scrittore italiano (1914-1978) Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Giuseppe Berto (1914 – 1978), scrittore italiano.
"Guareschi? Non esiste" affermano i letterati italiani, ma per uno storico della letteratura, Guareschi, che ha milioni di lettori in tutto il mondo, ha la sua importanza: così pensa Heiney.[1]
Hemingway diceva che uno scrittore, se è abbastanza buono, deve misurarsi ogni giorno con l'eternità, o con l'assenza di eternità. Io non posso giurare d'essere uno scrittore abbastanza buono, però la fatica di misurarmi con l'eternità o, peggio, con l'assenza di eternità, la conosco anch'io.[2]
Il profilo biografico [Enrico Mattei] [...] che ora al fondatore dell'ENI dedica Nico Perrone, uno studioso di storia che da giovane fu nello staff di Mattei, ha il merito di ricondurre l'attenzione sugli anni in cui l'industria di stato era centrale nell'economia del paese. Va subito detto che l'occhio con cui Perrone segue l'avventura di Mattei è più che indulgente: fra il biografo e il suo personaggio il lettore avverte una consonanza profonda. Non che Perrone trascuri i lati più dubbi e discussi di Mattei [...] ma nel suo racconto questi elementi occupano uno spazio minore rispetto alla battaglia personale che Mattei condusse per l'autonomia dell'Italia in campo energetico. Nel clima del dopoguerra, parve subito a Mattei che l'AGIP (l'ente petrolifero italiano) fosse tutt'altro che una realtà modesta o, peggio ancora, da smantellare. Colpiscono, in particolare, gli accenti nazionalistici con cui Mattei esortava all'impegno economico.[3]
In me ci sono delle forti componenti romantiche: quando mi dicevano che sono un neorealista, io dicevo che sono un neoromantico. Il rapporto tra l'uomo e la donna di Anonimo Veneziano è ricavato dalle mie esperienze personali. Se poi io sono portato a vedere pateticamente le mie vicende, non è colpa mia ma della mia struttura caratteriale, che d'altra parte non vedo nessuna necessità di modificare. Non è certo un impulso intellettualistico di ritorno all'800 che mi muove, se mai la consapevolezza che l'autocompassione è un'efficace maniera di sbloccare sia pur temporaneamente la nevrosi.[4]
La mia storia di scrittore comincia forse il 13 maggio 1943, quando cessò l'ultima resistenza delle truppe italiane in Tunisia. Fu così che, insieme agli altri prigionieri, mi portarono in America, in un campo di concentramento dell'ovest. Ricordo che un grosso temporale estivo ci aveva accompagnati durante l'ultima parte del nostro viaggio. Camminammo nel fango per ore, in una lunga colonna verso le luci allineate del campo. Intorno a noi camminavano le sentinelle, e una di esse ogni tanto gridava qualcosa in cui si capiva il nome di Mussolini. Uno vicino a me, che conosceva l'inglese tradusse: Mussolini è caduto. Quando i doppi cancelli del P. W. Camp di Hereford si chiusero alle nostre spalle, noi sapevamo che si chiudeva anche un'epoca, che molte cose in cui avevamo più o meno creduto non esistevano più. Ciò era triste, sotto molti aspetti, se non altro perché era il segno più evidente della nostra sconfitta. Ma da allora, ciascuno di noi poteva affrontare da solo, con le proprie forze, la responsabilità di esistere.[5]
Mi indigna il suo strapotere [di Alberto Moravia], che io credo dannoso per l'Italia.[6]
Sia chiaro ch'io sono per l'ordine, e che ciò è inutile.[7]
Sfumata in un residuo di nebbia che non ce la faceva né a dissiparsi né a diventare pioggia, un po' disfatta da un torpido scirocco più atmosfera che vento, assopita in un passato di grandezza e splendore e sicuramente anche d'immodestia confinante col peccato, la città era piena di attutiti rumori, di colori stagnanti nel culmine d'una marea pigra.
Citazioni
Non mi leggi in viso i segni del destino? La gloria, ad esempio. O anche la morte. Tanto, l'una vale l'altra, almeno per chi crepa. (p. 19)
Io sono stato sempre favorevole alla scuola pubblica. La scuola privata è un anacronistico privilegio. (p. 20)
In questo paese, chi ha più soldi ha più ragione. (p. 65)
Per fortuna la magistratura non è stata ancora intaccata da certe mode femministe. Un giudice di buonsenso, non contaminato dalla propaganda di sinistra, assegnerebbe il bambino a me. (p. 76)
Ciò che stava suonando, non era solo dolore per la morte di un uomo, era disperata rassegnazione per la morte d'una città e forse di tutto ciò che è vissuto. In una desolazione tanto vasta e perfetta, non c'è posto per piccole storie personali. (p. 131)
Citazioni su Anonimo veneziano
Posso dire che in vita mia non avevo mai lavorato tanto per scrivere tanto poco, né mi ero mai così abbandonato al tormentoso piacere di permettere ai pensieri di cercarsi a lungo le parole più appropriate, e nel cercarsele magari mutano e differentemente si presentano sicché ne vogliono altre, e così via. È un'operazione che, d'abitudine, l'industria culturale non chiede, e forse nemmeno gradisce. (Giuseppe Berto, dalla prefazione[8])
Tripoli, 1 settembre 1942. Il trimotore che mi ha trasportato dalla Sicilia all'Africa ha preso felicemente terra, stamane poco prima delle dieci, all'aeroporto di Castel Benito. Per tenerci lontani dalla base inglese di Malta, abbiamo seguito la rotta Pantelleria-Coste tunisine, volando molto basso sul mare. Non potendo garantire una scorta di caccia agli apparecchi di trasporto, il nostro comando ha adottato la tattica di farli partire alla spicciolata, fidando sulla buona fortuna.
