon senso irritò procuratore e giudici.
Il richiamo al buon senso, l’ironia: cose che un imputato non deve mai permettersi.
Ma la prigione vera, quella di cui gli altri tengono le chiavi, quella cui gli altri Vi costringono, è appunto la negazione della prigione cui forse ogni uomo aspira e che alcuni, inconsapevolmente o meno, realizzano nella propria vita.
Che peccato che la chiesa cattolica abbia tanta fretta di adeguarsi ai tempi: se si arroccasse, se tornasse ad essere chiusa e feroce come ai tempi di Filippo II, dell’inquisizione, della controriforma, costoro correrebbero dentro a sciami. Proibire, inquisire, punire: ecco quello che vogliono.
E colano dalle vostre barbe di protomartiri coltivata impostura finzione di una maturità che vi faccia uguali al padre e idonei dunque all’incesto. La mamma tutto qui il problema la donna che sta nel letto di vostro padre e voi annunciate il suo regno e sotto la barba avete facce di sanluigi del neo-neocapitalismo tutte le tare dei Gonzaga in quel volto affilato tutte le tare della borghesia nel vostro lui cresciuto tra i nani e i buffoni tra i gobbi e gli impotenti distillato dal malfrancese e fu santo perché mai guardò in faccia sua madre che era donna e voi la guardate in faccia e pensate che è una troia se sta nel letto di vostro padre perché siete piú santi di lui anche se non lo sapete e siete cresciuti anche voi tra buffoni nani e impotenti tra l’oro e la lue la barba dunque a rendere tenebrose le facce di magnaccia delicati di invertiti di pervertiti e Robespierre che non aveva barba ride di voi della vostra rivoluzione il suo teschio ride la sua polvere la sua estrema omeomeria che piú vale di tutta la vostra vita cioè del fatto che siete vivi e lui morto e anche Marx che aveva la barba ride ride in ogni pelo della sua barba ride dei gusci vuoti che vi ha lasciato sonagliere che tintinnano del seme essiccato del seme spento e voi ve ne parate come muli da fiera le scuotete nell’ozio nell’insoddisfazione nel disgusto (il seme vivo di Marx è in coloro che soi~rono che pensano che non hanno bandiere) ridono Robespierre e Marx ma forse anche piangono dell’uomo non piú umano che in voi si realizza del pensiero che non pensa dell’amore che non ama del perpetuo fiasco del sesso e della mente con cui annunciate il regno delle madri e that is not what I meant at all that is not it, at all non questo non questo e nemmeno noi volevamo questo noi buffoni VIZIOSI corrotti noi padri nemmeno noi poiché prostituivamo la vita ma intendevamo l’amore prostituivamo la mente ma intendevamo il pensiero la ragione il sesso l’uomo e la donna il maschio e la femmina il dolore la morte.
Detesto ogni tipo di scommessa. Non voglio correre il rischio di vincere. E ho un debole per le sconfitte, per gli sconfitti. Posso anche dirle che vado scoprendomi un certo amore alla rivoluzione: appunto perché è ormai sconfitta.
I nodi vengono sempre al pettine. Quando c’è il pettine.
E poi gli errori a volte producono effetti che, anche se diversi di quelli che si volevano conseguire, tornano di insperata utilità.
Quando una religione comincia a tener conto dell’opinione laica, è ben morta anche se non sa di esserlo.
controllò i propri istinti: senza eccessivo sforzo, bisogna dirlo a suo onore o disonore.
«Fino a tutto il 1860 io fui avvocato patrocinante in Ivrea. Con Regio Decreto 17 dicembre 1860, fui nominato sostituto avvocato dei poveri a Modena coll’annuo stipendio di lire 3000. Con Decreto 25 maggio 1862, fui nominato Sostituto Procuratore Generale del Re presso la Corte d’Appello di Palermo collo stipendio di lire 5000».
Ad un certo punto del suo intervento sull’interpellanza La Porta, Francesco Crispi aveva detto: «Penso che il mistero continuerà e che giammai conosceremo le cose come veramente sono avvenute».
Si preparava così a governare l’Italia.
Ed è curioso come giudizi sui siciliani e rappresentazioni dell'uomo siciliano conservino, a distanza di cinque o di dieci o di venti secoli, una loro validità e verità: da Cicerone ("gente acuta e sospettosa, nata per le controversie") a Scipio di Castro ("la lor natura è composta di due estremi, perché sono sommamente timidi, sommamente temerarj"), a Giovanni Maria Cecchi ("altieri, e dove non è differenza grande di titolo, non si cedono l'uno all'altro; ardenti amici e pessimi inimici, subbietti ad odiarsi, invidiosi e di lingua velenosa, di intelletto secco, atti ad apprendere con facilità varie cose; e in ciascuna loro operazione usano astuzia").
[L]'esplicito astoricismo del Lampedusa, il suo prendere e lasciare l'uomo siciliano per come sempre è stato e per come sempre sarà, nasce proprio dall'apparenza e illusione di una inalterata e inalterabile continuità del "modo di essere" siciliano.
[Il "modo di essere" siciliano] altro non può essere che apparenza, che illusione, una così indefettibile continuità, una così assoluta refrattarietà alla storia di quella parte della realtà umana che chiamiamo Sicilia, che pure è situata nel crogiuolo della storia. Ma il fatto è che questa apparenza, questa illusione, sorge dalla realtà siciliana, dal "modo di essere" siciliano: e dunque ne è parte, intrinsecamente.
