saggista, storico e giornalista italiano (1935-) Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
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Far valere le ragioni della politica internazionale del proprio paese in una prospettiva di medio termine, specialmente quando quelle ragioni non sono perfettamente allineate con le direttrici di marcia delle massime potenze, è compito davvero difficile da realizzare, e da mantenere a lungo. Se guardiamo alla politica dell'Italia verso i paesi arabi, vedremo che con Andreotti si è trattato appunto di questo. Se guardiamo ai nostri rapporti con la potenza sovietica e i paesi satelliti, varranno le stesse considerazioni. Se guardiamo alla nostra politica all'interno delle organizzazioni europee, con Andreotti ritroviamo le stesse direttrici di marcia. Se guardiamo alle grandi relazioni di affari internazionali, ancora di questo si è trattato. Se guardiamo poi al ruolo internazionale dell'Italia nella sua dimensione complessiva, a opera di Andreotti esso è stato da protagonista. (citato in Giacomo Annibaldis, La Gazzetta del Mezzogiorno, 8 maggio 2013)
Citazioni
Il suo fu un partito poco ideologizzato, di gestione del potere: la grande DC centrista fu la vera realizzazione di De Gasperi. Non era un corpo compatto, anche allora, il partito cattolico. Vi convivevano ispirazioni e forze diverse, da una destra estrema a una sinistra integralista, ma con venature di classe. Nella DC De Gasperi aveva neutralizzato sia la destra, che su pressioni vaticane avrebbe voluto allearsi con neofascisti e monarchici nelle elezioni amministrative di Roma del 1952, sia la sinistra, che avrebbe voluto invece recuperare un rapporto di collaborazione con PCI e PSI nella realizzazione di un programma di impegno sociale. Ma questo non impedì al leader, nell'ultimo discorso a Napoli, di valorizzare anche il ruolo equilibratore dello stato sociale e dell'economia mista. (p. 9)
Rispetto a De Gasperi e alle sue scelte politiche, i giudizi si sono mantenuti, sin dal'inizio, fortemente orientati. Basati, da un lato, sul mito del primo grande politico cattolico, la cui azione veniva celebrata in tutti i suoi aspetti, ed esaltata – persino nelle pieghe più imbarazzanti. Dall'altro sull'esasperazione negativa del ruolo che egli aveva assunto – in nome di interessi non italiani, si era detto persino – nell'esclusione delle sinistre dal governo. (p. 10)
Sotto la sua guida si realizzò il blocco dell'inflazione, la stabilizzazione monetaria, l'incremento dei profitti e la ricostruzione del paese, i cui costi gravarono tuttavia in parte eccessiva sui lavoratori, a causa della politica di freno agli investimenti e di contenimento della spesa pubblica del ministro per il bilancio e governatore della Banca d'Italia, Luigi Einaudi. Per controllare la piazza nei momenti di maggiore tensione, De Gasperi diede mano libera al ministro degli interni, Mario Scelba (in carica dal 2 febbraio 1947 al 16 luglio 1953): la sua repressione poliziesca costò all'Italia ottanta morti. (p. 13)
Il discorso al V congresso di Napoli è il testamento politico di De Gasperi. In esso si profila la DC per quello che sarebbe stata fino alla sua ineluttabile decadenza: un partito centrista, rivolto al ceto medio, dominato dai "notabili".
"Il mio paese confida nell'umana solidarietà dell'America e nel chiaro senso di giustizia del suo presidente", scrve l'ambasciatore italiano negli Stati Uniti, Alberto Tarchiani, al presidente americano, Harry S. Truman, il 6 luglio 1945.
Citazioni
L'aspetto più inquietante di tutta la vicenda potrebbe essere invece del tutto opposto a quello finora insinuato. Esso consiste – semmai – proprio nel fatto che non si può dimostrare che De Gasperi avesse trattato l'estromissione dei comunisti dal governo. Un simile argomento, per quanto paradossale, potrebbe prestarsi a essere frainteso, dando l'impressione che chi lo avanza auspicasse una simile ingerenza americana. Non si tratta di questo. Voglio invece dire che il limite e l'insuccesso della missione a Washington del presidente del consiglio consisterebbero proprio nella incapacità di De Gasperi di portare i suoi interlocutori su temi politici: in quest'ottica, persino la questione della composizione del governo sarebbe stato un tema significativo, rispetto alla modestia delle questioni economiche sollecitate, e neppure risolte. (pp. 72-73)
La storia di quegli anni sembra scolpita, senza sfumature, e vede da una parte il bene – che ognuna delle parti identificava in se stessa –, dall'altra il male senza rimedio. (p. 212)
La resistenza, in tutte le sue componenti, ha dato l'impulso alla trasformazione del paese. Essa ha operato soprattutto nel senso morale: la sua impronta è rimasta nella costituzione del 1948. A cambiare l'Italia ha poi contribuito la DC di Vanoni, Fanfani, La Pira, Gronchi, Emilio Colombo, nel senso di una modernizzazone, sia pure distorta e clientelare. Né vanno trascurati gli sforzi di Dossetti – vanificati dall'accentramento di De Gasperi –, anch'essi nel senso di una modernizzazione, ma soprattutto in quello di una tensione ideologica e spirituale. (p. 212)
C'è stato un campo – di considerevole rilievo per lo sviluppo del nostro paese – nel quale De Gasperi ha resistito alle pretese egemoniche degli Stati Uniti. Dopo la guerra l'Italia doveva impostare la ricostruzione nazionale. Le strutture industriali erano in buona parte danneggiate, ma complessivamente non devastate. Condizione per avviare la ricostruzione era quella di disporre di fonti di energia. Il controllo diretto di queste fonti avrebbe reso il processo di ricostruzione meno oneroso e avrebbe lasciato all'Italia maggiore libertà nell'impostazione dei propri programmi. (p. 219)
Si deve dire, a distanza di decenni da quei fatti, che De Gasperi, sostenendo Mattei nella costituzione dell'Ente Nazionale Idrocarburi (ENI) e nel riservare l'esclusiva delle ricerche nella val Padana al nuovo ente, dimostrò notevole decisione, con una impennata della sua politica nei confronti degli Stati Uniti su una questione tutt'altro che marginale per gli interessi economici e politici americani e per quelli italiani. Proprio mentre l'Italia, sconfitta e legata in posizione subalterna al patto atlantico, veniva considerata dalle società petrolifere e dal governo degli Stati Uniti costretta a una posizione di sottomissione persino nell'esplorazione e nello sfruttamento delle proprie fonti di energia, il resistere a quelle umilianti pressioni, fino alla sfida attuata con la costituzione dell'ENI, rappresentò in qualche modo – da non enfatizzare, ma neppure da ignorare, come si è fatto – un atto di rottura, sul quale si fonderà anche la successiva politica di Mattei, che si svilupperà tuttavia al di là delle intenzioni di De Gasperi, che erano di pura difesa di basilari interessi nazionali. (pp. 243-244)
Il problema petrolifero allora poteva apparire di non grande sviluppo [...]. In prospettiva esso si rivelerà di primo piano per l'ascesa dell'Italia a potenza economica, e quella difesa attuata da De Gasperi varrà a bilanciare, in parte, una politica che si era sviluppata "sotto un dominio pieno e incontrollato".
