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corrente teologica e filosofica medievale Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Scolastica è il termine (coniato dagli umanisti) con il quale comunemente si definisce la filosofia cristiana medievale, in cui si sviluppò il metodo di pensiero dello scolasticismo, detto anche scolastico.[1] I filosofi scolastici fecero uso della filosofia classica antica, o almeno di quella che riuscì a giungere fino a loro, e della patristica per affrontare alcuni temi fondamentali della dottrina cristiana come l'esistenza di Dio, la natura dell'anima, la disputa sugli universali, l'etica e la metafisica. Ma il loro interesse fu dedicato soprattutto all'analisi dei rapporti tra fede e ragione e al tentativo di conciliazione tra di esse.
I primordi della Scolastica possono essere individuati con l'istituzione, intorno al 780, della Schola Palatina voluta da Carlo Magno e diretta da Alcuino di York. Questa scuola rappresentò una prima rinascita dopo i difficili anni seguenti alla caduta dell'Impero romano d'Occidente quando la filosofia occidentale aveva subito un forte rallentamento con autori non in grado di produrre contenuti originali o profondi. Dopo altri anni difficili, nell'XI secolo si affermò la figura di Anselmo d'Aosta e la sua prova ontologica per l'esistenza di Dio, da alcuni considerato il fondatore della Scolastica. Ma fu con il rinascimento del XII secolo che il pensiero scolastico poté fiorire pienamente. Grazie alle traduzioni delle opere classiche e alla fondazione delle scuole cattedrali la filosofia tornò ad essere al centro della scena culturale del tempo. I pensatori della scuola di Chartres e della scuola di San Vittore, Pietro Abelardo, Gilberto Porretano, Pietro Lombardo, Giovanni di Salisbury furono soltanto alcuni dei protagonisti.
Il secolo successivo, il XIII si aprì con la nascita delle prime università medievali, modellate proprio sulla base dello scolasticismo, e con il recupero delle opere di Aristotele nell'Occidente latino grazie alla traduzione dei suoi commentatori arabi come Avicenna e, soprattutto, Averroè che ne trasmise una versione più integrale. La piena introduzione del pensiero aristotelico nell'Europa cristiana (prima di allora era nota solamente la cosiddetta logica vetus priva della logica nova) aprì un profondo dibattito all'interno delle università per via delle diverse incompatibilità con la dottrina ufficiale della Chiesa. In questo contesto emerse il grande sistema messo a punto dal domenicano Tommaso d'Aquino che offrì un profondo e armonico tentativo di conciliazione tra aristotelismo e cristianesimo, e allo stesso modo tra Fede e ragione che, secondo il pensiero tomista, non potevano essere in contraddizione tra di loro. D'Aquino è oggi considerato il maggior filosofo medievale, ma al suo tempo le sue tesi non furono unanimemente accettate. I filosofi a lui successivi iniziarono a interrogarsi sui limiti della ragione nel comprendere i misteri di fede mentre il nominalismo andava sempre più ad affermarsi, mettendo così in crisi le basi della Scolastica e del pensiero medievale tradizionale che iniziò un lento declino mentre si affermava l'Umanesimo che contraddistinguerà il Rinascimento.
Il termine greco σχολαστικός scholastikòs significa letteralmente "istruito in una scuola" e transita per il latino classico e medievale scholasticus "istruito in una scuola", in particolare all'eloquenza e alla retorica, in scuole che già al tempo dell'impero romano (Plinio, Seneca, Quintiliano) erano autonome e autogestite da una propria lex, e davano luogo a scholastica, discorsi argomentativi per praticare l'arte retorica (declamationes) oppure controversie ragionate (controversiae) su uno specifico tema, riprese nel genere della disputatio medievale.[2] Con "scolastica" intendiamo generalmente "la filosofia e la teologia che venivano insegnate nelle scuole medievali" comprendo quindi un periodo che va dalla prima riorganizzazione del sistema formativo ad opera della Schola palatina voluta da Carlo Magno fino a circa il XIV secolo con il pieno sviluppo delle università medievali e l'affermarsi dell'Umanesimo e del Rinascimento.[3]
Furono proprio gli umanisti a coniare questo termine che deriva dal latino medievale scholasticus ossia colui che fa parte di una schola, sia come insegnante che come allievo. Questo vocabolo nacque però con una connotazione negativa in quanto per gli umanisti la associavano ad una idea "di filosofia pedante e astrusa, che si perdeva in sottigliezze dialettiche, estranea al mondo e servilmente dipendente dalla teologia", tanto da apparire estranea alla realtà. I pensatori scolastici, infatti, vennero per lungo tempo visti come filosofi scarsamente interessati alla ricerca intellettuale e spirituale, e eccessivamente asserviti ai testi dell'antichità da loro considerati auctoritas (autorità) indiscutibili. Questa visione era piuttosto diffusa nell'età moderna riguardo a tutta la cultura medievale. bisognerà aspettare la seconda metà del XIX secolo, quando papa Leone XIII emanerà l'enciclica Aeterni Patris con cui metterà "in luce gli aspetti metafisici della speculazione filosofica medievale", e soprattutto la storiografia del XX secolo perché venisse "rivendicata al Medioevo una essenziale pluralità nella ricerca filosofica, una ricchezza e una varietà della speculazione dei maestri che sfuggono a ogni tentativo di ridurle a uniformità".[4][5]
La Scolastica nasce proprio come un metodo di insegnamento nelle scuole monastiche prima e nelle scuole cattedrali, gli unici luoghi dell'alto Medioevo dove si era potuto preservare e tramandare la cultura classica dopo la disgregazione delle istituzioni romane avvenuta intorno al V secolo a seguito delle invasioni barbariche. Fu in questi ambienti, grazie al lavoro di amanuensi, che sopravvissero le opere della patristica, di Platone, dei Neoplatonici e, parte, di Aristotele e proprio da questi autori gli insegnanti del tempo attinsero a piene mani per dare risposte ai problemi che la vita e la fede del tempo gli ponevano. Con la nascita delle università medievali all'inizio del XIII secolo, il metodo scolastico poté trovare il suo momento di maggior splendore.
Nell'Europa medievale la religione cristiana aveva un ruolo centrale nella vita sociale, culturale e politica. Le verità di fede contenute nelle Sacre Scritture, arricchite dalla Tradizione e spiegate dal magistero della Chiesa erano considerate immutabili e incontestabili poiché frutto della Rivelazione. Non sorprende, pertanto, che per gli studiosi dell'epoca il rapporto e la coesistenza tra la ragione e la fede fosse un tema centrale tanto da divenire "il programma di ricerca fondamentale della Scolastica".[6]
La maggior parte degli scolastici si pose l'obiettivo di dimostrare che le verità di fede non fossero in conflitto con la ragione e che la filosofia poteva essere utile alla teologia, permettendo di chiarire, difendere e articolare in modo coerente i contenuti della dottrina cristiana. Ad esempio, Anselmo d'Aosta (vissuto nell'XI secolo), in questo contesto coniò la formula "fides quaerens intellectum" (fede che cerca la comprensione) intendendo dire che, pur riconoscendo che la fede viene prima della ragione, quest'ultima è necessaria per approfondire e comprendere meglio la Rivelazione. Egli non vedeva la ragione come una minaccia alla fede, ma come un mezzo per illuminare e rafforzare la fede stessa. Due secoli dopo, Tommaso d'Aquino, dedicò una parte sostanziale del suo lavoro a creare un sistema coerente per il rapporto tra fede e ragione. Nella sua Summa Theologiae egli sostenne che fede e ragione, pur operando su piani diversi non potevano contraddirsi, poiché entrambe derivano da Dio, che è la Verità stessa. Non solo, molti scolastici dimostrarono di come "il pensiero classico filosofico potesse essere un prezioso aiuto per una migliore comprensione della dottrina cristiana".
Nonostante i loro sforzi conciliativi, alcuni scolastici vennero accusati di ricorrere troppo alla ragione e alla logica allontanandosi dalla fede. È il caso, ad esempio, di Pier Damiani che già nell'XI secolo riteneva che la ragione umana e la logica avessero limiti ben precisi quando si trattava di questioni di fede, o Bernardo di Chiaravalle (e più in generale i mistici) che difendeva una visione più spirituale e mistica della fede, contro la tendenza a trattare la teologia come una disciplina puramente razionale.