Io, Villabianca
«Or essendo io, conte marchese di Villabianca e di Belforte, Francesco Maria Emmanuele, portato assaissimo dalla natura alla lezione delle istorie, e molto più di quelle della Sicilia, ove fortunatamente sortii i natali...»: e dunque venticinque volumi in folio, manoscritti, di un Diario palermitano che va dal 1743 al 1802; quarantotto volumi, parte manoscritti parte a stampa, di Opuscoli palermitani; una Storia ricercata di Sicilia ne' suoi passi oscuri e difficili; un vastissimo ragguaglio sulla città, sulla sua topografia e nei suoi monumenti; i cinque volumi della Sicilia nobile (ora in ristampa anastatica presso la libreria antiquaria Forni di Bologna). E tanti altri studi, relazioni, elogi; e una bibliografia, infine, dei propri scritti. (1982, p. 64)
La corda pazza
Pietro Pisani nacque a Palermo nel 1761. Fin da ragazzo ebbe vivissima inclinazione alla musica; e senza maestro, contro la volontà del padre che l'avviava invece agli studi di legge, assiduamente la studiò. Si addottorò all'università di Catania in diritto civile e «prese a battere le vie del foro», ma di controvoglia. A ventitre anni sposò Maria Antonia Texeira Albornoz, che ne aveva diciannove, «bella persona, di cuore ingenuo e pudico, ma spesso combattuto da insanabile gelosia, a cui certo dava egli alimento»: di lei Giovanni Meli canterà la voce, gradevole linda spirante desiderio e dolcezza. Ne ebbe otto figli, tra i quali egli predilesse il secondo, Antonino, che gli pareva realizzasse con seria e profonda applicazione quella sua sempre viva ma ormai dilettantesca passione per la musica. (1982, p. 69)
Il primo provvedimento del Pisani fu quello di far cadere le catene e di ristorare quei disgraziati con «cibi ricreativi» e «soavi liquori»: e «parea in quel punto, che la follia avesse nelle loro menti ceduto alla ragione». Poi diede mano, in base a un regolamento da lui compilato (Istruzioni per la novella Real Casa dei Matti, Palermo 1827), ad un radicale rinnovamento dell'istituzione. Già il regolamento era abbastanza avanzato rispetto a quel tempo ed il nostro (se lo si applicasse integralmente, oggi, i manicomi italiani non sarebbero così tremendi come sono). (p. 71)
Lombardia siciliana
[...] la Lombardia siciliana, i paesi lombardi della Sicilia... Città belle sono Aidone, Piazza Armerina, Nicosia: e sono quelle in cui è avvenuto un coagulo di gruppi etnici lombardi. Ma sono belle anche Enna, Caltagirone, Scicli: Enna col suo castello di Lombardia, Caltagirone che segna il suo municipio con lo stemma di Genova; Scicli che venera san Guglielmo, città, insomma, alla cui storia diedero apporto uomini del nord. (1970, p. 168)
E sarà magari una suggestione che viene in parte dal dialetto (irto di consonanti e con due, tre o addirittura quattro vocali di seguito, e ciascuna con un suono distinto): ma i poeti di San Fratello o di Nicosia più fanno pensare al Porta che al Meli. (1970, p. 170)
Un canto come quello che un poeta di San Fratello scrisse in morte di un mafioso, è impossibile trovarlo nella poesia siciliana. Bisogna arrivare a Ignazio Buttitta, cioè a un poeta dei giorni nostri, per trovare tanto coraggio civile. Il poeta di San Fratello ne aveva già nel secolo scorso: e non si creda che attaccare un mafioso morto comportasse meno rischio che attaccarlo da vivo. (1970, p. 170)
Feste religiose in Sicilia
Le interpretazioni che si danno di questa tradizione, da parte di studiosi del folklore, sono, per così dire, interne: riconoscono cioè un ruolo non del tutto eterodosso ai "giudei" di San Fratello rispetto alla liturgia cattolica. I Giudei sono gli uccisori di Cristo: perciò, nella rappresentazione della passione di Cristo, nelle ore in cui Cristo viene condannato e crocifisso, essi demoniacamente si scatenano, fanno carnevale. E ritengono, gli studiosi, che in definitiva si tratti appunto di un confluire del carnevale nella Pasqua cristiana. Ma si dovrebbe anche tener conto del fatto che a travestirsi da "giudei" sono i contadini, e i pastori, e che per l'occasione, sotto quel travestimento, in passato più che attualmente, venivano a godere di certi privilegi, di certe libertà. La parte più conculcata, più oppressa, più misera della popolazione di San Fratello, mettendosi per quel giorno nel ruolo di un popolo non meno oppresso e perseguitato, si levava a beffeggiare, a insultare, a colpire; e ad irridere al sacrificio della croce. (1991, p. 225)
Sicilia e sicilitudine
Sotto il titolo di Avvertimenti a Marco Antonio Colonna quando andò viceré in Sicilia vanno certune acutissime considerazioni sulla storia di Sicilia e sul carattere dei siciliani di Scipio Di Castro, messinese, poeta e scrittore di cose politiche che tra la Sicilia e il continente trascinò vita avventurata, tribolata e torbida nella seconda metà del secolo XVI. (Opere – 1956.1971, 2004, p. 961)
I siciliani – dice il Di Castro – generalmente sono più astuti che prudenti, più acuti che sinceri, amano le novità, sono litigiosi, adulatori e per natura invidiosi; sottili critici delle azioni dei governanti, ritengono sia facile realizzare tutto quello che loro dicono farebbero se fossero al posto dei governanti. D'altra parte, sono obbedienti alla Giustizia, fedeli al Re e sempre pronti ad aiutarlo, affezionati ai forestieri e pieni di riguardi nello stabilirsi delle amicizie. La loro natura è fatta di due estremi: sono sommamente timidi e sommamente temerari. Timidi quando trattano i loro affari, poiché sono molto attaccati ai propri interessi e per portarli a buon fine si trasformano come tanti Protei, si sottomettono a chiunque può agevolarli e diventano a tal punto servili che sembrano nati per servire. Ma sono di incredibile temerarietà quando maneggiano la cosa pubblica e allora agiscono in tutt'altro modo... E prima aveva avvertito: la Sicilia è stata fatale a tutti i suoi governanti; e la maggior parte di essi ha lasciato sepolta in quel Regno la reputazione in modo tale che nemmeno nella posterità ha potuto mai più risorgere. (Opere – 1956.1971, 2004, pp. 961-962)
[...] di Salvatore Quasimodo nella cui poesia il tema dell'esilio (l'esilio che generazioni di siciliani, per sfuggire alla povertà dell'isola, hanno sofferto e soffrono) si lega amaro e dolente, ma splendido nella memoria dei luoghi perduti, a quello del poeta arabo Ibn Hamdis, siciliano di Noto. E questa può anche essere una chiave per capire la Sicilia: che alla distanza di più di otto secoli un poeta di lingua araba e un poeta di lingua italiana hanno cantato la loro pena d'esilio con gli stessi accenti: "vuote le mani, – dice Ibn Hamdis, – ma pieni gli occhi del ricordo di lei". (Opere – 1956.1971, 2004, p. 967)
La scienza, come la poesia, si sa che sta ad un passo dalla follia [...]. (cap. I, p. 4)
Il cittadino che nulla ha mai fatto contro le leggi né da altri ha subito dei torti per cui invocarle; il cittadino che vive come se la polizia soltanto esistesse per degli atti amministrativi come il rilascio del passaporto o del portodarme (per la caccia), se i casi della vita improvvisamente lo portano ad avervi a che fare, ad averne bisogno per quel che istituzionalmente è, un senso di sgomento lo prende, di impazienza, di furore in cui la convinzione si radica che la sicurezza pubblica, per quel tanto che se ne gode, più poggia sulla poca e sporadica tendenza a delinquere degli uomini che sull'impegno, l'efficienza e l'acume di essa polizia. Convinzione che ha una sua parte di oggettività: più o meno secondo i tempi, più o meno secondo i paesi. (cap. II, p. 10)
Se i morti sono, dice Pirandello, «i pensionati della memoria», gli scomparsi ne sono gli stipendiati: di un più ingente e lungo tributo di memoria. (cap. X, p. 67)
Alberto Savinio: il più grande scrittore italiano tra le due guerre [...]. (cap. XI, p. 75, nota 1)
È ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia un cretino. [...] e dunque una certa malinconia, un certo rimpianto, tutte le volte ci assalgono che ci imbattiamo in cretini adulterati, sofisticati. Oh i bei cretini di una volta! Genuini, integrali. Come il pane di casa. Come l'olio e il vino dei contadini.
