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Abbazia imperiale benedettina nell'Alta Sabina Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
L'abbazia di San Salvatore Maggiore (in latino: abbatia Sancti Salvatoris Maioris) è stata un'abbazia benedettina fondata nell'VIII secolo sui resti di una villa romana edificata nei pressi di una strada romana, identificata dalle ipotesi degli studiosi alla fine dell'Ottocento come la via Caecilia, sull'altopiano del monte Letenano, nella dorsale della catena dei rilievi che formano lo spartiacque tra i bacini del Salto e del Turano.
Abbazia di San Salvatore Maggiore | |
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Abbazia di San Salvator Maggiore (RI) | |
Stato | Italia |
Regione | Lazio |
Località | Pratoianni (Concerviano) |
Coordinate | 42°17′13.37″N 12°58′38.38″E |
Religione | Cattolica |
Titolare | Santo Salvatore |
Ordine | Benedettino |
Diocesi | nullius diocesis |
Consacrazione | 735 |
Sconsacrazione | 1979 |
Fondatore | Lucerio di Moriana |
Stile architettonico | Romanico |
Sito web | www.sansalvatoremaggiore.it. |
Storicamente nell'Alta Sabina, nel territorio reatino, ai margini della regione del Cicolano, attualmente il complesso monumentale di San Salvatore Maggiore è nel territorio di Pratoianni, frazione del comune di Concerviano nella provincia di Rieti. Il centro abitato più vicino è il paese di Vaccareccia, frazione, anch'essa, del comune di Concerviano.
All'abbazia sono stati soggetti, per secoli, un cospicuo numero di castelli, ovvero di centri abitati, situati nel territorio ad essa più prossimo che costituirono un'unità amministrativa denominata, in seguito, con un neologismo storico, la Signoria di San Salvatore Maggiore[1].
«Chi non si illumina pensando alle grandi abbazie del Lazio, per limitarci a quelle più vicine, Montecassino, Subiaco, Casamari, Farfa? Ma quella di San Salvatore Maggiore è ignorata dai più, non esistono note storiche recenti e bisogna cercare più a fondo, risalire nel tempo. Allora sì che si trova, non molto, ma certamente vengono alla luce dati e informazioni densi di significato e con riferimenti sensazionali.»
Entrata sotto la defensio imperialis per disposizione di Carlo Magno, è stata per secoli un'abbazia nullius diœcesis ovvero non sottoposta all'autorità di alcun vescovo ma soggetta, in materia religiosa, solamente al pontefice. Questo stato, insieme alla sua centrale posizione geografica e al tradizionale accordo con la vicina e potente abbazia di Farfa, permise a San Salvatore Maggiore, tra l'VIII ed il XII secolo, di accrescere la propria influenza ben oltre il territorio reatino: arrivò ad avere rilevanti proprietà e dipendenze nella Sabina verso ovest e nel Piceno verso est, dalla valle del Chienti a nord attraverso la valle del Vomano fin nella Marsica a sud, e addirittura nella città di Roma.
Divenuta, dopo la lotta per le investiture, Romanae Ecclesiae immediate subiecta cioè soggetta per via diretta alla Santa Sede, a partire dal XV secolo venne, di volta in volta, affidata in commenda, direttamente dal papa, a cardinali membri di alcune tra le più potenti famiglie della curia romana (Orsini, della Rovere, Farnese, Barberini) per il prestigio ed il cumolo delle rendite che il titolo assicurava. Venne soppressa, come abbazia benedettina, dopo quasi novecento anni, nel XVII secolo, progressivamente spogliata delle sue dipendenze.
A seguito della cacciata dei monaci benedettini, nel 1629, venne istituito a Toffia, con parte delle antiche rendite dell'abbazia, un seminario destinato alla formazione dei giovani sacerdoti provenienti dai territori delle abbazie di Farfa e di San Salvatore Maggiore mentre il complesso sul Letenano, fu tra il 1628 ed il 1635, sede di una missione dei padri scolopi restando, dopo il loro abbandono, un centro amministrativo dei territori abbaziali, per il governo della Camera apostolica, insieme al castello di Longone, per buona parte del XVII e del XVIII secolo. Nel 1746 nell'abbazia venne traferito il seminario di Toffia che vi rimase fino al 1841 quando, una volta che le terre dell'abbazia di San Salvatore Maggiore vennero ricondotte all'autorità di un vescovo, divise tra la diocesi di Poggio Mirteto, appena creata, e quella di Rieti, il seminario fu di nuovo trasferito a Toffia e poi a Poggio Mirteto.
Dopo un tentativo di affidare il complesso, come sede per una missione, ai padri passionisti, tra il 1839 ed il 1854, nel 1880, per sfuggire alle leggi sull'eversione del patrimonio ecclesiastico, il monastero venne riadattato a sede estiva per i seminari di Poggio Mirteto e di Rieti fino al 1915 quando, lesionato dal terremoto della Marsica, dopo un fallito tentativo di restauro negli anni trenta del Novecento, venne definitivamente abbandonato dopo l'ultimo tentativo di assegnarlo ai salesiani tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta del Novecento.