La cosiddetta "disputa sugli universali" fu uno dei grandi temi affrontati dalla Scolastica. La disputa ebbe origine da un passo dell'Isagoge di Porfirio (III secolo), conosciuto attraverso la traduzione e il commento di Boezio (VI secolo), in cui il filosofo neoplatonico poneva la seguente questione: "Per quanto riguarda i generi e le specie, circa la questione se siano entità esistenti in sé o siano solo semplici concezioni poste nella mente e, ammesso che siano esistenti, se siano corporee o incorporee e se infine siano separate o esistano nelle cose sensibili e in dipendenza da esse, mi asterrò dal parlare". In sostanza, ci si interrogava sulla natura dei concetti generali o universali, come "umanità" o "giustizia", ovvero se fossero solamente idee mentali o se potessero essere considerati entità reali. Questa disputa ebbe un forte impatto sulla metafisica, l'epistemologia e la teologia medievali, influenzando il pensiero scolastico e la filosofia occidentale successiva.[7][8]
Il problema esplose a partire dal XII secolo, quando praticamente ogni filosofo scolastico iniziò ad affrontarlo, generando due principali correnti di pensiero: il realismo e il nominalismo. Il realismo sostiene che gli universali esistono in modo indipendente dalle cose particolari, sia come idee nella mente divina (ante rem, realismo moderato) sia come entità reali nel mondo (in re, realismo estremo). Il realismo estremo, influenzato dal platonismo, caratterizzò la prima fase della Scolastica con pensatori come Scoto Eriugena, Anselmo d'Aosta e la Scuola di Chartres. Successivamente, il realismo moderato divenne prevalente, con pensatori come Guglielmo di Champeaux e, soprattutto, Tommaso d'Aquino sotto l'influenza dell'aristotelismo.[9][8]
Il nominalismo, detto anche post rem, afferma invece che gli universali sono solo nomi, convenzioni linguistiche che deduciamo dall'osservazione di caratteristiche comuni tra gli individui: "l'essere esiste soltanto in forma individuale e i cosiddetti universali sono soltanto nomi senza corrispettivo reale". Il principale esponente del nominalismo fu Roscellino di Compiègne (XI-XII secolo), la cui posizione ebbe conseguenze significative sul piano teologico. Egli sosteneva che le tre persone della Trinità fossero tre entità distinte, identiche solo per potere e volontà, ma non costituenti l'unica essenza divina, rischiando così di cadere nel modalismo o nel triteismo. Alcuni pensatori, come Pietro Abelardo, cercarono di mediare tra queste posizioni, proponendo un approccio concettualista che enfatizzava il significato degli universali come concetti mentali.[9][8]
La filosofia scolastica si sviluppò attingendo ampiamente dalle fonti della filosofia greca classica, in particolare dalle opere di Platone, dei neoplatonici, degli stoici e di Aristotele. I filosofi medievali utilizzarono questi pensatori antichi come punto di partenza per elaborare riflessioni su temi etici e politici, sviluppare un pensiero critico e creare strumenti per armonizzare fede e ragione. Nonostante gli autori greci fossero pagani, molti elementi del loro pensiero, in particolare quello di Platone, risultarono compatibili con la dottrina cristiana. Questo dialogo tra filosofia greca e cristianesimo fu possibile soprattutto grazie all'opera dei Padri della Chiesa, noti come patristi, che nei primi secoli del cristianesimo (circa III-VI secolo d.C.) posero le basi della teologia cristiana attingendo proprio dalla filosofia greca di cui si erano formati. È importante notare che, all'inizio del Medioevo, molti testi antichi erano andati perduti nell'Occidente cristiano. I pochi sopravvissuti furono accessibili grazie all'opera di conservazione dei monasteri e ai patristi, che tradussero questi testi in latino e li commentarono. Solo nel corso dei secoli successivi le fonti greche divennero sempre più disponibili per i filosofi scolastici.[4]
Così, nell'alto Medioevo, gli studiosi cristiani conoscevano di Aristotele solo le Categorie e il De interpretatione. Questi testi, insieme alle Isagoge di Porfirio e ai Topica di Cicerone, costituivano la base, nota come Logica vetus, per l'insegnamento della dialettica. La scarsità di fonti relative allo stagirita durò per diversi secoli, almeno fino alla metà del XII secolo, relegandolo a un ruolo di secondo piano nel pensiero cristiano altomedievale. Al contrario, la conoscenza di Platone era molto più diffusa. Il suo pensiero divenne predominante nelle riflessioni della Scolastica dei primi secoli. Si conosceva un frammento del Timeo nella traduzione del IV secolo di Calcidio, ma molte delle sue idee potevano essere apprese attraverso il commento di Macrobio al Somnium Scipionis di Cicerone. Inoltre, Platone influenzò notevolmente anche il pensiero di Sant'Agostino, il più importante tra i Padri della Chiesa, vissuto nel IV-V secolo. A partire dal IX secolo, furono disponibili molti testi di autori neoplatonici, come Plotino e Proclo, grazie alla rinnovata circolazione delle traduzioni dello Pseudo-Dionigi e di Massimo il Confessore.[4]
Con l'avvento del cosiddetto rinascimento del XII secolo, ebbe inizio un'importante fase di traduzioni nell'Occidente latino che, nel corso degli anni, arricchì enormemente la conoscenza del sapere dell'antichità. Intorno agli anni 1230, Giacomo da Venezia tradusse le opere mancanti dell'Organon di Aristotele, come i Topici e gli Analitici primi, che andarono a formare la cosiddetta Logica nova. Poco dopo, altri traduttori si dedicarono ai testi di Tolomeo, Euclide e al Meteorologica di Aristotele. Verso la metà del secolo vennero tradotti anche il De fide orthodoxa di Giovanni Damasceno e il De natura hominis di Gregorio di Nissa.[4] Grazie all scuola di traduttori di Toledo furono tradotte in latino le opere dei filosofi e naturalisti arabi al-Kindī, Al-Farabi, Al-Ghazali, Averroè, Avicenna con quest’ultimo che "influenzerà la filosofia della natura e la metafisica scolastiche come nessun altro filosofo all'infuori di Aristotele". Tra i filosofi ebrei, le traduzioni dei lavori di Avicebron, in particolare Fons Vitae, furono quelle che riscossero maggior successo tra gli scolastici.[4] Le traduzioni di questi autori permise il quasi completo recupero delle opere di Aristotele nell'Occidente latino creando una vera e propria rivoluzione all'interno della scolastica da cui emersero diversi approcci.
Come già detto, l'altra grande fonte di sapere per i filosofi scolastici furono gli scritti della patristica e soprattutto quelli di Sant'Agostino, il cui pensiero "in alcune scuole, specialmente tra i francescani, offuscherà l'autorità di Aristotele e conserverà dappertutto un'influenza normativa" sebbene "nella filosofia della natura e nella psicologia le idee agostiniane dovettero spesso cedere davanti all'aristotelismo, ma dappertutto si incontrano le loro tracce". Tra gli Padri che con i loro scritti plasmarono la Scolastica medievale si possono ricordare Sant'Ambrogio, Gregorio Magno, Gregorio di Nissa e lo Pseudo-Areopagita.[4]
Gli scolastici svilupparono un peculiare metodo di indagine speculativa, noto come quaestio,[10] basato sul commento e la discussione dei testi all'interno delle prime università. I vari dibattiti, tuttavia, dovevano seguire delle regole e dei riferimenti precisi, tra i quali vi era in particolare la logica formale di Aristotele.[11] Valevano poi le auctoritates, che erano rappresentate dagli scritti dei Padri della Chiesa (filosofia patristica), dai testi sacri, e da scritti della tradizione cristiana.
Affidarsi all'interpretazione fornita in precedenza dalle auctoritates equivaleva, in sostanza, alla decisione di affidarsi a una voce ufficiale e decisa dai concili, per cui esisteva l'auctoritas in campo medico (Galeno), quella in campo metafisico (Aristotele) e quella in campo astronomico (Tolomeo).
Come già aveva fatto notare Giovanni Scoto Eriugena, però, non era la ragione a fondarsi sull'autorità, ma l'autorità a fondarsi sulla ragione: gli Scolastici così mantennero sempre una forte coscienza critica verso le fonti del loro sapere.[12] Sarà il declino della fiducia nella ragione, a partire da autori come Guglielmo di Ockham, che porterà alla fine della Scolastica e dello stesso Medioevo.
Nel XII-XIII secolo, nell'ambito degli studi teologici che si tenevano nelle prime Università europee come Bologna, Parigi, Oxford, si svilupparono diverse ricerche sulla natura, ovvero sul creato considerato opera di Dio, che avrebbero dovuto portare all'intelligibilità dell'opera di Dio creatore. Per i filosofi scolastici della natura la creazione era come un libro aperto che andava letto e compreso, un libro contenente leggi naturali la cui transitorietà era riconducibile a regole immutabili inscritte da Dio al momento della creazione. Tali studiosi pensavano che conoscere quelle leggi avrebbe consentito di elevare l'intelligenza umana e di avvicinarla sempre più a Dio. In quest'ambito si consideravano auctoritates anche filosofi dell'epoca greca e persino pensatori di origine islamica.[13]
Due furono in particolare le scuole di pensiero, attestate peraltro su posizioni alquanto distanti tra di loro, che elaborarono ognuna un proprio metodo scientifico: quella di Parigi, facente capo ad Alberto Magno, seguito dal suo discepolo Tommaso d'Aquino, e quella di Oxford, dove fu attivo Ruggero Bacone.[14] Costoro, pur restando fedeli al metodo aristotelico, si occuparono di filosofia della natura basandosi sulle osservazioni degli eventi e contestando alcuni elementi anti-scientifici del pensiero greco. Tommaso in particolare, noto per aver riformulato in chiave nuova la concezione aristotelica della verità come corrispondenza dell'intelletto alla realtà,[15] sviluppò il concetto di analogia e di astrazione, il cui utilizzo è rintracciabile tuttora in più recenti scoperte scientifiche.[16]
Oltre alla scienza, il metodo scolastico venne applicato anche agli studi di diritto, almeno a partire da Raniero Arsendi in avanti, operante nella scuola di Bologna.[17]
Lo sviluppo della filosofia Scolastica può essere suddiviso in diverse epoche, e una delle suddivisioni cronologiche più utilizzate, anche se non è l'unica, è quella proposta all'inizio del XX secolo dallo storico tedesco Clemens Baeumker, che individuò quattro epoche principali.[4]
Per il periodo che va dal IX secolo al X secolo ancora non si può parlare di filosofia scolastica vera e propria che invece si affermerà nei secoli successivi. Tuttavia, una prima strutturazione di un sistema di insegnamento dopo secoli di assenza, il parziale recupero dei testi dell'antichità classica, l'iniziale affermarsi della dialettica nel pensiero filosofico, furono tutti elementi che si resero fondamentali per il successivo sviluppo della scolastica, tanto che si usa parlare di "pre-scolastica" per riferirsi al pensiero europeo di quest'epoca.
