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strage avvenuta durante manifestazioni di protesta per il trasferimento della capitale d'Italia da Torino a Firenze Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
La strage di Torino fu un eccidio compiuto da alcuni membri del Regio Esercito italiano (principalmente allievi carabinieri) il 21 e il 22 settembre 1864 ai danni di gruppi di manifestanti civili. Gli scontri avvennero durante manifestazioni di protesta popolare contro il trasferimento della capitale del Regno d'Italia dalla città piemontese a Firenze.
Strage di Torino eccidio | |
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Piazza San Carlo il 22 settembre | |
Data inizio | 21 settembre 1864 |
Data fine | 22 settembre 1864 |
Luogo | Piazza Castello e Piazza San Carlo |
Stato | Italia |
Provincia | Provincia di Torino |
Comune | Torino |
Coordinate | 45°04′16.64″N 7°41′07.08″E |
Obiettivo | Civili |
Responsabili | Carabinieri Reali, Regio Esercito |
Motivazione | repressione delle proteste contro il trasferimento della capitale da Torino a Firenze |
Conseguenze | |
Morti | 62 |
Feriti | 138 |
Mappa di localizzazione | |
Nel pomeriggio del 21 settembre 1864, dopo che in mattinata scontri tra manifestanti e forze dell'ordine avevano avuto luogo in Piazza San Carlo a Torino, una folla di civili armati di bastoni tentò di avvicinarsi alla sede del Ministero dell'interno in Piazza Castello, difesa da un contingente di allievi carabinieri: i carabinieri spararono sui manifestanti causando 15 vittime. La sera seguente, 22 settembre, nuovi tumulti ebbero luogo in Piazza San Carlo coinvolgendo altri allievi carabinieri, che nella confusione spararono indiscriminatamente sulla folla colpendo anche i membri di un battaglione di fanteria che stava attraversando la piazza, i quali aprirono a loro volta il fuoco: nel tiro incrociato rimasero uccise 47 persone tra militari e civili.
I fatti provocarono la caduta del governo Minghetti, nonché diverse inchieste ufficiali da parte di commissioni parlamentari; tutti gli arrestati furono tuttavia oggetto di un'amnistia generale nel febbraio 1865.
Nel giugno 1864, approfittando di voci sulla salute di papa Pio IX e su possibili sollevazioni nello Stato Pontificio, il presidente del consiglio Marco Minghetti inviò Gioacchino Napoleone Pepoli dall'ambasciatore italiano a Parigi, Costantino Nigra, con disposizioni per contrattare il ritiro delle truppe francesi dai territori della Santa Sede. Per raggiungere l'accordo, l'imperatore Napoleone III richiese una garanzia che mostrasse la rinuncia alla conquista di Roma, indicata fin dal 1861 dal governo italiano come capitale ideale del regno; Pepoli chiese se lo spostamento della capitale italiana da Torino ad altra città, cosa già ipotizzata dal governo, avrebbe potuto fornire adeguata garanzia; l'imperatore confermò che avrebbe certamente firmato l'accordo con quella condizione.[1] Vittorio Emanuele II fu informato ad agosto, al ritorno di Pepoli.
«Il Re accolse la clausola del trasporto, non solo con ripugnanza, ma dirò con dolore. Ebbe molte conferenze con Minghetti e con Pepoli. Parve per qualche momento alquanto scosso, poi prese tempo a pensarvi durante una assenza da Torino.»