Citazioni
Tripoli è una città molto bella, piena di verde e di fiori, ma i bombardamenti aerei e navali l'hanno devastata, e due anni di guerra immiserita. Fortunatamente ora la guerra è lontana, a El Alamein, e si respira. La gente, alla sera, non scappa più per andar a passare la notte nelle oasi dei dintorni, poiché i bombardamenti sono rari e occasionali. In questo clima di quasi normalità, rifiorisce la nostalgia dei bei tempi passati, quelli di Balbo, quando la vita era facile e allegra. (p. 12)
Al circolo ho avuto occasione di parlare con ufficiali residenti a Tripoli e con altri di passaggio, alcuni anche provenienti dal fronte. Per noi della milizia non è facile avere contatti sinceri con i colleghi dell'esercito: ci considerano da un lato degli irregolari, cioè gente che non ha le carte in regola per diventare ufficiali, e dall'altro lato dei fanatici, di cui è meglio diffidare. Tuttavia io, non essendo fanatico e non avendo alcuna voglia di fingere di esserlo, ho dato per primo l'esempio di una libera conversazione e così ci siamo scambiati con semplicità le nostre opinioni. Tutti hanno trovato per lo meno strana la mia qualità di volontario a tutti i costi e così mi hanno chiesto, un po' scherzando si capisce, se sono proprio a posto col cervello o se i miei precedenti penali sono completamente irreprensibili. (p. 13)
Bengasi, 9 settembre 1942. L'autobus ha fatto tappa a Bengasi per la notte e ho avuto modo di visitare la città. Mi ha fatto un'impressione tristissima. Certo, è molto più danneggiata di Tripoli, ma le rovine da sole non bastano a spiegare la desolazione che l'opprime. Gli abitanti nazionali se ne sono andati o hanno già esperimentato, al tempo della prima ritirata, l'occupazione inglese ed è rimasto in loro un senso d'avvilimento, come se non riuscissero più a sentirsi in casa propria in questa città che è pur italiana. Quanto agli arabi, non si capisce che pensino. Per loro, sia noi che gli inglesi siamo stranieri, cioè nemici. (pp. 18-19)
Misurata, 11 settembre 1942. [...] Quindi siamo andati a casa di un funzionario della residenza, dove abbiamo giocato e ascoltato radio Londra. Il commentatore di radio Londra, col tono indisponente che gli è abituale, ha parlato delle batoste che abbiamo prese ai primi di settembre, e di quelle molto più grosse che prenderemo tra poco, quando l'8ª armata sferrerà l'attacco decisivo. Certo, ci può essere del vero in quanto va dicendo la radio nemica, ma per lo più si tratta di propaganda, che non influisce sul nostro morale. Per questo possiamo permetterci di ascoltarla, anche se è proibito. (pp. 19 e 21)
Gli ho chiesto che ci fosse da fare qui, e mi ha risposto: i bagni. E poi, più seriamente: mimetizzati. Pare infatti che i superiori comandi siano piuttosto pignoli in fatto di mimetizzazioni. Il mio predecessore ha dovuto rifare cinque volte la mimetizzazione della piazzola sul promontorio, con criteri sempre nuovi e, almeno dal punto di vista dei superiori, sempre sbagliati. Bisogna ottenere una assoluta invisibilità sia dal mare che dal cielo, però succede che se si copre la piazzola per nasconderla agli aerei, la vedono dal mare, e viceversa. A me sembrano tutte cretinerie. (p. 24)
Ora siamo accampati presso l'Arco dei Fileni, uno strano monumento in pieno deserto, che segna il confine tra la Cirenaica e la Tripolitania. (p. 49)
Ho avuto così occasione di assistere, e modestamente partecipare, ad un memorabile saccheggio. Il magazzino di Miani è costituito da una ventina di capannoni, e da altri grossi depositi di viveri a terra, cintati da un alto e lunghissimo muro. Quando vi arrivai io, il saccheggio era ormai giunto ad uno stadio avanzatissimo: parecchi capannoni già bruciavano. Tra una grande confusione di urla, crolli e spari, una folla di militari, borghesi nazionali ed arabi correva da una parte all'altra, affannandosi ad arraffare ciò che faceva loro più comodo, e caricavano autocarri, carretti, cammelli, asini, oppure se ne andavano portandosi sulle spalle sacchi di farina o di zucchero, che si vuotavano mezzi per la strada, lasciando sul terreno interminabili scie bianche. (p. 70)
Si diceva che fossero stati gli arabi a dare l'assalto al magazzino, sostenendo una vera battaglia contro i soldati di guardia, insufficienti a difendere il lungo perimetro delle mura. Ma forse era stato il nostro stesso comando-piazza ad abbandonare quell'enorme quantità di materiali: dato che non è possibile trasportarli altrove, è meglio che siano depredati, piuttosto che finiscano in mano al nemico. (p. 70)