Negli ultimi secoli di vita dell'Impero romano d'Occidente, i protagonisti del pensiero filosofico furono i teologi e scrittori cristiani che lavorarono per sviluppare e consolidare la dottrina cristiana. Questi autori, padri della Chiesa, trovarono nei classici antichi, soprattutto in Platone e negli stoici, alcuni elementi compatibili con la nuova fede e da qui attinsero creando una disciplina nota come patristica. Grandi personalità, come Agostino, Origene e Gregorio di Nissa, grazie alle loro interpretazioni della Sacre Scritture e alla formulazione dei primi concetti teologici fondamentali, influenzarono profondamente la teologia cristiana e la filosofia occidentale.
A seguito della caduta dell'Impero romano d'Occidente avvenuta nel V secolo e l'arrivo di diverse popolazioni germaniche l'Europa sperimentò un lungo periodo di crisi culturale e decadenza morale. La cultura classica, che aveva fiorito nei secoli precedenti, dovette subire un drastico declino. Le scuole e i centri di apprendimento. Molte opere letterarie, scientifiche e filosofiche dell'antichità furono perse o rimasero accessibili solo a pochi. La lingua latina stessa si evolse, diventando meno comprensibile e più frammentata, contribuendo all'isolamento culturale, mentre quella greca andò quasi completamente dimenticata. Solo i monasteri resero possibile una parziale sopravvivenza del sapere antico. Qui, i monaci, spesso l'unica parte della popolazione alfabetizzata, si dedicarono alla copia e alla conservazione dei testi patristici e classici. In questo contesto, lo studio e lo sviluppo della filosofia fu praticamente impossibile. Una prima inversione di tendenza ci fu tra il VIII e il IX con la cosiddetta Rinascita carolingia quando l'impero carolingio guidato da Carlo Magno riuscì a dare all'Europa una stabilità politica.
Carlo Magno ebbe ben chiaro che per poter amministrare e cristianizzare un così grande impero come quello da lui da poco creato necessitava di funzionari capaci e istruiti. Per questo, intorno al 780, conferì a Alcuino di York il compito di riformare il sistema scolastico dando vita alla Schola palatina di Aquisgrana. Alcuino, formatosi presso l'abbazia di Monkwearmouth-Jarrow, non può essere certamente considerato un filosofo originale ma la sua egregia opere di riorganizzazione degli studi gettò senza dubbio le basi per quello che poi sarà il metodo scolastico medievale.[18][19][20][21]
Alcuino accettò con grande ambizione il compito affidatogli tanto che in una lettera scritta al proprio sovrano arrivò a immaginare di voler edificare nella terra dei Franchi "una nuova Atene, più splendida dell'antica, poiché la nostra Atene, nobilitata dall’insegnamento di Cristo, supererà la sapienza dell’Accademia".[22][23] Il corso di studi da lui ideato abbracciò, secondo le sue stesse parole, «le arti liberali e le sacre scritture», ovvero le sette arti liberali, che comprendevano il trivium ed il quadrivium, e lo studio delle Scritture e dei Padri della Chiesa per gli studenti più avanzati. Per ognuna delle sette discipline scisse un manuale i cui contenuti vennero presi dai diversi autori cristiani e non, come Isidoro di Siviglia, Cassiodoro, Beda, Agostino, Boezio, Priscano, Donato e Cicerone.[18][24][25] Scrisse anche alcune compilazioni riguardanti autori antichi e trattò il tema della giustizia riconoscendo al sovrano un potere assoluto ma raccomandandosi che questo fosse utilizzato con equità e sempre secondo i precetti del cristianesimo.[26]
Alcuino morì nell'804 ma altri maestri continuarono la sua opera di scolarizzazione dell'impero dando vita per tutto il IX secolo ad un contesto di vivaci, seppur non così originali, discussioni teologiche su diversi argomenti quali la Trinità, l'Eucaristia, la nascita verginale di Gesù, la predestinazione, l'inferno, la natura dell'anima.[27] Tra i più illustri insegnanti che vissero in questo periodo si possono ricordare Lupo Servato, Pascasio Radberto, Erico e Remigio di Auxerre, Godescalco d'Orbais e Rabano Mauro.[18] Fu soprattutto quest'ultimo a incidere maggiormente sulla cultura germanica del tempo. Fu autore di numerose opere tra cui spicca un commento al Isagoge di Porfirio e uno al De interpretatione di Aristotele da cui propose e un'analisi sulla formazione della conoscenza.[28][29] Negli stessi anni, Incmaro di Reims, influente consigliere di Carlo il Calvo, scrisse De ordine palatii dove descrive i doveri del re e l'organizzazione politica e amministrativa. Qui, Incmaro, influenzato dal pensiero di Gregorio Magno e Sant'Agostino, tratta anche il problema della giustizia e della legge non riuscendo però a dare una chiara interpretazione. La legge, per Incmaro, è espressione della volontà popolare e anche il re deve governare secondo essa; tuttavia lo stesso re può anche soprassedere alla legge positiva nel caso sia necessario preservare la giustizia di Dio.[30]
Alcuino e gli altri maestri furono i maggiori fautori della rinascita carolingia ma i loro contributi si limitarono perlopiù all'organizzazione degli studi e al commento dei pochi classici ancora in circolazione nei monasteri. L'unica personalità del tempo che si contraddistinse per originalità del pensiero e capacità di sintesi teologica fu Giovanni Scoto Eriugena, a capo della schola palatina a partire dall'846-847.[18][31] Eriugena "dominò la sua epoca, la sua opera presenta un carattere così nuovo" nel contesto a lui coevo.[32] Fu tra i rari suoi contemporanei a conoscere greco antico e questo gli permise di accedere direttamente alle fonti della patristica greca e a tradurle permettendone la successiva diffusione. Egli così studiò e tradusse testi di Gregorio di Nissa, Massimo il Confessore e soprattutto dello Pseudo-Dionigi da cui assorbì il neoplatonismo che ripropose in termini cristiani.[33][34][35] Secondo Étienne Gilson, Eurigena fu "lo scopritore occidentale dell'immenso mondo della teologia greca, sommerso da troppa ricchezza imprevista per avere il tempo di scegliere, abbagliato da troppe idee nuove per essere capace di una critica".[36]
Nell'850 fu chiamato a confutare la teoria della predestinazione proposta dal teologo Gotescalco ma nel farlo arrivò addirittura a negare l'esistenza dell'inferno, cosa che costò al suo trattato De predestinatione la condanna di eresia al concilio di Valenza a cui egli scampò solo grazie alla protezione di Carlo il Calvo.[31][37][38]
La più importante opera eriugeniana è il De Divisione naturae in cui formula la sua teoria del divino partendo dal neoplatonismo, ma integrandovi il concetto cristiano della natura personale di Dio, creatore del mondo. Per il filosofo, Dio è l'unica vera realtà, ed è dunque l'unico "protagonista" della sua filosofia: infatti, tutte le cose dipendono e sono generate da Lui e tutte le cose ritornano sempre a Lui, per Eriugena. Egli chiama l'insieme di tutte le cose "natura", e, poiché la natura si identifica con Dio, egli in essa distingue le quattro divisioni dell'essere divino. Esse sono: La natura non creata e creante, la natura creata e creante, la natura creata e non creante, la natura non creata e non creante.[18][39][40] Il pensiero di Eurigena riguardo all'ordine del cosmo fu funzionale anche al consolidamento del sistema feudale introdotto dai carolingi; la precisa gerarchia dei rapporti sociali rispecchiava quella celeste di cui era considerata come un "riflesso". Il potere secolare e il potere religioso doveva avere una unificazione programmatica con una netta preminenza della componente spirituale su quella terrena.[41]
Con la morte del re Carlo il Calvo, avvenuta nell'877, il processo di dissoluzione dell'impero carolingio, già iniziato con il Trattato di Verdun dell'843, giunse ad una accelerazione. Gli anni seguenti furono contrassegnati da instabilità politica e declino delle strutture sociale. L'Europa subì le invasioni dei Normanni, dei musulmani e degli Ungheri, mentre la Francia è lacerata da continui conflitti interni. In tale contesto, i risultati conseguenti alla rinascita carolingia andarono profondamente compromessi: l'attività delle scuole cessò e i monasteri benedettini riformati tornarono ad essere gli unici luoghi di cultura. I pochi autori del tempo, tutti monaci, si occuparono più di preservare e diffondere il sapere più che di sviluppare studi filosofici originali. Remigio di Auxerre è forse l'unico filosofo degno di menzione vissuto a cavallo tra il IX e il X secolo. Maestro presso l'abbazia di San Germano, il suo pensiero, di cui però rimangono solo poche tracce, fu fortemente influenzato dal neoplatonismo e da Giovanni Scoto Eurigena da cui adottò la definizione di natura.[42]