Ho sempre amato questo scrittore [Vitaliano Brancati] e gli debbo molto. Certe sue pagine posso dire di averle addirittura vissute.
La nostra giornata è fatta, come tutta la vita, di misteriose rispondenze, di sottili collegamenti.
Quando c'è in giro tanta pietà per gli animali, pochissima ne resta per l'uomo.
Si è così profondi, ormai, che non si vede più niente. A forza di andare in profondità, si è sprofondati. Soltanto l'intelligenza, l'intelligenza che è anche «leggerezza», che sa essere «leggera», può sperare di risalire alla superficialità, alla banalità.
Tutti i nodi vengono al pettine. Quando c'è il pettine.
Un orologio che va male non segna mai l'ora giusta; un orologio fermo la dà esatta due volte al giorno.
Un'idea morta produce più fanatismo di un'idea viva; anzi soltanto quella morta ne produce. Poiché gli stupidi, come i corvi, sentono solo le cose morte.
«La mia terra è sui fiumi stretta al mare», dice Quasimodo. Parla della Sicilia, ma la sua memoria più vivida ne è il mare di Siracusa, la foce dell'Imera, i «pianori d'Acquaviva dove il Platani rotola conchiglie». Ma la mia terra, la mia Sicilia, non ha fiumi; e dal mare è lontana come se fosse al centro di un continente. (pag. 11)
Citazioni
Sei anni fa, in campagna, guardando il sole che tramontava dietro nuvole che sembravano tratti di penna – un po' spento, un po' strabico, come ingabbiato – qualcuno disse: «Occhio di capra: domani piove». Non lo sentivo dire da molti anni. Annotai l'espressione su un foglietto; e così ogni volta – da allora – che ne sentivo o ne ritrovavo nella memoria altre di uguale originalità e lontananza. Foglietto su foglietto, le «voci» hanno fatto libro: esile quanto è (e quanto si vuole), ma per me «importante». Da un certo punto di vista lo si può considerare, come ora di dice in accademia, un lavoro «scientifico»: per me lo è, ma di quella «scienza certa» che è l'amore al luogo in cui si è nati, alle persone, alle cose, alle parole di cui la nostra vita, nell'infanzia e nell'adolescenza si è intrisa. (dal risvolto di copertina)
addimuru. Dal verbo «addimurari», ritardare, questa parola d'intesa tra adulti, a inganno dei bambini. Una madre tediata dai bambini mentre sbriga le faccende di casa, a liberarsene li manda da una parente o da una vicina a chiedere «tanticchia d'addimuru», un poco: quasi fosse un ingrediente da cucina. La parente o la vicina capisce che deve trattenerli, e inventare qualcosa che li trattenga. A meno che non abbia per sua parte da fare: e li rimanda alla madre dicendo che di «addimuru» è sprovvista. (pag. 23)
buonu facisti ca ti nni isti. Bene hai fatto ad andartene. Frase di approvazione e congratulazione verso chi ha lasciato un impegno, un incarico, un posto di lavoro. Si è sempre e da tutti approvati (tranne, a volte, dai parenti più stretti) quando si esce dal fare (dal peccato del fare diceva il principe di Lampedusa). Ma la si pronuncia, oggi, accentuando ironicamente la rima tra «facisti» e «isti»: segno forse di un mutato sentimento riguardo al fare. (pag. 39)
cca sutta 'un ci chiovi Qui sotto non ci piove, Frase cui si accompagna il gesto dell'indice della mano destra dritto sotto il palmo della mano sinistra: a figurare un uomo sotto una tettoia, sotto un ombrello – fisicamente; se stessi al riparo da ogni detrazione e maldicenza – moralmente. Espressione verbale e mimica, insomma, che vuol dire di una vita intemerata, incorrotta e incorruttibile anche nello sfiorare o nello star dentro a fenomeni di corruzione. Equivale all'omnia munda mundis di San Paolo. (pag. 49)
«Lei sa come la penso» disse il procuratore generale. Perfetto cominciare: di chi non si sa come la pensa, e se la pensa, e se pensa. Il piccolo giudice lo guardò con soave, indugiante, indulgente sonnolenza. E il procuratore se lo sentì sulla faccia, quello sguardo, come una volta, bambino, la mano di un suo parente vecchio e cieco che voleva – disse – vedere a chi dei più anziani della famiglia somigliasse. Di quel parente mai prima incontrato, per quella mano che gli scorreva sulla faccia come a modellargliela, aveva sentito un che di repugnanza, di ribrezzo. Ora, da quello sguardo, fastidio e inquietudine. A chi voleva assomigliarlo, il piccolo giudice? E si pentì di quella frase che voleva aprire un discorso confidente, quasi amichevole. Ma non trovò di meglio che rivoltarla. Disse: «So come lei la pensa». Ma ancora quello sguardo, ad accrescergli fastidio e inquietudine. Saltò tutta la premessa che si era accuratamente preparata e come annaspando disse: «Bisogna riconoscere che non ci hanno mai chiesto nulla; e nemmeno per questo caso, sia ben chiaro, si sono fatti avanti a chiedere qualcosa».
Citazioni
Di pensiero in pensiero, si trovò avventatamente a dire: «Una cosa cui allora si badò poco: era libero docente di diritto penale all'università di Bologna». «Chi?» domandò il procuratore. «Matteotti» disse il giudice: ma dallo sguardo guardingo, e con un che di compassionevole, del procuratore, capì di avergli suscitato, oltre che diffidenza, un sospetto di disordine mentale, di sconnessione. L'argomento era spinoso, spinosissimo; e che c'entrava quel particolare della libera docenza? Ma da quel particolare era rampollata nella mente del giudice una constatazione: che Matteotti era stato considerato, tra gli oppositori del fascismo, il più implacabile non perché parlava in nome del socialismo, che in quel momento era una porta aperta da cui scioltamente si entrava ed usciva, ma perché parlava in nome del diritto. Del diritto penale.