L'11 settembre 1864 Minghetti comunicò al ministro Menabrea che il re accettava il trattato, spostando la capitale a Firenze per ragioni esclusivamente strategiche.[3]
La convenzione fu quindi firmata ufficialmente il 15 settembre 1864. Su richiesta di Vittorio Emanuele II, venne tenuto separato e segreto il protocollo vincolante per il trasferimento della sede del governo entro sei mesi dalla firma, al fine di evitare che apparisse «risultato della pressione d'un Governo estero».[4]
Nonostante il riserbo ministeriale, i dettagli dell'accordo iniziarono a circolare già dal 26 agosto dello stesso anno.[5] I giornali di Torino, legati a fazioni politiche, assunsero delle posizioni diverse sull'accordo. Il governo Minghetti poteva contare sulla Gazzetta ufficiale, voce del ministero, e sull'Opinione, diretta da Giacomo Dina; era appoggiato inoltre dalla Stampa (giornale diverso dal successivo quotidiano omonimo), diretta da Paulo Fambri e legata a Ubaldino Peruzzi e a Silvio Spaventa, e dalla Gazzetta di Torino, legata a Luigi Menabrea. C'erano poi la Discussione del senatore Carlo Alfieri di Sostegno, la Monarchia nazionale legata a Urbano Rattazzi e al centro-sinistra e il Diritto della sinistra. La Gazzetta del popolo, anticlericale, era diretta da Giovan Battista Bottero.[6]
Il 16 settembre, giorno successivo alla firma, l'Opinione pubblicò la convenzione, senza indicazioni sul protocollo segreto; il 18 settembre la Gazzetta del popolo riportò la voce errata (diffusasi il giorno precedente) che la condizione imposta da parte francese fosse lo spostamento della capitale a Firenze.[7] La diffusione di notizie frammentarie portò quindi a illazioni e ad accuse contro il governo; si aggiunsero addirittura voci di cessioni di territorio piemontese alla Francia.[8]
Il 20 settembre si svolse una manifestazione per le vie della città con grida contro lo spostamento della capitale (Abbasso il ministero!, Roma o Torino!, Abbasso la convenzione!, Viva Garibaldi!) e con la partecipazione di un gran numero di persone (cinque o seimila secondo alcune fonti[9]). Lo spostamento della capitale era visto da molti come una minaccia allo sviluppo economico della città.
«[I]n mezzo a tutte queste considerazioni, balenò altresì nell'animo de' cittadini agiati il pensiero di mille interessi offesi, e delle gravi condizioni che il trasporto preparava alla città di Torino, la quale con tanto slancio si era impegnata in lavori, in ispeculazioni ed in industrie che forse mal potevano prosperare quando ne fosse tolta repentinamente la sede del Governo.[8]»
Inoltre, un centinaio di persone si radunò in Piazza Castello per protestare con fischi contro la sede della Gazzetta di Torino, allontanandosi dopo poco senza incidenti.[10] Il giornale quel giorno aveva pubblicato un articolo[11] che, anche se a favore della convenzione, avrebbe dovuto pacificare i torinesi; venne «mandato dalla Corte al giornale per desiderio del re medesimo, il quale si sbagliò affatto intorno all'effetto che avrebbe prodotto, e al quale nessuno dei cortigiani ebbe il buon senso di sconsigliarne la pubblicazione.»[12][13]
«L'articolo fu infatti compilato, ma così male, che sortì l'effetto contrario, benché siasi interpretato assai peggio di quanto meritava, diventando così la causa occasionale dei dolorosi eventi successivi.[14]»
Il consiglio comunale straordinario era convocato per le ore 14:00[15] per discutere dello spostamento della capitale. Sotto le finestre si radunarono varie persone per avere notizie; si verificarono anche delle proteste e vennero bruciate copie della Gazzetta di Torino.[16]
In assenza di notizie dal consiglio comunale in corso le persone si dispersero rapidamente, mentre un gruppetto di giovani si diresse in piazza San Carlo alla tipografia della Gazzetta di Torino con alcune bandiere italiane. Il proprietario andò in questura per sollecitare aiuto, mentre altri impedivano al gruppo di entrare. Dalla questura giunse quindi l'ordine di disperdere gli assembramenti, sequestrare le bandiere e arrestare coloro che le portavano.[17] Sul posto si precipitarono numerose guardie di pubblica sicurezza (principalmente allievi) che sguainarono le daghe contro l'assembramento di persone, le quali, prese di sorpresa, accennarono una reazione con qualche pietra; le guardie allora inseguirono e percossero le persone anche al di fuori della piazza, colpendo e gettando a terra astanti e passanti e anche chi si occupava della difesa della tipografia.[18]
«Attratti da alcune grida ci siamo tutti affacciati alla finestra, ed abbiamo veduto un centinaio circa di persone abbastanza sparpagliate, unite intorno ad un uomo che portava una bandiera. Sentivamo delle grida confuse, fra le quali distinsi un non so che contro la Gazzetta di Torino. Il centinaio di persone, che vedevamo sotto la nostra finestra, guardavano manifestamente a qualche cosa che stava succedendo sotto il portico; ma tranne pochissimi che di quando in quando emettevano dei gridi, il loro contegno non aveva niente di minaccioso.
