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scrittore, poeta e drammaturgo italiano (1785-1873) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Alessandro Manzoni (Milano, 7 marzo 1785 – Milano, 22 maggio 1873) è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo italiano.
Alessandro Manzoni | |
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Ritratto di Alessandro Manzoni, Francesco Hayez (1841), Pinacoteca di Brera | |
Senatore del Regno d'Italia | |
Durata mandato | 8 giugno 1860 – 22 maggio 1873 |
Legislatura | dalla VII (nomina 29 febbraio 1860) all'XI |
Tipo nomina | Categoria: 20 |
Sito istituzionale | |
Deputato del Regno di Sardegna | |
Durata mandato | 17 ottobre 1848 – 21 ottobre 1848 |
Legislatura | I |
Collegio | Arona |
Sito istituzionale | |
Dati generali | |
Partito politico | Destra storica |
Professione | Possidente, scrittore |
Firma |
Alessandro Manzoni | |
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Ritratto fotografico di Manzoni (1868) | |
Signore di Moncucco di Mirasole[1] | |
In carica | 18 marzo 1807 – 22 maggio 1873 |
Predecessore | Pietro Manzoni |
Successore | Enrico Manzoni |
Nome completo | Alessandro Francesco Tommaso Antonio Manzoni |
Trattamento | Sua signoria |
Altri titoli | Nobile, trattamento di Don |
Nascita | Milano, 7 marzo 1785 |
Morte | Milano, 22 maggio 1873 |
Sepoltura | Famedio del Cimitero monumentale di Milano |
Dinastia | Manzoni |
Padre | Pietro Manzoni |
Madre | Giulia Beccaria |
Consorte | Enrichetta Blondel Teresa Borri |
Figli | Giulia Luigia Maria Vittoria Pietro Luigi Cristina Sofia Enrico Clara Vittoria Filippo |
Religione | cattolicesimo |
Considerato uno dei maggiori romanzieri italiani di tutti i tempi per il suo celebre romanzo I promessi sposi, caposaldo della letteratura italiana[2], Manzoni ebbe il merito principale di aver gettato le basi per il romanzo moderno e di aver così patrocinato l'unità linguistica italiana, sulla scia di quella letteratura moralmente e civilmente impegnata propria dell'Illuminismo italiano.
Passato dalla temperie neoclassica a quella romantica, il Manzoni, divenuto fervente cattolico dalle tendenze liberali, lasciò un segno indelebile anche nella storia del teatro italiano (per aver rotto le tre unità aristoteliche) e in quella poetica (nascita del pluralismo vocale con gli Inni Sacri e della poesia civile).
Il successo e i numerosi riconoscimenti pubblici e accademici (fu senatore del Regno d'Italia) si affiancarono a una serie di problemi di salute (nevrosi, agorafobia) e famigliari (i numerosi lutti che afflissero la vita domestica dello scrittore) che lo ridussero in un progressivo isolamento esistenziale. Nonostante quest'isolamento, Manzoni fu in contatto epistolare con la migliore cultura intellettuale francese, con Goethe, con intellettuali di primo ordine come Antonio Rosmini e, seppur indirettamente, con le novità estetiche romantiche britanniche (influsso di Walter Scott per il genere del romanzo).
Alessandro Manzoni proveniva, dal lato materno, da una famiglia illustre, i Beccaria. Il nonno materno di Manzoni, infatti, era Cesare Beccaria, autore del trattato Dei delitti e delle pene, che fu uno dei principali animatori dell'illuminismo lombardo. A detta del Manzoni stesso, lui e il nonno si conobbero soltanto una volta, in occasione della visita della madre presso il celebre padre[4]. La parentela coi Beccaria lo rendeva inoltre lontano cugino dello scrittore scapigliato Carlo Dossi[5].
Più modesta era invece la famiglia paterna[N 1]: don Pietro Manzoni, il padre di Alessandro, discendeva da una nobile famiglia di Barzio, in Valsassina, e stabilitasi a Lecco (nella località del Caleotto) nel 1612 in seguito al matrimonio di Giacomo Maria Manzoni con Ludovica Airoldi nel 1611[6]. Per quanto don Pietro Antonio Pasino Manzoni (1657-1736) avesse poi ricevuto il feudo di Moncucco nel novarese nel 1691[7][8][9][10], e per quanto in virtù di ciò fossero conti, il titolo a Milano non era valido perché "straniero"[11][N 2]. Inizialmente don Pietro presentò al governo austriaco una richiesta ufficiale perché fosse riconosciuto, ma poi preferì non insistere[12]. In ogni caso, quando Roma attribuirà molto più tardi la cittadinanza al Manzoni, il titolo comitale apparirà sull'atto ufficiale e verrà mantenuto dalla sua discendenza.
Nonostante il padre legittimo fosse Pietro Manzoni, è molto probabile che il padre naturale di Alessandro fosse un amante di Giulia, Giovanni Verri (fratello minore di Alessandro e Pietro Verri)[11][13]. Con Giovanni, uomo attraente e libertino, di diciassette anni maggiore di lei, Giulia aveva avviato una relazione già nel 1780, proseguendola anche dopo il matrimonio[13][14]. Dalle parole del Tommaseo pare evincersi come Verri fosse il vero padre dello scrittore, e come questi ne fosse pienamente a conoscenza: «Anco di Pietro Verri [Manzoni] ragiona con riverenza, tanto più ch'egli sa, e sua madre non glielo dissimulava, d'essere nepote di lui, cioè figliuolo d'un suo fratello»[15].
Alessandro Francesco Tommaso Antonio Manzoni[16] nacque a Milano, allora parte dell'impero asburgico, al n. 20 di via San Damiano[17] (oggi via Visconti di Modrone nº 16)[18][19], il 7 marzo 1785 da Giulia Beccaria e, ufficialmente, da don Pietro Manzoni[20]. Trascorse i primi anni di vita prevalentemente nella cascina Costa di Galbiate, tenuto a balia da Caterina Panzeri, una contadina del luogo[21][22]. Questo fatto è attestato dalla targa tuttora affissa nella cascina. Sin d'ora passò alcuni periodi alla villa rustica di Caleotto, di proprietà della famiglia paterna, una dimora in cui amerà tornare da adulto e che venderà, non senza rimpianti, nel 1818. In seguito alla separazione dei genitori[N 3], Manzoni venne educato in collegi religiosi.
Il 13 ottobre 1791[24] fu accompagnato dalla madre a Merate al collegio San Bartolomeo dei Somaschi, dove rimase cinque anni: furono anni duri, in quanto il piccolo Alessandro risentiva della mancanza della madre[N 4] e perché soffriva del difficile rapporto con i suoi compagni di scuola, violenti[N 5] tanto quanto gli insegnanti che lo punivano di frequente[25]. La letteratura era già una consolazione e una passione: durante la ricreazione, racconterà lo scrittore, «…mi chiudevo […] in una camera, e lì componevo versi»[26]. Nell'aprile del 1796 passò al collegio di Sant'Antonio, a Lugano, gestito ancora dai Somaschi, per rimanervi fino al settembre del 1798[24]. Nello stesso 1796, giungeva sul Lago di Lugano il somasco Francesco Soave, celebre erudito e pedagogista. Per quanto sia del tutto improbabile che Manzoni l'abbia avuto come maestro (se non per qualche giorno), la sua figura esercitò sul bambino una notevole influenza[27]. Vecchio e prossimo alla morte, l'autore de I promessi sposi ricordava: «Io volevo bene al padre Soave, e mi pareva di vedergli intorno al capo un'aureola di gloria»[28].
Passò, alla fine del '98, al collegio Longone di Milano, gestito dai Barnabiti[29] e quindi si trasferì a Castellazzo de' Barzi, dove l'istituto aveva stabilito provvisoriamente la propria sede a causa delle manovre belliche[24] per poi tornare, il 7 agosto 1799, a Milano[29]. Non è chiaro quanto l'adolescente rimanesse dai Barnabiti, anche se l'ipotesi più accreditata lo fa supporre allievo della scuola fino al giugno 1801[30]. Alessandro, nonostante l'isolamento cui era costretto per colpa dell'ambiente chiuso e bigotto, riuscì a stringere alcune amicizie che resteranno durature nel corso degli anni a venire: Giulio Visconti e Federico Confalonieri furono suoi compagni di classe. Un giorno imprecisato dell'anno scolastico 1800-1801, poi, gli scolari ricevettero una visita che suscitò nel Nostro una grande emozione: l'arrivo di Vincenzo Monti, che leggeva avidamente e considerava il più grande poeta vivente, «fu per lui come un'apparizione di un Dio»[31].
La formazione culturale di Manzoni è imbevuta di mitologia e letteratura latina, come appare chiaramente dalle poesie adolescenziali. Due, in particolare, sono gli autori classici prediletti, Virgilio e Orazio[32]; notevole è anche l'influsso di Dante e Petrarca[33], mentre tra i contemporanei, assieme al Monti, svolgono un ruolo importante Parini e Alfieri[34][35][36][37]. Se si escludono gli esercizi di stile precedenti[N 6], le sue primissime esperienze poetiche risalgono alla metà del 1801, quando cominciò a stendere Del trionfo della libertà[38]. Tuttavia vi si può riscontrare una vena satirica e polemica che avrà un ruolo non trascurabile nel Manzoni adolescente, pur venendo mitigata già a metà del decennio. Ci restano le traduzioni, in endecasillabi sciolti, di alcune parti del libro quinto dell'Eneide e della Satira terza (libro primo) di Orazio, accanto a un epigramma mutilo in cui attacca un certo fra' Volpino che, sotto mentite spoglie, raffigura il vicerettore del collegio, padre Gaetano Volpini[39].