«Ma torniamo al punto... Qui, lei sa, corre l'opinione che da quando c'è il fascismo si dorme con le porte aperte...». «Io chiudo sempre la mia» disse il giudice. «Anch'io: ma dobbiamo riconoscere che le condizioni della sicurezza pubblica, da quindici anni a questa parte, sono notevolmente migliorate. Anche in Sicilia, malgrado tutto. Ora, quali che siano le nostre opinioni sulla pena di morte, dobbiamo ammettere che il ripristino serve a ribadire nella testa della gente l'idea di uno Stato che si preoccupa al massimo della sicurezza dei cittadini; l'idea che davvero, ormai, si dorma con le porte aperte». «Lo ammetto senz'altro» disse il giudice. «E dunque siamo d'accordo» disse il procuratore: con la fretta di chi teme di scoprire che non si è per nulla d'accordo. Si alzò, si alzò anche il giudice, si strinsero la mano. «Posso pregarla» disse il giudice «di prestarmi questa rivista? Vorrei rileggere l'articolo di sua eccellenza Rocco». Il procuratore gliela diede, l'accompagnò alla porta, l'aprì: l'usciere stava lì davanti, la faccia con una posticcia espressione di ossequio rendeva ancor più sgradevole quella vera: avida, da furetto. Procuratore e giudice, a guardarlo, si ricordarono di avere doppiamente infranto il foglio d'ordini del partito fascista si erano dati del lei e si erano salutati con la stretta di mano. Si scambiarono convenevoli dandosi del voi e si risalutarono romanamente.
Ecco (era arrivato a casa, si era messo in pantofole, aveva aperto il balcone, accesa la luce sulla scrivania: e aveva cominciato a rileggere l'articolo sul ripristino della pena di morte in Italia), ecco questo povero Rocco – e davvero ne aveva un senso di commiserazione, quasi di pietà – che apre con un lungo elenco dei grandi nomi della «scienza» italiana e straniera che hanno ammesso, o addirittura invocato, la pena di morte. Scienza, la scienza. Questo povero Rocco: ordinario di diritto e procedura penale nella regia università di Roma, ministro della giustizia (e grazia), sua eccellenza Rocco. Titoli che andavano benissimo, a paludamento del lacchè: ma quello di avvocato, che amava far precedere al suo nome, questo titolo no, il giudice non riusciva a concederglielo. Sua eccellenza Rocco: il procuratore non lo dimenticava mai. Un brav'uomo, il procuratore: ma di brav'uomini è la base di ogni piramide d'iniquità.
Il procuratore si passò il fazzoletto sulla fronte, quasi gli avvenisse di sudare, in quella stanza
gelida.
«Ma l'agonia» continuò il giudice «è uno stato, propriamente, nel giusto senso della parola, in cui la vita ha più parte che la morte; e posso anche ammettere, dunque, che la sentenza gliel'abbia prolungata. Ma ecco: o questa nostra vita è soltanto caso e assurdità e vale soltanto in sé, nelle illusioni in cui la si vive, al di qua di ogni altra illusione, e dunque il viverla ancora per qualche anno, per qualche mese o addirittura per qualche giorno, appare come un dono: così come ai malati di cancro o di tubercolosi, assurdamente nell'assurdo; o è invece parte, questa nostra vita, di un disegno imperscrutabile: e allora varrà, quest'agonia, a consegnare quest'uomo a un qualche aldilà con più pensieri, con più pensiero, magari con più follia, se non vogliamo dire con più religione».
«Ma questo, il più pensiero, il più religione, come lei dice, penso che gli accadrà, con una intensità senza dubbio più dolorosa ma al tempo stesso, come dire?, più liberatoria, in quelle due o tre ore in cui sa che sta per andare a morire».
«Eh no, la morte non è più un pensiero, in quel momento; nulla anzi, in quel momento, che possa dirsi pensiero. Lei provi, per quanto può, e sarà sempre a un grado lontanissimo, ad immedesimarvisi».
«Ma non le pare di star trovando alibi per sé, per la vanità, diciamolo pure, della sua protesta
dentro un contesto che non la permette se non caricando di maggiore sofferenza l'essere umano su cui lei ha concentrato la difesa di un principio e che, insomma, nella difesa del principio lei non ha fatto conto della sofferenza di quell'uomo?».
«È vero che in me la difesa del principio ha contato più della vita di quell'uomo. Ma è un problema, non un alibi. Io ho salvato la mia anima, i giurati hanno salvato la loro: il che può anche apparire molto comodo. Ma pensi se avvenisse, in concatenazione, che ogni giudice badasse a salvare la propria...».
«Non accadrà: e lei lo sa quanto me».
«Sì, lo so: e questa è la controparte di spavento, di paura, che io sento non soltanto riguardo
a questo processo... Ma mi conforta questa fantasia: che se tutto questo, il mondo, la vita, noi
stessi, altro non è, come è stato detto, che il sogno di qualcuno, questo dettaglio infinitesimo
del suo sogno, questo caso di cui stiamo a discutere, l'agonia del condannato, la mia, la sua, può
anche servire ad avvertirlo che sta sognando male, che si volti su altro fianco, che cerchi di
aver sogni migliori. E che almeno faccia sogni senza la pena di morte».
«Una fantasia» disse stancamente il procuratore. E poi stancamente constatò: «Ma lei continua ad essere spaventato, ad aver paura».
«Sì».
«Anch'io. Di tutto».