La situazione politica si stabilizzò con il regno di Ottone I di Sassonia che permise l'inizio, a partire dalla metà del X secolo, di un periodo di ripresa culturale noto come rinascita ottoniana. I due indiscussi protagonisti di questa rinascita furono Abbone di Fleury e Gerberto di Aurillac che sarà poi papa con il nome di Silvestro II.[43] Il primo fu insegnante presso l'Abbazia di Fleury dove era in attività una delle poche scuole monastiche dove si insegnava la grammatica, la dialettica, l'aritmetica e il pensiero dei padri.[44]
Gerberto d'Aurllac possedeva una vastissima erudizione grazie allo studio degli antichi e ai suoi viaggi nella Spagna islamica dove poté venire in contatto con la cultura araba, al tempo molto sviluppata. Insegnante di retorica e di dialettica, per le sue lezioni, oltre a gran parte degli scritti allora conosciuti di autori dell'antichità, fece largo uso delle Categorie e del De Interpretatione di Aristotele nonché dei commenti di Boezio riguardanti la logica. I suoi campi di interesse compresero non solo le materie del trivium ma anche quelle del quadrivio come dimostrano i suoi studi di aritmetica, astronomia e musica.[43][45]
L'anno 1000 segna tradizionalmente il passaggio dall'alto al basso medioevo e in effetti a partire da circa l'inizio dell'XI secolo si assistette ad un sostanziale cambiamento del contesto europeo. La situazione politica continuò, seppur con alti e bassi, il processo di stabilizzazione iniziato con la dinastia ottoniana mentre condizioni meteorologiche particolarmente favorevoli (note come "periodo caldo medievale") favorirono l'agricoltura portando ad una progressiva crescita della popolazione. I centri urbani, praticamente abbandonati nei secoli precedenti, tornarono a ripopolarsi e qui si andarono a crearsi nuovi ceti sociali composti da uomini ambiziosi e di spirito nuovo che dettero impulso all'economia, alla religione e alla cultura. La relativa sicurezza fece riprendere i commerci e lo spostamento delle persone. Dopo decenni di decadenza morale, la Chiesa cattolica fu investita da una profonda riforma che la portò a ritrovare la sua spiritualità ma anche a scontrarsi, e a vincere, contro il potere temporale rappresentato dall'impero in quella che è nota come "lotta per le investiture".[46]
Questo rinnovato spirito ebbe positivi effetti sulle attività intellettuali, gli effetti più dirompenti si ebbero nel secolo successivo con la cosiddetta rinascita del XII secolo. Conseguentemente alla crescita delle città, molti studiosi del tempo preferirono ai monasteri recarsi nelle scuole urbane che man mano nascevano intorno alle cattedrali attirati dai più famosi insegnati. Queste "scuole cattedrali" furono le antesignane delle prime università medievali che nasceranno nel secolo seguente. Infine, le traduzioni nell'Occidente latino durante il XII secolo furono un elemento essenziale per la progressiva riscoperta in Europa degli antichi classici che erano andati perduti oppure non più capiti perché persa la conoscenza della lingua greca. Fu in questo contesto che si può iniziare a parlare pienamente di "Scolastica", sebbene non vi sia una precisa concordanza su quando farla iniziare esattamente, preferendo considerare un processo dai confini più sfumati nonostante siano stati proposti alcuni nomi come "padri della Scolastica" come Anselmo d'Aosta (XI secolo) o Pietro Abelardo (XII secolo).[47][48]
Anselmo d'Aosta (1033 o 1034 - 1109), monaco benedettino e poi arcivescovo di Canterbury è considerato tra i massimi esponenti del pensiero medievale di area cristiana e la figura più importante del XI secolo. Molti studiosi lo hanno riconosciuto come l'antesignano della Scolastica, se non addirittura il padre di essa, per via della la sua teologia improntata sulla ricerca di una convergenza tra fede e ragione nel solco della tradizione platonica e agostiniana.[49][50][51] Il suo motto fu Credo ut intelligam (credo per capire) per sottolineare di come la fede sia sì fondamentale e prioritaria su tutto, ma questa possa essere anche confermata e dimostrata con argomentazioni razionali. In caso di contrasto tra ragione e fede, tuttavia, la fede prevarrebbe ma Anselmo ritiene che questo non possa accadere perché sia la fede che la ragione derivino da Dio e quindi siano per forza conciliabili e coerenti.[52]
Le sue due opere principali vertono sulla dimostrazione dell'esistenza di Dio. Nel Monologion, scritto nel 1076 su invito di alcuni monaci dell'abbazia di Notre-Dame du Bec, il problema viene da lui trattato a posteriori partendo dalla considerazione che, se qualcosa esiste, occorre ammettere un Essere supremo come principio che lo rende possibile. Questa dimostrazione è detta anche "argomento dei gradi" in quanto parte dalla considerazione che se tutte le cose sono più o meno buone, deve per forza esistere qualcosa che sia assolutamente buono e che questo sia Dio.[43][53][54] Anselmo, non soddisfatto dei risultati ottenuti, già probabilmente l'anno seguente concepì un nuovo trattato con lo scopo di fornire una dimostrazione dell'esistenza di Dio utilizzando una argomentazione semplice, persuasiva, autosufficiente in grado di convincere anche e soprattutto gli atei. Il tentativo venne concretizzato con la stesure del Proslogion, dove Anselmo espone una prova ontologica a priori, in base alla quale "se Dio è l'essere di cui nulla è più grande, non è possibile ritenerlo esistente nel pensiero ma non nella realtà, perché in questo caso non sarebbe il più grande".[55][56][57]
La prova ontologica offerta da Anselmo incontrò (e incontrerà anche in futuro) consensi e critiche. Il monaco Gaunilone, suo contemporaneo, propose una confutazione in un testo che chiamò Liber pro insipiente (Libro a difesa dello stolto) a cui Anselmo rispose a difesa delle proprie tesi nel Liber apologeticus adversus respondentem pro insipientem (Libro apologetico contro la risposta in difesa dello stolto) e da allora, per volontà dello stesso autore, il Proslogion venne sempre riprodotto con il corredo di questa doppia appendice.'[58][59] Anselmo passò il resto della sua vita tra il suo impegno politico nel contesto della riforma gregoriana e in quello dedicato allo studio e alla scrittura di trattati filosofici. In uno dei suoi testi più celebri, scritti in età ormai avanzata, il Cur Deus homo Anselmo spiega come, malgrado l'impossibilità dell'uomo di riparare al peccato di Adamo ed Eva contro Dio, Dio stesso si è riconciliato con l'umanità facendosi uomo.[60] Da un suo biografo sappiamo che trascorse gli ultimi giorni a riflettere sulla natura e l'origine dell'anima; tra le menti speculative dotate di maggior sottigliezza di tutta la Scolastica, Anselmo "aveva iniziato la sua ricerca intorno a Dio la concludeva con la ricerca intorno all'anima. Si era mantenuto fedele al programma agostiniano: conoscere Dio e l'anima".[61]
Tra le scuole cattedrali che fiorirono in questi anni, una tra le più importanti fu la scuola di Chartres. Fondata alla fine del XI secolo per iniziativa del vescovo Fulberto, raggiunse il massimo splendore nel secolo seguente, proponendo un insegnamento incentrato sull'armonia tra fede cristiana e filosofia platonica, con un forte interesse per le scienze naturali e le arti liberali.[62][63][64] i suoi studenti si formavano sul pensiero neoplatonico di Agostino d'Ippona e di Severino Boezio mentre il testo da loro più letto e commentato fu senz'altro il Timeo di Platone dove il filosofo greco antico espone una sua visione della natura simile a quella della Rivelazione cristiana. Si può affermare che a Chartres vi fu il primo tentativo di armonizzare la studio della natura con i contenuti delle Sacre Scritture.[65][66]
La prima grande personalità della scuola fu Bernardo di Chartres (... – 1126 o 1130) di cui conosciamo il pensiero soltanto grazie al Metalogicon del suo allievo Giovanni di Salisbury. Giovanni descrive Bernardo come un grammatico di formazione neoplatonica interessato a fornire ai suoi allievi una formazione completa delle arti liberali fondata sugli scritti degli antichi. L'amore per i classici di Bernardo è ben riassunta nella celebre frase a lui attribuita e riportata sempre da Giovanni:[65][67]
«Nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine, aut eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine gigantea»
«siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l'acume della vista o l'altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti.»