Uscito dall'angusto mondo del Longone, visse dall'estate 1801 al 1805 con l'anziano padre don Pietro, alternando la vita di città[40] con soggiorni alla tenuta di Caleotto[32], e dedicando buona parte del suo tempo al divertimento e in particolare al gioco d'azzardo, frequentando l'ambiente illuministico dell'aristocrazia e dell'alta borghesia milanese. Giocava nel ridotto del Teatro alla Scala, finché, sembra, un rimprovero del Monti lo convinse a rinunciare al vizio[41]. Fu anche l'epoca del primo amore, quello per Luigina Visconti, sorella di Ermes. Di questa esperienza sappiamo quanto il poeta stesso rivelò nel 1807 in una lettera a Claude Fauriel. A Genova, infatti, l'aveva casualmente rivista, ormai sposata al marchese Gian Carlo Di Negro, e l'episodio aveva risvegliato in lui la nostalgia e il dispiacere di averla perduta[42]. Oltre a questi svaghi, la giovinezza del Manzoni è contrassegnata anche da un soggiorno a Venezia (dall'ottobre 1803 al maggio 1804[24][43]) presso il cugino Giovanni Manzoni, durante il quale ebbe modo di conoscere la nobildonna Isabella Teotochi Albrizzi, a suo tempo musa di Foscolo[43], e di scrivere tre dei quattro Sermoni[44]. Non è chiaro il motivo del soggiorno veneziano, del quale Alessandro conservava anche ai tardi anni un bellissimo ricordo[45], ma non sembrano avere avuto un ruolo ragioni politiche: piuttosto vi entrò il desiderio del padre di allontanarlo da uno stile di vita dissipato[43].
Il compiacimento neoclassico del tempo gli ispirò le prime composizioni di un qualche rilievo, modulate sull'opera di Vincenzo Monti, idolo letterario del momento. Ma, oltre questi, Manzoni si volge a Parini, portavoce degli ideali illuministi nonché dell'esigenza di moralizzazione, al poeta Ugo Foscolo, a Francesco Lomonaco, un esule lucano[47][N 7], e a Vincenzo Cuoco, assertore delle teorie vichiane[48], anche lui esule da Napoli dopo la restaurazione borbonica del 1799 e considerato il «primo vero maestro del Manzoni»[49]. La vicinanza all'ambiente neoclassico, e al suo campione Vincenzo Monti in particolare, spinsero il giovane Manzoni a frequentare alcuni corsi di eloquenza tenuti dal poeta romagnolo all'università di Pavia tra il 1802 e il 1803[11]. Nei registri dell'ateneo il nome di Alessandro non risulta, ma è quasi certo che egli seguisse le lezioni montiane[11].
Oltre alla nota ammirazione per il Monti e all'opinione di illustri studiosi[50], sembra convalidare l'ipotesi il carteggio del periodo. I corrispondenti di Manzoni, infatti, sono quasi tutti studenti (o vecchi studenti) dell'università, da Andrea Mustoxidi a Giovan Battista Pagani, da Ignazio Calderari a Ermes Visconti e a Luigi Arese[11][N 8][51]. Il contesto accademico lo dovette mettere in contatto anche con due professori giansenisti, Giuseppe Zola e Pietro Tamburini, docenti rispettivamente di «storia delle leggi e dei costumi» e di «filosofia morale, diritto naturale e pubblico»[N 9].
Le loro idee in difesa della morale lo influenzarono molto, oltre a introdurlo per la prima volta al pensiero giansenista. Tamburini condannava la Curia romana per le sue deformazioni ma vedeva nel cattolicesimo un imprescindibile modello. Per l'elevatezza delle sue dissertazioni parve a Manzoni un punto di riferimento al pari di Zola, definito «sommo»
in una lettera al Pagani del 6 settembre 1804[52]. Dal punto di vista letterario, a questo periodo si devono Del trionfo della libertà, Adda e I quattro sermoni che recano l'impronta di Monti e di Parini, ma anche l'eco di Virgilio e Orazio.
Nel 1805 Manzoni venne invitato dalla madre e da Carlo Imbonati a Parigi, a quanto pare dietro suggerimento del Monti[53]. Alessandro accettò con entusiasmo, ma non fece in tempo a conoscere il conte - alla cui missiva rispose nel marzo, con parole di calore e riconoscimento che Imbonati non lesse mai -, il quale morì il 15 marzo, lasciando la Beccaria ereditiera universale del suo patrimonio[54][55] ma anche affranta e bisognosa dell'amore filiale[56]. Il giovane, ora ventenne, giunse nella capitale francese il 12 luglio[24][55], giorno in cui la polizia locale gli rilasciava il permesso di soggiorno[57]. Uniti entrambi nel dolore, Manzoni, che per lo scomparso scrisse l'ode In morte di Carlo Imbonati, scoprì di avere una madre: le loro strade, divise sino ad allora, si incrociarono per non lasciarsi più. Fino al 1841, anno della morte della Beccaria, i due instaurarono un rapporto strettissimo la cui profondità emerge dalle lettere dello scrittore in numerosissime occasioni. Già il 31 agosto 1805 rivelava a Vincenzo Monti di aver trovato «la mia felicità […] fra le braccia d'una madre», e di non vivere che «per la mia Giulia»[58].
Con la madre soggiornò al numero 3 di Place Vendôme. Molto spesso, però, madre e figlio si recavano ad Auteuil[N 10], cittadina ove si riuniva il circolo intellettuale sotto il patronato della vedova del filosofo Helvétius[24], e alla Maisonnette di Meulan, dove passò due anni, partecipando al circolo letterario dei cosiddetti Idéologues, filosofi di scuola ottocentesca eredi dell'illuminismo settecentesco ma orientato verso tematiche concrete nella società, e anticipatori per questo di tematiche romantiche (quali l'attenzione alle classi povere, alle emozioni)[59].
Un ruolo importante nel gruppo degli Idéologues (costituito, tra gli altri, da Volney, Garat, Destutt de Tracy e il danese Baggesen[60]) era ricoperto da Claude Fauriel[59][N 11], col quale Alessandro strinse una duratura amicizia per molti anni, una frequentazione facilitata anche dal legame che c'era tra Giulia e l'amante di Fauriel, Sophie de Condorcet[61], e dal più anziano Pierre Cabanis[62], autore della Lettre sur les causes premières, testo orientato in senso spiritualista, impregnato di spirito religioso, per quanto l'Essere supremo di cui si ammette l'esistenza non coincida completamente con il Dio cristiano secondo la concezione della Chiesa[63].
A Parigi, dunque, Alessandro entra in contatto con la cultura francese classicheggiante, assimilando il sensismo, le teorie volterriane e l'evoluzione del razionalismo verso posizioni romantiche. Ci sono rimaste poche lettere relative agli anni 1805-1807, e non è pertanto possibile definire con precisione la rilevanza - per Manzoni - di tutti i testi e gli autori che il poeta lombardo conobbe o approfondì nei primi anni francesi. Fauriel e Cabanis emergono tuttavia come i due principali punti di riferimento, e una certa importanza dovette avere anche Lebrun, riconosciuto, in una lettera al Pagani del 12 marzo 1806, «grand'uomo», «poeta sommo» e «lirico trascendente»[64]. Potrebbero essere anche parole di circostanza, dettate da un'amicizia ancor fresca e dalla riconoscenza per le parole di elogio che «Pindare Lebrun»[N 12] gli aveva rivolto, omaggiandolo di un suo componimento. Lo stile del poeta francese, improntato a un classicismo enfatico e di maniera, non pare in effetti conciliarsi con la poetica manzoniana, ma il poemetto Urania (ideato tra il 1806 e il 1807 e poi stancamente portato a compimento negli anni successivi) ne recherà parzialmente l'impronta[65].
Intanto, madre e figlio lasciarono una prima volta Parigi nel giugno 1806, per sistemare le ultime pratiche legali relative all'eredità dell'Imbonati, nella quale figurava anche la villa di Brusuglio[11][66]. A settembre, comunque, erano già di ritorno in Francia, come dimostra una lettera di Manzoni a Ignazio Calderari[67]. Al febbraio 1807 risale il secondo spostamento: la lettera al Fauriel, scritta il 17[68], testimonia che quel giorno il Manzoni era a Susa e aveva passato il Moncenisio, e, sempre tramite testimonianze epistolari, sappiamo che il mese successivo era a Genova[69].
Il 20 marzo, quando era in procinto di partire per Torino venne a sapere che il padre era gravemente malato[11] (ma in realtà era già morto da due giorni[24]), e durante il tragitto che lo conduceva a Milano, il figlio apprese della sua morte. Sembra che Giulia e Alessandro non siano entrati in città, preferendo trascorrere alcuni giorni nella nuova proprietà di Brusuglio, per poi riattraversare le Alpi[70]. Le parole con cui affronta la scomparsa del padre, nelle lettere, paiono piuttosto fredde, per quanto nella missiva al Fauriel dell'8 aprile, venti giorni dopo il funerale, rivolgesse a Pietro un ultimo augurio: «Paix et honneur à sa cendre» (pace e onore alle sue ceneri)[71]; nella lettera a Pagani, scritta il 24 marzo, giorno in cui apprese la notizia del decesso, fa riferimento al motivo «ben doloroso» che lo aveva chiamato a Milano (ma pare non entrasse in città e non prendesse parte ai funerali), per poi proseguire con altri argomenti, come la soddisfazione di rivedere l'amico Calderari e l'affetto per la madre, «parlando della quale troverò sempre più ogni espressione debole e monca»[72]. Alessandro, nominato dal padre erede universale[70], a maggio era nuovamente a Parigi.