Citazioni su De Gasperi e l'America
Toccò a Roosevelt, Churchill, Stalin. Doveva toccare anche a De Gasperi. Mentre gli storici inglesi continuano a scalpellare il monumento di Churchill e il generale Volkogonov non smette di rileggere criticamente la vita dei fondatori dello stato sovietico, Nico Perrone, docente di storia americana e collaboratore del manifesto, pubblica presso l'editore Sellerio di Palermo un libro fortemente "revisionista" su De Gasperi e l'America. [...] Perrone ci precipita all'indietro negli anni in cui De Gasperi era "lacchè degli Stati Uniti", Scelba era il suo "ministro della polizia", Saragat rompeva l'unità socialista con i soldi degli americani e Pacciardi cacciava i comunisti dagli opifici militari per obbedire agli ordini della CIA. Le tesi del libro sono sostanzialmente queste. Non è vero che gli americani abbiano assistito l'Italia per aiutarla a consolidare il suo regime democratico: lo hanno fatto per creare nel paese, con la collaborazione dei loro clienti, un duro fronte anticomunista. [...] Perrone è uno storico, e per convincere il lettore del buon fondamento delle sue convinzioni ha fatto lunghe ricerche negli archivi italiani e degli Stati Uniti, ha confrontato e integrato i documenti americani con quelli che rimangono negli archivi personali dei maggiori uomini politici del tempo, da Truman a Acheson. (Sergio Romano)
Citazioni
Rathenau – che, a sinistra, inquietò Lenin, ma suscitò interesse nell'economista liberale Luigi Einaudi – teorizzò un modello di economia mista: stato e privato, riservando allo stato il controllo delle attività strategiche, una funzione propulsiva per l'occupazione e di legittimazione per il sindacato. Lo stato gestore di imprese doveva contenere le diseguaglianze e impedire che una casta di capitalisti si ponesse "al di sopra della nazione" e dei suoi interessi collettivi. Il quadro che Rathenau aveva dinanzi era quello delle concentrazioni monopolistiche private che condizionavano la vita economica, politica e culturale della Germania. Egli concepì dunque un sistema industriale nel quale l'iniziativa privata dovesse convivere – trovandovi collaborazione e sostegno – con l'iniziativa pubblica, mentre allo stato doveva spettare il compito di assicurare il proprio diretto appoggio al settore privato attraverso sgravi fiscali, agevolazioni all'esportazione, formazione delle maestranze, aiuti alla ricerca e, quando occorresse, protezionismo doganale. (p. 241)
Proprio un economista americano, Paul A. Samuelson, pur muovendosi in un orizzonte liberista, ha ricordato che, accanto ai tagli che il mercato sollecita, va conservata qualche funzione dello stato nell'economia, per salvaguardare alcuni irrinunciabili istituti del welfare state. Negli anni che seguirono la crisi del 1929, la funzione imprenditoriale dello stato era stata infatti riconosciuta persino negli Stati Uniti, attraverso la costituzione di holding con capitale pubblico (1933, Tennesse Valley Authority – TVA), elemento propulsivo in quei limitati progetti di welfare che furono avviati in America. (p. 288)
Le teorie di Rathenau contribuirono a fare la Germania economicamente moderna e potente, e si riverberarono in Italia. (p. 289)
Oggi, la corsa alle privatizzazioni [...] non avviene [...] sulla base di referenti teorici, né di prospettive sociali: bada soltanto alle risposte da dare a IMF, OECD e UE, alla condiscendenza verso forti interessi economici stranieri, alle opportunità di sviluppo e di profitto a breve termine da offrire al mercato dei capitali privati, al realizzo immediato per il Tesoro. Assume di voler promuovere la concorrenza, ma favorisce l'oligopolio. Soprattutto non presenta rendiconti (a parte quelli contabili), e neppure sommarie ipotesi per l'avvenire: dell'economia del paese, del suo ruolo internazionale, della condizione dei lavoratori.
Enrico Mattei "aveva a cuore soprattutto gli interessi del suo paese": è il riconoscimento che venne al presidente dell'Enta Nazionale Idrocarburi da un suo avversario, William R. Stott, vicepresidente esecutivo della Standard Oil Company of New Jersey, la maggiore società petrolifera del mondo.
Su questo terreno Mattei colloca l'Italia, con una nuova identità che le veniva dall'assurgere tra i petrolieri mondiali, dalla rapida ricostruzione, dal conseguente ruolo di potenza economica. E l'Italia nella nuova condizion c'è rimasta anche dopo la sua morte, il cui mistero ancor più ha alimentato il mito di De Gasperi.
Citazioni su Enrico Mattei
Il profilo biografico [...] che ora al fondatore dell'ENI dedica Nico Perrone, uno studioso di storia che da giovane fu nello staff di Mattei, ha il merito di ricondurre l'attenzione sugli anni in cui l'industria di stato era centrale nell'economia del paese. Va subito detto che l'occhio con cui Perrone segue l'avventura di Mattei è più che indulgente: fra il biografo e il suo personaggio il lettore avverte una consonanza profonda. Non che Perrone trascuri i lati più dubbi e discussi di Mattei [...] ma nel suo racconto questi elementi occupano uno spazio minore rispetto alla battaglia personale che Mattei condusse per l'autonomia dell'Italia in campo energetico. Nel clima del dopoguerra, parve subito a Mattei che l'AGIP (l'ente petrolifero italiano) fosse tutt'altro che una realtà modesta o, peggio ancora, da smantellare. Colpiscono, in particolare, gli accenti nazionalistici con cui Mattei esortava all'impegno economico. (Giuseppe Berto, La Stampa, 22 febbraio 2001)
Per certi aspetti effettivo protagonista della "modernizzazione italiana", il fondatore dell'Ente Nazionale Idrocarburi, lo stratega di una politica energetica italiana (ma anche l'ispiratore di una politica estera e condizionatore della politica tout court) aveva di mira l'autonomia, la lotta alle grandi compagnie petrolifere (le famose "Sette sorelle"), i costosi accordi terzomondisti con i paesi produttori, la collaborazione con l'UESS nel bel mezzo della guerra fredda. [...] Quasi per caso commissario dell'AGIP, che dovrebbe liquidare come carrozzone autarchico, deputato DC anticomunista, mescola una visione da "posto al sole" con gli impulsi sociali, antiliberali e statalisti dei "professorini" (da Dossetti a La Pira, ma soprattutto a Fanfani, già sostenitore dell'economia corporativa). (Mario Talamona, Corriere della sera, 11 febbraio 2002)
Uno degli storici di Mattei, Nico Perrone, sostiene che "l'Italia non sarebbe diventata la sesta potenza industriale del mondo e non sarebbe entrata nel G7 soltanto contando sull'economia di mercato". Perrone considera positivo il ripensamento in atto sulle privatizzazioni e biasima che l'ENI oggi sia per tre quarti in mano ai capitali privati, "molti dei quali sono americani, gli stessi che ai tempi di Mattei volevano distruggere la compagnia italiana". (Dario Di Vico, Corriere della sera, 22 ottobre 2002)
Per cercare il modello teorico da cui traggono origine le nuove partecipazioni statali, da certe prime esperienze degli anni cinquanta a quel che sono divenute, bisogna portarsi idealmente nel Cenobio dei padri Camalodolesi, all'Ospizio di Camaldoli, nel Casentino, ove, nell'estate del 1943, qualche giorno prima della caduta del regime fascista, si diede convegno la intelligencija cattolica, per discutere di fede e di governo e tracciare linee cristiane per i tempi nuovi che si sentivano avanzare.
Citazioni
Al termine della «Settimana di Camaldoli» vennero formulati diversi sintetici Enunciati. Essi furono successivamente sviluppati in un'articolata elaborazione teorica, consistente in 99 Principi, nota come «Codice di Camaldoli», la cui redazione si protrasse dal settembre 1943 al maggio 1944. Essa fu, «in varia guisa», curata da Ludovico Montini, Sergio Paronetto, Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni. (p. 6)
Proprio nel «Codice di Camaldoli», vennero a delinearsi quelle modalità dei nuovi interventi dello stato destinati a concretarsi, in anni successivi, in due singolari enti di gestione, l'ENI e l'EFIM, e in generale in una funzione nuova – più d'intervento sociale che di conduzione secondo regole di mercato – delle partecipazioni statali. (p. 7)
Il «Codice di Camaldoli» influenzò fortemente i programmi e l'azione della Democrazia Cristiana dal dopoguerra fino ad anni a noi più vicini, non solo attraverso i suoi esponenti politici di sinistra ma, all'inizio, persino attraverso i settori moderati. (p. 8)
Ci furono [...] un momento teorico, lungo, importante e ricco di intuizioni assai avanzate; una prima applicazione politica dell'elaborazione teorica, che si svolse all'incirca nel primo decennio del dopoguerra e comportò radicali e positive rotture; e infine un'appropriazione, nella pratica politica più deteriore, di quel complesso quadro teorico e delle sue prime realizzazioni, fino a perdere il controllo della situazione, a tradirne le premesse ideologiche e a condurre verso esiti disastrosi l'intero sistema delle partecipazioni statali. (pp. 8-9)
Nello sviluppo degenerativo delle partecipazioni statali [...] è stato l'intero sistema a imboccare una strada di declino [...] attraverso quella negazione del sistema medesimo, consistente nella cessione ai privati di parti sempre più consistenti dell'industria di stato.
La notizia del messaggio del presidente Monroe al Congresso degli Stati Uniti (9.XII.1823) arriva a Londra il 27 dicembre; a Parigi rimbalzerà due giorni dopo. Al London Stock Exchange sono quotate le obbligazioni cilene e quelle colombiane, entrambe al 6 per cento, e due prestiti consolidati, al 5 per cento, del governo di Madrid; uno del 1821 e l'altro del 1823. Tutti tioli di scarso mercato; alquanto depressi – per le note vicende in patria e la crisi dell'impero – gli spagnoli, i quali conservano tuttavia spunti di ripresa.
Citazioni
Il 27, a borsa chiusa per le festività natalizie, si tratta perciò di quotazioni non ufficiali [...] i titoli cileni, quotati solo a Londra, salgono di un quarto di punto (0,4 per cento). Sono variazioni lievi, che vanno giudicate però alla luce dei commenti di stampa: il 29, The Morning Chronicle segnala che a Parigi la politica inglese "prevale" su quella russa e che la Francia non sosterrà la Spagna in America latina. (p. 323)
Queste variazioni, a differenza di quanto avveniva nei mesi precedenti, non si compensano nel normale andamento del mercato, ma dànno inizio a una tendenza che si consolida nei giorni successivi. (p. 323)
Nella seconda metà di gennaio, e poi ancora in febbraio, marzo e nella prima decade di aprile, le quotazioni procedono secondo la medesima tendenza: in continuo rialzo i titoli cileni e colombiani, sempre più svalutati quelli spagnoli. (p. 325)
Dopo il messaggio del presidente Monroe, nella prospettiva che all'egemonia spagnola debba sostituirsi nell'America latina quella degli Stati Uniti [...], la corsa al rialzo dei titoli sudamericani rispecchia proprio la fiducia riposta in tali paesi – una volto sotto la protezione degli Stati Uniti – come terre ricche di "immense risorse" da sfruttare, come mercati da riservare a nuovi operatori commerciali (la cui cerchia si vuole contenere quanto più possibile), come zone d'influenza – non più di dominio coloniale – di un nuovo sistema politico ed economico.
