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Le varietà della lingua lombarda sono le parlate romanze, di tipo gallo-italico, che concorrono a formare il diasistema[N 1] dei dialetti lombardi, definito per la prima volta da Bernardino Biondelli nel Saggio sui dialetti gallo-italici del 1853; le varie classificazioni individuano varietà su diversi livelli, a partire da quelle principali (occidentale e orientale), fino ad arrivare alle singole parlate locali.[3]
La formazione della lingua lombarda moderna è fatta risalire al periodo compreso tra il Quattrocento e il Cinquecento, periodo in cui i dialetti gallo-italici di questa area iniziarono a convergere – in diversa misura – verso una koinè regionale, fenomeno attribuito da alcuni autori alla forza centralizzatrice della città di Milano.[5]
Sovrapposte però al lombardo comune (termine con cui oggi si designano collettivamente le varietà delle aree maggiormente urbanizzate e che condividono i tratti più caratterizzanti della lingua) possono individuarsi aree più ristrette e con elementi propri.[6]
Le due varietà principali, secondo la classificazione fatta per la prima volta da Bernardino Biondelli a metà del XIX secolo e più abbandonata, sono quella orientale (transabduano o orobico) e quella occidentale (denominata anche nei secoli scorsi cisabduano[7] o insubre[8]), areali che presentano differenze principalmente fonetiche e morfologiche[3], pur restando coerenti dal punto di vista fonologico[9].
Differenze si trovano anche all'interno del ramo orientale, mentre il ramo occidentale presenta un numero di variazioni minime[10] (principalmente riguardante il gruppo vocalico /o/, /ɔ/ e il passaggio da /ts/ a /s/); le due varianti assumono poi differenze interne a seconda dei vari luoghi soprattutto nelle località prossime ai confini linguistici, come capita spesso nella Romània continua.[11]
Fa notare Andrea Rognoni, in Grammatica dei dialetti della Lombardia:[2]
«Una differenza sostanziale tra la Lombardia occidentale e la Lombardia orientale è data anche dal fatto che mentre a oriente non è riuscito ad agire linguisticamente un polo accentratore, a occidente lo sviluppo e la fortuna letteraria di Milano hanno contato moltissimo, condizionando dall'esterno sia le parlate appartenenti alla varietà lombardo-prealpina, sia quelle appartenenti alla varietà basso-lombarda, specie all'interno dell'entità idrogeografica posta tra il fiume Ticino e il fiume Adda, chiamata tradizionalmente Insubria, e soprattutto tra i poli urbani di Varese, Como e la bassa milanese. Un'influenza, seppur blanda, del milanese si è fatta sentire, a est dell'Adda, solo nella zona di Treviglio e dell'Isola (Bassa Bergamasca), nonché nel cremasco e nel cremonese più occidentali.»
Il lombardo occidentale e quello orientale hanno iniziato a differenziarsi a partire dal Medioevo: in precedenza le due realtà erano infatti molto più simili; le tracce di questa unitarietà sono percepibili ancora oggi nella presenza di peculiarità dell'orientale in alcune varietà occidentali (come brianzolo, comasco e ticinese) e viceversa: alcune aree del Bergamasco, del Bresciano e del Trentino hanno infatti mantenuto fino ai tempi moderni tratti distintivi del lombardo occidentale.[4]
Vi sono pertanto differenze fonetiche che non seguono il confine orientale/occidentale: è il caso, ad esempio, della lenizione delle consonanti occlusive in fine parola (come /lɛʧ/ e /frɛʧ/, "letto" e "freddo"), che accomuna il bergamasco alle varietà occidentali[4]; tra queste ultime, invece, il milanese urbano l'abbandonò parzialmente ai primi dell'Ottocento (passando alle forme /lɛt/ e /frɛd/), un fenomeno che il Biondelli vede come un tentativo di avvicinamento alla "lingua aulica", ossia all'italiano[12].
Anche dal punto di vista lessicale vi sono differenze tra Milano ed altre aree: infatti, ai milanesi tos (it. "ragazzo"), gioven (it. "celibe"), legnamee (it. "falegname"), ghezz (it. "ramarro"), erbion (it. "piselli"), scighera (it. "nebbia") e straluscià (it. "lampeggiare"), corrispondono gli omologhi bergamaschi e bresciani s-cet, pöt, marengù, ligoròt / lüsertù, ruàia / roaiòt, ghèba e sömelgà;[4] alcuni dei termini orientali sono comunque rintracciabili anche in area occidentale e viceversa: è il caso di ghiba e sumelegà (testimoniati nel brianzolo dal Cherubini)[13][14], oppure di ghèz e scighera (riportati anche nel bergamasco dal Tiraboschi)[15][16].