Da tempo Giulia Beccaria andava cercando una sposa per il figlio. Il viaggio primaverile del 1807 era stato fatto anche con questo obiettivo, divenuto ora preminente. Dopo che il progetto di fidanzare Alessandro con Augustine, figlia del filosofo Destutt de Tracy, fallì a causa del basso grado di nobiltà dei Manzoni[73], la Beccaria conobbe a Parigi Charlotte Blondel[74], imparentata con la famiglia calvinista del banchiere ginevrino François Louis Blondel. Blondel viveva a Milano con la moglie Marie e la figlia sedicenne Enrichetta nel palazzo Imbonati, che il conte gli aveva venduto anni addietro[74]. Tramite Charlotte furono avviati i contatti, e in settembre i Manzoni partirono alla volta della città meneghina per fare la conoscenza di Enrichetta - di cui erano state fornite ottime referenze - e dei genitori. L'incontro, avvenuto a Blevio nel tardo settembre del 1807[73], non disattese le speranze.
Manzoni rimase incantato dalla dolcezza e purezza della fanciulla e il matrimonio, che si rivelerà molto felice e sarà coronato dalla nascita di dieci figli, fu celebrato il 6 febbraio 1808 a Milano[24][75], prima con rito civile presso il Municipio e, quarantacinque minuti più tardi, con rito calvinista in via del Marino, dove si trovava la casa dei Blondel[75]. Sistemate infine le ultime questioni legate all'eredità dell'Imbonati, i novelli sposi, accompagnati da Giulia, si stabilirono al numero 22 del Boulevard des Bains Chinois, a Parigi[76][N 13]. Nello stesso anno, Il 23 dicembre, nacque la primogenita Giulia Claudia[75][77], che fu battezzata il 23 agosto del 1809 nella chiesa giansenista di San Nicola in località Meulan, secondo il rito cattolico e con Fauriel come padrino[77][78]. La decisione di battezzare con rito cattolico la primogenita da parte di un padre indifferente dal punto di vista religioso e da una madre calvinista è l'indice di un cambiamento radicale nella sensibilità spirituale della famiglia Manzoni.
La questione della conversione al cattolicesimo di Manzoni è una tematica su cui non solo i critici, ma anche i conoscenti e i famigliari del Manzoni hanno sempre discusso, ottenendo risposte aleatorie da parte dell'autore de I promessi sposi[79], riserbo che rende ogni studio critico inevitabilmente opinabile e incompleto. L'importanza della conversione, fondamentale per comprendere l'evoluzione tematica e spirituale del Manzoni del «quindicennio creativo», è dettata soprattutto dalla leggenda agiografica che vorrebbe una sua conversione repentina, dovuta allo smarrimento di Enrichetta nel 1810. In realtà, il percorso che ricondusse il giovane Alessandro e la sua famiglia alla pratica religiosa cattolica fu ben più lungo, dovuto a una serie di fattori combinati fra di loro.
Una certa importanza rivestono due lettere che Manzoni inviò a Ignazio Calderari in merito alla malattia che condusse alla morte il loro comune amico Luigi Arese. Nella prima, del 17 settembre 1806, si duole che al posto delle persone care, il morituro debba avere al proprio capezzale «l'orribile figura di un prete»[80][81], ma il 30 ottobre, dopo la morte dell'Arese, sempre al Calderari esclama: «Oh sì! ci rivedremo! Se questa speranza non raddolcisse il desiderio dei buoni e l'orrore della presenza dei perversi, che sarebbe la vita?»[82]. Da un lato, viene confermata la reazione anticlericale ravvisata nelle prime opere, ma al tempo stesso, come emerge ugualmente dalle prime opere, Manzoni dimostra di conformarsi allo spirito cristiano, prefigurando un'esistenza dopo la morte.
Dopo il battesimo cattolico di Giulia nell'agosto del 1809, Manzoni, d'accordo con la moglie, indirizzò una supplica a papa Pio VII affinché, «pentito del fallo commesso», l'autorità pontificia ponesse «un opportuno riparo, capace di rendere tranquilla la di lui coscienza [del supplicante, cioè del Manzoni]»[83], rendendo possibile celebrare nuovamente il matrimonio, questa volta secondo il rito cattolico[78]. Nel mese di novembre giunse l'autorizzazione papale con un rescritto del cardinale Di Pietro datato al 30 ottobre[84], e il 15 febbraio 1810, nella casa di Ferdinando Marescalchi, il curato della chiesa della Madeleine officiava la funzione[85].
All'inizio del 1809 i Manzoni avevano fatto conoscenze importanti, forse decisive nell'orientare Alessandro verso la pratica religiosa. Pierre Jean Agier, presidente della Corte d'appello parigina, Giambattista Somis, già consigliere della Corte di appello di Torino, Ferdinando Marescalchi, ministro delle Relazioni estere del Regno d'Italia napoleonico[86], e Anne Marie Caroline Geymüller, una donna di Basilea rimasta vedova di un ufficiale della guardia svizzera del re Luigi XVI, facevano parte di un ambiente fortemente cattolico e giansenista[87]. Quest'ultima, inoltre, aveva abiurato il calvinismo nel 1805 per opera di un abate genovese giansenista che i Manzoni conosceranno proprio nell'autunno del 1809, Eustachio Degola[88], il quale rivestì un'enorme importanza per la conversione di Alessandro e della famiglia.
La conversione del Manzoni, però, è ben più nota per il cosiddetto "miracolo di San Rocco"[89]. Il 2 aprile 1810, durante i festeggiamenti per le nozze di Napoleone I e Maria Luisa d'Austria, improvvisamente scoppiarono dei mortaretti e la folla che riempiva le strade, presa dal panico, separò dalla moglie il Manzoni il quale[90][91], sospinto dalla gente in fuga, si ritrovò sui gradini della Chiesa di San Rocco, in rue Saint-Honoré, e si rifugiò in essa. Nel silenzio e nella serenità di quel tempio egli implorò la grazia di ritrovare la consorte e all'uscita, convertito, poté riabbracciarla[92].
Un'altra versione, riportata da Giulio Carcano, racconta invece di un Manzoni frustrato che, assillato da dubbi spirituali, si sarebbe recato in San Rocco gridando: «O Dio! Se tu esisti, rivelati a me!»[93], uscendone poi credente.
Inizialmente il sacerdote ebbe il compito di preparare Enrichetta Blondel all'abiura del calvinismo[94], chiedendole di scrivere dei riassunti delle lezioni di religione cattolica (chiamati ristretti), affinché fossero poi corretti dallo stesso abate genovese[95]. L'abiura, poi, fu sottoscritta in un atto ufficiale il 3 maggio 1810 e celebrata solennemente il 22 maggio nella Chiesa di Saint-Séverin, alla presenza del circolo giansenista e dell'abate Degola[96]. L'ascendenza del prete giansenista è comunque innegabile: rimane a testimoniarlo il pluriennale carteggio che il sacerdote genovese intrattenne con Manzoni, con la moglie e con Giulia Beccaria[97]. È relativamente facile ricostruire i passaggi attraverso cui la Blondel si convertì al cattolicesimo, ma non è chiaro perché ciò avvenisse. Probabilmente il Manzoni, che era «un animo non veramente ribelle», accettava con fastidio un matrimonio non benedetto e aver dovuto ammettere questa situazione, quando la figlia fu iscritta nel registro dei battesimi, dovette metterlo a disagio[98].
Quanto lo spirito del Manzoni fosse cambiato negli ultimi mesi della permanenza parigina, o meglio, quanto fosse in contraddizione con i valori e i modelli precedenti, è difficile dire.
Sicuramente la grande città francese, capitale del bel mondo e degli intellettuali del momento, non esercitava più alcun fascino su di lui[96][100]. Bisognoso di tranquillità, Manzoni lasciò Parigi con la famiglia il 2 giugno, diretto a Brusuglio, dove giunse, nonostante alcuni inconvenienti[101], qualche settimana più tardi. Lì doveva, però, aspettare la collera della famiglia Blondel, adirata per la conversione di Enrichetta al cattolicesimo, un risentimento che non diminuì con il passare degli anni[102]. Al ritorno dalla Francia, i Manzoni alternarono periodi a Brusuglio e in città, dimorando nella villa fuori porta quando veniva la bella stagione, ove Alessandro si dedicava all'agricoltura. A Milano, si stabilirono per quasi due anni al numero 3883 di via S. Vito al Carobbio[103], per poi trascorrere un anno nel palazzo dei Beccaria, in via Brera, finché il 2 ottobre 1813 il poeta acquistò una casa in via del Morone, al numero 1171 (oggi 1)[104]. Manzoni era sempre stato abituato a vivere in mezzo al verde: la nuova dimora, che dava su piazza Belgioioso, aveva «un giardino proprio interno, con certo quale sentore di chiostro, assolutamente quel che ci voleva per l'indole del Manzoni»[105].
In via del Morone l'autore avrebbe trascorso il resto della propria vita. Nel corso degli anni seguenti i membri della famiglia Manzoni, che alternavano la loro residenza tra il palazzo cittadino e la villa di Brusuglio, crebbero di numero[106]. Dopo la morte di Luigia, nata e morta nello stesso giorno (5 settembre 1811), il 21 luglio 1813 vide la luce in via Brera il primo figlio maschio, Pietro Luigi. Il 25 luglio 1815, la casa di via del Morone fu allietata dalla nascita di Cristina[11][104]. Nel giro di pochi anni vennero al mondo anche Sofia (12 novembre 1817), Enrico (7 giugno 1819), Clara, vissuta due anni, nell'agosto 1821; 13 mesi dopo, Vittoria, Filippo nel marzo 1826 e Matilde nel maggio 1830[11].