A sinistra, una consolidata rappresentazione ha descritto la Democrazia Cristiana come il partito che ha occupato il potere pubblico per circa cinquant'anni, governando in virtù di un ideale patto conservatore con la borghesia post-fascista, la grande industria e gli agrari, prendendosi responsabilità gravi.
Citazioni
Forse proprio i suoi successi economici, sanzionati internazionalmente, la sua influenza e una certa autonomia nelle relazioni internazionali, contenevano delle insidie per l'Italia. Non si sarebbe potuto a lungo consentire a un paese minore per definizione e per tacito accordo fra i grandi veri della terra, di sviluppare ulteriormente un ruolo di tale rilevanza, con un disegno di marcata diversità rispetto agli altri paesi occidentali quanto a peso dello stato nell'economia e singolare politica di vera e propria welfare society. Tanto più nel momento in cui, scomparsa nelle relazioni internazionali la bipolarità, si volevano ridisegnare gli equilibri del mondo e si manifestavano iniziative assai forti per l'edificazione di un'egemonia unica e globale, che non tollera opinioni, tendenze, sistemi divaricanti. (p. 106)
Terminata, con la caduta dell'impero sovietico, quella rappresentazione di sé e quella effettiva funzione della DC, essa ha perduto l'appoggio americano, e un ex direttore della CIA (1993-95), R. James Woolsey, ha voluto farci sapere che proprio dall'America sarebbe stata incoraggiata, per favorire la "libera iniziativa", la rigenerazione giudiziaria del sistema italiano. Che ha avuto come conseguenza anche la cancellazione della DC.
Citazioni su Il segno della DC
Nico Perrone, docente alla Facoltà di Scienze Politiche di Bari, è quanto di più lontano si possa immaginare dal mondo cattolico moderato. Il Foglio l'ha definito "talmente rosso, che più rosso non si può". Chi desidera averne la prova, sfogli le prime pagine del libro. Elencano tutte le accuse che per mezzo secolo la sinistra politica ha scagliato contro l'allora partito di maggioranza relativa. Ecco dunque rispuntare capi d'imputazione come bigottismo clericale, anticomunismo, strategia della tensione, subordinazione agli USA, collusioni mafiose, corruzione, e via così. Nei numerosi libri dedicati all'argomento, Perrone s'era guadagnato la reputazione di critico implacabile, "senza essermene pentito" precisa oggi. Ma adesso – ecco la novità – si domanda "se questa lettura, sostanzialmente vera, contenga effettivamente tutti gli aspetti della politica di governo della DC, o se invece non abbia trascurato di tenerne in luce qualcuno non secondario". Il libro è una rilettura seria di quegli anni. L'esito, una sorprendente riabilitazione postmortem. Qualche esempio qua e là. La Democrazia cristiana, afferma Perrone, "ha dato all'Italia il più lungo periodo di pace della sua storia unitaria e ha realizzato una riduzione degli squilibri, compreso quello storico fra Nord e Sud". In politica estera, l'ingresso nel G-7 costituì "un'affermazione delle specificità italiane che la DC ha saputo cogliere, valorizzare, sviluppare e difendere, con un'azione di governo che ha tenuto insieme identità nazionale e prospettive europee, iniziative autonome di politica estera in difesa di interessi nazionali e lealtà occidentale, modernizzazione e capacità di gestire sacche interne di arretratezza». Nell'economia il plauso è senza riserve: "La DC si è mostrata generalmente rispettosa della sovranità popolare, cui non ha contrapposto un eccessivo potere dell'esecutivo. Nel suo lungo governo essa ha evitato d'imporre troppe regole al dispiegarsi della vita civile, e tuttavia non ha mai perseguito modelli di liberismo. Attraverso una politica di capital spending e una miriade di riforme, è riuscita a esprimere una capacità di riforma, con una sua egemonia forte, duratura, e tuttavia fondata su di un genuino, esteso consenso". [...] Cosa ne pensano i democristiani tutti d'un pezzo, quelli che non hanno cambiato casacca? Marco Follini, leader dell'UDC, ha letto il libro e, naturalmente, lo apprezza. "La cosa curiosa", osserva, "è quest'ammirazione postuma da parte della sinistra. C'è un grande amore per la DC perché non c'è più". (Ugo Magri, La stampa, 7 marzo 2003)
Citazioni
L'ordine rivoluzionario mostra una tendenza a sottoporre ogni aspetto della vita, della società e dei rapporti a regole precise [...] esso riconosce al giudice un potere quasi dispotico. Affinché egli con più rigore possa fare osservare le regole, dalle regole lo si vuole sottrarre affinché, affidando, con apposite norme, il metro della valutazione dei suoi convincimenti alla sua stessa coscienza. (pp. 119-120)
Con una legittimazione concettuale giacobina, dalla dimostrazione in giudizio [...] si è passati al convincimento dell'intimo di una coscienza. Converrà riflettere su questo passaggio. In esso [...] credo abbia trovato qualche legittimazione falsamente progressista lo spostamento di una coordinata basilare del processo.
Citazioni su Il truglio
Prendendo le mosse da un classico quesito di Mario Pagano, celebre pensatore e giurista napoletano di fine Settecento ("un reo, che chiama il complice, per quante ragioni può ciò fare?"), l'agile volumetto dovuto alla penna fluida dello storico Nico Perrone si sviluppa su due piani diversi, spesso tra loro intersecati […]. Da un canto vi è il piano della vicenda storica, sullo sfondo dei fermenti giacobini alla vigilia della Repubblica partenopea, soprattutto incentrata sul famoso processo istruito nel 1794 contro Emmanuele De Deo, accusato di lesa maestà per avere cospirato contro la corona borbonica e, perciò, condannato a morte al termine di un giudizio celebrato in forma sommaria, senza reali garanzie e sulla base di prove di scarsa consistenza. […] D' altro canto, e proprio in rapporto alla realtà processuale del tempo, vi è il piano della analisi dedicata a un singolare istituto (il "truglio", per l' appunto, da cui trae titolo il volume) consistente in una sorta di transazione tra accusato e accusatore sulla entità della pena da infliggere al primo, al di fuori di un normale processo, anche sulla base delle dichiarazioni rese dal medesimo a carico di sé o di altri […]. È facile immaginare a quali oscure manovre potesse dar luogo un istituto del genere, soprattutto nel contesto di un sistema sostanzialmente antigarantistico come quello borbonico. (Vittorio Grevi, Corriere della sera, 24 novembre 2000)
Se si considera che le grandi nazioni hanno impiegato secoli per costruire e consolidare la propria identità, dopo aver profuso energie nelle arti, nella letteratura, nel lavoro, nelle armi, passando attraversi salutari sconfitte e vittorie clamorose, si deve concludere che gli Stati Uniti d'America, anche in questo processo, sono stati capaci di operare in fretta.
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Se si considera che le grandi nazioni hanno impiegato secoli per costruire e consolidare la propria identità, dopo aver profuso energie nelle arti, nella letteratura, nel lavoro, nelle armi, passando attraverso salutari sconfitte e vittorie clamorose, si deve concludere che gli stati Uniti d'America, anche in questo processo, sono stati capaci di operare in fretta. Anzi, senza spendersi troppo in sottigliezze culturali o in guerre annose, se la sono cavata con una dichiarazione del loro presidente James Monroe, il quale, meno di cinquant'anni dopo la dichiarazione d'indipendenza, ha definito, senza sfumature ma con icastica efficacia, le fondamentali caratteristiche espansioniste, e in qualche modo imperialiste ante litteram, del paese. (p. 7)
La dottrina di Monroe, nel corso del lungo tempo trascorso dalla sua proclamazione, è stata [...] utilizzata come strumento dotato di una forte carica nazionalista e persino imperiale, che gli Stati Uniti hanno agitato con frequenza e aggressività crescenti, in un rapporto sempre più ineguale con il resto del mondo. (p. 33)
Anche i più disincantati non resistono ai miti: come quello di John Fitzgerald Kennedy, quasi universalmente ricordato – anche a sinistra – come il presidente della "nuova frontiera", dell'"alleanza per il progresso", dei "diritti civili". In sé queste sono espressioni dense di significato, che si riferivano a progetti reali, dei quali potrebbe essere tuttavia di qualche interesse ripercorrere senza enfasi i risultati effettivi.