Tutto ad un tratto vedemmo uscire dalla Questura una colonna di guardie di pubblica sicurezza, guidate da un ufficiale, che non potevano essere meno di sessanta. La colonna marciò a passo lesto senza proferir parola e senza che le persone contro le quali venivano si allontanassero; e nell'atto che l'ufficiale dette di piglio alla bandiera per strapparla di mano a chi la teneva, gridando un non so che, che per le conseguenze ritenemmo un ordine d'impugnare le armi e di usarne; tutte le guardie ad un tratto, sfoderata la daga, si misero a sciabolare a dritta e sinistra quel gruppo di persone che stavano sulla piazza – si noti bene sulla piazza e non sotto il portico – correndo appresso a chi cercava di salvarsi colla fuga, e percuotendo senza misericordia.
Vedemmo allora delle scene da far rabbrividere, fra le quali uomini isolati battuti e trascinati da quattro o cinque guardie.»
Ventinove persone vennero condotte in questura, compresi alcuni feriti; iniziò a formarsi un nuovo gruppo di fronte all'edificio e le guardie uscirono nuovamente con le daghe in pugno, ma furono fermate dai superiori. Il gruppo all'esterno, divenuto numeroso, richiese il rilascio degli arrestati considerando spropositata l'azione delle guardie; vennero anche tirate pietre contro le finestre.[20]
La questura era ormai assediata e giunse una delegazione della giunta comunale (Rignon, Pateri Corsi, Moris e Villa) che, non riuscendo a calmare la folla, consigliò al questore il rilascio degli arrestati (venne richiesta anche la restituzione delle bandiere). Si ottenne così una pacificazione della piazza.[21][22]
Diversi assembramenti di persone si formarono in città a partire dalle ore 17:00, prima sotto il municipio e poi sotto l'abitazione del sindaco; quest'ultimo in entrambe le occasioni cercò di convincere i manifestanti al rispetto della legge.
In piazza San Carlo si era radunata una folla per protestare contro la Gazzetta di Torino e contro la questura. In piazza si disposero degli allievi carabinieri, armati con fucili carichi, seguiti da numerose truppe (bersaglieri, cavalleria e fanteria) mentre la guardia nazionale percorreva le vie adiacenti; lo scopo era mantenere sgombra la piazza e disperdere gli assembramenti.[23] Nonostante alcune provocazioni contro i soldati con il lancio di pietre, la folla iniziò a diradarsi.[24]
In piazza Castello vennero disposti due squadroni (uno di allievi carabinieri) che dispersero un primo gruppo diretto contro la sede del ministero dell'interno. Un altro gruppo di manifestanti, armati con bastoni, entrò nella piazza e si diresse al ministero verso gli allievi carabinieri; dopo un breve tumulto, furono uditi due colpi di arma da fuoco, seguito da un fuoco di fila rivolto contro la popolazione. Dopo un primo momento di sorpresa, la piazza si svuotò lasciando solo morti e feriti.[25]
«Io mi trovava alla testa vicino al tamburino e proseguissino verso i portici, dove si trova il confetturiere Anselmo, e quivi trovandosi schierati gli Allievi carabinieri, mi avvicinai ad essi nell'intendimento che essi aprissero i ranghi come avea fatto la truppa di linea nella via Nuova, ma invece i Carabinieri chiusero i ranghi e ci appuntarono le baionette, specialmente contro la bandiera tricolore che era stata presentata appunto per far aprire i ranghi onde fare dimostrazione sotto il Ministero. Un ufficiale fece segno ai soldati di alzare i fucili, ma in quell'istante parti un colpo di fucile dal punto estremo di sinistra, ed io fuggii sentendo altri colpi successivi scaricati dai Carabinieri nelle diverse direzioni anche contro i fuggenti.»
Iniziarono i soccorsi; si formò anche un assembramento che lanciò pietre contro i carabinieri, che si ritirarono quindi verso la sede del Ministero.[27]
Nella notte i bersaglieri arrestarono otto persone che avevano sottratto armi dal negozio di un armaiolo.[28]
Uno scambio di comunicazioni intercorse tra Vittorio Emanuele II e Marco Minghetti la mattina successiva alla prima strage.
«I tristi fatti accaduti mi addolorano. Lei sa che li avevo preveduti. Rendo ministero responsabile ristabilimento ordine. Pubblichi stato d'assedio se è necessario. Faccia venire truppa fin che basti. Non voglio essere testimonio di cose così dolorose. Mi recherò a Torino appena ordine ristabilito.»
«Finora nessun disordine: però si parla molto di disordini per questa sera. Il Generale Della Rocca ha dato tutte le disposizioni. Sappiamo che il partito d'azione cerca d'impadronirsi del movimento.»