L'abbazia fu quindi venduta nel 1979 dalle diocesi di Rieti e di Poggio Mirteto, che ne condividevano dal 1880 la proprietà, ad un privato il quale, a sua volta, la rivendette, nel 1986, al comune di Concerviano che, a partire dagli anni novanta del secolo scorso, si adoperò per il restauro dell'abbazia facendone un caso di studio[2].
Il titolo di "abate di San Salvatore Maggiore", sopravvissuto dalla fondazione dell'abbazia nel 735, all'istituzione della commenda nel 1399, all'unione della commenda con Farfa nel 1494 e alla soppressione dell'abbazia nel 1629, dopo essere passato, nel 1841, al titolare della cattedra di Poggio Mirteto, dal 1925 è appannaggio del vescovo di Rieti.
L'archivio di San Salvatore Maggiore, se mai ve ne fu uno[3], è ormai scomparso e disperso. La storia dell'abbazia, dopo la sua soppressione, è stata parzialmente ricostruita tramite le notizie raccolte negli archivi di altre istituzioni, in particolare della vicina abbazia di Farfa, ove gli storici si sono imbattuti in nozioni e menzioni sporadiche e frammentarie circa il monastero. Le notizie raccolte sono tanto più preziose quanto più rare[4].
L'abbazia sorse sulle rovine di una preesistente villa romana, come testimoniato da materiali riutilizzati nella costruzione del complesso abbaziale tra i quali il più evidente e senz'altro la Lapide di Sesto Tadio, parte di un sarcofago utilizzato come vasca di un fontanile all'interno del complesso abbaziale. Altri indizi strutturali e decorativi[5], evidenziati dai recenti restauri[2], confermano l'origine romana della costruzione. È probabile che la villa sulle cui vestigia venne edificata l'abbazia fosse proprio quella del senatore Tadio Nepote il cui cursus honorum fu descritto in maniera concisa e puntuale sulla sua epigrafe (CIL IX, 04119) dalla moglie Mulvia Placida e che tale villa rustica si trovasse nei pressi di una strada romana, la Via Caecilia secondo l'ipotesi avanzata alla fine dell'Ottocento da Niccolò Persichetti[6][7].
La fondazione dell'abbazia avvenne nel 735[8] durante il regno longobardo di Liutprando ad opera di Lucerio da Moriana, compagno di Tommaso da Moriana che nel 721 aveva rifondato l'abbazia di Farfa alle pendici del monte Acuziano in Sabina. Lucerio era accompaganto da altri monaci franchi i quali, in quanto guargangi, ovvero stranieri nel regno dei longobardi, godevano di particolari privilegi che favorirono lo sviluppo del cenobio[9]. La fondazione del monastero avvenne sul monte Letenano[10] ad ottomila passi da Farfa[11] e ad otto miglia da Rieti[12].
Già a partire dall'VIII secolo la fama di santità della vita dei monaci del Letenano si sparse rapidamente ed altrettanto rapidamente si accrebbero le donazioni ricevute dall'abbazia: oltre ai lasciti testamentari[13] erano semplici privati a trasferire i loro beni al monastero così come nobili o uomini di stato ed alti ufficiali della corte longobarda di Spoleto o di quella papale di Roma che ricorrevano a donazioni per sollecitare il loro ingresso nella comunità monastica. L'abbazia vide così accrescere i propri beni[14] che furono confermati già da papa Stefano III (752-757)[15].
L'abbazia all'epoca era tanto potente che, sotto il regno di Desiderio (757-774), fu tra i protagonisti della congiura ordita ai danni dell'antipapa Costantino dal primicerio Cristoforo e dal figlio Sergio, sacellario papale, i quali, decisi ad invocare contro di Costantino l'aiuto di re Desiderio (757-774), onde rimuovere da loro ogni sospetto, simularono di voler abbandonare la politica e il mondo per ritirarsi a condurre vita penitente nel monastero del Salvatore[16][17].
Alla caduta di re Desiderio nel 774, Carlo Magno, già re dei franchi, si proclamò rex Francorum et Langobardorum.
Il cambio di dominazione non pregiudicò la fama e e gli interessi materiali dei monastero che dopo d'aver goduto la protezione dei sovrani longobardi passò a seguire la politica pontificia, tutta ispirata a favorire i Franchi, così che San Salvatore Maggiore, insieme con Farfa e Sant' Andrea sul Soratte[18], venne annoverato tra i monasteri regi nel nuovo regno carolingio[19].
Quando poi, nel natale dell'800, Carlo Magno in persona soggiornò a Farfa durante il suo viaggio a Roma per essere incoronato imperatore del Sacro Romano Impero, l'abate di San Salvatore era lì, insieme a quello di Farfa, ad omaggiare l'imperatore il quale concesse alle due abbazie il titolo di "abbazie imperiali" ponendole di fatto, da allora, sotto la defensio imperialis[20].