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La realizzazione di tutte le intenzioni manifestate da Kennedy nel suo programma, dovette rivelarsi un po' meno grandiosa delle promesse. Bisogna ricordare però che, al Congresso, Kennedy incontrò resistenze ostinate, che fecero naufragare buona parte dei provvedimenti che egli avrebbe voluto realizzare, e questo costrinse il presidente a fare maggiore affidamento su di un'interpretazione più aperta delle leggi esistenti da parte delle corti di giustizia, piuttosto che su profonde innovazioni legislative. Ma all'interno degli Stati Uniti, anche gli ambienti oltranzisti dell'alleanza atlantica e quelli militari in genere operarono per frenare certi entusiasmi di Kennedy, come quello che egli aveva manifestato da senatore a proposito degli insorti algerini. (p. 10)
Nei fatti, la politica di Kennedy per il Vietnam ha visto [...] la moltiplicazione per sette del corpo militare americano – soldati e "consiglieri" –, l'uso diretto contro i vietnamiti delle forze di occupazione americane, la escalation della violenza bellica contro la popolazione, l'impiego del napalm e delle bombe a frammentazione anche contro le capanne abitate dai contadini, l'ampia disseminazione di diserbanti, che hanno compromesso a lungo i raccolti e la stessa salute degli abitanti per il loro elevato contenuto di sostanze tossiche.
Gli anni più intensi della sua vita li visse a fianco di Cavour, dall'agosto 1858 al settembre 1860, nella fase conclusiva dell'unità nazionale. A Torino egli fu il segretario del primo ministro, nel cui studio partecipava a incontri molto importanti. Le relazioni internazionali erano il punto di forza di un disegno molto complesso, il cui esito non era sicuro affatto. Grande doveva essere l'abilità diplomatica e politica, non si potevano commettere errori, neppure nel funzionamento quotidiano del gabinetto, attraverso il quale si sviluppava una rete delicatissima di rapporti interni e internazionali. La segretria del primo ministro fu nelle mani di una persona sola, cui si richiedeva intelligenza, capacità di relazioni complesse e talvolta in conflitto fra loro, sensibilità politica e umana, riservatezza assoluta, e tanta dedizione al primo ministro e alla causa italiana.
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Giuseppe Massari entrò impetuosamente sulla scena politica, con la condanna a morte in contumacia che gli venne comminata dalla Gran corte criminale e speciale di Napoli con la sentenza del 20 agosto 1853. Era stato giudicato colpevole di uno "de' reati contro lo stato" puniti al "titolo II" delle Leggi penali. (p. 7)
Firmò inoltre la protesta proposta da Pasquale Stanislao Mancini (1817- 1888). Questa fu una mossa che gli costò cara. A Napoli, il 15 maggio, una sollevazione popolare aveva colto tutti di sorpresa. I soldati spararono e ci furono molti morti. Il Parlamento, che aveva tentato una mediazione, venne invece accusato di aver sostenuto la sedizione. Massari, che si trovava fuori della capitale, informato dei fatti, dette la propria firma a una protesta che venne ritenuta un atto sedizioso e sarà un elemento pesante nel processo contro di lui. (p. 14)
Dov'era Massari? A Torino, nello entourage ristretto di Cavour; lì aveva seguito tutto, aveva contribuito a prepa- rare lo spirito della delegazione; lì aveva sperato e atteso. Anch'egli perciò ebbe un ruolo, accanto al primo ministro, in un momento decisivo e di svolta assoluta per le conseguenze che avrebbe avuto. Senza quelle macchinazioni di Cavour, la storia dell'unità d'Italia non avrebbe preso la strada decisa che invece ebbe dopo il congresso. (pp. 102-103)
I segreti di cui era stato partecipe con Cavour, Giuseppe Massari se li portò con sé; quelli di qualche missione coraggiosa per l'unità nazionale, li abbiamo strappati al suo strenuo riserbo in queste pagine. Ma non devono essere tutti.
Citazioni su L'agente segreto di Cavour
Alla morte di Massari (Roma, 13 marzo 1884) una parte del disegno cui s'era votato settant'anni prima nel seminario di Avellino era giunta a compimento; un'altra, la "questione meridionale", già proposta da Liborio Romano, era aperta e sanguinante. Massari l'aveva affrontata nella relazione parlamentare su Il brigantaggio e le provincie meridionali in cui denunciò errori ed enormità ed esortò a puntare su decentramento, autonomie locali e rispetto delle tradizioni, contro la scorciatoia dello stato centralistico, venato di giacobinismo. Avvertì per tempo che il malcontento serpeggiante nel Mezzogiorno si sarebbe rovesciato contro il nuovo ordine ancor più di quanto avesse fatto contro i Borbone. […] Ma perché dunque il suo Diario risulta mutilo? Secondo Perrone ne furono strappate le pagine dal 24 marzo al 18 settembre 1860 proprio per cancellare la testimonianza diretta sull'azione di Cavour, che rimase quindi affidata all'Epistolario cioè a quanto il Gran Conte mise nero su bianco per i posteri. La vera storia della fase cruciale, quella della stella a cinque punte (re Vittorio, Cacour, Garibaldi, Liborio Romano e Giuseppe Massari), rimane dunque da ricostruire. (Aldo A. Mola, Il Giornale del Piemonte, 16 ottobre 2011)
Il mistero della sparizione delle pagine diaristiche che avrebbero potuto chiarire i rapporti effettivi fra Cavour ed i funzionari del regime borbonico in disfacimento, in particTesto in corsivoolare Liborio Romano […]. Ma il merito di questo nuovo studio di Perrone è anche quello di sottrarre la figura di Massari ai giudizi negativi connessi alla funzione svolta come relatore della Commissione parlamentare d'inchiesta sul brigantaggio. (Vito Antonio Leuzzi, La Gazzetta del Mezzogiorno, 20 ottobre 2011)
Giuseppe Massari […] non […] riducibile al luogo comune del meridionale antimeridionalista al servizio di Cavour, sostenitore della lotta militare al brigantaggio, avendo guidato la prima commissione parlamentare nel Mezzogiorno. Questo cattolico moderato della Destra storica fu invece il primo a descrivere il fenomeno come questione sociale, opponendosi allo stato d'assedio e agli effetti di criminalizzazione del Sud. (Felice Blasi, Corriere del Mezzogiorno, 25 ottobre 2011)
"Den danske Frimurerorden" è scritto su una grande casa di Copenaghen. Il portone dell'ordine danese dei liberi muratori, stretto e alto rispetto alle dimensioni dei comuni portoni di questa città, è racchiuso fra due colonne di marmo nero, che si ergono per tutta l'altezza dei tre piani. Una sorta di timpano murario, che sale fino alla terrazza, reca al centro una stella di pietra, costituita di due triangoli sovrapposi e collocata al di sopra di un compasso e una squadra.
Citazioni
Questo libricino nasce da una frequentazione della Danimarca, che per l'autore dura da quindici anni. Suggestione dei luoghi, delle persone, vitalità della comunità di studio, un welfare state che riesce ancora a sostenere la crescita civile e a sorreggere nel bisogno. (p. 9)
A Copenaghen ho dunque trovato le carte per scrivere queste pagine. A parte i documenti dell'archivio massonico [...] ho potuto consultare l'elenco della corrispondenza del religioso danese con i liberi muratori e giacobini italiani. [...] Ho quindi ottenuto copie della corrispondenza a quello straordinario personaggio dai fratelli massoni del Regno di Napoli e di Sicilia, e le ho riprodotte in buona parte nelle pagine che seguono. (p. 11)
Le logge, quando poterono riorganizzarsi, lo fecero nelle forme e con gli obiettivi della tradizione. La geografia massonica che ne scaturì fu di dimensioni continentali, e segnò con lunga proiezione nel tempo anche le alleanze e le sfere d'influenza degli stati.
Veniva dalla resistenza, Enrico Mattei, e dalla "lottizzazione" partitica che a essa seguì nella costruzione dell'Italia repubblicana.
Citazioni
Il tragico destino di Mattei dovette incomincire a disegnarsi a Teheran, dove l'ENI firmò un accordo rivoluzionario (14 marzo 1957), che assegnava all'Iran circa il 75 per cento degli utili sullo sfruttamento di alcuni giacimenti petroliferi. (p. 9)
È importante sottolineare che – a giudizio americano – le spinte anti USA e anti NATO venivano dalla sinistra della DC – Giovanni Gronchi, Amintore Fanfani, Mattei – ma con contatti nei settori che facevano riferimento a Guido Gonella e Giuseppe Pella. D'altronde, gli americani non possono aver dimenticato che proprio Gronchi, con le sue autorevoli riserve, molto aveva contribuito al malessere e alle lacerazioni che avevano cercato di compromettere, dall'interno, l'appoggio della DC all'alleanza atlantica. (p. 17)
Tutte le ipotesi avanzate sulla morte di Mattei erano focalizzate su aspetti particolari, anche assai rilevanti, ma il loro limite era di aver trascurato il quadro politico generale su cui maggiormente aveva pesato la presenza devastante di Mattei. [...] Ma trascuravano del tutto la prospettiva delle grandi alleanze che reggono l'equilibrio del mondo, che neppure le insofferenze di stati potenti [...] avevano mai seriamente messo in discussione. Così sottovalutando di molto lo stesso Mattei – che gli americani invece avevano dimostrato di conoscere nel suo peso reale – e perdendo una traccia per capirne la fine. (da La morte necessaria di Enrico Mattei, pp. 28-29)
"Fanfani ha voluto significativamente scegliere l'espressione "abbattimento dell'aereo di Mattei". Credere ancora alla versione ufficiale dell'incidente, pare dunque assai problematico.