«Se non vengo ancora questa sera a Torino è perché desidero che i guai si finiscano e non vorrei essere testimonio occulare del sangue cittadino versato nel paese che mi vidde nascere. [...] Bisognerebbe combinare col Sindaco una deputazione che venisse da me a Torino a chiedere scusa e che si raccomandasse per qualche modificazione favorevole che calmasse e contentasse i cittadini traviati per eccesso d'amore. Profitti di quest'occasione per fare arrestare tutti i capi popolo, i mazziniani, i birbanti di ogni specie, senza di ciò li avremo un altro giorno in un'altra città. Ne lasci la risponsabilità al generale Della Rocca, se ella vuole.»
Nella giornata si registrò qualche dimostrazione contro la tipografia della Gazzetta di Torino, ma che fu facilmente dispersa.[31]
In serata si formarono vari assembramenti per la città che, insultando carabinieri e ufficiali di pubblica sicurezza presenti per le strade, raggiunsero piazza San Carlo.[32] In piazza, a difesa della questura, erano presenti carabinieri, fanteria e agenti di pubblica sicurezza senza però un coordinamento tra le diverse compagnie.[33] La piazza era comunque affollata e gli omnibus passavano regolarmente. La presenza dei carabinieri era causa di insulti, visto che erano accusati di aver fatto fuoco il giorno prima su inermi cittadini; la proposta dei comandanti di ritirare i carabinieri dalla piazza per evitare incidenti non fu approvata dal questore.[34]
Un vasto assembramento schiamazzante, descritto come composto in buona parte da «avvinazzati», giunse in piazza e iniziò a imprecare contro i carabinieri presenti e a lanciare pietre contro la questura.[35] Il questore ordinò allora l'uscita di altre truppe, compresi allievi carabinieri, per allontanare i presenti. Mentre si procedeva alle intimazioni per far disperdere la folla, si udirono colpi d'arma da fuoco e i carabinieri fecero fuoco verso il centro della piazza, colpendo un battaglione di fanteria che la stava attraversando; agenti di pubblica sicurezza spararono a loro volta dalla porta della questura. Nella confusione successiva furono sparati numerosi colpi da varie direzioni dai militari presenti; quando infine si riuscì a far cessare il fuoco, rimasero a terra nella piazza numerosi morti e feriti.[36]
«Il sottoscritto dichiara che la sera del 22 settembre alle ore 9 precise trovavasi avanti la trattoria San Carlo in compagnia di qualche amico, e procurava capacitare i pochi tumultuanti a lui dintorno, quando un suon di tromba si fece sentire ed immediatamente lo seguì una scarica disordinata fatta dagli allievi Carabinieri che erano un momento prima sbucati fuori dalla Questura. Una delle prime palle andò sgraziatamente a colpire il colonnello del 17° il quale appunto in quel momento aveva schierati in linea di battaglia i suoi soldati; qui cominciava il doloroso equivoco: il 17° fece fuoco sulla moltitudine e sulla linea che stavanli rimpetto, quest'ultima rispose facendo fuoco sulla popolazione e sul 17°, ne nacque quindi che la folla radunata in piazza San Carlo trovavasi presa fra tre fuochi, ed era conseguentemente impossibile uscirne sani e salvi; molti adottarono il partito di gettarsi distesi al suolo (idea eccellente in casi simili), ma siccome la truppa dopo i primi colpi fece fuoco di ginoch terr e tirò basso, così il numero dei feriti fu evidentemente maggiore.»
Nella piazza, ai piedi del monumento a Emanuele Filiberto di Savoia, sono ancora oggi visibili dei segni dovuti alle pallottole.
I dati sui morti e feriti nei due giorni vennero raccolti dal dottor Giuseppe Rizzetti; la sua relazione fu poi pubblicata in almeno tre diverse versioni (la prima conteneva dati aggiornati al 10 ottobre,[38] la seconda al 13 dello stesso mese[39] e la terza aggiornata a novembre[40]).
Nella terza versione erano indicati rispettivamente 15 morti per gli eventi del 21 settembre in piazza Castello e 47 morti per gli eventi del 22 settembre in piazza San Carlo. In totale erano indicati 138 feriti ma si stima che il numero reale fosse superiore, dato che alcuni feriti avrebbero potuto scegliere di curarsi «senza l'intervento del medico per non incorrere in sanzioni penali o per tutelare la famiglia da possibili ritorsioni».[41]
«Questura del circondario di Torino - Torino il 22 settembre 1864
Il sottoscritto prega codesto municipio d'inviar tosto persone idonee al trasporto di dodici cadaveri che si trovano in mezzo alla piazza San Carlo, siccome fu inteso col sig. conte Corsi.