Ulteriore testimonianza della vicinanza del cenobio al favore imperiale è la corrispondenza intercorsa tra l'abate Usualdo di San Salvatore ed Alcuino di York[21][22], l'influente maestro di palazzo di Carlo Magno[23].
«Nec enim frustra speciali vocabulo, Monachi sancti Salvatoris vocamini, sini quia estis meritis quod nomine dicimini»
«E non senza motivo siete chiamati con un termine speciale, monaci santi del Salvatore, perché siete degni di essere chiamati così per i vostri meriti.»
Anche dopo la morte di Carlo Magno l'abbazia accrebbe ancora il suo potere tanto che il Liber Pontificalis ricorda come Pasquale I (817-824) offrì al monastero ricchi doni:
«Fecit in monasterio Salvatoris Domini nostri lesu Christi sito in territorio Reatino vestem de Chrysoclavo cum historia qualiter idem Dominus noster lesus Christus cum Archangelis et Apostolis in coelo coruscat, mira pulchritudine, diversis ornatam margaritis. Item in jam dicto Monasterio ad ornatum sacri altaris aliam obtulit vestem de fundato, habentes cruces de blatthin byzantea et perichysim de Chrysoclavo, mirifice ornatam.»
«Nel monastero del Salvatore nostro Signore Gesù Cristo, situato nel territorio di Rieti, [il papa] fece [in dono] un drappo di Chrysoclavus istoriato con nostro Signore Gesù Cristo in cielo in coro con gli Arcangeli e gli Apostoli, adornato con una meravigliosa bellezza e diverse perle. Allo stesso modo, in detto monastero, fu offerto un altro drappo per l'ornamento del sacro altare, fatto di tessuto di fondato, con croci di lino di Bisanzio e perichysium di Chrysoclavus, magnificamente decorato[24].»
Il fatto che il papa, in segno di omaggio, offrisse in dono due distinti drappi ricamati d'oro per gli altari, testimonia una volta di più del prestigio e del potere raggiunti nel IX secolo dal monastero e del fatto che, nel periodo di massimo splendore dell'abbazia, esistessero nel monastero addirittura due basiliche: una intitolata al Salvatore ed un'altra a San Pietro Apostolo[25].
Per aumentare ulteriormente l'importanza dell'abbazia anche gli abati di San Salvatore parteciparono, tra l'VIII ed il IX secolo, alla spoliazione dei cimiteri suburbani romani, ormai abbandonati, per assicurarsi delle preziose reliquie ottenendo la traslazione sul Letenano del corpo del martire Ippolito.[26]
Il culto del beato Ippolito martire, antipapa e genio della chiesa, è una delle tante particolarità[27] dei monaci del Letenano che, fedeli alle proprie origini franche e perciò considerando il loro rito speciale, quasi una gloria della loro badia che andava gelosamente conservata come una parte assai importante del patrimonio liturgico latino nel periodo pregregoriano, si rifiutavano ancora nel IX secolo di aderire al rito romano introdotto già da papa Gregorio Magno (590-604) tanto che Leone IV (847-855), propugnando l'assoluta uniformità rituale, in una lettera all'abate di San Salvatore Onorato, minacciò di scomunica l'intero monastero del Salvatore[28].
Il seguire regole indipendenti, fin dall'abbigliamento con un copricapo, una berretta, che gli valse il nome di berrettanti[29], insieme al loro tradizionale accordo con il potere civile, più volte, nei secoli a seguire, sarebbe valso ai monaci del Letenano continue accuse di insubordinazione e deviazionismo da parte dei pontefici[30].
Nel IX secolo la comunità di San Salvatore Maggiore, come quella di Farfa, continuò a godere di privilegi ducali, papali e imperiali, come dimostra quello concesso nell’872[31] da Ludovico II (855-875) il quale, dopo la sconfitta riportata a Benevento per causa del principe Adelchi, era ricorso al papa per ottenere la corona imperiale e con essa il diritto sul ducato beneventano[32]. In visita a Farfa, durante la festività della Pentecoste, Ludovico II[33] ricevette l'omaggio anche dell'abate Anastasio[34] di San Salvatore e concesse a entrambe le abbazie privilegi e guarentigie[35], mantenne però l'obbligo delle abbazie al fodrum verso l'imperatore (tale obbligò verrà annullato dal successore di Ludovico II, Carlo il Calvo, ma dovette essere in seguito ripristinato tanto che se ne trova menzione, riguardo alle due abbazie sabine, ancora nell'XI secolo)[36].