Leonardo Sciascia nel 1978 è un punto di riferimento molto importante della cultura e della politica italiana. Scrittore di fama conteso dagli editori, amato anche all'estero, specialmente in Francia dove c'è tanta attenzione per il nuovo che viene dalla letteratura italiana. E inoltre egli è un'espressione della Sicilia, per la quale ci sono tante ragioni d'interesse culturale. Accanto al suo valore di scrittore e alla vasta diffusione dei suoi libri, Sciascia ha conquistato una posizione di grande rilievo anche nel dibattito politico.
Citazioni
Sciascia in poche parole ha colto il nodo. Con la rincorsa del potere a fianco della Dc, il Pci cambia la propria natura. (p. 25)
Ma è davvero una svolta politica la candidatura di Leonardo Sciascia nel Partito radicale? A meglio considerare la questione, dopo tanti anni, quella può essere ritenuta piuttosto la sofferta constatazione della svolta che si sta consumando nel Pci. (p. 33)
Quanto pesi sulla vita di un uomo l'intensa persecuzione di una parte importante della stampa, accompagnandolo quasi fino alla morte, non si può dimostrarlo. Per stare alla cronologia esteriore dei fatti, la salute di Sciascia sul finire del 1988 vede aggravarsi una situazione già compromessa; o meglio, allora la sua malattia si manifesta in un modo che non è più reversibile. (p. 55)
Alla "futura memoria" lo scrittore affida le pagine che maggiormente hanno pesato su di lui. Nel libro egli pubblica infatti non solo l'articolo suo, ma anche ma anche la sua replica ferma e civile. Quella campagna produrrà anche un risultato postumo: quello di oscurare Leonardo Sciascia per più per più di vent'anni. Alle sue opere, alle sue parole mai più verrà riconosciuto il vero valore.
Citazioni su La profezia di Sciascia
Nella conversazione romana, Sciascia – descritto magistralmente dal suo interlocutore – si mette a nudo, soppesando tuttavia ciò che dice. E di certo non si limita a rispondere sui temi scottanti della politica e del suo impegno e "disimpegno". Parla del potere delle donne in Sicilia, ma anche del tempo amaro delle nuove generazioni, con parole preveggenti; chiarisce perché rinuncia ai grandi premi letterari. (Giacomo Annibaldis, La Gazzetta del Mezzogiorno, 24 febbraio 2015)
Un intellettuale libero, raccontato attraverso un epistolario inedito e i retroscena dell'intervista che rilasciò a il manifesto. (Michele De Feudis, Corriere del Mezzogiorno, 26 febbraio 2015)
Documenti illuminanti sul pensiero di un autore spesso travisato. (Antonio Carioti, Corriere della sera, 9 marzo 2015)
Apprezzato all'estero, soprattutto a Parigi, in patria dava fastidio e poco a poco venne messo in un canto, soprattutto da quando denunciò l'opacità dell'"affare Moro" e mise alla gogna i "professionisti dell'antimafia" [...]. Fu investito da un uragano d'invettive. Non era un moralista. Era una persona perbene. Non aveva bisogno di codici etici per tenere la schiena dritta. (Aldo A. Mola, Il Giornale del Piemonte, 29 marzo 2015)
È pieno di "cose" questo agile e apparentemente esile La profezia di Sciascia di Nico Perrone. In realtà, l'aspetto, il formato non deve trarre in inganno: non è affatto esile, tutt'altro; è robusto e, appunto, pieno di "cose", "argomenti": idee, opinioni che non saranno (anzi, sicuramente, dati i tempi che si vivono) maggioritarie e dominanti; ma sono il lievito di quel pensiero destinato a durare; e alla fine, "vincere". È un baedeker da compulsare, dopo averlo letto, scegliendo magari un brano a caso, con la certezza che un "caso" non sarà mai, se l'occhio indugerà in quel particolare brano: che le coincidenze hanno una loro logica, pur sfuggente, a volte. (Valter Vecellio, L'opinione, 8 aprile 2015)
nel 1987 Sciascia scrisse un famoso articolo: "I professionisti dell'antimafia", che provocò una polemica furibonda nella quale fu investito da dissensi ed autentici insulti, soprattutto da parte di Repubblica, ma anche di altre testate e difeso dal solo Corriere che aveva pubblicato il pezzo. La storia è oggi ricostruita puntualmente, anche sulla base di quattro lettere inedite di Sciascia, da Nico Perrone […] che ricorda come il titolo, per la verità, era ingannevole: non lo aveva scelto l'autore, ma era, come di consueto, un redazionale. (Aldo Giannuli, aldogiannuli.it, 26 aprile 2015)
il delizioso librino di Nico Perrone, La profezia di Sciascia, proposto da Archinto, che raccoglie pure una conversazione con lo scrittore del 1978, "durata due intere giornate", alla quale s'aggiungono quattro lettere inedite che Sciascia scrisse a Perrone tra il luglio del 1988 e il gennaio del 1989. (Massimo Onofri, Avvenire, 26 agosto 2015)
il libretto di Nico Perrone [...] fa seguito a una sua densa introduzione sul profilo politico dello scrittore. (Massimo Raffaelli, il manifesto, "Alias", 20 settembre 2015)
Una lunga riflessione sulla figura dell'intellettuale impegnato attivamente precede la conversazione con lui, frutto di minuziosi appunti, a Roma, nell'autunno del 1978. Le idee sono espresse da Sciascia con risposte decise e fulminee. Seguono quattro lettere dello scrittore che esplorano la situazione del tempo con riferimenti precisi al caso Mattei e alla scomparsa di Mauro De Mauro. È una chicca, questo piccolo libro, da leggere per ricordare, per riflettere su un passato non tanto lontano quasi dimenticato. (Anna Grazia D'Oria, L'immaginazione, n. 290, novembre-dicembre 2015)
una conversazione con lo scrittore del 1978 e quattro lettere inedite che Sciascia scrisse all'americanista Perrone in un periodo cruciale della sua vita (luglio 1988 – gennaio 1989) quando fu sotto attacco per l'articolo sui Professionisti dell'antimafia da parte di un largo fronte di intellettuali e politici, che si spinse fino al dileggio e all'infamia, e lo scosse profondamente accelerando il male che lo avrebbe portato alla morte. (Antonio Motta, L'attacco, 22 dicembre 2015)
Quando Liborio romano va a occupare un seggio alla Camera dei Deputati, a Torino è uno sconosciuto. Nella prima votazione dopo l'unità d'Italia (1861), egli si è imposto con un risultato plebiscitario. Ha vinto con gran rumore in nove collegi, quello del suo villaggio, Patù, che nessuno sa nemmeno dove sia, e altri otto. Il suo nome, nella capitale, lo si collega con difficoltà a qualche avvenimento noto.
Citazioni
Nel diciannovesimo secolo, l'iniziatore del trasformismo nella penisola italiana è Liborio Romano. Egli incomincia la carriera in una setta carbonara, e la prosegue da ministro di polizia del re Borbone, mentre si tiene segretamente in contatto con Cavour. Ciò lo rende collaborazionista – questa parola allora non si adoperava – della potenza straniera che opera per conquistare lo stato del quale egli è ministro. Tradendo Cavour, favorisce invece Garibaldi nell'occupazione. Garibaldi contraccambia col farlo ministro; Cavour invece lo escluderà da ogni carica. (p. 1)
Liborio Romano – dotato di una versatilità naturale per organizzare il consenso – entra in scena nel Salento estremo, coi moti del 1820. A Napoli ha dimostrato di essere un avvocato principe: difende perfino gli interessi inglesi in una questione di zolfare che Ferdinando II di Borbone vorrebbe espropriare. (p. 2)
Il declinante Francesco II lo fa per quattro mesi capo della polizia e ministro (in prigione lo aveva mandato il re precedente); in quelle funzioni, fa entrare qualche camorrista nella polizia. Realizza però una concezione nuova dell'amministrazione degli interni, attenta a bisogni sociali. Con tante ambiguità, da ministro egli continua un'azione antiborbonica. (p. 3)
Liborio Romano [...], eletto alla Camera dei Deputati del Regno d'Italia contemporaneamente in nove collegi, con determinazione chiede a Cavour una giusta considerazione dei problemi di Napoli e del meridione, che egli sa considerare con spirito nazionale, ma ritiene del tutto particolari e gravi. Proprio Cavour, che di lui si era servito per la conquista, lo avvia al rapido declino. (p. 3)
Egli è uno specchio delle contraddizioni e dei problemi posti alla base dell'Italia unita; ma è soprattutto il primo grande interprete del nostro trasformismo politico. Se ne è detto tutto il male possibile; ma non si è potuto aggiungere che avesse rubato o approfittato delle cariche. (p. 4)
Ogni storia può essere letta anche secondo una prospettiva diversa: la verità è difficile trovarla nelle rappresentazioni unilaterali. (p. 4)
Liborio Romano ha indicato un modo allora sconosciuto di fare politica, senza uno schieramento vincolante, mostrando una rapidità di passaggio dall'una all'altra parte, talvolta troppo repentina. Ha fatto politica col potere assoluto; ha fatto politica con la nuova classe liberale: senza spostare la sua prospettiva e quasi senza cambiare le sue parole. (p. 186)
Il suo era una sorta di populismo esercitato all'interno di una classe dirigente ristretta e omogenea: in questo era facilitato dalla struttura sociale meridionale e dal suffragio elettorale ristretto. Esercitava un'egemonia tutta meridionale sugli interessi e le coscienze. (p. 186)
Quelli non erano tempi di vasta conoscenza dei personaggi storici minori italiani. L'azione dei nostri uomini politici che non rivestivano ruoli molto evidenti, veniva in gran parte ignorata. È perciò ancora più considerevole l'attenzione riservata al Romano da uno storico inglese del calibro di George M. Trevelyan.