Forse fratello minore di Bernardo, Teodorico di Chartres è stata probabilmente la figura di maggior rilievo della scuola. Nel suo Hexaemeron offrì una sintesi tra il Timeo di Platone e il libro della Genesi secondo i principi della fisica nel tentativo di spiegare filosoficamente la creazione del mondo.[68][69] Si tratta di una cosmogonia dagli influssi non solo platonici ma anche pitagorici, basata su una concezione matematica della Trinità, ripresa dal De Trinitate di Boezio, che considera il rapporto dialettico tra Dio e le creature alla stregua dell'esplicarsi dell'Uno nella molteplicità dei numeri.[70][71][68] Tra le altre sue opere, l'Eptateucon è un'ampia enciclopedia di opere antiche relative alle sette arti liberali.[70][72]
Allievi di Bernardo, Guglielmo di Conches e Gilberto Porretano, insegnarono a Chartres seguendo le orme del maestro. Guglielmo, autore di diversi commenti a testi antichi, propose due argomentazioni per dimostrare l'esistenza di Dio, una cosmologica e una dialettica. Partendo da qui, tentò di spiegare razionalmente i rapporti tra Dio e il mondo interpretando il Demiurgo come Creatore. Nel suo De philosophia mundi si occupò di raccogliere le conoscenze di fisica, astronomia, geografia, meteorologia e medicina.[73][74] Gilberto è celebre per le sue tesi metafisiche esposte nei Commenti agli Opuscula theologica di Boezio, alcune delle quali gli costarono la condanna al Concilio di Reims del 1148.[75][76]
Pietro Abelardo è considerato una delle figure più importanti del XII secolo. I suoi scritti rappresentano una tappa fondamentale per comprendere le radici storiche della tecnica e del metodo che le grandi università del XIII secolo avrebbero utilizzato per organizzare e sviluppare le loro dottrine e le sintesi teologiche più complesse del Medioevo. Ritenuto un innovatore e spesso un contestatore, Abelardo rappresenta "l'altra faccia del Medioevo". Fin dai suoi primi studi, si mostrò critico e insoddisfatto delle dottrine dei suoi maestri, in particolare per quanto riguardava la natura degli universali e l'uso della dialettica, che criticò ripetutamente. In seguito, riuscì ad aprire una sua scuola a Santa Genoveffa a Parigi, dove attirò un gran numero di studenti e ammiratori. Successivamente, ottenne la cattedra alla scuola di Notre Dame, che divenne il primo nucleo della futura Università di Parigi, centro nevralgico della cultura sacra e profana. Animo tormentato anche per questioni personali, celebre la sua relazione con Eloisa, i suoi scritti si concentrarono soprattutto su logica, teologia ed etica.[77]
Una delle sue opere più significative è il Sic et non una raccolta di sentenze tratte dai Padri della Chiesa su 158 problemi teologici, in cui le opinioni opposte vengono messe a confronto. Nell'opera, Abelardo analizza criticamente i testi, distinguendo le opinioni riportate dalle opinioni personali degli autori, e sottolinea che, pur promuovendo la ricerca critica, bisogna riconoscere i limiti della mente umana nel comprendere pienamente gli insegnamenti dei Padri della Chiesa e della Bibbia. Egli ridimensiona così l'autorità delle auctoritates della tradizione, riconoscendo i limiti della ragione scientifica nel discorso teologico.[78] Per Abelardo, "è lo stimolo del dubbio che porta alla ricerca, e attraverso la ricerca si arriva alla conoscenza della verità". Questa affermazione sintetizza il carattere problematico del suo pensiero filosofico e teologico. Il dubbio, per Abelardo, è il punto di partenza di qualsiasi indagine critica; tuttavia, non va assolutizzato, ma utilizzato come metodo per sottoporre ogni idea a un costante controllo critico.[79]
Per Abelardo, la ragione è necessaria, poiché la fede non può ridursi a una semplice ripetizione meccanica di parole sacre o a un'accettazione passiva di dogmi. Tuttavia, la grazia divina è essenziale per essere investiti pienamente della verità. Egli interpretò la dialettica come mezzo per esercitare la ragione, poiché il rispetto delle regole della logica rappresenta l'essenza stessa della ragione. Tuttavia, l'applicazione della dialettica a temi sacri, come le auctoritates dei Padri o della Scrittura, apparve ai suoi contemporanei come dissacrante, in quanto poneva la ragione critica tra il pensiero umano e il Logos divino. In realtà, Abelardo cercava di rendere più comprensibile il mistero cristiano, non di profanarlo o negarlo.[80] Queste posizioni gli costarono più di una condanna. La prima avvenne nel 1121 durante il concilio di Soissons quando accusato di eresia per la sua opera Introductio ad theologiam (Introduzione alla teologia) venne costretto a ritrattare e subì una breve reclusione. La seconda in occasione del Concilio di Sens del 1140 voluto al potente bate Bernardo di Chiaravalle proprio per condannare le teorie di Abelardo, il quale, ormai vecchio, non poté altro che ritirarsi a Cluny ospite dell'abate e amico Pietro il Venerabile.[81]
Guglielmo di Champeaux, stretto amico di Bernardo di Chiaravalle, fu un altro avversario di Abelardo, oltre ad essere stato suo maestro. Riguardo alla disputa sugli universali si schierò inizialmente secondo una posizione di realismo estremo per poi abbracciare la teoria dell'indifferenza in seguito alle critiche mossegli dallo stesso Abelardo. Intorno al 1110 rinunciò all'insegnamento e si ritirò nell'abbazia di san Vittore dove dette vita alla celebre scuola omonima che divenne presto un punto di riferimento di spiritualità, contemplazione e studio scientifico.[82]
I maestri della Scuola cercarono di armonizzare la ragione con la fede, adottando un approccio mistico e simbolico alla teologia. Essi sottolineavano l'importanza della contemplazione e della preghiera per comprendere i misteri divini, ma allo stesso tempo promuovevano un metodo di studio rigoroso e sistematico, che includeva la dialettica e l'analisi delle Scritture. Come nella scuola di Chartres, anche a San Vittore gli insegnamenti erano focalizzati sulla scienza e sulla filosofia. Tuttavia, a differenza di Chartres, a San Vittore si poneva un'enfasi particolare sulla preghiera e sulla contemplazione di Dio, considerati elementi fondamentali a cui tutto era subordinato. La Scuola di San Vittore divenne quindi un crocevia tra lo sviluppo della mistica e la filosofia scolastica.[83][82]
La figura più importante della Scuola è probabilmente da identificarsi in Ugo di San Vittore, teologo di alto livello e considerato tra i principali teorici della scolastica. È principalmente un mistico ma anche un uomo che valorizzava il sapere. La sua cultura fu assai vasta spaziando da Agostino a Gregorio Magno, ai classici dell'antichità alla patristica, come fu vasta la sua produzione letteraria. Nel suo Didascalicon, un'opera enciclopedica scritta intorno al 1125, Ugo propone una organizzazione sistematica del sapere del tempo. Inoltre, offre la sua visione riguardante lo studio che ritiene essere il primo passo per la crescita spirituale in quanto strumento utile alla comprensione di Dio, tuttavia la conoscenza teorica deve sempre condurre alla preghiera e alla contemplazione. Il De sacramentis christianae fidei è una delle sue opere più importanti, scritta probabilmente intorno al 1137. Si tratta di un ampio trattato di teologia sistematica che esplora la dottrina cristiana attraverso l'analisi dei sacramenti, intesi in senso ampio come segni visibili delle realtà divine.[84][85][86]
A Ugo successe Riccardo come maestro e priore della scuola. Riccardo era profondamente mistico ma comunque, riprendendo il pensiero di Anselmo d'Aosta, riteneva che la ragione e la fede potessero coesistere e che anzi la prima potesse essere funzionale alla seconda. Se da mistico vede la contemplazione come la fine ultima della ricerca spirituale, riconosce che per arrivare a questa di deve passare dalla meditazione di cui a sua volta la ragione è propedeutica. Lo studio della arti liberali è dunque doveroso per un cristiano che intraprende il suo percorso di elevazione e inviterà sempre i suoi allievi a intraprenderlo. Invece, Riccardo, rifiuta lo studio delle arti profane e la dialettica fine a se stessa, utilizzando parole che ricordano Bernardo da Chiaravalle.[87][88][89]
Di posizioni più estreme Gualtiero di San Vittore, celebre per la sua feroce critica nei confronti del razionalismo filosofico, in particolare le correnti che considerava troppo speculative o eccessivamente legate all'uso della ragione. Nella sua opera più famosa, Contra quatuor labyrinthos Franciae, attaccò quattro pensatori contemporanei, Abelardo, Gilberto di Poitiers, Pier Lombardo e Guglielmo di Conches, che riteneva allontanassero la teologia dalla contemplazione spirituale verso un approccio più razionale. Per Gualtiero, la filosofia doveva essere subordinata alla fede e alla tradizione, con un forte accento sulla preghiera e la vita spirituale.[90]