Alla fine del IX secolo anche l'altopiano del Letenano, così come le vallate della Sabina, fu scosso dalle scorrerie dei predoni saraceni che nell'891 incendiarono e distrussero il complesso abbaziale[37]. I mori si acquartierarono per un lungo periodo nel territorio dell'abbazia di San Salvatore[38] e solo dopo la definitiva cacciata dalla Sabina ad opera degli armati reatini capitanati da Tachiprando nella battaglia di Trebula Mutuesca (914), prima della decisiva vittoria riportata da Giovanni X sul Garigliano (915) che pose fine alla minaccia dei Saraceni in Italia, l'abbazia venne ricostruita: la chiesa abbaziale di San Salvatore fu riconsacrata solo nel 974, ben cinquant'anni dopo quella di Farfa[39]. Da allora i monaci di San Salvatore cominciarono a festeggiare annualmente, oltre alla data della prima consacrazione della basilica del Salvatore nel 735, il 17 Gennaio, anche quella della consacrazione dopo la sua ricostruzione del 974, il 4 luglio[39]: si aprì un nuovo periodo di fervida ricostruzione[40] e anche il monastero del Salvatore ricominciò a recuperare ed accrescere il proprio patrimonio, sotto l'intervento diretto, dell'imperatore Ottone II e di sua moglie Teofano (973-983), nipote dell'imperatore romano d'oriente[41][42] ai quali i monaci del Salvatore, riconoscenti, dedicarono un affresco nella nuova chiesa abbaziale[43].
Già dall'VIII secolo il patrimonio del monastero di San Salvatore Maggiore, favorito dai gastaldi di Rieti, dai duchi di Spoleto e dai papi, contava proprietà nei dintorni dell'abbazia, sull'altopiano del Letenano, nel territorio detto delle "Plage", situato tra la Valle del fiume Salto e quella del fiume Turano in direzione di Rieti, nella piana reatina, in Sabina, nell'Abruzzo e nelle Marche.
Le donazioni all'abbazia di San Salvatore erano spesso in territori contigui alle donazioni fatte nello stesso periodo all'abbazia di Farfa[44] tanto che, non solo in Sabina, i beni di San Salvatore e quelli di Farfa erano frastagliati ed intersecati tra loro[45]. Non stupisce allora che nel regesto farfense si trovino dei documenti che testimonino degli accordi[46][47] e, a parte rari casi di dispute nell'attribuzione di proprietà[48], le due comunità monastiche vissero per più secoli in assoluta concordia[49] tanto da considerarsi come un'unica famiglia, memori della comune fondazione da parte degli stessi monaci franchi e tanto da scambiarsi visite reciproche[50] se non addirittura favorire lo scambio di membri tra le due comunità.
L'apice delle relazioni tra Farfa e San Salvatore Maggiore si raggiunse tra la fine del IX e l'inizio del secolo X, sotto la guida degli abati Ugo I di Farfa e Landuino di San Salvatore come dimostrato dalle missive intercorse tra le guide dei due monasteri conservate negli archivi farfensi[51] che documentano degli accordi e delle consuetudini tra i due monasteri ed i loro abati uniti da un vero e proprio rapporto di amicizia[52].
La cortesia da parte degli abati di San Salvatore verso quelli di Farfa in materia di possedimenti e attribuzioni di chiese, monasteri e dei relativi benefici non venne però estesa ai vescovi della diocesi di Sabina[53] né a quelli della diocesi reatina o delle altre diocesi ove si trovavano i possedimenti dell'abbazia: negli archivi pontifici, in quelli della Sabina, dell'Abruzzo e delle Marche, sono numerose le tracce delle dispute che gli abati di San Salvatore dovettero affrontare nei secoli per conservare ed accrescere i propri domini e non sempre l'abate di San Salvatore giocava il ruolo di difensore. Capitava anche, infatti, che, in virtù dei privilegi loro concessi, gli abati cercassero di eludere i diritti dei vescovi nel territorio dei quali si trovavano i loro possedimenti[54].
Dalla corrispondenza tra le due abbazie si intuiscono molte informazioni come il fatto che l'archivio di Farfa doveva essere stato d'aiuto anche agli abati di San Salvatore per ricostruire la propria storia e forse per prevalere nelle dispute sul possedimento di beni in cui periodicamente erano coinvolti. Sebbene dell'archivio di San Salvatore si siano perse le tracce, questo non deve far pensare che i monaci del Letenano non coltivassero la scrittura al pari degli altri monasteri benedettini del loro tempo: tutt'altro. Altre fonti documentali, infatti, lasciano intendere come anche sul Letenano esistesse, almeno a partire dall'XI secolo, uno scriptorium e che i codici in esso prodotti avessero diffusione nelle chiese di Roma e negli altri monasteri della penisola se non del resto d'Europa[55][56] come anche il fatto che addirittura i pontefici si valessero dello scriptorium del monastero di San Salvatore[57].
Nel XII secolo si assistette nelle terre dell'abbazia, come nel resto d'Europa alle lotte tra impero e papato, conclusesi con il predominio di quest'ultimo dopo il concordato di Worms nel 1122.