Citazioni su L'inventore del trasformismo
Nulla è dato per scontato. Bisogna leggere questo volume che tenta di sbrogliare una matassa ingarbugliata, non con il linguaggio specialistico, ma quasi adottando nello stile l'altalenare di un diverso sentire. (Giacomo Annibaldis, La Gazzetta del Mezzogiorno, 17 novembre 2009)
[Liborio Romano] Benché sia uno dei personaggi più affascinanti del risorgimento, è poco conosciuto al di fuori di una cerchia di studiosi. Nella vulgata ha la fama di traditore, di tutti e di tutto. Non riesco a considerarlo tale. E neppure un trasformista, come viene definito in un libro eccellente. [...] L'autore [...] sa come spiegare raccontando, oltre a saper usare una selva di documenti poco o affatto noti. (Giordano Bruno Guerri, Il Giornale, 20 novembre 2009)
Meglio, in politica, avere rappresentato venti bandiere che nessuna? – scrisse pensando a lui Benedetto Croce. Indro Montanelli nella sua biografia di Garibaldi, Luigi Magni nel suo film Il generale ce lo hanno rappresentato come un simpatico birbante. E anche Nico Perrone [...] ci presenta una non schematica riabilitazione: anche a sorpresa, rispetto a un titolo che sembrerebbe ben altrimenti critico. È vero, riconosce, Liborio Romano era un voltagabbana. Ma non per volgare tornaconto personale, bensì sempre al servizio di progetti autenticamente riformisti. In campo penale, ad esempio, si dovette al suo pur breve passaggio per il governo delle Due Sicilie l'abolizione della pena barbarica delle legnate. E in campo sociale fu promotore alla Camera di una proposta di riforma agraria che forse contribuì al suo isolamento politico più ancora delle troppe giravolte. Naturalmente, molto dipende poi dal modo in cui si vuole valutare il passaggio dal Regno delle Due Sicilie al Regno d'Italia. Perrone non nasconde affatto i nodi dell'Unità, dall'accentramento brutale alla feroce repressione del brigantaggio. Ma non indulge neanche sull'opposta retorica della monarchia borbonica come mitica età dell'oro: prima ancora dei bersaglieri contro i briganti erano stati i soldati di Ferdinando I a tagliare teste in quantità per reprimere la rivolta del Cilento del 1828, e gli investimenti infrastrutturali e industriale che pur la dinastia borbonica aveva fatto si concentravano a Napoli dimenticando il resto del Regno. Romano, a suo modo, era stato appunto fautore di un fallito progetto di riscatto del Sud accettando la nuova logica unitaria, ma salvaguardandone gli interessi specifici. (il Foglio, 27 luglio 2010)
Nico Perrone ha sempre visto nelle ideologie la disciplina della democrazia. E tuttavia distingue democrazia politica e democrazia sociale: senza la seconda, la prima è ormai una democrazia venale, dove il controllo del denaro assicura il controllo delle tv e il controllo delle tv assicura il controllo dei popoli. [...] Perrone ha poi rivolto lo sguardo più indietro, a figure che hanno improntato gli albori dell'Italia unita, specie a quelli che gli altri dimenticano, come Liborio Romano. (Maurizio Cabona, Secolo d'Italia, 21 gennaio 2011)
Lo storico Nico Perrone [...] ne ha tentato una riabilitazione in un libro che è il più completo sulla sua figura [...]. Nessuno dei suoi critici ha mai dimostrato [...] che nella sua vita abbia mai approfittato delle sue cariche o compiuto malversazioni. Se invece c'è una cosa che la sua storia dimostra, è che al culto del ricordo degli eroi si accompagnano sempre meccanismi di damnatio memoriae, e ciò vale anche per il nostro risorgimento: per questo Liborio Romano appartiene oggi alla schiera degli eroi negativi ed ingombranti dell'unità d'Italia. (Felice Blasi, Corriere del Mezzogiorno, 22 febbraio 2011)
Mentre scrivevo questo libro mi chiedevo – ricavandone qualche motivo di preoccupazione – a chi potesse interessare. Pensavo, infatti, che i vari aspetti della storia dell'ENI di Mattei fossero leggibili fin nei dettagli, attraverso documenti che dovevano esser noti a tante persone da lasciarmi pochi lettori: i quali, come si sa, si trovano soprattutto fra gli addetti e gli ex addetti ai lavori. Ma ho dovuto ricredermi. Dagli uffici dell'ENI ho cominciato a sentire che non si erano trovati documenti relativi ai rapporti con gli Stati Uniti, e che gli archivi non erano consultabili da estranei, perché non ancora ordinati. [...] Con queste premesse, mi sono convinto che aspetti da svelare, nei rapporti fra Mattei e gli Stati Uniti, dovevano essercene tanti.
Citazioni
In queste pagine ho pubblicato documenti e testimonianze che attestano l'immane disturbance strategico-politica creata da Mattei, che si aggiungeva a quella, da tempo assai nota, che si esplicava nel campo degli affari petroliferi. Il quadro d'insieme: non una spiegazione diretta del fatto. [...] Nel quadro ho [...] collocato indizi e moventi; alcuni dei quali muniti del crisma dell'ufficialità e sorretti da carte che introducono inquietanti elementi di novità rispetto al quadro sinora noto. (p. 216)
Forse perché avevo vissuto il clima dell'ENI, prima e dopo la morte di Mattei, ero anch'io in fondo convinto che quell'aereo fosse caduto per cause accidentali. Con tale spirito mi sono accinto a scrivere questo libro, convinto perciò che non dovesse contenere proprio questo capitolo conclusivo. I documenti e le testimonianze che ho raccolto mi hanno tuttavia fatto mutare parere. (pp. 219-219)
Poiché quelle carte e quelle testimonianze mi son sembrate portare proprio nella direzione dei rapporti politici e militari con una grande potenza, sento che non avrei potuto mancare di aggiungere al libro queste pagine.
È stato un eccellente stratega della propria campagna elettorale. Ha battuto Hillary Clinton, una professionista della politica. Barack Obama sarà ricordato per avere ridestato la passione politica in America. Ma dopo l'insediamento, egli sembra preoccupato soprattutto della sua rielezione: alla caccia dei voti che gli erano mancati.
Citazioni
L'affermazione elettorale di Obama è stata consistente: il 52,9 per cento dei voti contro il 45,7 del repubblicano John S. McCain, e 365 voti elettorali contro 173. Alla presidenza, si è insediato il 20 gennaio 2009. Nel 1932, Franklin D. Roosevelt aveva vinto con il 57 per cento. (p. 10)
Obama sembra avere preso subito coscienza di una situazione internazionale mutata, nella quale gli Stati Uniti non sono più la potenza massima, ma una potenza che deve convivere con altre. (p. 10)
"L'offensiva alleata fa strage di civili afghani": è il titolo del moderato Corriere della sera (15 febbraio 2010). L'America di Obama ha dichiarato di averli uccisi "per errore" con un missile. Gli afghani uccisi in questa incursione sono stati 12, tra questi 6 erano bambini. (p. 30)
Un secondo mandato, a Obama sarebbe necessario per realizzare un programma veramente caratterizzante, per superare le incertezze, le contraddizioni, certi vuoti del primo; d'altronde, restare in carica per un solo quadriennio, equivarrebbe a una sconfitta politica. Obama sembra perciò già al lavoro per la sua rielezione.