Prima di partire, i Manzoni avevano chiesto al sacerdote giansenista di indicar loro una persona degna di fiducia che potesse continuare la sua opera di assistenza spirituale[107]. Il 30 maggio Degola scriveva una lettera di raccomandazione per don Luigi Tosi, canonico di Sant'Ambrogio e anch'egli giansenista[108]. Sia Giulia che Alessandro ebbero del Tosi un'ottima impressione, come può evincersi dalle parole di Alessandro: «Il degnissimo Canonico Tosi fu visitato da mia madre e me […], e fu trovato un degno amico del Degola; e questo basti per suo elogio»[109]. Il sacerdote si recava anche a Brusuglio, quando la famiglia vi soggiornava, e mantenne la sua funzione di guida spirituale per molti anni, anche dopo la sua elezione a vescovo di Pavia, avvenuta nel 1823.
Ad Alessandro, come alla moglie e alla madre, non era ancora stata somministrata l'eucaristia. Dopo una breve preparazione, Manzoni si confessò il 27 agosto e il 15 settembre, assieme a Giulia ed Enrichetta, si accostò per la prima volta alla Comunione[110], anche se il percorso di conversione completa fu ancora molto lungo. Infatti, nell'agosto 1811, il neofita inviava a Degola e Tosi delle lettere, in cui chiedeva rispettivamente di pregare «perché piaccia al Signore scuotere la mia lentezza nel suo servizio e togliermi da una tepidezza che mi tormenta, e mi umilia», e affermava che «malgrado la mia profonda indegnità sento quanto possa in me operarne la Onnipotenza della Divina Grazia»[111].
Espressione ormai adottata dalla critica letteraria[112], il quindicennio creativo suole indicare quell'arco temporale in cui Manzoni, ormai convertito al cattolicesimo e alle idee romantiche, si prodigò nella stesura delle sue opere letterarie principali, spaziando dalla poesia sacra a quella civile, dai saggi filosofico-religiosi alle tragedie, per giungere infine alla stesura del primo grande romanzo della storia della letteratura italiana. In tutti questi generi, Manzoni apportò elementi nuovi e rivoluzionari rispetto alla tradizione letteraria: gli Inni Sacri rivelano la coralità della poesia cristiana manzoniana[113]; le tragedie, in nome della verosimiglianza, si slegano dalle unità aristoteliche e rivelano quell'interesse progressivo per i sentimenti umani che troveranno piena espressione nel romanzo.
D'ora in avanti, la sua vita e la sua arte saranno pienamente conformi alla fede e alla necessità di divulgarla con l'esempio e con le opere. Nel 1812 cominciò la stesura degli Inni sacri: l'autore voleva scrivere nell'ordine Il Natale, L'Epifania, La Passione, La Risurrezione, L'Ascensione, La Pentecoste, Il Corpo del Signore, La Cattedra di San Pietro, L'Assunzione, Il Nome di Maria, Ognissanti e I Morti[114], ma ne portò a termine solo cinque: La Risurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione e La Pentecoste. I primi quattro furono scritti tra l'aprile 1812 e l'ottobre 1815 e pubblicati in un volumetto presso l'editore milanese Pietro Agnelli alla fine del 1815[115], mentre la stesura de La Pentecoste, iniziata nel 1817, fu completata solo cinque anni più tardi, rallentata da altre opere cui l'autore attese nei medesimi anni, tra cui spiccano le due tragedie e la prima versione del romanzo. L'Ognissanti (1830-1847) restò in stato di frammento, come altre possibili aggiunte agli Inni (Il Natale del 1833 e il brevissimo Dio nella natura). La poesia religiosa del Manzoni è infine completata dalle Strofe per una Prima Comunione. L'intenzione dell'autore è quella di una poesia popolare, da cui lo stile talvolta si allontana perché ancora influenzato dalla formazione neoclassica[116], per poi ritornare alla comunità dei credenti (l'ecclesia cristiana) che innalza, insieme al poeta, un canto di lode a Dio, unica sicurezza contro il male sempre imperante nella Storia[117][118]. Questa dimensione corale emerge soprattutto nella Pentecoste, ove i «figli d'Eva» (v. 71), sparsi in tutto il mondo, trovano unità nella fede in Dio[119].
Mentre Manzoni elaborava gli Inni Sacri, la situazione politica italiana e internazionale si stava velocemente deteriorando: Napoleone, fortemente debilitato dopo la disastrosa campagna di Russia del 1812, crollava nella grande battaglia di Lipsia del 1813. Di conseguenza, anche gli Stati satelliti francesi, tra cui il Regno d'Italia, caddero sotto i colpi della coalizione austro-russa, obbligando Eugenio di Beauharnais a fuggire da Milano e permettendo così agli austriaci di rientrare in Lombardia dopo vent'anni di assenza. Manzoni vive questi momenti drammatici con grande angoscia, assistendo dal suo palazzo di via del Morone, il 20 aprile 1814, al linciaggio del ministro delle finanze Giuseppe Prina, la cui violenza (deplorata vivamente dal Manzoni) viene narrata dal poeta milanese in una lettera indirizzata al Fauriel[120].
A parte l'episodio del Prina, Manzoni partecipò intensamente al tentativo di mantenere indipendente l'Alta Italia con un regno il cui re sarebbe stato proprio il Beauharnais, sottoscrivendo una petizione presso le grandi potenze vittoriose riunitesi a Parigi[121]. Poeticamente, invece, il Manzoni contribuì all'effimero sentimento patriottico con la stesura di due canzoni entrambe rimaste incompiute[122]: Aprile 1814 (sette strofe scritte tra il 22 aprile e il 12 maggio 1814), in cui si rievoca il terremoto politico milanese in chiave patriottica[123] e la denuncia verso la politica napoleonica[124]; e Il proclama di Rimini (aprile 1815), ove Manzoni riflette sull'omonimo discorso tenuto dall'ex re di Napoli Gioacchino Murat per la difesa dell'Italia, e inquadrandolo come un Liberatore inviato da Dio per sottrarre gli italiani alla schiavitù[125].
Gli anni successivi alla conversione furono assai significativi per il panorama letterario e culturale italiano. L'Italia, ancorata a una salda tradizione classicista grazie ai magisteri passati di autori quali Parini e Alfieri, e attuali quali quello del Monti, fu costretta a confrontarsi con la nuova temperie romantica europea. Nel gennaio del 1816, infatti, l'intellettuale francese Madame de Staël pubblicò, sul primo numero del giornale letterario la Biblioteca Italiana, un articolo intitolato Sulla maniera e utilità delle traduzioni, in cui attacca l'ostinato ancoraggio degli italiani a una vacua retorica, ignorando invece le novità letterarie provenienti dalla Germania e dall'Inghilterra[126][127].
Alla successiva querelle tra classicisti (capeggiati da Pietro Giordani) e romantici (tra i quali spiccano Ludovico di Breme e Giovanni Berchet), Manzoni non partecipò attivamente. Benché fosse apertamente dalla parte dei romantici (l'ode L'ira di Apollo testimonia, in chiave ironica, l'ira del dio della poesia pagano per essere stato escluso dai testi poetici) e partecipasse alla Cameretta letteraria animata da Ermes Visconti, Gaetano Cattaneo, Tommaso Grossi e, soprattutto, dal poeta dialettale Carlo Porta[128][129], Manzoni si rifiutò di collaborare apertamente sia alla Biblioteca Italiana che al successore della prima rivista, Il Conciliatore[11].
Oltre all'interesse sempre crescente per la formulazione di una poetica cristiana e l'inizio delle indagini sul genere teatrale, furono determinanti anche la nevrosi depressiva che colpì Manzoni, per la prima volta, nel 1810 (in occasione dello smarrimento di Enrichetta) e, in modo sempre più debilitante, negli anni successivi: questo e la sua difficoltà a parlare in pubblico avevano minato i suoi rapporti interpersonali, costringendolo a una vita tranquilla e ritirata nei suoi possedimenti di Brusuglio o nella quiete del suo palazzo milanese[130].
Decisiva fu l'impronta che Manzoni lasciò nella storia del teatro italiano. Dopo la stagione alfieriana, Manzoni intervenne sulla struttura e la finalità stessa del dramma, il quale non deve impegnarsi a descrivere il verosimile (fattore che esclude l'artificiosità delle unità aristoteliche) e i moti dell'anima dei protagonisti, campo d'indagine proprio del poeta e non degli storici di professione[131], come emerge dalla Lettera a Monsieur Chauvet del 1820. I frutti di tali riflessioni teoriche si possono cogliere nelle tragedie Il Conte di Carmagnola[132], la cui stesura fu rallentata a causa dei già noti problemi di natura nervosa che affliggevano l'autore[133] e dell'impegno riversato nelle Osservazioni sulla morale cattolica e nella Pentecoste[134]. La seconda tragedia, l'Adelchi, invece, fu edita nel 1822, mentre cominciava a profilarsi, nella mente di Manzoni, la visione narrativa del romanzo[11].