È quindi possibile osservare, più che un vero e proprio confine tra occidentale e orientale, una progressiva influenza esterna della lingua veneta, che è particolarmente evidente nel dialetto bresciano, parlato più ad est – ad esempio – del bergamasco:[4]
italiano | milanese | bergamasco | bresciano | veneto |
notte | /nɔʧ/ | /nɔʧ/ | /nɔt/ | /'nɔte/ |
zucche | /zyk/ | /'søke/ | /'søke/ | /'suke/ |
battere | /bat/ | /bat/~/ba'ti/ | /'bater/ | /'batar/ |
Sovrapposti al lombardo occidentale e a quello orientale sono presenti altri due tipi di dialetti lombardi, che sono di transizione poiché fanno da "cerniera" con le aree contigue a nord e a sud dei confini della regione linguistica lombarda: quelli settentrionali sono definiti come alpini, quelli meridionali anche come di crocevia.[4]
I dialetti alpini sono quelli che hanno meglio conservato alcune peculiarità dei proto-dialetti dell'Italia settentrionale che si parlavano in quasi tutta la Pianura Padana prima dell'epoca medievale; questi avevano un forte connotazione gallo-romanza, impronta che poi si è mitigata: è il caso - ad esempio - del termine "le capre", che in dialetto milanese medievale doveva pronunciarsi /lasˈkavras/.[4]
Le diverse parlate della Lombardia meridionale sono invece definite da alcuni autori anche come "dialetti di crocevia", oppure "dialetti misti" (alla luce delle influenze emiliane, piemontesi e liguri nella provincia di Pavia, emiliane e venete nel mantovano, e ancora emiliane a Cremona).[2][17]
Le varietà parlate nelle aree più urbanizzate sono indicate col termine lombardo comune; in queste sono infatti individuabili i tratti fonologici comuni che più caratterizzano il lombardo nel continuum gallo-italico, i quali possono riassumersi con:[6][18]
Questi fenomeni, in larga parte, erano già presenti ai tempi di Bonvesin de la Riva, quando si andò creando in Lombardia una sorta di lingua illustre, soppiantata nei secoli successivi dalla norma toscana.[6]
Secondo Glauco Sanga, uno dei principali studiosi della linguistica lombarda, è possibile individuare una koinè regionale che coincide in buona parte col dialetto di Milano, in quanto centro principale della regione, nonché varietà lombarda più italianizzata; pur conservando i tratti fonetici principali dell'area di provenienza del parlante, questa si caratterizza per essere priva dei tratti più marcatamente locali, in modo da consentire la comunicazione trans-provinciale.[9]
La stessa koinè regionale presenta quindi un maggior grado di italianizzazione rispetto alle koinè provinciali, ossia quelle che fanno riferimento agli altri centri urbani della regione, alle quali si affianca; l'avvicinamento all'italiano avviene soprattutto in ambito lessicale, adattandone foneticamente i termini (si riporta, ad esempio, /utu'mɔbil/ per "automobile") e con il progressivo abbandono di quelli che si discostano dall'italiano (come /erˈbju(ŋ)/ per "piselli" e /ʧiˈfu(ŋ)/ per "comodino", sostituiti da /piˈzɛj/ e /cumuˈdi/), a fronte di altri che invece sopravvivono (come /erbuˈri(ŋ)/ per "prezzemolo" e /tuˈmates/ per "pomodori").[9]
Le parole più frequenti e generiche tendono a conservare la forma regionale (come /ʧaˈpa/ per "prendere", /veˈɲi ˈfø(ra)/ per "uscire"), mentre altre evidenziano la necessità d'uso del lessico di derivazione italiana (come /diveŋˈta/, /trasfeˈri/, /fraˈsju(ŋ)/), soprattutto nel caso di termini tecnici o di recente introduzione; si nota infatti, ad esempio, come il lessico regionale originario si adatti meglio al contesto agricolo (ossia del passato) rispetto a quello industriale.[9]
Mentre l'influenza dell'italiano sulla morfologia è generalmente minore, più grande è l'influenza in ambito fonologico, con un riassetto nella quantità e nella distribuzione dei fonemi; questo avviene non tanto con una tendenza ad avvicinarsi foneticamente all'italiano, quanto a creare delle corrispondenze di suoni (/t/ intervocalico italiano = /d/ lombardo, /u/ italiano = /y/ lombardo, ecc), in modo da poter traslitterare agilmente un termine da una lingua all'altra, eliminando i mutamenti troppo marcati.[9]
Il processo di convergenza non ha portato quindi all'eliminazione della diversità linguistica tra i due registri (lombardo e italiano di Lombardia), come nel caso di una vera e propria sostituzione linguistica, ma piuttosto ad una reciproca trasformazione fonologica, grammaticale e lessicale; vi è pertanto una riduzione della diversità sostanziale, ma il mantenimento di una diversità formale.[9]
Il lombardo occidentale è parlato nella città metropolitana di Milano e nelle province di Monza-Brianza, Como, Lecco, Varese, Sondrio, Lodi e Pavia in Lombardia, nelle province di Novara e del Verbano-Cusio-Ossola in Piemonte, e nella Svizzera italiana.[1]
Le peculiarità del lombardo occidentale sono:[4]
Determinante è stato il ruolo del lombardo occidentale nella formazione in epoca medievale dei dialetti gallo-italici di Basilicata (Potenza, Picerno, Tito, ecc.) e di Sicilia (Aidone, Piazza Armerina, Nicosia, San Fratello ecc.)[19].