[Leonardo Sciascia, Porte Aperte, Adelphi, Milano 1987. ISBN 8845902625]
«A somiglianza di una celebre definizione che fa dell'universo kantiano una catena di causalità sospesa a un atto di libertà, si potrebbe» dice il maggior critico italiano dei nostri anni «riassumere l'universo pirandelliano come un diuturno servaggio in un mondo senza musica, sospeso ad una infinita possibilità musicale: all'intatta e appagata musica dell'uomo solo». (p. 11)
Citazioni
L'eremo è luogo di solitudine; e non di quella solitudine oggettiva, di natura, che meglio si scopre e più si apprezza quando si è in compagnia: un bel posto solitario, come si suol dire; ma di quella solitudine che ne ha specchiato altra umana e si è intrisa di sentimento, di meditazione, magari di follia. (p. 13)
[...] guardo troppo spesso la televisione, perché possa dirmi completamente immune della lebbra dell'imbecillità... Troppo spesso: e finirò, se già non ci sono finito, col contagiarmene... Perché, me ne confesso, la contemplazione dell'imbecillità è il mio vizio, il mio peccato... Proprio: la contemplazione... Giulio Cesare Vanini, che è stato bruciato come eretico, riconosceva la grandezza di Dio contemplando una zolla; altri contemplando il firmamento. Io la riconosco dall'imbecille. Non c'è niente di più profondo, di più abissale, di più vertiginoso, di più inattingibile... Solo che non bisogna contemplare troppo... (pp. 20-21)
Il pranzo della seconda sera fu davvero migliore, anche se relativamente. Il cuoco e i suoi aiutanti erano arrivati nel tardo pomeriggio: e soltanto avevano potuto correggere, rimediare. Ma il miglioramento bastò a sollevarci in un certo buonumore, come constatò don Gaetano: e passò così a deprecare quegli stupidi che mostrano di non curarsi di quello che mangiano o sono tanto naturalmente rozzi o ineducati da non curarsene davvero. Parlò della cucina francese: la sola, e meritatamente, che annoverasse un eroe come Vatel, da paragonare a Catone l'uticense; ché se questo si era ucciso per la libertà che se ne andava, quello per il pesce che non arrivava. E l'atto, davanti a Dio, aveva lo stesso valore, mosso com'era dalla stessa passione: il rispetto di sé. (p. 23)
E mi venne voglia di dipingere. Ma subito me ne distolsi nel timore di squilibrare, di guastare; e cioè di non rendere. Vale a dire che era una voglia del tutto banale e, in un certo senso, accademica; da luogo comune, insomma. Di chi, non sapendo dipingere, o sapendo dipingere senza essere davvero pittore, di fronte a uno spettacolo della natura, a un paesaggio, a una certa disposizione di cose nello spazio e nella luce, dice «sarebbe da dipingere» che è, appunto, il più banale e accademico elogio della natura nel tempo stesso che si svaluta e degrada la pittura; la quale, almeno per me, si volge a tutto quel che non sarebbe da dipingere. (p. 25)
Ma sempre c'era, in tutto quello che don Gaetano diceva o faceva, come una vibrazione o sfumatura d'irrisione: che, evidentemente, nessuno di quel gregge che intorno gli si raccoglieva era in grado di avvertire. E io l'avvertivo e me ne incantavo: perché mi parevano, quella distillata irrisione, quel sottile disprezzo, esercitati in una specie di consorteria, di solidarietà, che si era stabilita tra lui e me; e che la sua immagine fosse, più vecchia e saggia e consumata, la mia cui aspiravo. (p. 30)
«I papi» disse don Gaetano «sono sempre in buona salute. Si può dire, anzi, che non solo muoiono in buona salute, ma di buona salute. Parlo, si capisce, di salute mentale [...] Altri mali, altri acciacchi, non contano». (p. 40)
[Riferito alla Chiesa cattolica] Una forza senza forza, un potere senza potere, una realtà senza realtà. Quelle che in ogni altra cosa mondana non sarebbero che apparenze, a nascondere o a mistificare, nella Chiesa e in coloro che la rappresentano sono le interpretazioni o manifestazioni visibili dell'invisibile. E cioè tutto... (p. 40)
E del resto credo che il laicismo, quello che per cui vi dite laici, non sia che il rovescio di un eccesso di rispetto per la Chiesa, per noi preti. Applicate alla Chiesa, a noi, una specie di aspirazione perfezionistica: ma standone comodamente fuori. Noi non possiamo rispondervi che invitandovi a venir dentro e a provare, con noi, ad essere imperfetti... (p. 44)
È una cosa talmente semplice, il fare all'amore... Che è poi l'amore: non ce n'è altro, tra un uomo e una donna... È come aver sete e bere. Non c'è niente di più semplice che aver sete e bere; essere soddisfatti nel bere e nell'aver bevuto; non avere più sete. Semplicissimo. (p. 45)
È la castità che mi porta a semplificare quello che si usa chiamare amore. Ed è la non castità che porta lei a complicarlo. Certo, lo riconosco, la castità è spaventosa: ma soltanto nei primi tempi che la si sceglie ed affronta... Poi avviene qualcosa di simile, lei mi può capire, a quel che succede nell'arte, per chi la fa: i limiti e le preclusioni espressive ne sono la forma, non sono limiti e preclusioni. Allo stesso modo, la castità è la forma più sublime cui l'amor proprio può accedere: un far diventare arte la vita. (p. 46)
Il dongiovannismo è un prolungamento di immaturità: fino al rimbambimento, che è poi la giusta preconclusione, e alla morte... Ci faccia caso: tutti i dongiovanni finiscono col rimbambire. (p. 47)
La sopravvivenza e, più che la sopravvivenza, il trionfo della Chiesa nei secoli, più si deve ai preti cattivi che ai buoni. È dietro l'immagine dell'imperfezione che vive l'idea della perfezione: il prete che contravviene alla santità o, nel suo modo di vivere, addirittura la devasta, in effetti la conferma, la innalza, la serve... (p. 52)
[Descrivendo gli esercizi spirituali] Ora dalla voce di don Gaetano, ora da quella del coro, le preghiere si levavano nell'oscurità della notte: e tutto, le voci, il senso delle parole, quell'assurda marcia da animali in gabbia quel battere e indugiare nella poca luce e il più veloce e spaurito andare verso il buio; tutto sembrava s'appartenesse a una evocazione, a un sortilegio: ma con quel tanto di mistificatorio e di grottesco che è nelle sedute spiritiche, per chi non ci crede. (p. 56)
Ho avuto sempre ribrezzo dei gechi: e coloro che ne sostengono l'utilità nell'ordine della natura, in quanto si nutrono di moscerini alle piante nocivi, debbono ammettere che il disordine se non nell'esistenza dei gechi è da riconoscerlo nell'esistenza dei moscerini: e che un miglior ordine sarebbe nella inesistenza e dei moscerini e dei gechi che li divorano. (p. 60)
Ma guardi: se lo avessi tra le mani per ventiquattro ore, ad interrogarlo come dico io, come so io, don Gaetano vomiterebbe l'anima sua, se anima ha... E non pensi, per carità!, a maltrattamenti, a torture... Lo farei soltanto scendere dal piedistallo, gli farei soltanto sentire che per me lui sta alla pari del ladro di galline, del debosciato pescato coi suoi tre grammi di eroina in tasca... Quando uno che si crede potente entra in un posto di polizia e si sente ordinare di togliersi le stringhe dalle scarpe e la cintura dai pantaloni, crolla, mio caro amico, crolla che lei non se lo immagina nemmeno. (p. 75)
Il silenzio era vasto, reso ancora più vasto e consistente da un lontano orizzonte di voci, motori, cani che abbaiavano. Facciamo una gara di silenzio, mi dissi: ché la campagna, quella campagna, mi riportava all'infanzia, ai giuochi; tra cui erano quelli, stanchi dei più movimentati, del non parlare, del non ridere, dello stare ad occhi chiusi. (p. 77)