Citazioni su Obama
Perrone ragiona con il suo lettore e lo fa proponendo una visione divaricata della recente storia americana. Da una parte tenendo un occhio al passato, […] dall'altra verificando quanti e quali degli annunci, alcuni eclatanti, sono stati adempiuti. […] Certo, per la grande planetaria non è facile imporre la propria politica, e farlo senza mostrare i muscoli. E Obama deve non scontentare del tutto i poteri forti americani. Anche per questo le parole durissime contro il mondo finanziario […] si sono andate via via fiaccando. Come anche le buone intenzioni sulla questione palestinese. (Giacomo Annibaldis, La Gazzetta del Mezzogiorno, 4 settembre 2010)
Alla luce dei risultati elettorali, che hanno visto il presidente americano in netto calo di consensi, si può dire che il libro sia stato profetico: il saggio […] sintetizza molto bene tutte le ragioni che hanno portato alla crisi. "Yes, we can't" è l'ironico sottotitolo che Perrone ha aggiunto al libro, capovolgendo lo slogan, "Yes, we can", della campagna elettorale di Obama: le promesse fatte sulla politica estera ed interna statunitense, dalla riforma del welfare al Medio Oriente, dalla prigione di Guanánamo all'Afghanistan, non sembrano essere state ancora mantenute. (Felice Blasi, Corriere del Mezzogiorno, 5 novembre 2010)
Niente prepotere finanziario, dunque, e nemmeno più la certezza dell'antica invulnerabilità. Ma c'è dell'altro. Anzi, molto altro: dai nodi irrisolti della politica estera (Afghanistan e Iraq in primis) alla crisi economica resa manifesta dall'invasione del petrolio nelle acque del golfo del Messico, passando per il volontario mantenimento di indegne realtà come Guantánamo, ed il giganteggiare planetario del colosso cinese, per non parlare della galassia di nemici mai domi disseminati in tutto il globo. Il mosaico finale compone il ritratto doloroso di una bestia domata o, quantomeno, assai ridimensionata. (Leonardo Petrocelli, La Gazzetta del Mezzogiorno, 17 febbraio 2011)
Enrico Mattei entra in scena il 28 aprile 1945, quando la Commissione Centrale Economica del Comitato di Liberazione Nazionale per l'Alta Italia (CLNAI), presieduta da Cesare Merzagora, su sollecitazione di Mario Ferrari Aggradi, lo nomina "commissario straordinario per l'AGIP", conferendogli "le funzioni ed i poteri" medesimi "spettanti agli organi di amministrazione e rappresentanza legale della società".
Citazioni
Non posso [...] nascondere l'impressione che, molto di quanto ha ruotato intorno alla vita e alla morte di Mattei, lo si vorrebbe lasciare avvolto nella retorica della leggenda, ma coperto da una protezione inviolabile. (p. 18)
Il mercato petrolifero era dominato in modo incontrastato dalle "sette sorelle", le quali, pur non essendo legate da un accordo di cartello, si consultavano per dividersi zone di approvvigionamento e mercati, e soprattutto per determinare prezzi e condizioni di acquisto in modo da mantenere una sostanziale condizione di oligopolio. L'Italia [...] non aveva alcun peso in questo mercato. Se le cose fossero rimaste in quei termini, lo sviluppo italiano sarebbe stato fortemente dipendente. Il disegno di Mattei – sostenuto, con uno strappo alla sua politica, fortemente subordinata agli Stati Uniti, da De Gasperi – concepì la grande holding petrolifera nazionale dell'ENI, che egli dotò, anche attraverso i controllati stabilimenti del Nuovo Pignone, di tecnologia italiana di avanguardia. L'Italia era divenuta capace d'influire sulle condizioni di acquisto, sui prezzi e gli approvvigionamenti del petrolio sul mercato mondiale. (p. 222)
In questa storia, ci sono due punti fermi. Il primo è che dal 1974 l'Italia si colloca al sesto posto nella graduatoria dei paesi industrializzati, subito dopo paesi come Stati Uniti d'America, Giappone, Germania, Francia (l'Inghilterra, non sempre riesce a precederla). E ci resta, senza indietreggiare (ma poi vedremo come andrà a finire). Il secondo, di tutt'altra natura, è relativo all'uccisione di Enrico Mattei. Ma questo lo vedremo verso la fine.
Citazioni
Enrico Mattei, il fondatore di una holding dello stato italiano che si chiamerà Ente Nazionale Idrocarburi, universalmente nota con la sigla Eni, muore nel 1962. Senza aver fatto in tempo a vedere l'ascesa dell'Italia, dalla povera condizione del dopoguerra, al rango di potenza economica di rilevanza mondiale: la consacrazione viene dalla World Bank nel 1974. Ma di questo risultato straordinario, proprio lui, Enrico Mattei, ha costruito le premesse, gli strumenti, e una certa orgogliosa e silenziosa consapevolezza nazionale. Egli ha dato un segno nuovo e duraturo alla storia economica italiana, e forse non soltanto a quella, finché quella temperie è durata. (p. 14)
Nel dopoguerra, le condizioni del nostro paese erano disastrose: mancavano le prospettive di recupero. La conversione di quella parte dell'industria che era sopravvissuta agli eventi bellici in attività di pace, richiedeva capitali che era difficile convogliare verso investimenti il cui rendimento appariva incerto. E richiedeva la disponibilità di fonti energetiche che l'Italia non possedeva. La ricostruzione delle industrie era problematica. La disoccupazione costringeva all'indigenza una parte rilevante della popolazione, senza ragionevoli prospettive di recupero. Il credito internazionale del nostro paese, sul piano diplomatico ed economico era insignificante. La lira subiva un processo di svalutazione continuo. (p. 14)
La figura di Enrico Mattei, e soprattutto le circostanze misteriose della sua morte hanno molto a lungo monopolizzato l'attenzione, quasi mettendo da parte la sua creazione industriale. Figura gigantesca quella di Mattei, nell'Italia del dopoguerra, capace di primeggiare in un tempo che personaggi di grande statura ne ha visti: Alcide De Gasperi, Palmiro Togliatti, Pietro Nenni, Amintore Fanfani, Giorgio La Malfa nel campo politico, Raffaele Mattioli nella finanza, Adriano Olivetti e Vittorio Valletta nell'industria produttiva, per limitarci ai nomi che possono venire subito in mente. Mattei rappresenta però qualcosa di particolare e di nuovo, per l'ampiezza e la proiezione nel lungo periodo del suo disegno, per le valenze politiche di certe sue iniziative, per i segni che lascia nell'economia e nella politica internazionale del nostro paese. (p. 16)
Dal 1974 l'Italia si colloca al sesto posto nella graduatoria dei paesi industrializzati, subito dopo colossi come Stati Uniti d'America, Giappone, Germania, Francia (l'Inghilterra, non sempre riesce a precederla). E ci resta, senza indietreggiare (ma poi vedremo come andrà a finire). (p. 18)
Per un paese uscito sconfitto dalla seconda guerra mondiale, dipendente dall'estero per le materie prime essenziali e col sistema produttivo tutto da rimettere in piedi, quello è stato un risultato incredibile. Sul quale non si è abituati a riflettere. Chi sa, forse perché ci accompagna un'antica abitudine alla sottovalutazione del nostro paese, a non menar vanto e a restare con gli occhi spalancati solo di fronte ai successi stranieri. Chi sa, forse perché la coscienza nazionale da noi è arrivata tardi e s'è consolidata male, attraverso un messaggio del quale si sono servite le destre nazionalista e fascista. (p. 18)
All'inizio degli anni '50, le "Sette sorelle" del petrolio "controllano oltre il 90 per cento delle riserve di oil al di fuori degli Stati Uniti, del Messico e delle economie a pianificazione centralizzata; contano per almeno il 90 per cento della produzione petrolifera mondiale; possiedono almeno il 75 per cento della capacità di raffinazione mondiale; e forniscono circa il 90 per cento del petrolio trattato sui mercati internazionali". Esse costituiscono una sorta di club a numero chiuso per la gestione degli interessi petroliferi mondiali, che procede attraverso intrecci, spesso inconfessabili, coi governi, dagli Stati Uniti al più sperduto emirato. Le "Sette sorelle" sono perciò "nella condizione di esercitare un controllo informale sull'economia petrolifera mondiale". Oltre alle "Sette sorelle", altre ventotto società americane detengono titoli petroliferi all'estero e anch'esse sono sostenute dal governo degli Stati Uniti a formare un blocco di interessi economici e politici. (p. 39)
Nel dopoguerra la diplomazia americana si è particolarmente impegnata nell'affermare la necessità dell'iniziativa privata per la "difesa" degli Stati Uniti. Spruille Braden, assistente del segretario di Stato, in un suo intervento sul Department of State Bulletin (22 settembre 1946), afferma che "l'iniziativa privata costituisce il mezzo migliore, e nella maggior parte dei casi l'unico mezzo realmente efficace" per lo sviluppo. (p. 23)
Il capo della Petroleum Division del Dipartimento di Stato, John A. Loftus, ha tenuto all'università di Pittsburg (30 luglio 1946), ha sostenuto il ruolo fondamentale del petrolio nella futura politica americana […]. Loftus ha sostenuto che gli Stati Uniti debbano "promuovere lo sviluppo" delle riserve petrolifere badando che, dal punto di vista americano, siano "ben situate", sulla base di valutazioni di convenienza "economica in tempo di pace" e di "ubicazione strategica in tempo di guerra". A tal fine, egli afferma: "dobbiamo incoraggiare e facilitare, con criterio, la partecipazione del capitale e delle imprese americane nello sviluppo di tali fonti di approvvigionamento, non semplicemente per il più facile accesso che tale partecipazione può garantirci, ma anche perché è risaputo che il personale specializzato tecnico e manageriale dell'industria petrolifera americana ha una superiore competenza nell'assicurare il pronto ed efficiente sviluppo delle risorse in ogni luogo". (p. 23)