L'esito dello scontro tra il partito papale e quello imperiale non poté non avere ripercussioni sull'abbazia di San Salvatore così come su quella di Farfa che dalla defensio imperialis passarono alla subiectio papalis. Il processo fu lungo e tormentato come tormentati furono per le abbazie gli anni a cavallo tra l'XI ed il XII secolo.
La situazione nelle terre dell'abbazia di San Salvatore Maggiore si complicò alla metà del XII secolo allorquando, da una parte la conquista normanna del meridione d'Italia giunse proprio alle porte del monastero[58], e dall'altra, l'elezione ad imperatore di Federico I Barbarossa (1155-1190) rinfocolò le speranze del partito imperiale.
Già nel 1155, durante la sua prima discesa a Roma, Federico I, volle trattare le due abbazie di Farfa e San Salvatore Maggiore come già prima d'allora gli imperatori avevano fatto ovvero domandando fedeltà in cambio di protezione. È possibile, dunque, che l'imperatore si sia rivolto all'abbazia di Farfa e a quella di San Salvatore Maggiore perché concedessero delle terre loro sottoposte a membri di famiglie nobili a lui fedeli[59]: questi sarebbero quindi divenuti feudatari o almeno concessionari delle abbazie con lo scopo di rafforzare militarmente il territorio limitrofo alle abbazie, edificando una serie di castra con il compito di contrastare eventuali incursioni normanne da sud e da est ben prima che, nel 1176, avanti della battaglia di Legnano del 29 maggio, parte dell'esercito imperiale dirottato verso il regno normanno, agli ordini dell'arcivescovo Cristiano di Magonza, cancelliere di Germania, sconfiggesse il 16 marzo a Carsoli l'esercito del re Guglielmo II guidato da Ruggero conte di Andria e da Tancredi conte di Lecce nell'unico confronto diretto tra le armate imperiali e quelle normanne.
Già prima della morte dell'imperatore Barbarossa, nel 1185, la questione della definizione del confine meridionale delle terre imperiali avrebbe trovato la sua soluzione attraverso la diplomazia con un'accorta politica matrimoniale: l'unione tra Enrico VI, figlio del Barbarossa e Costanza d'Altavilla, figlia del re normanno Ruggero II[60]. Proprio per l'importanza diplomatica che rivestiva, il matrimonio, in assenza dello sposo, accorso in Germania per la morte improvvisa della madre, venne celebrato per procura a Rieti, prima città in territorio imperiale al di là del confine del regno normanno.
Con la morte dell'imperatore Barbarossa i piatti della bilancia tornarono a pendere dalla parte della curia papale per cui anche a San Salvatore, come a Farfa riprese il processo di riconoscimento del monastero come Romanae Ecclesiae immediate subiectum.
Il patrimonio del monastero venne perciò, da allora in poi, confermato dai pontefici attraverso delle bolle papali a partire da quella del 27 Maggio 1191[61], con cui il papa Celestino III[62] pose San Salvatore Maggiore sotto la protezione papale, confermandone allo stesso tempo i beni: per la prima volta, si sanciva per intero il possesso dell'abbazia sui luoghi ad essa immediatamente adiacenti ovvero su tutto il territorio tra il fiume Salto ed il fiume Turano, dal Fosso di Paganico (ndr. oggi il Fosso dell'Obìto) fino al Borgo di Rieti. Si trattava dei territori delle Plage, nucleo territoriale della Signoria di San Salvatore Maggiore, che, nei due secoli successivi, sarebbero stati mira delle conquiste dei potentati circostanti, dal Comune di Rieti, ai conti Mareri[63] nel Cicolano, alle altre famiglie della nobiltà Romana, come gli Orsini ed i Savelli.
Già nel 1211 cominciarono a sorgere contrasti per l'elezione del nuovo abate per cui fu il papa Innocenzo III a dover intervenire[41] ma i possedimenti del monastero rimasero al sicuro nel decennio seguente tanto che papa Onorio III nel 1221 confermò la bolla di Celestino III[64] del 1191.
Con l'elezione ad imperatore di Federico II (1220-1250), nipote del Barbarossa, si aprì una nuova fase turbolenta nella vita dell'abbazia che fu coinvolta negli scontri tra Federico II e Gregorio IX. Il papa ordinò nel 1239 la realizzazione di nuove difese nei castelli dell'abbazia[41][65]: ciò non bastò ad arginare i disegni imperiali e, nel 1241, i territori dell'abbazia vennero occupati e l'abbazia ritornò temporaneamente sotto il controllo imperiale, amministrata da funzionari federiciani[66].
Nel 1249 papa Innocenzo IV da Lione prese provvedimenti[67][68] per scacciare Federico II ma non ve ne fu bisogno: l'anno successivo, nel 1250, con la morte dell'imperatore svevo, l'abbazia tornò definitivamente sotto la subiectio papalis.
Dopo la morte di Federico II si aprì un conflitto di competenze con l’episcopato reatino per il controllo dei benefici sul territorio che l'abbazia amministrava già dall'XI secolo ma che, prima di allora, erano di competenza del vescovo di Rieti.