Veda: credere che Cristo abbia voluto fermare il male è l'errore più vecchio e più diffuso del mondo cristiano. "Dio non esiste, dunque nulla ci è permesso". Queste grandi parole, nessuno ha mai veramente tentato di rovesciarle: piccola, ovvia, banale operazione. "Dio esiste, dunque tutto ci è permesso". Nessuno, dico, tranne Cristo. E nella sua vera essenza, questo è il cristianesimo: che tutto ci è permesso. Il delitto, il dolore, la morte: crede sarebbero possibili, se Dio non ci fosse? (p. 78)
Ma come mi spaventa l'essere prete, di più mi spaventerebbe l'essere giudice... Le parole di Cristo sono tremende: "Non giudicate, affinché non siate giudicati"[29]. Non proibisce il giudicare, ma lo pone in diretto e inevitabile rapporto con l'essere giudicati. "Leva prima la trave dal tuo occhio, e allora avrai la vista capace per togliere la pagliuzza dall'occhio del fratello". E noti: la trave nell'occhio di chi giudica, la pagliuzza nell'occhio di chi è giudicato. Non avrà voluto intendere che solo i peggiori giudicano, scelgono di giudicare, possono giudicare, in forza delle loro colpe, della loro colpa, ma dopo essersene confessati e liberati? (p. 91)
Come è stata la sua infanzia? Felice, infelice? Spero per lei che sia stata infelice, le infanzie felici germinano noia, tristezza, nequizia... (p. 92)
Non c'è qualcosa, nelle lenti, negli occhiali, che mi suscita, remoto, imprecisabile, un senso di stupore e insieme di apprensione? Non c'è qualcosa che ha a che fare con la verità e con la paura di scoprirla? (p. 99)
Il nostro più grande errore, il più grande errore che sia stato commesso da coloro che hanno governato, o che hanno creduto di governare, la Chiesa di Cristo, è stato quello di identificarsi, ad un certo momento, con un tipo di società, con un tipo di ordine. È un errore che perdura, anche se molti ormai cominciano ad avere coscienza che è un errore. Approssimativamente, con una battuta, le posso dire: il secolo diciottesimo ci ha fatto perdere il senno, il ventesimo ce lo farà riguadagnare. Ma che dico, ce lo farà riguadagnare? Sarà finalmente la vittoria, il trionfo. (p. 103)
È stato detto che il razionalismo di Voltaire ha uno sfondo teologico incommensurabile all'uomo quanto quello di Pascal. Io direi anche che il candore di Candide vale esattamente quanto lo spavento di Pascal, se non è addirittura la stessa cosa. Solo che Candide trovava finalmente un proprio giardino da coltivare... "Il faut cultiver nostre jardin"... Impossibile: c'è stato un grande e definitivo esproprio. E forse si possono oggi riscrivere tutti i libri che sono stati scritti; e altro anzi non si fa, riaprendoli con chiavi false, grimaldelli e, mi consenta un doppio senso banale ma pertinente, piedi di porco. Tutti, Tranne Candide. (pp. 104-105)
La telefonata arrivò alle 9 e 37 della sera del 18 marzo, sabato, vigilia della rutilante e rombante festa che la città dedicava a san Giuseppe falegname: e al falegname appunto erano offerti i roghi di mobili vecchi che quella sera si accendevano nei quartieri popolari, quasi promessa ai falegnami ancora in esercizio, e ormai pochi, di un lavoro che non sarebbe mancato. Gli uffici erano, più delle altre sere a quell'ora, quasi deserti: anche se illuminati, l'illuminazione serale e notturna degli uffici di polizia tacitamente prescritta per dare impressione ai cittadini che in quegli uffici sempre sulla loro sicurezza si vegliava.
Il telefonista annotò l'ora e il nome della persona che telefonava: Giorgio Roccella. Aveva una voce educata, calma, suadente. 'Come tutti i folli' pensò il telefonista. Chiedeva infatti il signor Roccella, del questore: una follia, specialmente a quell'ora e in quella particolare serata. (pag. 9)
Citazioni
Automaticamente, il colonnello vide, invece, il caso molto complicato, e comunque da non sbrigarsene al più presto. Scattava subito, pregiudizialmente quali che fossero le persone che le rappresentavano, una irriducibile disparità di punti di vista tra le due istituzioni: l'arma dei carabinieri, il corpo di polizia. Un lungo, storico contenzioso li divideva: e tutti i cittadini che ci cadevano in mezzo finivano per dibattervisi drammaticamente. Il brigadiere disse: «Signorsì», usci a ritrovare la macchina di pattuglia con cui era venuto e che era ritornata. Ma poiché il questore lo aveva indispettito, ed essendo quasi del tutto sprovvisto di quel si suol chiamare spirito di corpo – cioè del considerare parte maggiore del tutto il corpo a cui apparteneva, di ritenerlo infallibile e, nella eventuale fattibilità, intoccabile, traboccante di ragione soprattutto quando aveva torto – ebbe una beffarda idea. (pag. 24)
Il magistrato si era intanto alzato ad accogliere il suo vecchio professore. «Con quale piacere la rivedo, dopo tanti anni!». «Tanti: e mi pesano» convenne il professore. «Ma che ne dice? Lei non è mutato per nulla, nell'aspetto». «Lei sì» disse il professore con la solita franchezza. «Questo maledetto lavoro... Ma perché mi dà del lei?». «Come allora» disse il professore. «Ma ormai...». «No». «Ma si ricorda di me?». «Certo che mi ricordo». «Posso permettermi di farle una domanda?... Poi gliene farò altre, di altre natura... Nei componimenti di italiano lei mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Ma una volta mi ha dato un cinque: perché?». «Perché aveva copiato da un autore più intelligente». Il magistrato scoppiò a ridere. «L'italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica...». «L'italiano non è l'italiano: è il ragionare» disse il professore. «Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto». La battuta era feroce. Il magistrato impallidì. E passò a un duro interrogatorio. (pagg. 43-44)
A prendere il professore da casa andò il brigadiere. Fecero il breve viaggio loro due soli, con grande contentezza da parte del brigadiere cui parlare con persone che avevano fama di intelligenza e cultura dava una specie di ebrezza. Ma il professore parlò dei propri mali, lasciando memorabile al brigadiere (ma non condivisibile nell'energia dei suoi trent'anni) la frase che a un certo punto della vita non è la speranza l'ultima a morire, ma il morire l'ultima speranza. (pag. 51)
Mentre in questura ferveva l'allestimento della camera ardente per il commissario (solenni sarebbero stati i funerali) l'uomo della Volvo, tirato fuori dal carcere, vi fu portato per degli adempimenti burocratici, per cui sarebbe stato, finalmente, completamente libero. Assolti quegli adempimenti, ne stava uscendo scarmigliato e angosciosamente ilare, quando sulla soglia incontrò padre Cricco in nicchio, cotta e stola, che veniva a benedire la salma. Padre Cricco lo fermò con un gesto. Disse: «Mi pare di conoscerla: lei è della mia parrocchia?». «Ma che parrocchia? Io non ho parrocchia» disse l'uomo; e usci con gioiosa furia. Trovò al posteggio, con cedola di contravvenzione, la sua Volvo. Ma gli parve una cosa da riderne, tanto era contento. Uscì dalla città cantando. Ma a un certo punto fermò di colpo la macchina, tornò ad incupirsi, ad angosciarsi. «Quel prete,» si disse «quel prete... l'avrei riconosciuto subito, se non fosse stato vestito da prete: era il capostazione, quello che avevo creduto fosse il capostazione». Pensò di tornare indietro, alla questura. Ma un momento dopo: «E che, vado di nuovo a cacciarmi in un guaio, e più grosso ancora?». Riprese cantando la strada verso casa.