Chiapussi questore[42]»
Tra i morti del 22 settembre sono inclusi quattro militari; ci furono feriti tra i militari in entrambe le giornate.
Le vittime vennero sepolte nel Cimitero monumentale di Torino «in un distinto quadrato di terra a tramontana».[43]
Gli eventi del 21 e del 22 settembre resero la situazione insostenibile per il governo.
«Trovammo il re nel salotto, insieme ad altre persone che si allontanarono. Poche volte ho veduto un uomo più irritato di lui; la sua collera era significante. Parlò del luttuoso avvenimento di piazza S. Carlo, stigmatizzando, con parole poco parlamentari, l'insipienza di chi presiedeva all'ordine pubblico, di chi fu causa della strage di tanta gente inerme, fino a far fucilare fra loro le truppe e a far quasi uccidere dai propri soldati il povero colonnello Colombini che ha due palle alla tempia.»
«Lo stato attuale di cose non potendo durare perché troppo triste, la invito, Lei e i suoi colleghi, a dare le dimissioni.»
«In obbedienza all'ossequiato dispaccio di V. M. depongo nelle sue mani la demissione mia e quella dei miei colleghi, pronti a rimanere al nostro posto sinché V. M. abbia nominato i nostri successori.»
Il giorno stesso il re incaricò Alfonso La Marmora di formare un nuovo governo.[46]
Vi furono diverse inchieste per determinare lo svolgimento dei fatti.
Già la mattina del 22 settembre, dopo i primi fatti, la giunta municipale ordinò una inchiesta amministrativa, incaricando a ciò il deputato Casimiro Ara. Il resoconto di questa prima inchiesta, consegnato già il 5 ottobre, venne stampato l'11 ottobre e venne poi distribuito a deputati e senatori e a tutti i municipi del Regno.[47][48]
Un'altra inchiesta amministrativa ordinata dal governo Minghetti non ebbe seguito anche per la caduta del governo stesso.[49]
Un'istruttoria giudiziaria fu condotta a seguito di una querela presentata il 24 settembre 1864 da quindici cittadini (medici, avvocati, giornalisti e deputati come Pier Carlo Boggio) contro l'allora ministro dell'Interno Ubaldino Peruzzi e contro Silvio Spaventa (primo segretario del ministro).[50] Il 24 ottobre essa fu tuttavia rapidamente conclusa con un "non luogo a procedere".[51]
In seguito a inchiesta militare 58 tra carabinieri e allievi furono arrestati, rimandando di fronte a un tribunale militare i carabinieri presenti il 21 settembre in piazza Castello e a tribunali ordinari la guardia civica e i carabinieri presenti il 22 settembre in piazza San Carlo.[52]
Il 24 ottobre la Camera nominò una commissione d'inchiesta per stabilire eventuali responsabilità governative, presieduta da Carlo Bon Compagni di Mombello e composta dai deputati Claudio Sandonnini (segretario), Giuseppe Biancheri, Francesco De Sanctis, Vincenzo Malenchini, Giovanni Morandini, Oreste Regnoli, Giuseppe Robecchi e Giorgio Tamajo.[53][54]
Francesco De Sanctis aveva seguito da vicino gli eventi e aveva riportato le notizie in articoli anonimi pubblicati da L'Italia di Napoli.[55]
«Il Municipio prepara una inchiesta sugli ultimi fatti; un'altra è stata disposta dal governo. Si raccolgono testimonianze; si cerca in tutt'i modi di chiarire molti punti ancora oscuri negli avvenimenti. Intanto la città è tranquilla, e parte delle truppe è ritornata ond'è venuta. Ma lo stato degli animi è ancora concitato; seguono le recriminazioni, ordinario e tristo accompagnamento di tristi fatti. E qui mi arresto. È una pagina di storia che bisogna affrettarsi ad obliare.»