Nel XII secolo iniziò ad avvertirsi la necessità di raccogliere ordinatamente la dottrina cattolica e, soprattutto, alle interpretazioni fornite dai Padri della Chiesa, poiché le loro spiegazioni erano fondamentali per risolvere eventuali dubbi o questioni che potevano sorgere nell'interpretazione del testo sacro. Diversi furono i tentativi in questo senso, come quello di Anselmo di Laon all'inizio del secolo, ma fu il lavoro di Pier Lombardo, i libri Quattuor Sententiarum, a riscuotere maggior successo tanto da diventare il principale manuale di teologia nelle università medievali del secolo successivo. Non si trattò di un’opera originale, ma una raccolta di testi e dottrine che però si distinse per il suo equilibrio: pur riconoscendo l'utilità della ragione attraverso l'uso della dialettica, l'autore si affidava alle autorità (soprattutto a quella di Sant'Agostino) quando doveva trattare le verità di fede. Nonostante il successo, le Sententiae ebbero numerosi detrattori che contestarono all'autore di aver fatto eccessivo ricorso alla dialettica. I suoi avversari tentarono di ottenerne la condanna al Concilio Lateranense IV del 1215 ma senza successo.[91]
Giovanni di Salisbury studiò a Parigi, dove entrò in contatto con grandi maestri del suo tempo, assorbendo le influenze della dialettica e della filosofia scolastica. È conosciuto soprattutto per due opere letterarie. La prima, il Policraticus, è un trattato di politica in cui l'autore riflette sul potere e sulla responsabilità dei governanti, riconoscendo alla Chiesa la superiorità sullo Stato. La seconda, il Metalogicon, invece, è un'opera dedicata alla difesa dello studio delle arti liberali e in particolare della logica. Giovanni critica coloro che denigrano l'uso della ragione e la dialettica, sostenendo l'importanza di un'educazione solida per lo sviluppo della conoscenza e della virtù, tuttavia dimostra di non apprezzare nemmeno chi ne fa un uso vacuo.[92]
All'inizio del XIII secolo, l'Europa attraversava un periodo di profonda trasformazione economica, sociale e culturale. Il commercio marittimo e le rotte mediterranee si espandevano, anche grazie alle Crociate, portando ricchezze e favorendo intensi contatti con il mondo orientale.[93] Il vecchio sistema feudale iniziava a lasciare spazio alla nascita degli Stati nazionali, soprattutto in Inghilterra e in Francia, mentre il papato raggiungeva l'apice del suo potere sotto papa Innocenzo III, che governava non solo la Chiesa ma riusciva anche a influenzare profondamente la politica secolare.[94] La nascita e diffusione degli ordini mendicanti, come i Francescani e i Domenicani, contribuì a orientare parte della Chiesa verso ideali di povertà e predicazione tra la popolazione, influenzando notevolmente la cultura e la società del tempo.[95]
In campo culturale, in alcune città, studenti e professori delle scuole cattedrali, fiorite nel secolo precedente, iniziarono ad associarsi spontaneamente, dando origine alle prime università medievali, ispirate al modello delle corporazioni delle arti e mestieri ben noto nella loro epoca. Nacquero così le prime università a Bologna e a Parigi, presto seguite da altri centri di studio come Oxford, Napoli, Padova e Cambridge, che attiravano studenti da tutta Europa desiderosi di seguire le lezioni dei professori più rinomati. All'interno delle università, il metodo scolastico poté prosperare, così come si svilupparono molte attività culturali legate al nuovo fenomeno, in particolare la traduzione e la copiatura di libri, che permisero una sempre maggiore circolazione delle opere letterarie, sia contemporanee sia dell'antichità.[96][97][98][99][100]
Agli inizi del XIII secolo gran parte delle opere e del pensiero di Aristotele era ancora sconosciuto nell'Europa cristiana. All'oblio successivo alla caduta dell'Impero romano d'Occidente si era salvata solo la cosiddetta erano salvate solo i testi della cosiddetta logica vetus di cui facevano parte le Categorie e il trattato Sull'interpretazione. Tuttavia già a partire dalla metà del XII secolo le traduzioni dall'arabo avevano permesso l'inizio del recupero aristotelico che si completerà sostanzialmente a metà del secolo successivo con la riscoperta della logica nova a completare l'Organon.[101] Con la riscoperta dell'aristotelismo, in Europa si assistette ad una fioritura della filosofia della natura, mai del tutto in realtà sopita, ma che a partire dal XIII secolo torna ad avere un ruolo di primo piano soprattutto all'interno delle neonate Università.[102] L'aristotelismo che giunse inizialmente in Europa fu però quello mediato dal filosofo arabo Avicenna il cui lavoro fu incentrato sul raccordarlo con la dottrina islamica monoteista. Questo favorì il recepimento in ambiente cristiano che condivideva con l'Islam diversi punti.[103]
A partire dal 1212, tuttavia, grazie al lavoro di Michele Scoto iniziò a diffondersi in Europa anche i commenti ad Aristotele di Averroè che, a quanto racconta Ruggero Bacone, raggiunsero l'università di Parigi entro circa il 1230.[104] L'approccio di Averroè alle opere di Aristotele fu nettamente diverso rispetto a quello di Avicenna; egli non tentò di conciliarle con la religione islamica, ma nel suo Commento scelse di "preoccuparsi solo di scoprire il genuino pensiero aristotelico". La sua "pura" interpretazione di Aristotele dette vita all'interno della Scolastica europea ad un movimento noto come "averroismo".[105][104] La diffusione praticamente integrale delle opere di Aristotele rilanciò nell'Occidente lo studio della natura, da secoli relegato ad una nicchia costituita da maghi e alchimisti, che divenne disciplina ufficiale basata su osservazioni e sperimentazioni.[102]
Il pensiero aristotelico "puro", tuttavia, destò non poche preoccupazione all'interno degli ambienti culturali europei in quanto presentava alcune considerazioni della natura non compatibili con la dottrina cristiana, soprattutto riguardo alla natura dell'anima, all'eternità del mondo e alla casualità. L'obbiettivo perseguito dai filosofi scolastici era sempre stato quello di armonizzare fede e ragione ma la diffusione dell'artistotelismo era considerato pericoloso solo per i loro costrutti, ma anche per la fede stessa e l'autorità della Chiesa. Questi timori spinsero l'università di Parigi a vietare la lettura in pubblico o in privato dei testi o dei commenti di filosofia naturale di Aristotele. Una commissione venne nominata per il controllo e la selezione dei testi ammessi.[106][107][108] Con un tale divieto gli studi aristotelici si spostarono da Parigi all'Università di Oxford che ancora non aveva imposto limitazioni del genere. Ben presto però anche nell'università parigina si tornò a leggere e studiare l'antico filosofo pagano e le misure di correzione e selezione dei testi aristotelici che dovevano essere prese dalla commissione incaricata finirono per nascere spontaneamente dal lavoro di tutti questi studiosi che vi si approcciarono, Ma siccome che per discutere le tesi di Aristotele era necessario prima conoscere, anche i filosofi cristiani più critici alla fine contribuirono alla loro assimilazione nella cultura cristiana.[109]
Tra i primi scolastici a cimentarsi con i testi aristotelici vi fu Guglielmo d'Auxerre che, pur non opponendosi alle sue tesi, preferì la mediazione di Avicenna tentando di coordinarla con la dottrina cristiana, mantenendo una posizione cauta nei passi più controversi.[108] Alessandro di Hales cercò invece di integrare alcuni principi aristotelici sebbene rifiutando di aderire al sistema nel suo complesso e preferendo rimanere legato al neoplatonismo tradizionale. Con la sua Summa theologica cercò di confutare le nuove correnti di pensiero a favore della tradizionale dottrina cristiana senza però riuscire a fornire contributi particolarmente originali e profondi.[108][110]
Sebbene sia annoverato anche per le sue traduzioni e commenti ad Aristotele, Roberto Grossatesta ne fu un forte critico "affermando la necessità di un ritorno all'agostinismo per preservare e rinnovare la tradizione scolastica". Tuttavia lo studio di Aristotele lo portò a confrontarsi con la natura.[111][112] Ruggero Bacone, discepolo di Grossatesta, fu uno dei primi a commentare i libri di fisica e metafisica di Aristotele all'Università di Parigi utilizzando i lavori di Avicenna e Avicebron. Riteneva che fosse necessario approcciarsi alle opere classiche, sia pagane che cristiane, con senso critico e, se necessario, correggendo gli errori. Questa posizione, lontana dalla tradizionale passiva accettazione dell'auctoritas fu tra le prime a gettare le basi di quello che sarà il metodo scientifico e l'empirismo.[113][114]
Di Guglielmo d'Alvernia, teologo e consigliere di re Luigi XII, è stato detto che "nessuno ha utilizzato Avicenna più di lui e nessuno ha combattuto Avicenna più di lui".[115] Dal pensiero di Avicennza, infatti, ereditò la dimostrazione dell'esistenza di Dio ma ne rifiutò ampiamente l'idea della creazione che il filosofo arabo riteneva che fosse una processione necessaria affermando invece che si trattasse della manifestazione del libero arbitrio di Dio.[116] Raimondo Lullo criticò Averroè e sostenne che la fede potesse essere dimostrata logicamente. Nel suo trattato Ars generalis, propose la logica come scienza universale e base di tutte le conoscenze.[117]
La discussione riguardante l'aristotelismo venne affrontata anche all'interno dei due grandi ordini mendicanti del tempo, francescani e domenicani, con approcci ben diversi. Se i primi si dimostrarono cauti rispetto alle tesi che potevano contraddire la dottrina cristiana, preferendo una dottrina più tradizionale, i secondi tentarono di armonizzare in modo sistematico la filosofia aristotelica con la teologia cristiana.