Poi ci recammo nel reparto viveri. I miei militi, allenati ai trafugamenti di scarsa importanza, qui si sentivano smarriti, schiacciati dall'enormità del saccheggio. Anche noi ci mettemmo a correre da un deposito all'altro, in cerca di roba pregiata. Del tabacco e del caffè non esisteva più nemmeno il ricordo. E così pure erano spariti, il vino, l'anice e il cognac. (p. 71)
Sud di Zuara, 23 gennaio 1943. [...] Ricordo vagamente d'aver passato Zavia: un viale di enormi alberi scuri, forse eucaliptus, e quell'impressione di civiltà e pulizia che almeno di notte, danno le nostre cittadine della Libia. (pp. 82 e 84)
Fronte del Mareth, 27 gennaio 1943. [..] A Medenine, prima cittadina della Tunisia, ci fermammo per oltre un'ora, mentre il comandante andava in cerca di qualcuno che gli dicesse dove dovevamo andare. La città è molto diversa dalle nostre della Libia: più brutta, ma in un certo senso più solida. Le nostre erano degli scenari molto belli e curati, dove si aveva l'impressione che si svolgesse una vita fittizia. Qui invece si vede che un contadino, un bottegaio o un barbiere sono tali anche senza essere sovvenzionati dal governo. È anche vero però che i francesi di trovano qui da molto più tempo. (pp. 88-89)
Fronte del Mareth, 10 febbraio 1943. [...] Però una volta la settimana, ho la possibilità di andare a Gabes per acquistare viveri di conforto. L'unica cosa che si trova sul mercato a prezzi ragionevoli sono i datteri, migliori di quelli della Libia. Gabes non è una bella città, ma mi piace andarvi perché nelle strade si vedono bambini, donne e vecchi. Di uomini, invece, è difficile vederne, in quanto che son quasi tutti scappati per raggiungere le truppe della Francia Libera, che combattono contro di noi assieme agli inglesi. È quindi comprensibile che le donne, e anche i bambini, siano diffidenti, o addirittura ostili. Loro non possono capire che io cerco di avvicinarmi con animo diverso, come se la guerra non ci fosse. Non riescono a vedere il mio animo, anche perché io l'ho rivestito con una divisa. (p. 94)
Oggi sono andato a Gabes, ben fornito di caramelle per i bambini francesi. È stato un po' difficile indurli ad accettare le prime, ma poii mi si sono accalcati tutti intorno, come i piccioni in piazza Sam Marco, e le caramelle mi si sono volatilizzate dalle mani. Ho dato loro qualche galletta e scatoletta che per caso avevo sull'autocarro. Devono aver fame, e i loro vestiti sono quasi a brandelli. Immagino che la popolazione sia costretta a vvere sulle risorse locali, indubbiamente scarse. (p. 95)
Gabes era un buon porto di pesca, ma ora, con la guerra a pochi chilometri e la continua minaccia aerea alleata, non è più possibile uscire in mare. La prossima volta cercherò di portare molta più roba. (p. 95)
Fronte del Mareth, 18 febbraio 1943. Il nostro comandante ha ordinato di dare immediata comunicazione a tutti i militi delle entusiasmanti notizie contenute nel Bollettino Informazioni di oggi. Una puntata offensiva di truppe corazzate dell'Asse, sferrata verso occidente tra Maknassi e Gafsa, cioè nel tratto del settore nord più vicino a noi, ha facilmente travolto le truppe americane di difesa e si sta spingendo molto avanti. (p. 96)
Fronte del Mareth, 22 febbraio 1943. Sempre buone notizie dal settore nord. Il Bollettino riferisce di scontri su nuove posizioni, di centinaia di prigionieri fatti, di carri e pezzi distrutti o catturati al nemico. Peccato che per mancanza di carte, non possiamo seguire il cammino glorioso delle nostre truppe avanzanti. (p. 97)
Il comandante è convinto che l'aereo ha lasciato cadere le bombe perché ha scorto la sagoma del nostro Spa 38. A me sembra impossibile, dato anche che la notte era completamente senza luna. Comunque, ora è sorto il problema di mimetizzare l'autocarro. Bisogna sfrondare parecchi olivi. (p. 101)
Uadi Akarit, 15 marzo 1943. [...] Può darsi che il ripiegamento sia stato determinato da fatti accaduti nel settore nord. Non ne sappiamo nulla, anche perché ormai da molto tempo non arriva più il Bollettino Informazioni. Oppure arriva e, contenendo solo cattive notizie, se lo legge in segreto il comandante. (pp. 109-110)
El Hamma, 22 marzo 1943. [...] L'unica nota stridente era rappresentata dal mio Spa 38, piccolo e di colore giallo, col cassone ingombro di viveri e di marmitte, accodato all'ultimo autocarro dei combattenti. (pp. 118-119)
La strada, tutta dritta, attraversava uno dopo l'altro degli uadi di varia larghezza, ma tutti asciutti e fortemente incavati. La terra era sempre più deserto, brulla e sabbiosa. Sulla destra s'alzava una fila di colline nude, gialle, oltre le quali doveva esserci lo Chott. (p. 121)
I bombardamenti lungo la strada erano così frequenti, che noi con l'autocarro non facevamo altro che correre da un uadi all'altro, e infilarci dentro i canaloni per riprender fiato e coraggio. (p. 132)