Il 5 gennaio 1865 la commissione parlamentare completò la relazione e venne stabilito di darla alle stampe (gli atti, in considerazione del loro volume, non furono stampati, ma fu deciso che venissero depositati presso la segreteria della Camera).[56] Dopo un ritardo per alcune correzioni, venne resa pubblica.[57] La discussione parlamentare si svolse il 23 gennaio, ma si optò per la proposta di Bettino Ricasoli di non prendere alcuna decisione.[58]
«La Camera, vista la relazione della Commissione d'inchiesta da lei istituita per riferire sui deplorabili eventi del 21 e 22 settembre decorso; Considerando che il Parlamento deve soprattutto, e specialmente nelle condizioni presenti, proporsi di stabilire l'ordinamento della nazione; Considerando che alla tranquillità ed alla maturità delle discussioni per ciò necessarie nuocerebbe, mentre gli animi non possono essere ancora rassicurati, il riandare fatti ed avvenimenti che la dovettero profondamente perturbare; Considerando che i sacrifizi per lunghi anni con eroica abnegazione incontrati e sostenuti dalla città di Torino in pro dell'Italia, ed il contegno mirabile da essa osservato mentre si discuteva la legge del trasferimento della capitale, bastano ad allontanare da lei ogni sospetto di municipalismo; Considerando che la grandezza degli avvenimenti e le necessità della nazione consigliano tutti ad immolare sull'altare della patria, ed al supremo bene della concordia, ogni sentimento, ogni recriminazione, e fin anco ogni giustificazione; Rendendo grazie alla Commissione d'inchiesta per la diligenza con cui ha adempito al mandato affidatole, passa all'ordine del giorno.»
La decisione della Camera di non considerare la relazione della commissione d'inchiesta provocò nuove proteste.
«E invece, venuto il giorno stabilito, il Parlamento davanti a duecento cadaveri non trova materia da discutere! Che volete che pensi il popolo di istituzioni che danno tali risultati?»
La sera del 25 gennaio un gruppo di studenti manifestò senza incidenti in favore del sindaco e dei deputati che avevano sostenuto le ragioni dei torinesi durante le discussioni alla Camera.[60] Si ipotizzò che l'amministrazione comunale potesse dimettersi come segno di protesta.[61] Nonostante i timori dell'aggravarsi della situazione, anche le manifestazioni della sera del 26 si svolsero senza incidenti.
«Noi siamo certi che se Minghetti e Peruzzi trassero sui torinesi a schioppettate, Lamarmora non avrebbe difficoltà a trarre a cannonate. Noi, oggi come ieri, caldamente preghiamo il paese alla prudenza, per non dare pretesti ad infuriare.»
Vari articoli di quei giorni, pur invitando alla calma, servirono a eccitare gli animi.[62] Vi fu anche una raccolta di firme per invitare i senatori a votare l'inchiesta presentata alla Camera. La sera del 27 vi fu una manifestazione, ma non di studenti; ci furono scontri con la Guardia nazionale e vennero arrestati 25 partecipanti, indicati come «noti alla polizia, soggetti alla vigilanza speciale, parecchi usciti da poco dal carcere».[63] Tra gli arrestati c'era un solo studente, rilasciato il giorno dopo.[64]
La sera del 28 si verificò solo una piccola manifestazione, sciolta dalla Guardia nazionale senza incidenti.[65] Queste manifestazioni, secondo il sindaco, erano da attribuirsi «alla mancanza di lavoro che lasciava sul lastrico buon numero dì operai disoccupati per la cessazione di quel movimento che s'era manifestato nella Città prima del trasferimento della Capitale».[66]
Il 29 gennaio venne annunciata una festa da ballo a corte per il giorno successivo;[67] il ministro Giovanni Lanza riteneva infatti che la situazione fosse ormai tranquilla a Torino e che non ci sarebbero stati incidenti.[68] Temendo nuove proteste però le autorità locali mobilitarono i soldati.
«Giammai non si vide una festa da ballo in mezzo ad un apparato di soldati, come quello del 30 corrente. [...] La folla era grandissima, e ad ogni carrozza che passava erano fischi, urli e parole poco galanti contro le signore che si recavano a Corte. A molte carrozze fu impossibile di approssimarsi al palazzo.»