Tra i più importanti filosofi francescani, che si confrontarono con l'aristotelismo vi fu Bonaventura da Bagnoregio, considerato uno dei maggiori pensatori cristiani di ogni tempo. Allievo di Alessandro di Hales a Parigi, dal maestro ereditò la teoria secondo la quale il mondo non poteva essere eterno.[118]
Il suo rapporto con la filosofia, e in particolare quella aristotelica che aveva appreso nella versione pura di Averroè, fu assai complesso. Da una parte ne riconosceva il valore speculativo e l'attenzione vero lo studio della natura, ma ne respinse l'impostazione generale poiché da lui considerata estranea, se non addirittura avversa, alla verità cristiana. Dunque, ad Aristotele, Bonaventura preferisce la tradizionale visione platonico-agostinana in quanto con essa poteva giungere al suo obiettivo di una piena conciliazione tra filosofia e teologia cosa da lui ritenuta impossibile con il pensiero dello Stagirita.[119] In lui permase centrale il tema agostiniano dell'illuminazione divina, sia pure riservato ai soli concetti spirituali. Secondo Bonaventura infatti, mentre la sensibilità è strumento opportuno per l'anima, che attraverso la realtà empirica giunge alla formazione dei concetti universali, per la conoscenza dei principi spirituali occorre l'illuminante grazia divina.[N 1][120]
Tra i domenicani invece spicca l'imponente figura di Alberto Magno. Anch'egli professore di teologia a Parigi, fu tra i primi a considerare il pensiero di Aristotele come "un patrimonio da assimilare, e non come una dottrina da conoscere solo per meglio combatterla". L'incompatibilità con la dottrina cristiana veniva da lui risolta sottolineando le differenze tra la teologia e la filosofia, e che queste differenze non dovessero per forza essere eliminate in quanto si trattava di discipline diverse con metodi e argomentazioni diverse che possono giungere a esiti anche contrapposti ma non per forza negando la correttezza di essi. Se la teologia trova i suoi fondamenti nella Rivelazione data dalle Sacre Scritture, la filosofia invece poggia le sue basi sulla ragione. Partendo da questo assunto, anche il pensiero di Aristotele poteva trovare spazio nello studioso cristiano. Alberto considerò Agostino come massima autorità nella fede, mentre per la scienza assegnò tale ruolo ad Aristotele, accolto però sempre da un punto di vista critico.[N 2][121]
Seguendo il lavoro di Aristotele, Alberto si occupò anche delle discipline scientifiche. Tra i suoi scritti si trovano, infatti, diverse osservazioni originali sul mondo animale, vegetale e minerale, tanto che si può considerare come "uno dei pochissimi autori medievali che si avvicinò a una effettiva osservazione della natura".[122]
Discepolo di Alberto fu Tommaso d'Aquino, il quale analogamente, di fronte all'avanzare dell'aristotelismo arabo che sembrava voler mettere in discussione i capisaldi della fede cristiana, mostrò che quest'ultima non aveva nulla da temere, perché le verità della ragione non possono essere in contrasto con quelle della Rivelazione, essendo entrambe emanazione dello stesso Dio. Tommaso riuscì così a costruire un tale "sistema di sapere mirabile per logica e trasparenza organica connessione" tra il pensiero aristotelico e quello platonico-agostiniano grazie al quale "l'aristotelismo diventa docile e flessibile alle esigenze della speculazione cristiana; e non per mezzo di espedienti occasionali o di adattamenti artificiali (secondo il metodo di Alberto Magno) ma in virtù di una riforma radicale del sistema".[123][124][125]
Proprio Aristotele, secondo Tommaso, partendo dallo studio della natura, dell'intelletto e della logica, aveva sviluppato delle conoscenze sempre valide e universali, facilmente assimilabili dalla teologia cristiana, dal momento che spesso la filosofia può giungere alle stesse verità contenute nella Bibbia. La grazia della fede non distrugge ma semmai completa la ragione, orientandola verso la meta finale già indicata dalla metafisica aristotelica, che è la conoscenza della verità, la quale, come insegnava lo stesso filosofo greco, è tale proprio in quanto rimane sempre uguale in ogni epoca e luogo. Compito del sapiente è dunque di volgersi alla verità, come la stessa divina Sapienza si è incarnata «per rendere testimonianza alla Verità»,[126] fine ultimo dell'intero universo, che trova senso e spiegazione nell'intelletto di Dio che l'ha creato.[127]
Conciliando l'aristotelismo con la Rivelazione cristiana, Tommaso, cercò di stabilire un accordo tra ragione e fede sperandone gli ambiti che fino ad allora erano generalmente considerati sovrapposti: se la prima si occupa delle verità dimostrabili, la seconda tratta le verità rivelate; essendo che entrambe sono verità, non può esserci contraddizione tra di esse e se ve ne erano queste sarebbero soltanto apparenti.[128]
Secondo Tommaso, la filosofia ha una propria autonoma, ma non da sola non può portare a conoscere l'intera verità; è necessario integrarla perfezionarla con la fede in Dio e con le Sacre Scritture. Allo stesso modo la teologia permette di correggere la filosofia senza sostituirla.[129] La sola filosofia restava comunque il mezzo per aumentare le proprie conoscenze, seppure senza arrivare alla verità, per qualsiasi studioso che si applicasse. Così, già i presocratici avevano raggiunto una prima sommaria conoscenza poi ampliata da Platone e successivamente da Aristotele.[130]
Nel lavoro speculativo di Tommaso centrale fu la ricerca di Dio, poiché solo grazie a lui "tutto si unifica e acquista luce e coerenza". La sua esistenza è da lui dimostrata attraverso "Cinque vie", cinque argomenti cosmologici in buana parte ispirati dalla cosmologia aristotelica, che descrive nella Summa Theologiae, la sua opera fondamentale scritta in forma della disputa scolastica, cioè una forma letteraria basata su un metodo di lezione.[131][132][133]
Sebbene tra i suoi contemporanei Tommaso (e il suo "tomismo") fu accolto talvolta con diffidenza, nel 1227 l'Università di Parigi addirittura condannerà alcune sue tesi, dopo la seconda metà del XV secolo il suo prestigio aumenterà a tal punto da essere oggi considerato "il filosofo ufficiale della Chiesa" nonché il "maggiore pensatore del medioevo e il più grande filosofo cristiano della storia". Nel XVI secolo il concilio di Trento farà spesso uso del suo pensiero "per esprime in limpide formule alcuni concetti di fede".[134]
Se Tommaso d'Aquino lavorò su un sistema che conciliava il pensiero di Aristotele con la dottrina cristiana, all'interno dell'Europa andò ad affermarsi anche una corrente, nota come "averroismo", che invece proponeva una lettura radicale delle opere dello Stagirita negando la necessità di un conciliazione tra fede e ragione a favore della seconda. E, di riflesso, nacque anche un movimento opposto reazionario, detto "agostinismo", che chiedeva un ritorno alla tradizione dei Padri.[135]
L'idea fondamentale dell'Averroismo fu quella della "dottrina della doppia verità", secondo la quale la verità filosofica e quella religiosa potessero convivere anche se apparentemente si trovavano in contraddizione tra di loro. La verità filosofica, per gli averroisti, era quella le cui conclusioni possono essere raggiungibili mediante la ragione e l'indagine razionale, basandosi in particolare sugli insegnamenti di Aristotele, filtrati attraverso le interpretazioni di Averroè. La verità religiosa invece la si trova nelle Scritture e sugli insegnamenti della Chiesa e può comprendere elementi soprannaturali che sfuggono alla comprensione razionale.[136]
Il maggior esponete tra gli averroisti, Sigieri da Brabante, arrivò a conclusioni contrastanti con la fede cristiana ma le poté giustificare asserendo che queste fossero frutto del suo lavoro come filosofo ma come credente egli accettava le verità religiose. Ad esempio, egli sostenne l'eternità del mondo e il determinismo dei fenomeni naturali negando così la libertà umana, tesi non accettabili secondo la dottrina della Chiesa. Tuttavia, discostandosi dagli estremismi di Averroè che considerava la ragione predominante sulla rivelazione, Sigeri attribuiva alla prima la guida più sicura per il pensiero ma che l'unica verità finale fosse quella religiosa.[137][138]
Per Boezio di Dacia, altro averroista di spicco, il pensiero filosofico era l'unico bene supremo accessibile pienamente all'uomo e che attraverso la ragione si potesse tentare di avvicinarsi alla conoscenza di Dio, bene sommo ma parzialmente sfuggevole all'esperienza umana. L'intelletto stesso ha qualcosa di divino in sé e il suo sviluppo è l'unica via per la ricerca della verità.[139]
Come reazione alla diffusione dell'aristotelismo, alcuni teologi mossero critiche non solo agli elementi palesemente incompatibili con la dottrina cristiana ma anche a quelli che erano stati conciliati e integrati in essa soprattutto grazie alla filosofia tomistica. Emersero così nuove correnti maggiormente tradizionaliste, spesso conosciute come "agostiniane" (o "neo-agostiniane") secondo la definizione coniata da Franz Ehrle. Queste si rifacevano soprattutto al pensiero di Sant’Agostino seguendo poi l'impostazione data da San Bonaventura che rimproverava allo stesso Tommaso d'Aquino si aver ecceduto con l'influenza aristotelica.[140] Tra i maggiori rappresentanti di questo orientamento, nella maggior parte appartenenti all'ordine francescano, vi furono Giovanni Peckham, che esaltava la spiritualità dell’anima;[141] Ruggero Marston, con il suo radicale rifiuto dei filosofi pagani (da lui definiti come "homiens infernales") e del pensiero tomistico;[142] e Matteo d'Acquasparta che operò un recupero della teoria agostiniana della conoscenza sensibile come attività dell’anima. Guglielmo de la Mare confutò le tesi di Tommaso e il suo commento alla Summa Theologiae fu l'unico testo tomistico la cui lettura era ufficialmente consentita ai francescani.[143]
Filosoficamente, il Medioevo si caratterizza per una grande fiducia nella ragione umana, ossia nella capacità di indagare i misteri della fede, in virtù del fatto che Dio nei Vangeli si presenta come Logos (cioè Principio Logico).