Nell'attesa che i ritardatari venissero a prendersi il rancio, sono andato a camminare un poco lungo l linea. Si prova sempre un brivido piacevole nello spingersi fino all'altezza dell'ultimo uomo, e poi fissare gli occhi in quella lontananza misteriosa e pericolosa, che si chiama terra di nessuno. (p. 135)
Siccome nessuno aveva voglia di scavar le fosse per loro, me li sono caricati sullo Spa 38, e son partito col mio triste peso di marmitte sporche, morti e feriti. (p. 136)
I miei militi mi richiamano alla realtà: è meglio che torniamo indietro, essi dicono. Infatti, bisogna tornare indietro. E in fretta, anche, prima che quella battaglia di carri armati ci arrivi addosso. Però lo Spa 38 ha il muso voltato verso ovest, bisogna farlo voltare dalla parte opposta. La massacciata della rotabile è larga pochi metri, non consente la manovra: bisogna uscire di strada e andare sulla sabbia. Non è una cosa straordinaria. Tante volte l'abbiamo già fatto, sotto i bengala degli aerei o per girare al largo dagli autocarri di munizioni che bruciavano. Ma ora è diverso, perché se le ruote s'insabbiano, siamo fritti. Mi accorgo di avere una paura tremenda. Sono quasi salvo, ma una schiocchezza qualsiasi potrebbe perdermi. Adagio adagio lo Spa 38 comincia la manovra e tutti i miei militi, volenterosamente, son pronti a spingerlo al minimo accenno di slittamento. Da quel lato posso star tranquillo: lo tirerebbero fuori di peso, se fosse necessario. (pp. 144-145)
È ancora il vecchio Spa 38 che deve sciogliere quel pasticcio. Prende a rimorchio uno dei grossi Lancia Ro per dargli uno strappo. Seguiamo l'operazione col cuore in gola: lo Spa è carico, il terreno sabbioso, e la frizione, già tanto scassata, potrebbe cedere senza rimedio. Allora sì che resteremmo tutti a terra. Ma c'è fortuna. Uno strappo, due, ed ecco che il motore del Lancia parte, fragorosamente. Il grosso autocarro messo in moto dà lo strappo agli altri due. In breve tutti e tre hanno il motore acceso, si avviano prudentemente verso la strada, la raggiungono, si mettono a carrore in direzione del paese. Io, con lo Spa e il mototriciclo, li seguo da vicino. (p. 153)
Dintorni di Sfax, 27 marzo 1943. Arrivando a Sfax, abbiamo trovato il comando della 1ª legione in crisi di trasferimento. Stavano caricando scrivanie, letti e materassi, montagne di scartoffie. Siccome Sfax è diventata inabitabile a causa dei continui bombardamenti aerei, il comando di legione, con palese rammarico, abbandona la palazzina che finora è stata la sua sede e si trasferisce nella campagna a nord della città. (p. 155)
El Djem, 2 aprile 1943. Ci siamo fermati a pernottare presso un ben conservato anfiteatro romano molto rassomigliante al Colosseo. L'autista borghese che mi ha preso su al comando tappa di Sfax ha scelto questo posto perché è convinto che gli alleati non bombarderanno mai un così importante monumento. (p. 160)
Ho percorso la Tunisia, da sud a nord: è stato un fortunato caso scoprirla così, venendo dal deserto. Il paesaggio si trasforma a poco a poco, ed uno sente che ci si avvicina all'Italia. Dopo la sabbia e le oasi del sud, vengono i giovani, geometrici oliveti delle zone intorno a Sfax e a Susa, interminabilmente distesi sulle pianure presso il mare. Poi, a mano a mano che si avvicina la penisola di Capo Bon, la campagna diventa verde di alberi e di viti, coi vecchi olivi piantati in disordine, case coloniche sparse, e stradine affondate tra siepi di fichidindia. Una terra coltivata già da molti anni e bella, come possono esserlo le parti più belle della Calabria e della Sicilia. (p. 161)
La somiglianza tra l'Italia Meridionale e la Tunisia è effettiva e non casuale: è un prodotto del lavoro umano, e i colonizzatori di questa terra sono in gran parte italiani, o di origine italiana. Da molti secoli, si può dire, poiché per ogni dove sono sparse rovine romane. (p. 161)
Nessuno, conoscendo la Tunisia, potrebbe definire ingiusta la nostra pretesa di legarla politicamente all'Italia. Si tratta di un diritto per lo meno più valido di quello della Francia. Veramente, per le regioni a popolazione mista, bisognerebbe trovare dopo la guerra degli statuti particolari, che consentissero una libera e pacifica convivenza alle genti di qualsiasi nazionalità o razza. (p. 161)
Tra Susa e Hammamet, che si trova all'attaccatura meridionale della penisola di Capo Bon, c'è un paese con molti eucaliptus intorno, chiamato Enfidaville. Lì presso stanno facendo alcuni lavori di fortificazione campale, con fosse anticarro. Probabilmente sarà la nuova linea, qualora quella dell'Akarit dovesse cedere. Però è un lungo sbalzo, dall'Akarit ad Enfidaville. (p. 162)