«Una carrozza, nella quale ci dicono fosse un generale, fu per aver voluto ad ogni modo passare, assai malconcia, ebbe rotti i cristalli, battuti i cavalli e fa poi costretta ad andarsene indietro. [...] Si fecero numerosi arresti, a caso, com'è da prevedersi, e senza criterio. [...] Notammo che non erano soltanto operai, ma moltissimi, anzi i più, all'aspetto ed all'abito si vedevano appartenenti alle classi medie: pochi ragazzi: nessun disegno prestabilito, ma un certo consenso unanime che si doveva far qualche cosa. Nessuno sapeva che. Anche a rischio di un sequestro, diremo che da ogni parte si faceva universale lamento che quella festa era come un insulto a Torino; si diceva che mentre la Corte, per futili motivi, era solita indire dei lutti e sospendere ogni festeggiamento, era strano non avesse potuto astenersene quando la sua capitale, la città che era stata il propugnacolo e la difesa della dinastia, era ancora macchiata del sangue inulto di tante vittime. [...] Il ballo non riuscì, e non poteva riuscir gaio. Erano forse 64 signore fra dame di palazzo, mogli di ministri e ambasciatori e qualche straniera — nessuna dell'aristocrazia torinese, nessuna della ricca borghesia. Il cotillon fu fatto alle 12 e 1/2 tra il freddo e lo squallore. Nei salotti quasi vuoti regnava un freddo insopportabile. Si udivano di lassù i fischi e le grida del popolo.»
Il 31 gennaio Lanza presentò le proprie dimissioni, ritirate solo su intervento del re.[68]
La mattina del 3 febbraio Vittorio Emanuele II partì definitivamente da Torino per trasferirsi a Firenze.
Domenica 26 febbraio 1865 il re fu di nuovo a Torino per il carnevale. Alcune carrozze di corte parteciparono ai festeggiamenti e l'apparizione del re fu accolta da applausi. La carrozza fu avvicinata da un Gianduia in camicia che si rivolse al re con le parole: «Vedi in che stato già son ridotto, eppure se per l'Italia e per te sarà d'uopo dare quest'ultimo vestimento son pronto a farlo».[71]
La festosa accoglienza permise al re di «cancellare ogni memoria di dolorosi avvenimenti sui quali altamente importa che si stenda il velo dell'oblio»; con regio decreto dello stesso giorno fu concessa una completa amnistia per i fatti del settembre 1864 e per i fatti della fine di gennaio 1865.[72]
«Sulla proposizione dei Nostri Ministri Segretari di Stato per gli Affari di Grazia e Giustizia e dei Culti, della Guerra; Sentito il Consiglio dei Ministri,
Abbiamo ordinato e ordiniamo quanto segue:
Art. 1. È concessa piena ed intera amnistia, ed è conseguentemente abolita l'azione penale per tutti i fatti avvenuti in Torino il 30 gennaio ultimo scorso, i quali abbiano dato o possano dare luogo a penale procedimento per titolo di offesa alla Nostra Reale Persona.
Art. 2. È parimenti abolita l'azione penale e sono condonate le pene inflitte per tutti i fatti avvenuti in Torino il 21 e 22 settembre 1864, 27, 28 e 29 gennaio 1865, aventi il carattere di rivolta o di oltraggio contro la pubblica forza, di contravvenzione alle disposizioni della legge di Pubblica Sicurezza relative agli assembramenti, o di violenze commesse nell'esecuzione di ordini o di consegne, o per eccesso nell'uso della forza pubblica;
Art. 3. È ínfine abolita l'azione penale per tutti i reati commessi fino al giorno d'oggi col mezzo della stampa, che abbiano relazione coi fatti accennati nei due articoli precedenti.
[...] Dato a Torino addì 26 febbraio 1865. Vittorio Emanuele[72]»
Non ci sarebbero perciò state conseguenze né per i manifestanti arrestati in tali occasioni né per i soldati arrestati dopo l'inchiesta militare.
Un documento del 9 febbraio 1866 dell'archivio storico del Ministero degli Esteri (allegato a una comunicazione del console italiano di Montevideo del 13 febbraio) riporta che Giacomo Ramò, capitano dell'imbarcazione Emilia, dichiarò di aver trasportato da Genova a Buenos Aires 138 arruolati per il governo argentino consegnatigli da guardie di sicurezza il 14 e 16 ottobre 1865; per i 72 imbarcati il 14 ottobre gli sarebbe stato indicato che «facevano parte della sommossa di Torino del 21 e 22 settembre e che porzioni venivano estratti dalle carceri di Sant'Andrea di Genova».[73] Non si hanno però riscontri di queste affermazioni da altre fonti.