Nella primavera del 1817 Manzoni era andato incontro a una breve crisi spirituale[135], determinata da più fattori, in particolare dall'appoggio della Chiesa alla Restaurazione: il liberale Manzoni non concepiva il conflitto tra la religione cristiana, in cui fermamente credeva, e l'orientamento politico della Chiesa Cattolica che non condivideva[136]. La delusione che ne derivò portò all'acuirsi della sua malattia nervosa e a un conseguente raffreddamento nella pratica religiosa, come si evince da una lettera di Tosi al Degola, in cui il padre spirituale dello scrittore comunicava il superamento della crisi (14 giugno 1817)[137]. Anche con il futuro vescovo di Pavia c'era stato un piccolo scontro, presto dimenticato, quando Manzoni gli aveva manifestato il desiderio di tornare per un periodo a Parigi, incontrando un'opposizione che gli parve esagerata[138]. Il sacerdote ravvisava infatti nel trasferimento un pericolo per la fede del discepolo, desideroso, al contrario, di rivedere Fauriel, e speranzoso di trarre beneficio per i propri disturbi nervosi. Manzoni chiese ugualmente di poter partire, ma in maggio la polizia gli negò i passaporti[139].
Accantonata provvisoriamente l'ipotesi parigina, Manzoni interruppe il Conte di Carmagnola ritirandosi in campagna, dove si immerse nella lettura di testi filosofici che saranno alla base delle Osservazioni sulla morale cattolica[138]. Le postille manzoniane agli autori studiati sono utili per determinare quali libri affrontasse in quei mesi e per scoprire come lo scrittore li giudicasse. Le postille a Locke, a Condillac e a Destutt de Tracy provano la distanza di Manzoni dal loro pensiero[138], ma la sua attenzione, nel preparare le Osservazioni, andò soprattutto all'Histoire des Républiques Italiennes di Sismondi, il cui sedicesimo e ultimo volume uscì a Parigi nel 1818. L'opera, che era stata la fonte principale della tragedia, recava nell'ultimo tomo delle violente accuse contro il cattolicesimo, suscitando nel canonico Tosi una reazione indignata, chiedendo così a Manzoni di controbattere[N 14]: quest'opera apologetica vide le stampe nel 1819, pubblicata col titolo Sulla Morale Cattolica, osservazioni di Alessandro Manzoni, Parte prima[140].
Già dal 1817, Manzoni pensava di ritornare a Parigi, luogo felice della giovinezza ove sperava di poter guarire dalle crisi di nervi di cui soffriva sempre più in modo accentuato[141]. I preparativi per la partenza, però, furono sempre rimandati a causa della difficoltà di ottenere i passaporti da parte delle autorità austriache[142]. Solamente nel 1819 Manzoni li ottenne, e con l'intera famiglia partì per la Francia il 14 settembre[143]. Nella capitale francese, Manzoni frequentò lo storico Augustin Thierry e il filosofo Victor Cousin[144]. La conoscenza di Thierry ebbe un'influenza importante sulla concezione manzoniana della storia, e una certa rilevanza ebbe anche lo spiritualismo di Cousin. Benché le idee di quest'ultimo non fossero del tutto eterodosse in materia di religione, affermazioni quali «Sans Dieu, l'homme et la nature restent un mystère»[145] (senza Dio, l'uomo e la natura restano un mistero), oppure «La loi suprème, c'est […] la sainteté, le dévouement, la charité, l'amour du prochain; c'est surtout l'amour de Dieu»[146] («La legge suprema consiste […] soprattutto nella santità, nella devozione, nella carità, nell'amore per il prossimo; si manifesta soprattutto nell'amore di Dio»).
Manzoni, però, non trovò giovamento dal soggiorno parigino: le crisi di nervi non erano infatti passate, e cominciava a provare nostalgia di casa. Pertanto, dopo appena un anno, il 25 luglio partì da Parigi con tutta la famiglia per rientrare a Milano l'8 agosto[24]. Passata l'estate, Alessandro iniziò gli anni più frenetici del quindicennio creativo, in cui elaborò quei concetti religiosi/provvidenzialistici che troveranno il culmine nell'Adelchi e nel Cinque maggio, basi fondamentali per l'economia de I promessi sposi, insieme all'inizio della riflessione linguistica, strutturale e artistica del genere del romanzo stesso.
A partire dal novembre del 1820, infatti, Manzoni cominciò a stendere la tragedia dell'Adelchi[147]. Concluso un primo abbozzo entro la primavera del 1821, improvvisamente Manzoni se ne distolse per riprendere in mano la poesia civile con la stesura di Marzo 1821, celebrante la presunta invasione del Lombardo-Veneto da parte delle truppe sardo-piemontesi dopo l'abdicazione di Vittorio Emanuele I[148]. L'opera lirica (stesa tra il 15 e il 17 marzo[147]), rispetto alle odi di sette anni prima, rivela una maggior compattezza strutturale e sicurezza sia nel tono del linguaggio, sia nel trattare gli stati d'animo dei patrioti italiani. Scemata l'euforia generale dopo il fallimento dei moti del 1820-1821, Manzoni rimise mano all'Adelchi, cominciando a leggere, come per il Conte di Carmagnola, varie fonti storiche (rielaborate nel coevo saggio storico intitolato Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia[11]) perché ci fosse un'aderenza tra il vero storico (cioè gli eventi storici realmente accaduti) e il vero poetico (cioè l'inventio narrativa dello scrittore), concezione della storia appresa alla scuola di Thierry e degli idéologues.
L'anno 1821, però, fu pregno di eventi significativi per la storia italiana ed europea: oltre ai moti sopracitati, infatti, il 5 maggio moriva sull'Isola di Sant'Elena l'esiliato Napoleone Bonaparte, notizia che però giunse in Europa soltanto nel mese di luglio. Manzoni aveva letto della scomparsa dell'ex imperatore dei francesi, infatti, su di un articolo della Gazzetta di Milano del 17 luglio 1821[149], e ne rimase profondamente turbato: il nobile meneghino era affascinato dal titanismo, dal carisma e dal genio militare di Napoleone[N 15], e immediatamente si accinse a stendere un'ode che ne ripercorresse la vita. Fu così che, tra il 18 e il 20 luglio[149], Manzoni compose Il cinque maggio, in cui la grandezza di Napoleone non risiede nelle sue imprese terrene, quanto nell'aver compreso, attraverso le sofferenze dell'esilio, la vanità delle glorie passate e l'importanza assoluta della Salvezza. Il parallelo con le vicende di Adelchi e di Ermengarda, dimostra l'intreccio elaborativo di questi mesi, e della formulazione di quella provvida sventura che sarà alla base del romanzo.
Manzoni iniziò a dedicarsi alla scrittura di un romanzo a partire dall'autunno del 1821[150], ma la stesura vera e propria del Fermo e Lucia era iniziata il 24 aprile 1821, dopo aver letto l'Ivanhoe tradotto in francese[151]. Nella quiete della sua villa di Brusuglio, Manzoni iniziò a scrivere il suo romanzo dopo aver quindi iniziato la lettura dei romanzi europei, specialmente inglesi, in quanto la letteratura italiana si era concentrata su altre tipologie di generi prosaici. Oltre a Walter Scott Manzoni, seguendo la metodologia già adottata per le tragedie, cominciò un vero e proprio lavoro di documentazione storica, basato sulla lettura della Historia patria di Giuseppe Ripamonti e dell'Economia e statistica di Melchiorre Gioia[152]. In base alle postille lasciate dal Manzoni, la prima minuta del Fermo e Lucia (titolo suggerito dall'amico Ermes Visconti, come testimoniato in una lettera del 3 aprile 1822 a Gaetano Cattaneo[153]), consisteva in un foglio protocollo diviso in due colonne: a sinistra Manzoni scriveva il testo, mentre sulla destra riportava le correzioni.
La seconda fase di stesura del romanzo, dovuta all'ultimazione dell'Adelchi e alla stesura del Cinque maggio, terminò il 17 novembre 1823[154] e il manoscritto fu edito nel 1825. Il passaggio dal Fermo e Lucia, la cui struttura narrativa risultava poco armonica a causa della divisione in tomi e di ampie parti narrative dedicate a suor Gertrude[155], a I promessi sposi fu alquanto travagliato per la ridefinizione dell'architettura dell'opera[156]. Oltre al problema espositivo, Manzoni si accorse del linguaggio artificioso e letterario da lui usato, elemento non rispondente alle esigenze realistiche cui tendeva la sua poesia[157]. Scegliendo il toscano come lingua colloquiale per i suoi personaggi[158], pubblicò la cosiddetta ventisettana (nome dato alla prima edizione de I promessi sposi) ma, consapevole della necessità di ascoltare direttamente l'eloquio di quella regione, decise di partire per Firenze.