[Su Tunisi] Scendiamo assieme per le viuzze della Kasbah, tortuose e scoscese, piene di mistero con le finestrelle a grata, le donne velate, i profondi antri delle botteghe, gli arabi accovacciati che vendono monili d'argento. Cose e persone sono così assolutamente pittoresche, che sembrano messe lì apposta per una ripresa cinematografica. E poi, passata la porta di Francia, la città europea. O Avenue Jules Ferry, coi doppi filari d'alberi fino al mare, e i negozi ai lati, e sui marciapiedi le ragazze dalle camicette gonfie di primavera. Questa è vita. Io odio la guerra, odio il reparto che passa battendo gli scarponi sull'asfalto e il carro armato che riempie la strada di fragore. (pp. 165-166)
Tunisi, 6 aprile 1943. Con Maria abbiamo passato tutto il pomeriggio alla Kasbah, divertendoci a gironzolare in mezzo alla folla, da una bottega all'altra. Mi piaceva sentirla parlare correttamente l'arabo coi mercanti. Per scherzo s'era messa a contattare un bel tappeto di Kairouan e io gliel'avrei comprato, anche se costava caro. Volle invece una collanina da pochi franchi, d'argento filigranato. (p. 169)
Tunisi, 9 aprile 1943. Sono ricoverato all'ospedale militare di Tunisi, dopo esservi entrato con regolare biglietto fornitomi dal comando del centro reclutamento. [...] L'edificio dell'ospedale, molto bello e moderno, è un'opera del regime: l'ha fatto costruire pochi anni fa il Duce per gli italiani di Tunisia, i quali ne sono orgogliosissimi. Certamente i francesi non hanno un ospedale così bello. (p. 172)
Kélibia è un pittoresco paese che si trova all'estremità della penisola di Capo Bon, nel punto più vicino all'Italia. Col tempo buono si scorge l'isola di Pantelleria, che è già Italia, e commuove. (p. 188)
La nostra artiglieria, che dispone di pochi pezzi con munizioni razionate, risponde raramente al fuoco inglese. Però, a risollevarci dall'avvilimento, di tanto in tanto interviene la Katiuscia. Le Katiuscia sono dei cannoni lanciarazzi che i tedeschi hanno preso ai russi e che, in numero limitatissimo, hanno portato in Africa. Dicono che sparino trentadue razzi alla volta. Quando noi sentiamo il brontolìo dei colpi di partenza, e già passa sopra di noi un nuvolo d'invisibili proiettili sibilanti, ci prende un brivido come se ci trovassimo in presenza di un prodigio spaventoso, e deve passare qualche istante, ci deve arrivare il fragore moltiplicato dei colpi che scoppiano dall'altra parte, prima che lo stupore terribile si trasformi in entusiasmo. (p. 206)
Takrouna, 2 maggio 1943. Oltre agli escrementi e alle mosche, così strettamente collegati fra di loro, oltre ai pidocchi, un'altra cosa è estremamente fastidiosa: l'aereo ricognitore. Se ne va sulla nostra testa dalla mattina alla sera, alto e tranquillo, e volteggiando ogni tanto brilla brevemente nel sole. Non è sempre lo stesso, si capisce, ma prima che uno se ne vada un altro sopraggiunge. Se mai per qualche istante potessimo dimenticare la nostra impotenza, quel maledetto aereo sta sempre lì a rammentarla. (pp. 208-209)
Andai avanti a tuffi, da un sporgenza del canalone all'altra, con migliaia di schegge che mi sibilavano sopra la testa, sempre aspettandomi la granata che, infilando la fessura nell'uadi, mi avrebbe fatto a pezzi. Invece il colpo mio non arrivava, e io continuavo ad andare avanti, avvicinandomi allo sbocco del canalone, dove mi avrebbero senza dubbio colpito, perché lì non ci sarebbe stato più riparo. (p. 216)
Chi dice che i tedeschi abbiano già smesso di combattere e che noi italiani continuiamo solo per ottenere la resa con l'onore delle armi. Certo, l'onore delle armi sarebbe una bella cosa, ma a me dispiacerebbe morire per farlo avere a chi resta. (p. 218)
Cerco di immaginarmi come avverrà la resa. Forse col battaglione inquadrato, e il comandante attenderà qualche ufficiale superiore a lui in grado e lo saluterà militarmente. Forse è così che deve avvenire una resa, in un modo dignitoso e solenne, benché il nemico non ci abbia voluto concedere l'onore delle armi. (p. 220)
Penso che questa storia della mia lunga lotta col padre, che un tempo ritenevo insolita per non dire unica, non sia in fondo tanto straordinaria se come sembra può venire comodamente sistemata dentro schemi e teorie psicologiche già esistenti, anzi in un certo senso potrebbe perfino costituire una appropriata dimostrazione della validità perlomeno razionale di tali schemi o teorie, sicché, sebbene a me personalmente non ne venga un bel nulla, potrei benissimo sostenere che il mio scopo nello scriverla è appunto quello di fornire qualche altra pezza d'appoggio alle dottrine psicoanalitiche che ne hanno tuttora più bisogno di quanto non si creda...
