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filosofo e logico francese (ca. 1300-1358) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Giovanni Buridano (in francese Jean Buridan; in latino Ioannes Buridanus; Béthune?, 1295-1300 circa – 1361) è stato un filosofo e logico francese, maestro delle arti a Parigi e Magnifico Rettore dell'Università di Parigi nel 1328 e nel 1340.
Seguace di Guglielmo di Ockham, nella logica adotta la dottrina nominalista: solo le particolari entità esistenti sono reali, mentre gli universali sono dei concetti astratti che valgono solo come nomi, ma recupera il metodo di Aristotele per quanto riguarda la fisica; ciò gli consentirà di fornire importanti contributi, come la teoria dell'impeto.
Studiò all'università di Parigi e seguì nella logica[1] la dottrina nominalista pur apprezzando il realismo aristotelico. Insegnò filosofia nella stessa università nella quale fu eletto per due volte rettore nel 1328 e nel 1340.[2] Dopo aver incominciato a studiare teologia si dedicò invece all'insegnamento delle arti liberali. Per i suoi cordiali rapporti con la curia romana fece una buona carriera ecclesiastica, che gli valse l'incarico di canonico ad Arras. Come accademico partecipò ai lavori di una commissione ecclesiastica incaricata di approfondire le concezioni occamiste relativamente all'ortodossia. L'analisi delle teorie occamiste si concluse con il divieto di lettura presso la facoltà delle arti di Parigi delle opere del Venerabilis Inceptor (venerabile principiante).[3]
Buridano fu uno dei sostenitori della teoria dell'impeto, secondo la quale un corpo in moto possiede un "impeto" che lo porta a proseguire il moto anche in assenza di forze esterne. Questa teoria, la cui origine è rintracciabile negli scritti di Giovanni Filopono, del VI secolo,[4] precorse in parte il principio d'inerzia che sarà enunciato nella prima età moderna.[5]
Nelle Questioni sugli otto libri della Fisica di Aristotele Buridano confutò la teoria di Aristotele secondo cui la continuazione del moto del proietto è dovuta all'aria la quale, in qualche modo, gli trasmette l'azione motrice:
«Possiamo dunque e dobbiamo dire che al sasso o a un altro proietto viene impressa una tale cosa, la quale è la virtù motrice di quel proietto, e ciò pare meglio che ricorrere all'azione dell'aria per far muovere il proietto. Pare infatti piuttosto che l'aria resista al moto. Mi sembra perciò che si debba dire che il motore, muovendo il mobile, gli imprime un impeto o una certa virtù motrice (vis motiva) di quel mobile nella direzione nella quale il motore lo muoveva, sia verso l'alto sia verso il basso, sia lateralmente sia in cerchio, e quanto più velocemente il motore muove quel mobile, tanto più forte impeto gli imprimerà. E da quell'impeto è mosso il sasso dopo che il motore ha cessato di muovere. Ma a causa della resistenza dell'aria e della gravità del sasso, che inclina in una direzione contraria a quella verso cui l'impeto muove, quell'impeto si indebolisce (remittitur) continuamente. Perciò il moto di quella pietra diventa sempre più lento, e infine quell'impeto si consuma e corrompe a tal punto che la gravità della pietra ne ha ragione e muove la pietra in basso verso il suo luogo naturale...
E se qualcuno chiederà perché proietto più lontano un sasso che una piuma, e un pezzo di ferro o piombo ben adattato alla mano che altrettanto legno, dirò che la causa di ciò risiede nel fatto che la ricezione di tutte le forme e disposizioni naturali si fa nella materia e in ragione della materia; perciò quanto più un corpo contiene di materia, tanto più, e più intensamente, può ricevere di quell'impeto. Ora, in un corpo denso e grave, a parità di tutto il resto, c'è più materia prima che in uno raro e leggero; perciò il denso e grave riceve più di quell'impeto, e più intensamente, come accade anche che il ferro possa ricevere più calore che non un'uguale quantità di legno o d'acqua... E questa è anche la causa per cui è più difficile ridurre alla quiete una grande mola di fabbro mossa velocemente che non una piccola; infatti nella grande, a parità di tutto il resto, c'è più impeto...[6]»
La teoria dell'impeto permise a Buridano di considerare superflue le "Intelligenze Motrici" che nella fisica medioevale d'ispirazione aristotelica risultavano necessarie per mantenere in moto i cieli, anche perché lo spazio esterno era da lui concepito vuoto e non pieno di materia trasparente come aveva pensato Aristotele:
«Inoltre, non apparendo dalla bibbia che ci siano intelligenze deputate a muovere i corpi celesti, si potrebbe dire che non si vede la necessità di porre tali intelligenze, poiché si potrebbe sostenere che Dio, quando creò il mondo, mosse ciascun orbe celeste come gli piacque, e muovendoli impresse in essi degli impeti che continuassero il moto senza bisogno di un suo ulteriore intervento... E quegl'impeti impressi nei corpi celesti non s'indebolivano né si corrompevano, non essendo nei corpi celesti inclinazione ad altri moti, né essendo in essi una resistenza corruttiva o repressiva di quell'impeto. Ma ciò non dico assertivamente, bensì in via ipotetica, chiedendo ai signori teologi che mi insegnino in che modo queste cose possano avvenire...[7]»
Quanto alla forma della Terra, Giovanni Buridano fu uno dei pensatori medievali che ne sostenevano la sfericità e la rotazione sul proprio asse.[8][9]
Buridano si occupò dell'analisi della volontà umana, che ritenne seguisse le valutazioni dell'intelletto assicurando così la scelta giusta. Perciò egli riteneva che la volontà, dovendo decidere quale scegliere tra due beni considerati equivalenti dall'intelletto, si sarebbe trovata nella scelta in un imbarazzo tale da sospendere l'azione conseguente.[10]
Un esempio della sua tesi, che tuttavia probabilmente non è dovuto a Buridano e che ne banalizza pesantemente il pensiero[11], è il famoso apologo dell'asino che, posto tra due cumuli di fieno perfettamente uguali[12][13] e alla stessa distanza, non sa scegliere quale iniziare a mangiare, morendo di fame nell'incertezza.
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