Fu il vescovo Tommaso di Rieti, nominato nel 1252, ad avviare, nel 1253, un processo contro l'abate di San Salvatore[69] per l'attribuzione dei diritti e l'esercizio della giurisdizione ecclesiastica nei riguardi di molte chiese e cappelle nel territorio dell'abbazia[70][71]. Fu questo il principio di una serie di iniziative rivolte all'indebolimento del monastero. A partire dalla metà del XIII secolo l’abbazia fu investita da profondi sconvolgimenti sociali che provocarono continue tensioni tra i monaci ed i vassalli ad essi sottoposti, tanto che nel 1255 dovette intervenire lo stesso pontefice Alessandro IV (1254-1261) per costringere quest’ultimi a prestare atto di fedeltà al nuovo abate Gentileno, la cui elezione era stata approvata dal suo predecessore Innocenzo IV (1243-1254).
Abbandonato il partito ghibellino degli Svevi, ormai totalmente nel campo guelfo, l'abbazia seguì la politica pontificia di appoggio agli angioini nella contesa per il riconoscimento della corona del regno di Napoli tra Corradino di Svevia, nipote di Federico II e Carlo I duca d'Angio, fratello di Luigi IX re di Francia.
Re Carlo il 18 febbraio 1267 richiamò sotto il suo alto dominio la fortezza di Capradosso, che fino ad allora apparteneva al monastero di San Salvatore Maggiore[72].
Il confronto tra Svevi ed Angioini si risolse definitivamente nella battaglia di Tagliacozzo combattuta il 23 agosto 1268 ai Campi Palentini poco distante dai domini abbaziali.[73]
Anche l'abbazia ebbe un ruolo dopo la disfatta del sedicenne Corradino: Enrico di Castiglia, passato dal campo guelfo del cugino Carlo I a quello ghibellino di Corradino, aveva guidato ai Campi Palentini la prima schiera dei cavalieri spagnoli contro i francesi dando inizio alla battaglia. Sfondata la prima linea francese, con un attacco al fianco, Enrico, credendo di aver ucciso Carlo in persona e di aver quindi vinto la battaglia, si lanciò all'inseguimento del nemico in fuga: non si trattava invece di Carlo ma del suo maresciallo Henri de Cousances il che permise a Carlo d'Angiò di far entrare in campo la riserva e di sbaragliare un esercitò numericamente superiore al proprio. Allo sbandamento dell'esercito imperiale seguì la fuga di Corradino e quella dello stesso Enrico di Castiglia[74]. Quest'ultimo, perso il proprio cavallo in battaglia, si diresse verso nord incappando in Sinibaldo di Vallecupola, fratello dell'abate Egidio di San Salvatore Maggiore a cui fu consegnato. Enrico rimase per due settimane a San Salvatore Maggiore prima di essere rimesso dall'abate Egidio, il 7 settembre 1268 a Celle di Carsoli, nelle mani di Carlo d'Angio che mostrò la sua riconoscenza a Sinibaldo di Vallecupola dandogli in feudo il castello di Staffoli e Corropoli nella Val Vibrata[75]. Il re Carlo, dopo aver fatto giustiziare Corradino sulla piazza del marcato a Napoli, volle riservare una punizione esemplare anche per suo cugino Enrico che aveva ucciso con le sue mani il maresciallo de Cousances, dopo averlo sbalzato da cavallo, credendolo Carlo. Commutata la sentenza di morte in prigionia, Enrico di Castiglia venne tenuto prigioniero fino al 1277 nel castello di Canosa e quindi a Castel del Monte presso Andria ben oltre la morte di Carlo I d'Angio (1285). Nel frattempo il re Carlo diede licenza all'abate Egidio e a Sinibaldo di portare armi[76]. Solo le ripetute preghiere di Eleonora di Castiglia, sorellastra di Enrico, moglie del re d'Inghilterra Edoardo I Plantageneto, dietro insistenza di quest'ultimo, furono sufficienti a convincere Carlo II, figlio di Carlo I, succeduto al trono di Napoli dopo la sua liberazione nel 1289[77] dalle mani degli aragonesi che rivendicavano la corona di Napoli, a liberare Enrico di Castiglia, nel 1290, dopo oltre 23 anni di prigionia.[78][79]
Abbiamo ancora notizia nel 1279 dell'incarico dato dal pontefice Niccolò III (1277-1280) al vescovo di Spoleto di visitare il monastero di San Salvatore Maggiore e di procedere ad una riforma[80].[81]
Nel 24 aprile 1281 Onorio IV confermò i beni del monastero insieme alla sua protezione[82] su di esso ma ciò non bastò a placare la bramosia del Comune di Rieti che nel 1282 tentò di sottomettere il territorio della signoria abbaziale. Nel tentativo di ampliare il proprio districtus, in una tarda azione di conquista del contado, il Comune di Rieti spinse alcuni castelli dell'abbazia a chiedere l’annessione alla città per liberarsi dagli obblighi feudali verso l'abate di San Salvatore Maggiore, cui erano sottoposti, grazie alla cessazione del vincolo di fedeltà garantita dal comune urbano: così il 30 Giugno 1282 i castelli dell'abbazia fecero atto di sottomissione a Gugliemo de Urbe Veteri potestà della civitas reatina[83][84] verso la quale il monastero fu costretto ad assumere l’impegno di partecipare al parliamentum e di contribuire economicamente alla costruzione della nuova cinta muraria.[41][85][86]