Citazioni
[...] la Sicilia era il posto più bello e felice del mondo e io sicuramente ci sarei andato non appena fossi diventato grande, e con la Sicilia avevano a che fare anche gli spaghetti alla carrettiera che mi piacevano molto, mio padre sempre si arrabbiava perché nessuno in casa sapeva fare un sugo decente e allora qualche volta ci si metteva lui che era stato in Sicilia da carabiniere e faceva il sugo con aglio, olio e pomodori, chiamato alla carrettiera perché lo fanno i carrettieri in Sicilia per la ragione che cuoce in poco tempo, nel mentre si cuociono gli spaghetti si cuoce anche il sugo diceva mio padre [...]. (1987, p. 79)
[...] però esaminando al di fuori d'ogni agitazione sentimentale il rapporto tra me e il padre mio con l'esperienza dell'equivalente rapporto che si era venuto a creare tra me e mia figlia ecco che io comprendevo benissimo che il rapporto d'amore tra padri e figli non è necessariamente reversibile per così dire, ossia tutta la quantità d'amore che un padre può avere per un figlio è compensata dal fatto stesso che il figlio esiste, in altre parole un padre non può pretendere che un figlio lo ami con la stessa intensità con la quale lui lo ama né con la stessa qualità d'amore [...]. (1987, p. 96)
[...] un figlio bambino ama in un modo capriccioso può piangere perché vuole stare sui ginocchi del padre o perché vuol mettersi nel letto grande tra il padre e la madre, e può ficcare le dita dentro la bocca o anche dentro gli occhi del padre [...]. (1987, p. 96)
[...] se ne andrà un giorno il figlio per conto suo completamente staccato dal padre com'è giusto senza preoccuparsi di amarlo o non amarlo mentre il padre avrà sempre bisogno di amarlo, e allora se io immaginavo mia figlia comportarsi verso di me come io mi ero comportato verso il padre non le vedevo colpa [...]. (1987, p. 96)
[...] tutti sappiamo che esistono al mondo i coprofili e anzi addirittura i coprofagi però questi dicono che siano matti e lasciamoli stare, mentre i coprofili sono persone sane di cervello le quali s'interessano simpaticamente degli escrementi per lo più raccontando storielle che hanno per oggetto vuoi l'atto defecatorio e vuoi le feci in sé, e quanto siano numerosi sulla terra questi coprofili lo si può desumere dallo stesso numero pressoché infinito delle storielle puzzolenti alcune delle quali poi non sono per niente brutte, comunque io sono convinto che la vera caratteristica dei coprofili non siano tanto le barzellette quanto la grande soddisfazione che essi per loro stessa frequente dichiarazione provano nel defecare [...]. (1987, p. 204)
In quale enorme misura somigli al padre mio lo vado scoprendo per mezzo di questa figlia Augusta a mano a mano che cresce, e sta' a vedere che lui mi amava come io amo lei. (p. 219)
E del resto io sempre con la collaborazione di questa figlia vado approfondendo parecchio la natura del rapporto tra padri e figli, ossia i figli non devono far nulla in cambio dell'amore dei padri dato che il loro unico dovere è di esistere in buona salute possibilmente, poiché io vedendo mia figlia sana provo una gioia grandissima. (pp. 219-220).
Quanti peccati Dio mio quanti peccati, non finirò mai ma gli altri perché non scontano, questo vorrei sapere perché non scontano gli altri, davvero vorrei sapere se io sono tra tutti gli uomini il più grande peccatore oppure se qualcosa non funziona proprio contro di me in questo deforme ingranaggio di giustizia, pur che ci sia giustizia e non caso e non caos, dove troviamo le ragioni metafisiche vorrei sapere, dove ci può essere un Dio giustizia così sbagliato poiché vi è bene chi più di me odia e calpesta e ha il cuore arido, ecco dunque che non sarebbe possibile un ingranaggio trascendentale neppure riferito al padre mio, gli dei hanno un'imperturbabilità remota insegnava Lucrezio. (pp. 234-235)
[...] il Super-Io di Freud ha qualche punto di contatto con la coscienza comunemente intesa ossia con quella cosa che ci rimorde dopo che abbiamo commesso il male, però il Super-Io sembra differire dalla coscienza nel senso che è molto più attivo nello sbarrare la strada al male e molto più severo nel censurarlo quando non è riuscito a tenerlo fuori, ma soprattutto differisce nel fatto che mentre la coscienza non si spiega come nasca o la si gratifica di una origine metafisica, il Super-Io si sa benissimo come nasce e si può dire che sia il risultato di una progressiva introiezione delle privazioni imposte dalla realtà ma soprattutto dagli educatori [...]. (1987, p. 279)
[...] un po' alla volta tutti questi divieti e intimidazioni entrano in noi a formare quella parte dell'anima nostra chiamata appunto Super-Io, e il bello è che non sono mica tutte introiezioni forzate quelle che arrivano a costituire l'incomodo Super-Io, per quanto strano possa sembrare ce ne sono pure di volontarie [...]. (1987, p. 279)