Nel 1827 Manzoni si trasferì a Firenze per dare vita alla stesura finale del romanzo a livello formale e stilistico, in modo da entrare in contatto e "vivere" la lingua fiorentina delle persone colte, che rappresentava per l'autore l'unica lingua dell'Italia unita. Il viaggio, iniziato il 15 luglio, vide l'intera famiglia Manzoni (i figli, l'anziana madre Giulia e la moglie Enrichetta) passare per Pavia (dove si fermarono per salutare il canonico Tosi, divenuto vescovo della città), Genova, Lucca, Pisa[24] e infine, il 29 agosto, nella capitale del Granducato di Toscana[159]. Il soggiorno, che durerà fino a ottobre, fu un trionfo per don Alessandro: i membri del Gabinetto Vieusseux (con in testa Niccolò Tommaseo, lo stesso Giovan Pietro Vieusseux, Giovanni Battista Niccolini e Gino Capponi[160][161]) gli vennero incontro con tutti gli onori, e anche lo stesso Giacomo Leopardi, che non ammirava né condivideva l'ideologia e la poetica del Manzoni, lo salutò cordialmente[162]. La fama de I promessi sposi superò presto i confini dei circoli letterari, giungendo presso la stessa corte granducale, ove Leopoldo II in persona ricevette il romanziere. Durante questi incontri (impegnativi per Manzoni, per via dei suoi problemi nervosi), don Alessandro approfondì la sua indagine linguistica, avvalendosi del contatto diretto sia con la nobiltà fiorentina, sia con il popolo, notando la somiglianza della terminologia utilizzata dalle due classi. Il frutto di tali osservazioni fu fondamentale per la scelta del fiorentino (in luogo del generico toscano) come lingua quotidiana per i personaggi del suo romanzo[158], scelta che portò, nel corso degli anni trenta, a rivedere i suoi promessi sposi, pubblicandoli definitivamente nel 1840 (da qui il nome di Quarantana) insieme alla Storia della colonna infame, un saggio che riprende e sviluppa il tema degli untori e della peste, che già tanta parte aveva avuto nel romanzo, del quale inizialmente costituiva un excursus storico.
La quiete famigliare su cui Manzoni aveva instaurato il proprio regime di vita quotidiana, basato sull'affetto che Enrichetta, la madre e i figli nutrivano per lui, si frantumò a partire dagli anni trenta, allorché lo colpirono i primi lutti famigliari: il primo fu quello per l'adorata moglie Enrichetta, morta il 25 dicembre 1833 di tabe mesenterica[163], malattia contratta a seguito delle numerose gravidanze[164]. Il dolore di Manzoni fu tale che, quando nel 1834 cercò di scrivere Il Natale del 1833, non riuscì a completare l'opera[165]. Dopo Enrichetta, Manzoni vide morire l'adorata figlia primogenita Giulia, già moglie di Massimo d'Azeglio, il 20 settembre del 1834[166]. Il 2 gennaio 1837[167], grazie agli uffici della madre e dell'amico Tommaso Grossi[168], sposò Teresa Borri, vedova del conte Decio Stampa e madre di Stefano, figura cui il Manzoni fu molto legato[169]. La nuova moglie di Manzoni, al contrario di Enrichetta, era dotata di una forte personalità e di una buona cultura letteraria[170]. A causa del suo carattere forte e protettivo nei confronti dell'adorato marito, Teresa entrò presto in conflitto sia con l'anziana suocera, sia con lo stesso Grossi, che dovette abbandonare il palazzo di via del Morone dove abitava da più di vent'anni[171]. Gli anni successivi furono ancora costellati dalla morte di molti dei suoi cari: della figlia Cristina (27 maggio 1841)[172], seguita due mesi dopo dalla madre Giulia Beccaria (7 luglio[172]) e, infine, dell'amico Fauriel (1844)[173].
Milano, come le altre grandi città europee, non fu immune dalle rivolte che esplosero in tutta Europa: durante le famose cinque giornate di Milano i patrioti riuscirono a scacciare, seppur momentaneamente, gli austriaci del feldmaresciallo Radetzky dalla città. Tra questi uomini imbevuti dell'epos risorgimentale c'era anche il figlio ventiduenne del Manzoni, Filippo, che finì incarcerato all'inizio dei combattimenti[175]. Se il figlio combatteva sulle barricate, il padre Alessandro pubblicò quelle odi politiche (Aprile 1814, Il proclama di Rimini e Marzo 1821) che, per timore della rappresaglia austriaca, non aveva mai edito[176]. Al momento del rientro di Radetzky, Manzoni, timoroso di subire delle ripercussioni per il suo sostegno "morale" alla causa risorgimentale, si rifugiò a Lesa, dove la moglie Teresa aveva una villa[177].
Il soggiorno di Lesa, che durerà fino al 1850, non fu un esilio infecondo: a Stresa, non molto lontano, viveva il grande filosofo e sacerdote Antonio Rosmini, conoscente del Manzoni già dal 1827[178]. Il ritiro sul lago Maggiore servì allo scrittore per conoscere meglio l'animo e il pensiero del Rosmini, del quale apprezzò profondamente la personalità e la pietà (oltre alle discussioni religiose, linguistiche e politiche)[179], come si può desumere dal folto carteggio epistolare fra i due uomini[180].
Questi anni, dal punto di vista strettamente letterario, videro Manzoni rigettare quell'equilibrio tra vero storico e vero poetico impostato nel suo romanzo. Attratto in maniera crescente dagli studi linguistici, storici e filosofici, Manzoni sentì sempre più necessaria e urgente la ricerca della "verità oggettiva" condannando, nel saggio Del romanzo storico e, in genere, de' componimenti misti di storia e di invenzione e nel dialogo Dell'Invenzione (pubblicati entrambi del 1850), la commistione tra inventio e historia[181].
Gli anni seguenti furono assai penosi: nel 1853 morì Tommaso Grossi, nel 1855 l'amico Rosmini e l'anno successivo la figlia Matilde, da tempo ammalata di tisi[182]; nel 1858 lo zio Giulio Beccaria[183] e nel 1861 la moglie Teresa, la cui salute era stata irrimediabilmente compromessa dopo una difficoltosa gravidanza anni addietro[184]. Questa serie di lutti fu alternata dal conferimento di onorificenze da parte del neonato Regno d'Italia, e dalle visite di illustri ospiti.
Il 29 febbraio 1860, ancor prima della proclamazione ufficiale del nuovo Stato unitario, fu nominato senatore del Regno di Sardegna per meriti verso la patria[185]. Con questo incarico votò nel 1864 a favore dello spostamento della capitale da Torino a Firenze fintanto che Roma non fosse stata liberata[24]. Dal punto di vista intellettuale, gli ultimi anni videro Manzoni, oltre che conversare col Rosmini, scrivere saggi storici (La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859: saggio comparativo)[186] e linguistici intorno alla lingua italiana. Come presidente della commissione parlamentare sulla lingua, infatti, Manzoni scrisse, nel 1868, una breve relazione sulla lingua italiana (Dell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla) indirizzata al ministro Broglio, in cui si cerca di trovare una soluzione pratica alla diffusione del fiorentino in tutta Italia[187]. Il 28 giugno 1872 fu nominato cittadino onorario di Roma[188].
Manzoni, a parte i disturbi nervosi da cui era affetto e una malattia che lo colpì nel 1858, godette sempre di ottima salute[189]. L'anno 1873 fu però l'ultimo della sua vita: il 6 gennaio cadde battendo la testa su uno scalino all'uscita dalla chiesa di San Fedele di Milano[11][190], procurandosi un trauma cranico. Manzoni si accorse, già dopo qualche giorno, che le sue facoltà intellettive cominciavano lentamente a scemare[191], fino a cadere in uno stato catatonico negli ultimi mesi di vita. Le sofferenze furono acuite dalla morte del figlio maggiore Pier Luigi, avvenuta il 28 aprile[106], e quasi un mese dopo, il 22 maggio alle ore sei e quindici del pomeriggio, spirò per una meningite contratta a seguito del trauma[192]. Il corpo fu poi imbalsamato da sette medici incaricati del processo da parte del Comune di Milano tra il giorno 24 e il 27 maggio[193]. Ai solenni funerali del Senatore, celebrati in Duomo il 29, parteciparono le massime autorità dello Stato[194], tra cui il futuro re Umberto I, il ministro degli esteri Emilio Visconti Venosta e le rappresentanze della Camera, del Senato[195], delle Province e delle Città del Regno[194]. Felice Venosta ne narra i particolari descrivendo, non senza note di patetismo, lo stato d'animo in cui versava la città al momento della sua scomparsa:
«Per le strade un gridio di venditori di fotografie del gran poeta, di ritratti d'ogni formato, d'ogni prezzo… Le pareti delle case erano tappezzate di avvisi portanti il nome del Manzoni […] gli uomini erano tutti nelle vie, e metà Milano, a non esagerare, volle seguire il feretro al Cimitero»
La scomparsa di Alessandro Manzoni non suscitò unanime cordoglio: il mondo cattolico più reazionario e clericale, per esempio, non ne compianse la morte[196][197][198]. Anzi, i gesuiti de La Civiltà Cattolica la passarono sotto silenzio, per poi scagliarsi contro il Manzoni scrittore e cristiano nell'articolo del 26 giugno 1873, Alessandro Manzoni e Giuseppe Puccianti[199][N 16]. Nel grave dissidio tra le due anime del cattolicesimo italiano dell'epoca, Manzoni veniva ritenuto, anche da altri sostenitori dell'ala reazionaria, il vessillo tramite cui i liberali poterono attuare la loro politica laicista e l'abbattimento del potere temporale dei papi[N 17]. A tal proposito don Davide Albertario, uno dei più accesi critici della religiosità manzoniana e "paradigma" delle accuse mosse dagli zelanti al liberale Manzoni[200], non risparmiò dure critiche sull'ambiguità del comportamento di Alessandro:
«Manzoni non iscorse o non volle iscorgere l'inganno che la rivoluzione nascondeva alle promesse di unità italiana [...] Egli pertanto non si unì ai difensori della fede; lasciò in disparte gli alti interessi del cattolico e fece proprii quelli della rivoluzione; non per questo rinnegò il cattolicismo, ma lo portò seco nel campo nemico, ed i nemici accolsero con plauso lui e il divin prigioniero [il Papa, n.d.a].»