La posizione del monastero continuò ad indebolirsi: i rapporti tra i monaci del convento si deteriorarono al punto che in occasione dell'elezione dell'abate Egidio ci furono disordini e allora papa Onorio IV intervenne, l'11 marzo 1286, per ordinare ai monaci di consegnare il convento a Sabatino vescovo di Tivoli[87]. Il vuoto di potere venne colmato solo il 20 dicembre 1290 quando Niccolò IV (1288-1292) chiamò Filippo da S. Andrea del Soratte, ad assumere l'incarico di abate del Salvatore[88] inoltre, tre giorni dopo, il papa nominò l'autorevole cardinale Matteo d'Acquasparta protettore del monastero affinché intervenisse per tutelarne i diritti, a richiesta dell'abate, contro le pretese dei vassalli.[89] È poi del 1304 la disposizione testamentaria del cardinale Francesco Orsini di Napoleone[90], dotto personaggio della curia romana, di lasciare alla biblioteca del monastero di San Salvatore Maggiore di Rieti tutti i suoi libri ad eccezione di quelli giuridici che destina alla basilica di S. Maria Maggiore a Roma[91].
Gli abati, agli inizi del XIV secolo, si avvicendarono rapidamente tra contrasti e colpi di mano[92], finché nel 1306, i de Romania[93] tentarono di imporre come abate un loro rappresentante, Francesco, che era già stato abate di Subiaco[94], ma Clemente V (1305-1314) non accolse la richiesta e nel novembre 1307 nominò al suo posto il monaco Bonus- Iohannes che, incaricato dagli altri monaci, si era recato poco prima a Poitiers, ove si trovava allora il papa[95], a perorare la causa di Francesco.[96] Ancora a Poitier nel gennaio 1308, Bonus-Iohannes ratificò un debito di 400 fiorini d'oro verso la camera apostolica ed il collegio dei cardinali[97] e si impegnò al pagamento, per il 1308, di altri 100 fiorini.
Forse furono proprio le misure attuate dall'abate, una volta tornato a San Salvatore, per il recupero del debito del monastero nei domini dell'abbazia, insieme al malcontento dei de Romania per non essere riusciti ad ottenere la sede abbaziale, a scatenare una rivolta, tra il 10 gennaio, data della ratifica del debito da parte del monaco Bongiovanni, ed il 4 marzo 1308, data in cui il papa prese dei provvedimenti:
«Questo fatto (ndr. l'elezione di Bonus-Iohannes ) scatenò la furiosa reazione dei de Romania. Chiamati in aiuto i reatini e altri appartenenti alla aristocrazia rurale locale, (ndr. i de Romani e altri vassalli dell'abbazia) sferrarono un duro attacco contro il monastero.[98] Dopo aver messo a ferro e fuoco i castelli e le terre della signoria, assediarono l’abate, i monaci, gli stipendiari e i vassalli asserragliati nelle strutture monastiche. Dopo due giorni di pressione – fractis muris – entrarono con la violenza all’interno, incendiando libri, paramenti sacri, privilegi, carte, istrumenti pubblici e saccheggiando frumento e altri beni. Giunta la notizia, il papa Clemente V, il 4 marzo 1308, incaricò il suo notaio Pandolfo Savelli per indurre alla ragione gli assalitori.[99] Il 15 giugno 1310 il pontefice fu costretto a chiedere da Avignone l’intervento del re di Napoli, Roberto d’Angiò, in qualità di senatore dei romani, affinché i castelli, i villaggi, le terre e tutti i diritti usurpati fossero restituiti per il tramite dei suoi ufficiali all’abate di San Salvatore. In una seconda lettera il papa elencò scrupolosamente questi luoghi, ovvero Mirandella, Lutta, Vallecupola, Guaita, Rocca Vittiana, Poggio Vittiano, Longone, Insegne, Vaccareccia, Magnalardo, i villaggi degli Olmi, di San Benedetto e delle Grotti, Porcigliano – oggi Fassinoro – con il villaggio di Licignano, Cenciara, Roccaranieri, Concerviano, Pratoianni e Offeio.[100]»
Nel 1338 il re Roberto d'Angiò (1309-1343) unì Capradosso, già territorio dell'abbazia, a Cittaducale, fondata nel 1308 dal padre Carlo, ma ordinò che fossero versati all'abate le stesse indennità per non danneggiare la Chiesa. L'abate Gentile, tuttavia, non soddisfatto decise una notte, radunati degli armati, di assaltare Grotti e Pendenza e procedere uccidendo, depredando e facendo prigionieri.[101]
Questi continui episodi di guerra e l'espansione delle famiglie baronali e gli scontri che ne conseguivano convinsero i monaci di San Salvatore a porsi, contro le mire della città di Rieti, degli Orsini e dei Savelli[102], sotto la protezione dell'importante famiglia dei conti Mareri di Petrella che, già dalla metà del XIV secolo, tentava di imporre la propria influenza nello Stato della Chiesa puntando ad occupare le cariche religiose più importanti del territorio.