[...] qualche volta a dire il vero l'Io riesce a ignorare le istanze inibitorie e intimidatrici del Super-Io e a godersela un poco, ma poi Madonna santa come me la fa pagare questo poliziesco Super-Io, come mi massacra sotto tonnellate di sensi di colpa, come mi punisce mettendosi magari sulla strada della mia gloria e dicendomi tu non sei degno tu non sei capace tu non avrai mai il plauso dei radicali [...]. (1987, p. 280)
[...] io porto a termine la nuova cura tra angosce d'ogni genere con un monte chiamato Sciliar che pare sia tanto bello da meritare d'essere incluso in quasi tutte le cartoline panoramiche di Siusi, sicché a conti fatti si tratta di una specie di gloria locale ma a me questo Sciliar con la sua storta incombenza non ha procurato se non mortali sofferenze e in verità se per fortunata combinazione in qualche istante riuscivo a dimenticarmi d'essere malato ecco che quell'onnipresente Sciliar subito me lo ricordava e io per sfuggire alla sua maligna influenza non avevo altra scelta che camminare a testa bassa [...]. (1987, p. 242)
In realtà la vita come la vedo io è solo una porzione trascurabile di vita la parte più importante svolgendosi nell'inconscio dove si è accumulata nei primissimi anni di vita e forse anche prima della venuta al mondo, e dall'inconscio noi dobbiamo dunque ripescarla e portarla alla conoscenza affinché non ci possa più nuocere né spaventare, e mentre io come essere pensante e ragionevole mi lascio trascinare da alcune migliaia di millenni di cattive abitudini e faccio di tutto per costruirmi un'immagine melata e falsa del padre mio il mio inconscio sa benissimo che questo padre era un cane maledetto che tutti i giorni mi rubava la madre mentre io ero nel pieno della mia situazione edipica ossia per la madre morivo d'amore, onnipotente cane contro il quale io piccolo non avevo difesa all'infuori dell'odio, un odio smisurato come quello dei bambini che non hanno limiti nel voler bene e nel voler male sicché questo mio padre io l'ho ammazzato infinite volte con la mia volontà e il mio desiderio e in altre parole io nel mio inconscio sono infinite volte parricida. (p. 311)
Da un desiderio così dunque ero passato ad un colloquio diretto con la divinità impostato soprattutto su di un ardore diciamo pure distruttivo pregando davanti al lumicino della cappella che indicava la presenza di Gesù Dio nel Sacramento, Gesù essenza astratta di divinità, Gesù misteriosamente corpo e vita nell'Ostia e insieme non corpo e non vita e simbolo come il Padre suo. (p. 321)
Mentre dunque l'adolescente era tutto astratti e angelici furori chissà mai cosa gli stava trafficando il Super-Io, cioè se da un lato è fin troppo chiaro che con il misticismo esso cercava di soddisfare sensi di colpa e voluttà d'espiazione sepolti nell'inconscio, dall'altro lato raggiungeva sia pure involontariamente un risultato importantissimo per il futuro nel senso che il padre terreno principale elemento costitutivo del Super-Io stesso veniva relegato in un secondo piano rispetto al Padreterno. (p. 321)
E allora il compagno mi spiegò che non occorreva aspettar tanto dato che uno poteva arrangiarsi da solo facendo così e così e se volevo provare non avevo che da andare al gabinetto e chiudermi dentro, e naturalmente lo feci subito poiché c'era tutto quel groviglio torbido dell'Es che premeva per sopraffarmi e in verità ciò che provai nelle solitarie manovre fu un piacere tale da sconvolgere la mia fragile costruzione etica, uno partiva dalla parte più impura e peccaminosa del corpo e si innalzava davvero fino alle soglie del paradiso ma poi precipitava giù con la propria coscienza devastata dal peccato e dalla vergogna, come si sarebbe potuto più andare in chiesa e farsi vedere da Dio, benché Dio fosse lì a guardare anche nei gabinetti o la sera nel letto quando spegnevano la luce grande della camera e l'assistente si ritirava dietro la sua tenda nell'angolo, o in qualsiasi altro luogo dove uno commettesse peccato o ne parlasse o ne pensasse compiacendosene, sempre Dio onnipotente era lì a condannare e io non osavo più alzare gli occhi al tabernacolo sull'altare maggiore o anche solo al lumicino che indicava la presenza di Gesù nel Sacramento se prima almeno non mi ero confessato dei miei orrendi peccati, fortuna che c'era la confessione per mondarsi l'anima. (p. 325)
Ed è sbagliato vero, è sbagliato rubare e pure da parte tua è sbagliato, ma perché mi hai messo al mondo allora perché, per ingannarmi e farmi soffrire, io non volevo non volevo, cerco intorno senza trovare uno scopo per la mia vita e solo leggendo mi sembra di vivere. (p. 334)
E io dico con l'anima in tumulto perché non rendi poi quel che prometti allor, Dio santo non ho neanche quattordici anni e ho già una così grande voglia di morire, cosa faccio al mondo io cosa faccio, amo amo amo così miseramente e immensamente che non ho coraggio di fissare un oggetto per il mio amore. (p. 334)
Ma nel mio inconscio c'era qualcosa che diceva sta' a vedere che sei capace di scrivere opere d'arte proprio tu che al bar Venezia t'impappinavi a dire la poesia, ricordati come t'impappinavi. (p. 368)