Benedetto Croce, nel 1941, riportò come ancora a distanza di anni dopo la morte di Manzoni i cattolici "intransigenti" facessero sentire la loro voce tramite quella di Giovanni Papini[201]:
«Alessandro Manzoni, ricco dei più velenosi succhi dell'illuminismo francese, non vede nel Cattolicesimo se non un umanitarismo sociale con dei riti da godere più che da approfondire; aspetta che sian morti tutti i giansenisti italiani per disdire le sue prime tentazioni di schifiltoso rigorista, e nemmeno le disdice; rappresenta un Vescovo talmente grande che è difficile trovarlo nella vita e nella storia, fuorché nei Santi, mentre il suo santo non è; rappresenta un frate, dissimile troppo dai suoi pari e superiori; una suora omicida, lussuriosa e manutengola; rappresenta un parroco tanto vile che san Giovanni Bosco non glielo perdonerà mai; non dice una parola, nella sua lunga vita, a difesa del Pontificato romano nell'Ottocento, sfidando condanne autentiche della Santa Sede, a cui obbedivano, pur soffrendo, Vescovi, sacerdoti, laici; e nonostante tutto questo, tutti i cattolici lo considerano lo scrittore cattolico per eccellenza e qualcuno addirittura lo proporrebbe volentieri per santo.»
Il giorno stesso della sua morte il Comune di Milano decretò di intitolare allo scrittore scomparso la via del Giardino, nei pressi della quale lo scrittore viveva dal 1814. Alla mattina del 23 maggio erano murate le targhe di marmo con la nuova intitolazione Via Alessandro Manzoni in sostituzione delle vecchie riportanti Via del Giardino[202]. Nel 1874, nel primo anniversario della morte, Giuseppe Verdi diresse personalmente nella chiesa di San Marco di Milano la Messa di requiem, composta per onorarne la memoria[203][N 18].
La mattina del 22 maggio 1883, a dieci anni esatti dalla morte, in presenza del duca di Genova e di una rappresentanza parlamentare, con una cerimonia pubblica la salma fu tolta dal Colombario e posta nel famedio del Cimitero monumentale di Milano in una tomba di granito rosso con inciso solo il suo nome; nel pomeriggio fu inaugurato il monumento in piazza San Fedele, opera di Francesco Barzaghi[204][205].
Il 29 dicembre 1923, in occasione del cinquantesimo anno dalla morte, il Regno d'Italia emise una serie commemorativa di sei francobolli ceduta in parte al comitato promotore della celebrazione[206].
Le prime biografie di Manzoni furono scritte da Cesare Cantù (1885), Stefano Stampa (edita anch'essa nel 1885, in risposta a delle inesattezze del Cantù[207]), Cristoforo Fabris, Angelo De Gubernatis (1879), mentre una parte delle lettere di Manzoni fu pubblicata da Giovanni Sforza nel 1882. La figura enigmatica dello scrittore, costantemente afflitto da sintomi depressivi e relegato ad una vita appartata e isolata dagli eventi mondani, spinsero Paolo Bellezza a comporre il saggio Genio e follia in Alessandro Manzoni (1898), in cui si analizzano paure bizzarre dello scrittore, quali l'agorafobia, gli svenimenti continui e la paura delle pozzanghere[208]. Manzoni non fu però solo oggetto di indagini psicoanalitiche, ma anche di vere e proprie critiche nel campo strettamente letterario: in primo luogo dagli Scapigliati, che videro in Manzoni l'espressione del perbenismo borghese da loro tanto detestato[209]; da Giosuè Carducci, estimatore dell'Adelchi ma implacabile verso il romanzo[210]; da Luigi Settembrini, autore del Dialogo tra Manzoni e Leopardi in cui l'anticlericale napoletano si burla della sua fede cattolica[211]. Ammirazione incondizionata, invece, venne da Francesco de Sanctis, Giovanni Verga, Luigi Capuana[212] e da Giovanni Pascoli, che gli dedicò il saggio critico Eco di una notte mitica (1896)[213].
Nel Novecento, a causa dei movimenti anticlassicisti delle avanguardie, dell'evoluzione della lingua e all'edulcoramento della figura del romanziere che veniva insegnata nelle scuole, Manzoni subì varie critiche da parte di letterati e intellettuali: tra questi, D'Annunzio, avverso alla teoria linguistica manzoniana[214], il "primo" Croce[215] e il marxista Gramsci, che accusò Manzoni di paternalismo. La più importante apologia del Manzoni fu operata dal filosofo Giovanni Gentile, che nel 1923 lo definì, in una conferenza alla Scala, un «grande maestro nazionale»[216] come già avevano fatto Mazzini e Gioberti, ravvisando in lui il promotore di quell'idealismo religioso, in cui Gentile si riconosceva, che costituiva ai suoi occhi le fondamenta del Risorgimento italiano[217]. In difesa di Manzoni si schiererà anche Carlo Emilio Gadda, che al suo esordio pubblicò nel 1927 l'Apologia manzoniana[218], e nel 1960 attaccò il piano di Alberto Moravia di affossarne la proposta linguistica[219]. Soltanto nel Secondo Novecento, grazie agli studi di Luigi Russo, Giovanni Getto, Lanfranco Caretti, Ezio Raimondi e Salvatore Silvano Nigro si è riusciti a "liberare" Manzoni dalla patina ideologica di cui era stato rivestito già all'indomani della sua morte, indagandone con occhio più libero di pregiudizi la poetica e, anche, la modernità dell'opera[220].
Dopo il periodo della prima giovinezza, caratterizzato da una formazione basata sullo studio dei grandi classici antichi e italiani, il giovane Alessandro entrò in contatto prima col giacobinismo italiano (Lomonaco e Cuoco) poi, dal 1805 in avanti, con il gruppo degli Idéologues francesi (Fauriel, Cabanis). Il risultato fu che il giovane Manzoni aderì fino agli ultimi anni del primo decennio dell'Ottocento a un illuminismo scettico nel campo della religione, in cui predominava il valore per la libertà propugnata dagli ideali rivoluzionari[221][222], filtrandoli con gli apporti paideutico-educativi propri della lezione di Giuseppe Parini, del nonno Cesare Beccaria e di Pietro Verri[223].
Neanche dopo la conversione al Cattolicesimo nel 1810 e il rifiuto dei versi dell'Urania (1809), Manzoni abbandonò totalmente l'apporto illuminista della ragione, della coscienza individuale, e i valori della sua prima educazione. Riconoscendo il ruolo civile del letterato (apporto proprio dell'illuminismo milanese e dell'Alfieri), Manzoni intervenne più volte, sia in privato che nel circolo dell'azione letteraria, nelle vicende della storia, come attestano le Odi civili del 1814 e del 1821. Comunque, il manifesto di questa vocazione "civile" è pienamente espresso a più riprese nella Lettera sul Romanticismo inviata al marchese Cesare d'Azeglio (1823)[224], in cui Manzoni ribadisce il valore sociale che un'opera d'arte letteraria deve avere come principale finalità:
«[…] Il principio, di necessità tanto più indeterminato quanto più esteso, mi sembra poter esser questo: Che la poesia, e la letteratura in genere debba proporsi l'utile per iscopo, il vero per soggetto, e l'interessante per mezzo.»
L'elemento romantico nella produzione poetica manzoniana emerge negli Inni Sacri, dove per la prima volta l'io del poeta si eclissa a favore di un'universalità corale che eleva il suo grido di speranza e la sua fiducia in Dio[225]. La moltitudine degli uomini, il sentimento religioso e l'attenzione ai moti dell'anima nel cuore dei fedeli sono tutti elementi che avvicinano Manzoni al nascente movimento romantico, rendendo il giovane poeta meneghino e la cultura d'oltralpe legati da vincoli estetici e poetici affini.
Oltre alla dimensione "ecclesiale" della religiosità manzoniana, non si può dimenticare, per quanto riguarda l'attenzione al popolo, l'apporto fondamentale della storiografia francese di Augustin Thierry e degli idéologues in generale, che propugnavano di incentrare la storia sugli umili, piccoli personaggi che non scemano nell'oblio del tempo perché non sono oggetto d'interesse da parte dei cronisti loro coevi e che subiscono violenza per le decisioni dei potenti[226].
Persa, alla fine dei primi anni dell'Ottocento, la speranza di raggiungere la serenità per mezzo della ragione, la vita e la storia gli parvero romanticamente immerse in un vano, doloroso, inspiegabile disordine: bisognava trovare un fine salvifico che potesse aiutare l'uomo sia a costituire un codice etico da praticare nella vita terrena, sia a sopportare i mali del mondo in previsione della pace celeste[227]. Il critico Alessandro Passerin d'Entrèves sottolinea l'importanza che ebbero Blaise Pascal e i grandi moralisti francesi del Seicento (Bossuet) nella formazione religiosa del Manzoni: da essi l'autore aveva attinto l'ambizione a conoscere l'animo umano e «la convinzione che il cristianesimo è l'unica spiegazione possibile della natura umana, che è stata la religione cristiana che ha rivelato l'uomo all'uomo»[228], trovando nei loro insegnamenti quella fiducia nella religione come strumento di sopportazione dell'infelicità umana. La fiducia in Dio è il punto di distacco dal pessimismo propugnato da Giacomo Leopardi[N 19].
Su un terreno così impregnato di pessimismo esistenziale, gioca un ruolo fondamentale la Provvidenza, cioè il modo misterioso con cui Dio agisce nella vita umana elargendo la Salvezza ai suoi figli. Appresa alla scuola del moralista seicentesco Bossuet[229], la Provvidenza giocherà un ruolo fondamentale non soltanto all'interno de I promessi sposi, ma anche delle altre opere "minori"[230]: i vari personaggi manzoniani dovranno subire patimenti e ingiustizie all'interno di un mondo corrotto e dominato da una decadenza civile, morale e culturale[N 20], e soltanto l'agire della Provvidenza (chiamata, in questo contesto doloroso, anche con il nome di provvida sventura) permetterà loro di divenire vittime e di ottenere quella giustizia attesa vanamente sulla terra e che sarà invece elargita in Cielo[231].