Atti relativi alla morte di Raymond Roussel
Commissariato di P.S. - Sez. Politeama - Palermo 14 luglio 1933 A. XI E.F. Telegramma interno. Illmo Signor Primo Pretore. Illmo Signor Questore. Palermo. Verso le dieci circa di stamani il facchino Antonio Kreuz dell'Hotel des Palmes, recatosi nella camera N. 224 occupata dal suddito francese Raymond Roussel, nato a Parigi il 21-1-1877, constatava che il predetto giaceva cadavere supino coricato su un materasso collocato a terra.[28]
Il cavaliere e la morte
Quando alzava gli occhi dalle carte, e meglio quando appoggiava la testa sull'orlo dell'alto e duro schienale, la vedeva nitida, in ogni particolare, in ogni segno, quasi il suo sguardo acquistasse un che di sottile e puntuto e il disegno rinascesse con la stessa precisione e meticolosità con cui, nell'anno 1513, Albrecht Dǖrer lo aveva inciso.
L'affaire Moro
Ieri sera, uscendo per una passeggiata, ho visto nella crepa di un muro una lucciola. Non ne vedevo, in questa campagna, da almeno quarant'anni: e perciò credetti dapprima si trattasse di uno schisto del gesso con cui erano state murate le pietre o di una scaglia di specchio; e che la luce della luna, ricamandosi tra le fronde, ne traesse quei riflessi verdastri. Non potevo subito pensare a un ritorno delle lucciole, dopo tanti anni che erano scomparse.
Amava il disegno, Sciascia, le gravures, acqueforti e puntesecche, che, con il loro segno nero si potevano accostare alla scrittura, erano anzi per lui un'altra affascinante forma di scrittura, simile allo scrivere che è "imprevedibile quanto il vivere". (Vincenzo Consolo)
È come se avessi subito un'amputazione e mi svegliassi senza una gamba, senza un braccio, oggi perdo non solo un amico, ma anche un padre, un fratello, un figlio. In tanti anni di amicizia questa è la prima scortesia che mi fa, morire. (Gesualdo Bufalino)
Ha insegnato Leonardo Sciascia che la Sicilia non è una. Ne esistono molteplici, forse infinite, che al continentale, forse al Siciliano stesso, si offrono e poi si nascondono in un giuoco di specchi. (Paolo Isotta)
Io l’ho conosciuto personalmente e ho avuto un buon rapporto di amicizia, ho trascorso giornate con lui. Era timido. Ricordo che una volta dovevo presentare un evento a Mondello per premiarlo e lui mi chiese se ci fosse un modo senza farlo pubblicamente, fu dura convincerlo a salire sul palco! È stato lui che scopri Tomasi di Lampedusa, chiamò la Sellerio, casa editrice palermitana, che pubblicò il suo libro. (Pippo Baudo)
Leonardo era per me padre, amico, persino finanziatore, in tanti casi, e poi era maestro. Non l’ho mai fotografato professionalmente e ciascuna foto che gli ho fatto in 26 anni fa parte degli album di famiglia: ai compleanni delle mie figlie, in viaggio insieme, a casa sua. Da 30 anni cerco di farci un libro, che a un certo punto ho addirittura finito. Ma poi, ripensando alla ricchezza del nostro rapporto, l’ho trovato troppo povero. Forse un giorno lo pubblicherò oppure lo farà qualcun altro dopo che sarò morto. Intanto però non potevo organizzare una mostra sulla Sicilia senza parlare di lui. (Ferdinando Scianna)
[A Racalmuto] Mi ha portato qui il ricordo personale di Leonardo, che ho grandemente amato come scrittore europeo non meno che italiano. L'ho sempre ascoltato con attenzione e grande rispetto, come grande coscienza e voce civile dell'Italia. (Giorgio Napolitano)
[Parlando delle proprie scelte lessicali.] Non sono però parole inventate, ma reperite, ritrovate. Le trovo nella mia memoria, nel mio patrimonio linguistico, ma sono frutto anche di mie ricerche, di miei scavi storico-lessicali. Sin dal primo libro sono partito da una estremità linguistica, mi sono collocato, come narrante, in un'isola linguistica, in una colonia lombarda di Sicilia, San Fratello, dove si parla un antico dialetto, il gallo-italico. È quella stessa particolarità storico-linguistica avvertita da Sciascia. (Vincenzo Consolo)
Sentirti dire oggi che sei stufo di parlare di mafia mi sorprende. Sei stato proprio tu a insegnare che il silenzio è la prima forma di complicità. (Mario Capanna)
Sciascia, con il suo occhio rivolto in primo luogo alla Sicilia e alle sue contraddizioni, ha seguito il modificarsi dei nodi più oscuri del crimine, della giustizia, della politica, della stessa possibilità di intervenire sul male, di giudicarlo e correggerlo: e tra l'altro ha suggerito, con i suoi scritti, ma anche con i suoi atti politici, un'immagine davvero necessaria del rapporto tra intellettuale e politica, che sfugge ai parametri ancora oggi dominanti. Ma ciò si è dato entro un organismo letterario di grande fascinazione, che resiste e si impone nel tempo, sfuggendo agli squallidi sciacallaggi politici che furono fatti a suo tempo e si continuano a fare, come sfugge alle etichette che vorrebbero fissarlo in schemi precostituiti. (Giulio Ferroni)
Sciascia disse che il film deve essere un tradimento rispetto al libro, altrimenti il regista diventerebbe "un volgarissimo illustratore". Disse di più, contro i suoi interessi, come specificò, che "da un brutto libro si può fare un buon film". Mi fece capire che i rapporti tra cinema e letteratura devono essere provocatori al punto da accettare che Elio Petri in Todo modo, più interessato alle pagine sugli esercizi spirituali dei democristiani che alla totalità del romanzo, fu più fedele a Pasolini che all'autore del libro. Fu una grande lezione, quella di Sciascia. (Giuseppe Tornatore)
Fummo quasi obbligati all'amicizia, avevamo tante cose in comune, vivevamo a trenta chilometri di distanza, lui aveva avuto come professore Vitaliano Brancati, che era mio amico, e poi tutti e due eravamo sotto il segno di Pirandello, il nostro nume tutelare. Io feci uno sceneggiato da un suo racconto, lui portò un mio libro a Elvira Sellerio e fu grazie a lui che iniziai la mia collaborazione con la casa editrice. Eravamo veri amici perché litigavamo, la vera amicizia è quella, sennò sai che noia... Leonardo per me è una medicina: quando mi sento un po' scarico, e a 88 anni suonati ne ho anche il diritto, piglio un suo libro, leggo tre pagine e mi sento ricaricato: è come l'elettrauto.