La crisi di questa fiducia iniziò a partire dal Trecento, quando il filosofo scozzese Duns Scoto affermò che esiste un limite che non può essere esplorato dalla filosofia, e oltre il quale la ragione non può andare. Su queste basi criticò il pensiero tomistico che cercava, talvolta forzatamente, di conciliare fede e pensiero razionale; per lui teologia e filosofia erano su due livelli totalmente diversi di cui non potevano essere condivisi né metodi né strumenti di indagine: se la prima indaga elementi soprannaturali e utilizza un approccio persuasivo, della seconda fanno parte procedimenti dimostrativi e lo studio del reale.[144][145] Duns Scoto riconobbe chiaramente i limiti della ragione, anche nell'ambito della dimostrazione dell'esistenza di Dio. Mentre Tommaso d’Aquino, ispirandosi alla dottrina aristotelica, sosteneva che l’esistenza di Dio potesse essere dimostrata solo a posteriori, ossia partendo dalle sue manifestazioni nel mondo reale, considerandola una prova accettabile sebbene di valore inferiore rispetto a una dimostrazione a priori, Duns Scoto respinse questa visione. Egli riteneva che solo la dimostrazione a priori fosse valida e che, di conseguenza, tutte le prove razionali fondate sull’uso della ragione fossero intrinsecamente relative.[146]
Un certo recupero del rapporto tra religione e filosofia sia ha però quando Scoto dimostra di essere un sostenitore dell'univocità dell'essere, distinguendosi dalla visione tomistica e aristotelica. Secondo tale teoria, le parole che descrivono le proprietà di Dio, che è identificato con l'Essere, hanno lo stesso significato di quando si applicano alle persone o alle cose con l'unica differenza che quando parliamo di Dio l'Essere è infinito e per lo cose, invece, finito. In questo contesto di pensiero sollevò il problema dell'haecceitas, ossia dell'essenza che determina un particolare oggetto in un certo modo rendendolo "questo qui" (hic et nunc), Scoto sostenne che degli universali posti all'origine delle singole realtà non si può dire nulla, essendo impossibile stabilire il perché del loro essere così e non diversamente.[144][147]
Pur aderendo al realismo, Duns Scoto sottolineò in tal modo l'aspetto apofatico e ignoto di Dio, rilevando l'esistenza di un limite intrinseco ad ogni sapere umano: se la logica vuole essere consistente, deve rinunciare a indagare ciò che per sua natura non può avere una risposta razionale. Egli affermava bensì, sulla scia di Parmenide, la necessità di essere dell'Essere, ma l'impossibilità di necessitarne il contenuto, di dargli cioè un predicato razionalmente giustificabile.
Scoto divenne un assertore della dottrina del volontarismo, secondo cui Dio sarebbe animato da una volontà incomprensibile e arbitraria, del tutto slegata da criteri razionali che altrimenti ne limiterebbero la libertà d'azione. Questa posizione ebbe come conseguenza un crescente fideismo, ossia una fiducia cieca in Dio, non motivata da argomenti.
Chiamato il "dottor Sottile" per le sue argomentazioni raffinate e ricche di distinzioni, Duns Scoto si può considerare "un ponte" tra l’età dell’oro e il declino della scolastica. Da un lato, "la sua sintesi filosofico-teologica fu, accanto a quelle di San Bonaventura e di San Tommaso, una delle più notevoli sistemazioni del pensiero medievale"; dall'altro, anticipò la frammentazione e la complessità che segneranno la crisi della scolastica nel XIV secolo.[148][149] Morì all'età di 42 nel 1308, lasciando incompiuto gran parte del suo lavoro. Si chiuse così il XIII secolo, l'"età dell'oro della metafisica propriamente detta", il secolo che ebbe il "privilegio di ereditare il meglio del pensiero filosofico-greco e il merito di utilizzare a fondo queste verità".[150]
Dopo il periodo d'oro, la scolastica conobbe un periodo di lenta decadenza, a causa della perdita dell'unità teologica dei Cristiani dopo la fine del Medioevo.
Il termine "scolastico" assunse da allora una connotazione a volte negativa. Per l'abitudine di affidarsi a un sistema già collaudato per giustificare le proprie tesi, ogni filosofia, anche moderna o contemporanea, che utilizzi e si appoggi su una teoria filosofica già esistente, accordando la propria fede con la razionalità e l'investigazione filosofica, viene perciò definita scolastica.
Si ebbero tuttavia alcuni periodi di rinascita, durante il XIV e il XVI secolo in Spagna, soprattutto nelle università di Salamanca e Valladolid, personaggi di spicco, tra gli altri i domenicani Francisco de Vitoria e Bartolomé de Las Casas, nonché Juan Ginés de Sepúlveda e il gesuita Francisco Suárez. Tanto che si può parlare di Seconda Scolastica, soprattutto con riferimento alla Scuola di Salamanca. «La Scolastica della modernità ha un atteggiamento antiriformista e rappresenta lo strumento concettuale della Riforma cattolica, che viene tuttavia ripreso dall’ortodossia riformata; per questo motivo, essa possiede un carattere interconfessionale e persino universale. Karl Eschweiler, che nel 1928 le diede il nome di «Scolastica barocca», mise in risalto particolarmente la sua universalità. Egli la definì come «ultimo stile di pensiero del continente europeo», che permeava tutti gli ambiti della vita spirituale e sociale, «prima che questo pensiero si sgretolasse nel multiforme gioco di antitetici sistemi privati».»[151] La Seconda Scolastica ha influenzato largamente, attraverso le dispute teologico-giuridiche l'Inquisizione cattolica nel Nuovo Mondo, in virtù del fatto che molti teologi formatisi in Madrepatria andavano a far esperienza nei tribunali d'Oltreoceano finendo con l'arricchire in maniera acuta e penetrante le cause loro sottoposte e giungendo a gettare le fondamenta di quello che sarà l'Empirismo e l'Illuminismo, soprattutto dal punto di vista della salvaguardia dei diritti umani degli indios.[152][153]
Contemporaneamente si può parlare anche di scolasticismo protestante, come di un metodo di pensiero sviluppatosi nelle prime fasi del protestantesimo, che si consolidò durante il XVII secolo, diventando particolarmente diffuso nella creazione di sistemi teologici protestanti come il calvinismo. Benché i maggiori Riformatori protestanti attaccassero la scolastica medioevale per sostenere la completa adesione alle sole Sacre Scritture, si dimostrò impossibile purgare la teologia da metodi e atteggiamenti scolastici, o evitare conflitti che non implicassero complicati ragionamenti teologici ed interpretazioni bibliche.
In seguito, nel XIX secolo, con l'enciclica Aeterni Patris del 1879, papa Leone XIII promosse negli ambienti cattolici un movimento di ritorno alla filosofia scolastica, che venne detto perciò neoscolastico.[154] I maggiori pensatori neoscolastici furono Jacques Maritain ed Étienne Gilson, i quali si proposero di rivalutare la metafisica difendendola dai giudizi negativi del positivismo allora imperante. D'altro lato, combatterono le istanze idealistiche eccessivamente incentrate sul soggetto proprie delle filosofie di Cartesio e di Kant, in favore di una rivalutazione del realismo.
Nel Novecento infine, da alcune parti venne riconosciuto alla scolastica un ruolo positivo e fondamentale per aver contribuito a costruire l'ossatura culturale dell'Europa. Lo scrittore tedesco Hermann Hesse, ad esempio, manifestava grande ammirazione per il modo in cui l'istruzione medievale veniva organizzata e gestita armoniosamente all'interno della scolastica. Nel suo romanzo intitolato Il giuoco delle perle di vetro egli immaginò un sistema di studi, denominato “Castalia” e da lui collocato in un ipotetico futuro, che ricalcava quello della scolastica dei secoli d'oro: in esso si svolgeva la vita e l'educazione dei giovani destinati a preservare e coltivare armonicamente il sapere e lo spirito delle culture del passato.[155]
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