Insomma ciò che importa raggiungere è una serena valutazione di sé stesso nei confronti della realtà, cosa tuttavia più facile da dire che da fare dato che velocemente cambiamo noi e insieme ovverosia contemporaneamente cambia anche la realtà la quale poi è costituita da infinite cose in perenne mutamento e inoltre da alcuni milioni o miliardi di individui ognuno in rapida trasformazione e impegnato nel correre dietro per conto suo alla mutevole realtà, sicché questo mondo sarebbe proprio una bella girandola da matti se non intervenisse l'arte del compromesso che sarebbe poi la rinuncia alla pretesa di fare cose perfette che com'è noto non sono di questo mondo e facilmente neppure dell'altro. (pp. 402-403)
Citazioni su Il male oscuro
L'opera di Giuseppe Berto si contempera dei riscontri d'una assai povera (nel senso economico, sociale) o le molte volte drammatica e talora atroce esperienza del vivere; di una indagata e approfondita conoscenza dei rapporti psicologici tra i componenti di gruppo, per esempio il gruppo di famiglia, vere unità psichiche della gente più di quanto non sia il vecchio pupazzo denominato persona singola, persona individua; di un'arte del raccontare che snida accanitamente il disperso branco dei motivi, dei temi reali, con la muta latrante delle idee implacabili, le sue proprie dovute alla nevrosi e quelle di certi sciagurati che la follia è pervenuta ad asservire. Questa è l'arte del romanziere Berto: esprimere l'angoscia col descrivere la nevrosi, esprimere la follia col penetrare lucidamente, razionalmente, l'interno delirio. (Carlo Emilio Gadda)
Da quando Flaubert ha detto "Madame Bovary sono io" ognuno capisce che uno scrittore è, sempre, autobiografico. Tuttavia si può dire che lo è un po' meno quando scrive di sé, cioè quando si propone più scopertamente il tema dell'autobiografia, perché allora il narcisismo da una parte e il gusto del narrare dall'altra possono portarlo ad una addirittura maliziosa deformazione di fatti e di persone. L'autore di questo libro spera che gli sia perdonato il naturale narcisismo, e quanto al gusto del narrare confida che sarà apprezzato anche da coloro che per avventura potessero riconoscersi alla lontana quali personaggi del romanzo. (Giuseppe Berto, dall'introduzione)
In quel tempo di mezzo inverno benché si recasse ogni pomeriggio di sole sulla terrazza del Caffè alle Zattere, vale a dire in un luogo per niente spiacevole e anzi rallegrato dalle scarse cose liete che si possono trovare in una città umida qual è Venezia durante la brutta stagione, Antonio aveva soprattutto voglia di morire.
Citazioni
Gli eccessi sono di per se stessi contrari al pacifico godimento di qualsivoglia bene. (V)[9]
Se la vita fosse fatta soltanto di sogni e di fervori chiunque purché dotato d'un po' di fantasia potrebbe campare beato e contento... (p. 117)
Il fiume era un corso d'acqua pigro e non molto lungo, che nasceva dalla palude, proprio dove cominciava la grande pianura. Di li si potevano vedere i monti imbevuti di azzurro, e più vicina l'ultima linea dei colli, che erano di varia forma, alcuni alti e a punta come coni, altri bassi e tondi, come delle gobbe. E sui colli si vedevano prati e case e alberi di castagne e filari di viti, e la distanza dava a tutte queste cose un'apparenza lieve e anche un po' malinconica, quasi che non fossero fatte per gli uomini.
Berto aveva sempre paura di entrare nella vita. Era un groviglio di contraddizioni. Trovata una verità la metteva subito in dubbio. Ma soffriva. La sua angoscia era quella di chi è destinato a navigare sempre. Mai un porto dove fermarsi. (Francesco Grisi)
Dubbio, contraddizione; paura di vivere; senso di smarrimento, angoscia...Berto, straniero a se stesso. (Turi Vasile)
Leggenda vuole che Berto se ne partì un giorno da Conegliano, con la sua automobile, per non tornare ma trovò la Calabria e si fermò. Mi sono fatto l'idea che da quella postazione Berto divinasse, al modo degli oracoli. Indovinò la notte. Dove affogò la vanità di una fuga. (Pietrangelo Buttafuoco)
Nel 1978 Giuseppe Berto pubblicò il romanzo La gloria dedicato alla vicenda di Giuda. L'apostolo veniva riscattato proprio in quella chiave. Giuda si era sacrificato per la gloria di Cristo e la salvezza degli uomini. Una tesi non dissimile espresse in un suo romanzo saggio lo scrittore cattolico Francesco Grisi. (Marcello Veneziani)
Quanto a Giuseppe Berto, diventato «reazionario», riuscì a vincere il Bancarella con Oh, Serafina! grazie ai librai pontremolesi che non obbedivano alle parole d'ordine vigenti. (Alfredo Cattabiani)
Se c'è stato uno scrittore del secondo Novecento esemplarmente non ideologico e conseguentemente niente affatto «novecentesco» questo fu Giuseppe Berto di Mogliano Veneto. (Cesare De Michelis)
Un talento immenso anche nell'autodistruggersi. (Luca Doninelli)
↑ Da Un Addio alle armi non l'avevo proprio letto, L'Europa Letteraria, marzo-aprile 1965.