Lui non si laureò mai. Riuscì ad avere un diploma per insegnare alla scuola elementare: riteneva che per un bambino, in Sicilia quegli anni fossero importantissimi e formativi, tanto da diventare una sorta di assoluto. A meno di non essere un altissimo maestro di filosofia non equivarrai mai all'importanza che ha per un bambino. Quando l'Università di Messina voleva conferirgli la laurea honoris causa, Sciascia rispose "...perché? Già maestro sugnu", e questo sottolinea l'importanza delle scuole "vascie", basse, le scuole elementari.
Per me è stato uno dei maggiori letterati del Novecento, assieme a Carlo Emilio Gadda. Molti gli rimproverano una scrittura professorale. Non è così. Il suo italiano, che sembra accademico, è una lingua che lui affilava quotidianamente per farne qualche cosa che somigliasse a un bisturi.
Le metafore di Sciascia restano valide, come l’idea di ragionare sempre con la propria testa e di affrontare temi come il potere, la libertà e la democrazia. Oggi più che mai, in una società in cui il disimpegno è totale e la conquista del denaro sembra essere l’unica cosa che interessa, l’esempio di Sciascia ci dice che sono altre le direzioni da seguire.
Riteneva che, se si è liberi dal bisogno, bisogna resistere alle lusinghe del guadagno, che rischia di portare a episodi di corruzione. Il denaro facile più che cambiare il mondo ha distrutto ogni principio etico. Lui era uno scrittore moralista, termine oggi considerato solo nella sua accezione negativa, e riteneva che solo gli imbecilli possono pensare che il moralismo sia in contraddizione con l’intelligenza e con il talento. Lui era un moralista alla maniera dei grandi francesi Voltaire, Diderot, Zola e Gide. In Italia il suo vero maestro era Alessandro Manzoni.
Sciascia poco prima di morire rifiutò cinque miliardi di lire da Mondadori per pubblicare la sua opera omnia. Oggi dove sarebbe un suo equivalente, che arriva a tanto pur di restare libero?
Andai a trovarlo a Racalmuto e sua moglie Maria ci preparò la pasta con le sarde. Sciascia parlava della Sicilia, di Parigi, della mafia e di Racalmuto. Non parlava mai dell'Italia. Una cosa che mi colpì moltissimo.
[Alla fine di ogni estate andava a Parigi in treno, alloggiando sempre nello stesso albergo, l'Hotel du Pont Royal in rue de Montalembert: faceva tappa a Roma, scendeva dal treno, dormiva una notte in albergo e ripartiva subito.
Sciascia mi spiegò subito che il vero siciliano non ama il mare, perché dal mare, da sempre, sono giunti gli invasori. E infatti, in molti paesi siciliani, le case danno le spalle al mare.
↑ Citato in Paolo Nifosì, Leonardo Sciascia: la passione di un "incompetente", in La bella pittura. Cfr Leonardo Sciascia e le arti figurative, catalogo della mostra, Racalmuto 1999, a cura di Paolo Nifosì, Edizioni Salarchi Immagini, Comiso 1999, p. 19.
↑ Da Fatti diversi di storia letteraria e civile, Sellerio, Palermo, 1989, p. 14.
↑ La lettera fu scritta, Sciascia già irrimediabilmente malato, il 16 aprile 1989 pochi mesi prima della morte.
↑ Epitaffio sulla tomba a Racalmuto; la citazione è di Auguste de Villiers de L'Isle-Adam. In un manoscritto conservato dalla famiglia, Sciascia ha scritto: «Ho deciso di farmi scrivere sulla tomba qualcosa di meno personale e di più ameno, e precisamente questa frase di Rouget de l'Isle Adam: "Ce ne ricorderemo, di questo pianeta". E così partecipo alla scommessa di Pascal e avverto che una certa attenzione questa terra, questa vita, la meritano» (Matteo Collura, L'isola senza ponte. Uomini e storie di Sicilia, Longanesi). Per approfondire, v. Matteo Collura, Sciascia, svelato l'ultimo enigma, Corriere della sera, 5 settembre 2007, p. 41. Cfr. Tomba nel cimitero di Racalmuto (AG), Italia.
↑ Citato in Renato Guttuso, a cura di Natale Tedesco, Galleria. Rassegna bimestrale di cultura, a.XXI, 1-5, gennaio-ottobre 1971.
1 2 3 Dal discorso commemorativo pronunciato a Palermo nel 1986 per il cinquantenario della morte di Luigi Pirandello; riportato in Sciascia: Pirandello, Parodos.it.
1 2 3 Da La Sicilia come metafora, Mondadori, Milano, 1979, p. 78.
↑ In Nuovi racconti italiani, di Bacchcelli ― Bianciardi ― Chiara ― Comisso ― Del Buono ― Devena ― Parise ― Patti ― Pomilio ― Quarantotti Gambini ― Sciascia ― Seminara ― Simonetta ― Tobino ― Troisi ― Viganò, Fratelli Melita Editori, La Spezia, 1992, pp. 275-276.
↑ Citato in Claude Ambroise e Lia Fava Guzzetta, Nelle regioni dell'intelligenza: omaggio a Leonardo Sciascia, Il Convegno, vol. XIII, Pungitopo Editore, Gioiosa Marea (Messina), 1992,p. 49. OCLC 30133458. Citato, inoltre, in Massimo Bordin, A proposito di garantismo, il Foglio.it, 19 giugno 2018.
↑ Citato in Palermo, Italialiberty.it, 21 maggio 2013.
↑ Da Introduzione a Antonio Veneziano, Ottave, Testo e traduzione a cura di Aurelio Rigoli, Einaudi, Torino, 1967, p. 28.
↑ Citato in Salvatore Silvano Nigro, Una spia tyra le righe, Sellerio, Palermo, 2021, p. 237. ISBN 88-389-4201-3