Le varietà occidentali possono essere a loro volta suddivise, dal punto di vista grammaticale, in quattro sezioni omogenee, denominate macromilanese, lombardo-prealpino occidentale, lombardo-alpino occidentale e basso-lombardo occidentale.[2]
Il macromilanese include i dialetti lombardi parlati nelle province di Milano, Monza-Brianza, l'area centro-meridionale della provincia di Novara e nella parte settentrionale dei quella di Pavia;[1][2] principali varietà di questa sezione sono:
Il lombardo-prealpino occidentale include i dialetti delle province di Como, Varese e Lecco (eccetto le aree brianzole), della parte centro-occidentale della provincia di Sondrio, del Sottoceneri (nel Canton Ticino) e l'area del Lago Maggiore tra le province di Novara del Verbano-Cusio-Ossola;[2] le principali varietà sono:[1]
Il basso-lombardo occidentale include le aree più meridionali della Lombardia a ovest del fiume Adda, ed è caratterizzato da elementi di transizione con le parlate piemontesi ed emiliane; in parte della Lombardia meridionale si estende il continuum dialettale emiliano-romagnolo[32]: pertanto, i dialetti pavese e oltrepadano (talvolta definiti pavese-vogherese), parlati nel circondario di Pavia e nell'Oltrepò Pavese, sono spesso associati alla lingua emiliana[33][34][35][36] (codice ISO 639-3 "eml"); già nel 1853 Bernardino Biondelli, nel suo "Saggio sui dialetti gallo-italici", inseriva il pavese nel novero delle parlate di tipo emiliano, associandolo al parmigiano, insieme al piacentino[37].
Caratteristica precipua di quasi tutto il Pavese è la presenza di una a chiusa, soggetta a dileguo e di difficile definizione fonetica, che copre una gamma di suoni intermedi tra a ed e come esito di a protoniche e postoniche, di a toniche prima di m e n, e in alcuni casi di e protoniche e toniche[38]; tale vocale, simile a /ɐ/, è condivisa con le varietà piacentine[39]; altro tratto che discosta i dialetti del Pavese dal lombardo è la e semimuta tonica (/ə/) del piemontese e del piacentino[39], assente però nel nord della provincia (linguisticamente lombardo-occidentale) e a Pavia, dove è forte l'influsso del milanese[40].
Le principali varietà di questa sezione sono:
Il lombardo-alpino occidentale, che è caratterizzato da tratti arcaici e da talvolta da alcune influenze della lingua romancia, idioma diffuso più a nord, è un insieme di varietà parlate, da ovest a est, nella parte settentrionale della Val d'Ossola, nel Sopraceneri del Canton Ticino, nelle valli del Grigioni italiano e nell'alta Valtellina.[2][4]
In quest'area si possono riconoscere peculiarità proprie dei proto-dialetti gallo-romanzi di epoca medievale, visibili anche nella lingua francese, in particolare quella medievale:[4][6]
Le principali varietà dialettali del lombardo-alpino occidentale sono:[1][4]
Il lombardo orientale è parlato nelle province di Brescia e di Bergamo, nelle province di Mantova e di Cremona[4], nei comuni lecchesi della Valle San Martino[43][44] e nel Trentino occidentale.[1]
Le peculiarità del lombardo orientale sono[4]:
Le varietà orientali possono essere a loro volta suddivise, dal punto di vista grammaticale, in tre sezioni omogenee, denominate lombardo-prealpino orientale, lombardo-alpino orientale e basso-lombardo orientale.[2]
La principale sezione orientale è quella prealpina, che presenta tre varietà principali:
La sezione orientale alpina si riduce a due varietà, la prima caratterizzata da elementi conservativi e la seconda anche da elementi transizione tra l'orientale prealpino e il ladino dolomitico:[4]
Biondelli considerava questi dialetti come varietà montane del dialetto bresciano.[1]
Vi sono varietà dialettali della Bassa Lombardia centro-orientale che, pur essendo lombardi, dato che conservano la struttura morfologica della lingua lombarda, presentano alcuni influssi emiliani;[45] queste sono, in particolare:
Il mantovano (con la variante basso-mantovana) e il casalasco-viadanese (parlato tra la parte meridionale della provincia di Cremona e quella di Mantova) sono infatti associati dal Biondelli al ferrarese.[37]
In dialetto cremonese si evidenzia l'opposizione tra vocali lunghe e brevi anche in sillaba non finale, similmente a dialetti emiliani: veeder /ˈve:der/ (vetro) contrapposto a veder /ˈveder/ (vedere)[4]; elemento tipicamente mantovano e di natura emiliana è invece la presenza di –r finale nelle desinenze degli infiniti dei verbi (andar); vocaboli di tipo emiliano, inoltre, si registrano non solo in mantovano e cremonese, ma anche più a occidente[4].
Alcuni dialetti gergali lombardi conosciuti sono:
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