Vari deputati e membri del governo non piemontesi erano favorevoli al trasferimento della capitale da Torino perché consideravano eccessiva la presenza piemontese all'interno della pubblica amministrazione.[74]
In pubblicazioni e quotidiani torinesi dell'epoca si diffuse l'idea di un piano del presidente del Consiglio Marco Minghetti (bolognese), del ministro dell'Interno Ubaldino Peruzzi (fiorentino) e del segretario Silvio Spaventa (napoletano) per provocare tumulti e per poter sospendere o togliere le libertà civili;[75] veniva indicata la presenza di provocatori che avrebbero sobillato la folla.[76]
In realtà è da escludere l'esistenza di un piano preordinato per creare tumulti da poter reprimere in modo autoritario.[77]
Peruzzi e Spaventa sfruttarono però ogni occasione per far apparire negativamente Torino e per rendere necessario il trasferimento della capitale: Peruzzi incitò manifestazioni antipiemontesi in città italiane; Spaventa manipolò le comunicazioni dell'Agenzia Stefani relative ai fatti di Torino in modo da far cadere la responsabilità sulla popolazione e sul municipio.[78]
Il 21 settembre 1865 molti negozi erano parati a lutto. La mattina del 22 settembre 1865 si formò un primo corteo a lutto dell'associazione di cuochi e camerieri, a causa degli impegni legati alla loro professione; tutte le altre associazioni si ritrovarono per attraversare il centro diretti a una funzione religiosa e per raggiungere poi il camposanto e deporre corone sulle tombe dei defunti.[79]
«Il concorso della cittadinanza era immenso. La vasta Piazza Vittorio Emanuele era gremita; il vastissimo Ponte di Po era talmente invaso, che anche a forza non sarebbe stato possibile farvi un vuoto. All'invito del Comitato risposero, come cittadini, quasi tutti i consiglieri comunali, Rorà, Sclopis, Cassinis, ecc., ecc., ecc. Intervenivano anche altri Senatori ed ex-Deputati, come il Barone Tecco, Crispi, Laporta, ecc., ecc., ecc.
Dopo la solenne funzione sulla Piazza della Gran Madre di Dio, che fu oltremodo dignitosa e commovente, le Corporazioni si mossero in grand'ordine precedute da molti membri del Comitato appositamente nominati per guidare il Corteggio, e dai giovani Caffettieri, Confettieri e Distillatori, che avevano l'iniziativa della Commemorazione. Un picchetto di Guardia Nazionale apriva la marcia. Seguiva poi la Musica della Guardia Nazionale, a cui non v'ha elogio che basti per il lodevolissimo suo concorso.
Faceva ala lungo il Ponte di Po, Piazza Vittorio Emanuele e Via di Po un'onda immensa di popolazione. In Piazza Castello ogni membro del Corteggio, come mosso da un filo elettrico, si levò il cappello passando sul funestissimo sito dov'era stato versato il sangue del 21 settembre.
Da questa Piazza al Camposanto, benché enorme sia la distanza, tutte le strade erano così popolate, che crediamo essere al disotto del vero, dicendo che più di 100 mila persone han preso parte alla dimostrazione.[79]»
La commemorazione venne ripetuta per alcuni anni.
Nel 1867 è citata la presenza di un «monumento delle vittime del settembre»,[80] ma nel 1868 non esisteva alcun monumento.[43] L'immagine riportata nell'Almanacco nazionale per il 1866 con una stele funebre è da considerarsi di fantasia, perché nel 1865 le corone di fiori vennero deposte sulle singole tombe e nella descrizione non si nomina alcun monumento.[79]
Nel dicembre 1999 la città di Torino pose una lapide in piazza San Carlo in ricordo delle vittime.
«IN QUESTA PIAZZA / IL 21 E 22 SETTEMBRE 1864 / CADDERO 52 CITTADINI / TORINESI / E 187 FURONO FERITI, / VITTIME DELLA REPRESSIONE / DELLE MANIFESTAZIONI / DI PROTESTA / PER IL TRASFERIMENTO / DA TORINO A FIRENZE / DELLA CAPITALE D'ITALIA.
IL COMUNE / POSE IL 4-XII-1999»
I numeri riportati nella lapide sembrano tratti dalla prima versione della relazione del dottor Rizzetti inserita nell'inchiesta municipale: egli indicò infatti un numero di 52 morti complessivi negli eventi di piazza San Carlo e di piazza Castello; il numero 187 era quello inizialmente da lui riferito per il totale dei morti e dei feriti.[81]
Il 22 settembre 2014, in occasione del 150º anniversario, la giunta comunale di Torino commemorò la ricorrenza.[82]
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