Questa visione così pessimista del mondo è dovuta, anche, alle venature profondamente gianseniste che i direttori spirituali di Manzoni, Degola prima e Tosi poi, gli hanno impartito nell'affrontare le vicende umane. In realtà, però, Manzoni rimase sempre, dal punto di vista dogmatico, un cattolico, mantenendo soltanto una severa morale di vita vicina agli ambienti giansenisti. Come sottolinea Giuseppe Langella, sulla questione fondamentale della Grazia «Manzoni si attiene senza riserve all'insegnamento ufficiale della Chiesa, confida nell'esortazione apostolica del vangelo secondo Matteo[232]: "petite, et dabitur vobis"… Nessuna discriminazione, dunque, nell'offerta misericordiosa della grazia. Manzoni è perentorio: l'aiuto divino non è negato a nessuno che lo chieda…»[233].
Il palcoscenico, secondo Manzoni, non deve veicolare passioni e forti emozioni, nell'esasperazione dell'io del protagonista, ma indurre lo spettatore a meditare sulle scene cui assiste: all'«identificazione emozionale» di Racine e del teatro francese bisogna sostituire la «commozione meditata», per dirla con Gino Tellini[234]. La vicenda e la rappresentazione devono trasmettere un messaggio cristiano, senza per questo presentare una realtà idilliaca: al contrario, Manzoni va in cerca di personaggi, che, come Francesco Bussone (il conte di Carmagnola), si oppongano al male che domina la società umana, anche a prezzo della loro vita[235]. L'importante è che il drammaturgo cerchi la verità e si mantenga fedele alla realtà storica (il vero storico), lasciando al poeta il compito di indagare ciò che il cuore umano del protagonista può aver provato in un determinato contingente.
Si profila, pertanto, quella forte vena realistica che dominerà anche l'economia del romanzo, dal Fermo e Lucia fino alla Quarantana de I promessi sposi, dove il realismo emerge proprio dall'ultimo capitolo: non c'è un lieto fine, ma una ripresa della vita quotidiana spezzata però dalle disavventure dei protagonisti[236]. L'allontanamento da Lecco di Renzo e Lucia e la ripresa delle attività giornaliere sono il frutto della scelta, da parte dell'autore, di far continuare, nelle situazioni della vita quotidiana, le vite dei due protagonisti all'interno della quotidianità storica[237].
Manzoni, sulla spinta del romanticismo e della sua necessità di instaurare un dialogo con un vasto pubblico eterogeneo, si prefisse lo scopo di trovare una lingua in cui ci fosse un lessico pregno di termini legati all'uso quotidiano e agli ambiti specifici del sapere, e priva di una grande disparità tra la lingua parlata e quella scritta[238]. Questo percorso, iniziato già all'indomani della pubblicazione del Fermo e Lucia, vide Manzoni passare, tra il 1822 e il 1827, dal "compromesso" della buona lingua letteraria all'avvicinamento col toscano[239], e si concluse dopo anni di studi linguistici (facilitati anche dalla presenza della governante fiorentina Emilia Luti[240]) nel 1840 con la revisione linguistica de I promessi sposi sul modello del fiorentino colto[241], che presentava ancor più del toscano questa dimensione unitaria tra la dimensione orale e quella letteraria[242]. Infatti, tra l'edizione del 1827 e quella del 1840 vengono eliminati tutti quei lemmi toscani municipali e distanti dall'uso del fiorentino corrente[240]. Tale scelta linguistica, benché approvata dal ministro Emilio Broglio nella relazione del 1868, non fu accettata da tutti i contemporanei del Manzoni: Carlo Tenca, in un articolo datato 11 gennaio 1851 della rivista «Crepuscolo», si oppose alla soluzione manzoniana[243]. Lo stesso varrà per gli Scapigliati e per Carducci (ostile al romanzo ma non all'Adelchi), mentre Francesco d'Ovidio, Carlo Collodi, Edmondo de Amicis e Carlo Emilio Gadda si rifaranno alla lingua e all'impostazione strutturale del romanzo dando il via al fenomeno del manzonismo[244].
Come conseguenza del suo stile di vita estremamente riservato, non è facile inquadrare Manzoni come uomo. Egli visse perlopiù appartato dalla vita pubblica, mantenendosi estraneo dai principali eventi mondani della città (se si eccettua la frequentazione del salotto intellettuale tenuto da Clara Maffei[245]) e distante dall'impegno politico attivo dei grandi moti nazionalistici che stavano sconquassando l'Italia nel pieno del fervore risorgimentale, mantenendo però una posizione culturalmente e moralmente favorevole alla causa dell'Unità (si vedano l'Adelchi e Marzo 1821), che lo spingerà ad accettare la nomina a senatore a vita durante la vecchiaia. La ragione di questo atteggiamento, oltre che al carattere del Manzoni, è forse da ricercare nei suoi continui disturbi nevrotici (che curava con lunghissime passeggiate[246] e uno stile di vita estremamente regolare) come agorafobia, attacchi di panico, ipocondria, svenimenti, fobie varie (timore della folla, dei tuoni e delle pozzanghere[130][247]).
Amante del quieto vivere, condusse apparentemente una vita silenziosa[N 21] tra Brusuglio (ove lo scrittore si dilettava di botanica e giardinaggio, intessendo con Fauriel un ricco epistolario al riguardo[248]) e via del Morone, dedito ai suoi studi, alla cura della famiglia (anche se, per i complessi di cui era afflitto, era sempre oggetto di cure da parte dei suoi cari[249][250]) e alla coltivazione delle amicizie più strette[N 22][251]. Nella conversazione usava l'italiano con i visitatori provenienti da altre regioni italiane, ma soprattutto adoperava il dialetto milanese nella vita quotidiana[252].
Inetto nell'amministrazione dei suoi beni[253], dimostrava al contrario una grande attenzione nei confronti del mondo che lo circondava, non mancando di giudicare, placidamente e con ironia, gli eventi politici e sociali di cui veniva a conoscenza[254], o di adottare autoironia verso i suoi mali[255]. Le persone a lui più vicine ne sottolineavano la cortesia, la memoria vivacissima, l'ingegno[256] e una capacità discorsiva elegante[257], benché minato dalla balbuzie di cui lo scrittore era afflitto[255].
Il figliastro Stefano Stampa, infine, offre un ritratto fisiognomico assai dettagliato del patrigno, delineandone anche i movimenti e quel sorriso indice del suo carattere ironico:
«Manzoni era di statura media sì, ma media piuttosto alta. Posseggo la misura della sua persona ed era pari a metri 1, cent. 72, m. 3… Egli era di corporatura snella, ma null'affatto esile; piuttosto largo di spalle e ben conformato di torso… Con belle braccia e belle gambe, sarebbe parso un uomo tutto ben fatto, se non avesse avuto, non il collo corto, ma le spalle un po' alte verso il capo, ciò che gli dava l'aria un pochino rannicchiata […] La sua testa era tutt'altro che piccola […] Ave[va] da giovane i capelli castagni […] Gli occhi del Manzoni però non erano piccoli, ma di grandezza ordinaria, di colore cilestre tendente al verdognolo. La fronte alta e che indicava l'intelligenza. La bocca non era ampia, ma di grandezza media, e con labbra affilate, su cui ordinariamente appariva quel sorriso ben definito dal Cantù, di chi scherza e non schernisce (p. 161)»
In ordine di prima pubblicazione.
Genitori | Nonni | Bisnonni | Trisnonni | ||||||||||
Pietro Antonio Manzoni | Alessandro Manzoni | ||||||||||||
Decia Francesca Piazzoni | |||||||||||||
Alessandro Valeriano Manzoni | |||||||||||||
Margherita Arrigoni[260] | Clemente Arrigoni | ||||||||||||
Vittoria Serponti | |||||||||||||
Pietro Manzoni | |||||||||||||
Fermo Porro | Antonio Francesco Porro | ||||||||||||
Gerolama Crivelli | |||||||||||||
Maria Margherita Porro[261] | |||||||||||||
... Massaroli | Antonio Francesco Massaroli | ||||||||||||
? | |||||||||||||
Alessandro Manzoni[262] | |||||||||||||
Giovanni Saverio Beccaria | Francesco Beccaria | ||||||||||||
Francesca Paribella | |||||||||||||
Cesare Beccaria[263] | |||||||||||||
Maria Visconti di Saliceto | Antonio Visconti di Saliceto | ||||||||||||
Maria Beccaria | |||||||||||||
Giulia Beccaria | |||||||||||||
Domenico de Blasco | Diego Francesco de Blasco | ||||||||||||
Maria Koh | |||||||||||||
Teresa de Blasco[264] | |||||||||||||
Margherita Musci | Antioco Musci | ||||||||||||
? | |||||||||||||
Manzoni, da Enrichetta Blondel, ebbe i seguenti figli[106]:
Della numerosa prole, ben 8 dei 10 figli premorirono al padre. L'unica discendenza diretta fu quella del figlio scapestrato Enrico, che fu un noto scialacquatore del patrimonio familiare. Questi tra gli altri ebbe un figlio di nome Alessandro (1846-1910), il quale a sua volta ebbe tale Adelchi. Da quest'ultimo nacque un altro Alessandro[265].
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