Il Foreign Office seguiva con una certa indispettita attenzione quegli aggressivi sviluppi della politica americana, in un settore ove forti erano ancora gli interessi britannici. Da parte inglese non si riscontrava la smania liberista portata avanti dagli americani – anche perché l'industria petrolifera britannica dal 1914 era in buona parte nazionalizzata – ma esisteva un moderato appoggio alle pretese degli Stati Uniti, nel tentativo di contenere un'affermazione italiana, senza tuttavia consentire un eccessivo predominio delle società di oltre oceano. Il pensiero di Loftus viene conosciuto al Foreign Office dapprima attraverso un breve riassunto, e in quella veste sommaria viene classificato come un "discorso vago". Ma quando esso viene esaminato nella sua interezza, l'ambasciata inglese a Washington si preoccupa di mettere in risalto il fatto che Loftus "raccomanda che gli Stati Uniti dovrebbero assicurarsi il controllo su tutte le fonti di rifornimento dell'emisfero occidentale". La politica degli Stati Uniti veniva quindi definita "combattiva", ma la comunicazione al Foreign Office si concludeva notando che "le idee del Dipartimento [di Stato] sono piuttosto confuse". (pp. 24-25)
Il destino di Mattei incomincia a disegnarsi proprio a Teheran. Quello di Mattei petroliere, ma forse anche quello della sua vita. Su di esso incombono ombre sinistre. Nel 1957, con l'ingresso dell'Eni sullo scacchiere petrolifero mediorientale, si realizza la prima tappa di un itinerario che gli Stati Uniti assumono sotto la loro attenta osservazione, e che avrà altri momenti importanti a Mosca, prima di compiersi a Bascapé. (p. 27)
Mattei ha l'intelligenza di porsi per tempo il problema della estensione all'estero delle ricerche petrolifere: un suo successo avrebbe dato all'Italia la sicurezza dei rifornimenti energetici, intaccando il ruolo egemone delle società americane. Il cammino, per superare il gap, appariva enorme e arduo per l'Italia, ma qualcosa poteva farsi. Il problema tuttavia non è solo questo. Si deve tenere presente che l'esigenza fondamentale di un gruppo petrolifero è quella di disporre di fonti di approvvigionamento. La holding di Stato italiano ne è invece assolutamente carente, e dipende dalla AIOC per alimentare la rete nazionale dell'AGIP. Né si deve dimenticare che questa condizione a Mattei pesa anche per i sentimenti nazionalisti che lo animano. (p. 40)
L'Italia è salita per un lungo periodo al rango di media potenza economica. Entrata nella seconda guerra mondiale già provata dalle imprese coloniali, con una struttura produttiva arretrata, essa dipendeva dall'estero per le materie prime essenziali e si tirava dietro gravi problemi sociali. Che la sconfitta aggrava: dopo la guerra, nel Mezzogiorno e nelle isole a lungo c'è stata davvero la fame, per strati notevoli della popolazione, mentre non si riusciva neppure a riscaldare tutte le case. L'Italia allora dipendeva dalle potenze vincitrici per la propria sopravvivenza persino alimentare, mentre era costretta nelle maglie di un trattato di pace che dopo l'occupazione ne ha condizionava la politica estera, gli scambi internazionali, lo sviluppo insomma. Il rischio era che da quella situazione non riuscisse a risollevarsi, restando un paese a sovranità dipendente, specialmente dal punto di vista economico. (p. 50)
Il clima tra gli Stati Uniti e Mattei è talmente cambiato che l'ambasciata di Roma, nell'agosto del 1962, all'indomani di una durissima campagna di Indro Montanelli contro Mattei e l'ENI, rassicura il Dipartimento di Stato di avere raccolto dai portavoce della Esso e della Mobil una dichiarazione di estraneità a quegli attacchi.
A proclamare l'egemonia di uno stato su un continente intero, non ci aveva provato nessuno. Lo fece per la prima volta il presidente degli Stati Uniti d'America, James Monroe, con un messaggio solenne. Egli prese l'occasione, nel 1823, dell'inaugurazione della sessione annuale del Congresso. Per consuetudine, quello era l'atto rituale per l'apertura dei lavori dei due rami del parlamento. Per consuetudine, esso consisteva nell'annuncio del programma legislativo con l'indicazione a grandi linee delle attività da svolgere. Ma niente di più. Mai. Quella volta invece, Monroe andò molto al di là, e sorprese tutti, in America e all'estero; per meglio dire, fuori dei confini degli Stati Uniti la sorpresa venne soltanto quando si riuscì a capire bene il significato profondo delle parole del presidente. Mettendo da parte gli usi diplomatici, il discorso non contenne nessuna di quelle espressioni di convenienza nei confronti degli altri Stati, che facevano parte delle consuetudini internazionali.
Citazioni
Un linguaggio, come si vede, molto esplicito e duro: erano istruzioni al fine di far rappresentare – per la prima volta nei confronti di una grande potenza riconosciuta come tale – che ormai anche gli Stati Uniti si consideravano alla stregua di una potenza, e volevano essere riconosciuti in tale ruolo. Essi facevano dipendere dal riconoscimento di quella loro caratteristica niente meno che «la pace del mondo». La dottrina di Monroe era ancora di là da venire, ma intanto si era voluto già rendere nota alle grandi potenze la personalità forte e decisa degli Stati Uniti nelle relazioni internazionali. (p. 21)
Nel 1822 gli Stati Uniti – anche questa fu una lungi- mirante iniziativa diplomatica di Adams – furono il primo Stato a riconoscere alcune repubbliche dell'America latina che si erano data l'indipendenza. (p. 37)
Il messaggio fu il primo atto di una storia che sarà molto lunga, senza mai sfumature; che da parte di Washington sarà ritenuta a lungo incompiuta. Una storia piena di significato nazionale, fondata su fatti concreti. Eppure fu una storia piena di significato ideale: anche se l'interesse – a guardarlo nella prospettiva storica – era quello di un paese solo. (p. 55)
Dopo sarebbero venuti la potenza delle armi, il potere economico, la tecnologia, e soprattutto il saper elevare a dogma di respiro mondiale i propri interessi e il proprio sistema economico-politico. Tutto questo soltanto in parte c'era fin dal principio; nella parte maggiore l'America se l'è saputo costruire, anche andandoselo a prendere altrove. E dopo, ha saputo imporlo come un valore di carattere universale. Si può concludere che a proclamare un'egemonia di quelle dimensioni, nessun'altra potenza ci ha più provato. Ma dopo vaste ferite, Washington ha ormai smesso d'invocare la dottrina di Monroe. Era durata per quasi due secoli.
Citazioni su Progetto di un impero
una ricerca incoraggiata da Fernand Braudel (che ne aveva scritto in Civilisation matérielle, économie et capitalisme, nel 1979), il cui fulcro è sostanziato da una documentazione amplissima. […] Monroe fu tempestivo, a quarant'anni dalla vittoria nella guerra d'indipendenza, nell'impedire il ritorno dell'egemonia spagnola. […] dopo l'enunciazione del famoso discorso si consolidò una prospettiva che ha portato alla preminenza americana sull'emisfero occidentale. […] Perrone ha unito alla descrizione del contesto anche una certosina ricostruzione della reazione sorprendente degli indici delle borse di Londra e Parigi, dove gli operatori del tempo ebbero la lucidità di presagire la rilevanza del cambiamento in atto. (Il Foglio, 20 settembre 2013)
Un messaggio sulle cui premesse ideologiche e proiezione geopolitica Perrone offre uno studio di rilievo […]. Le anaisi di Nico Perone, capace di usare vecchi listini di borsa come straordinari documenti storici, indicano infatti l'immediata rivalutazione dei titoli sudamericani e il contemporaneo crollo di quelli portoghesi e soprattutto spagnoli […]. Una documentazione storicamente disattesa che consente a Perrone di leggere l'origine della curva geopolitica discendente dell'Europa e ascendente degli Stati Uniti. (Paolo Simoncelli, Avvenire, 19 ottobre 2013)
Nico Perrone, Alcide De Gasperi. L'Italia atlantica, Manifestolibri, Roma, 1996. ISBN 88-7285-102-5
Nico Perrone, De Gasperi e l'America, Sellerio, Palermo, 1995. ISBN 88-389-1110-X
Nico Perrone, Economia pubblica rimossa, in Studi in onore di Luca Buttaro, Giuffrè, Milano, 2002. ISBN 88-14-10088-8
Nico Perrone, Enrico Mattei, Bologna, Il Mulino, 2001. ISBN 88-15-07913-0
Nico Perrone, Il dissesto programmato. Le partecipazioni statali nel sistema di consenso democristiano, Dedalo, Bari, 1991. ISBN 88-220-6115-2
Nico Perrone, Il manifesto dell'imperialismo americano nelle borse di Londra e Parigi, in Belfagor, Firenze, Olschi, 31 maggio 1977 (XXXII), pp. 321 ss.
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Nico Perrone, Progetto di un impero. 1823. L'annuncio dell'egemonia americana infiamma la borsa, La Città del Sole, Napoli, 2013. ISSN 9-788882-923105