Dal 1382, infatti, è attestata la presenza come abate a San Salvatore Maggiore di Ludovico di Lippo Mareri. Sotto il suo governo l'abbazia continuò a scontrarsi con Rieti e nel corso della soluzione di una lite venne redatto un atto, conservato negli archivi reatini, che fornisce un elenco dei castelli soggetti dell'abbazia nel 1385 che comprendevano: Mirandella, Vallecupola, Poggio Vittiano, Guaita, Rocca Vittiana, Longone, Pratoianni, Baccarecce, Antignano, San Silvestro, Rocca Ranieri, Porcigliano, Cenciara, Offeio, Capradosso, San Martino, Verano. Mancava, rispetto all'elenco nella lettera di Clemente V del 1310, Magnalardo, probabilmente ancora in possesso dei Savelli.[103]
La crisi di San Salvatore Maggiore intanto proseguiva inarrestabile durante il XIV secolo, tanto che nel 1373 il pontefice Gregorio XI incaricò l’abate di San Lorenzo fuori le Mura a Roma di visitare e riformare il monastero, in profonda decadenza morale e spirituale[81] mentre, tra il 1382 e il 1387, continuavano gli scontri tra i paesi dell'abbazia e il castello di Guardiola, ancora soggetto al comune di Rieti[104].
Alla morte di Ludovico Mareri, risalente al 1393, nel pieno del Grande Scisma la carica di abate di San Salvatore Maggiore fu aspramente contesa, tanto che Rieti provò a intromettersi inviando un’ambasceria a Roma per ottenere che fosse nominato Giannadrea Alfani, abate di San Eleuterio a Rieti e canonico reatino, senza molti risultati[41]. Bonifacio IX alla fine del 1396 nominò il nipote, Cecco di Giovannello (da allora noto come Francesco Carbone Tommacelli), come amministratore dei monasteri di Farfa e San Salvatore Maggiore, riuniti nell'istituto della commenda nel 1399[105] e questi la ritenne fino alla sua morte nel 1405.
L’istituzione della commenda nel 1399, sebbene fosse stata una misura allora temporanea, di fatto fu il precedente che giustificherà, di li a poco, la consegna del patrimonio dell’abbazia nelle mani degli abati commendatari e delle loro famiglie accentuando il declino di San Salvatore Maggiore[106] che inizierà una lunga decadenza avviatasi con la secolarizzazione dei monaci, avviliti dalla miseria e visti dai commendatari solo come mezzo a difesa delle proprie rendite fiscali[107].
La lotta per la carica di abate di San Salvatore, successivamente allo Scisma d'Occidente (1378-1418), si restrinse a Battista Orsini, di osservanza pisana, e Antonio Mareri, figlio di Cola IV di Lippo, di osservanza romana che dettero vita a un lungo contenzioso che chiuse il periodo di predominio territoriale delle famiglie locali, aprendo al subentro dei grandi baroni romani nel governo abbaziale.[41]
«Si successero, con mire e ambizioni sempre identiche, nipoti e favoriti di papi e cardinali, gli Orsini, i Della Rovere, i Farnesi e i Barberini, nelle cui mani la badia coi cenobiti non ebbe nulla a guadagnare.»
Dopo un’iniziale prevalenza di Antonio Mareri, ricordato nelle sue attività di governo tra 1427 e 1429, subentrò Battista Orsini almeno dal 1434[108]. L'abate Battista Orsini, morto in abbazia[109] intorno al 1447, fu l'ultimo abate eletto dai monaci del Salvatore.[110]
Alla morte di Battista Orsini, Niccolò V istituì, come già fatto da Bonifacio IX, la commenda per l'abbazia di San Salvatore togliendo, di fatto, ai monaci, dopo sette secoli, il privilegio di poter eleggere in autonomia la propria guida avocando, invece, al pontefice la scelta sull'assegnazione della carica di "abate commendatario di San Salvatore Maggiore".
Il primo ad assumere la carica di abate commendatario di San Salvatore, dopo Francesco Carbone Tommacelli, fu Giovanni Berardi da Tagliacozzo, cardinale vescovo di Palestrina, legato agli Orsini, probabilmente nominato tra la fine del 1447 e gli inizi del 1448. Al momento della sua morte, risalente al 21 gennaio 1449, lo stesso giorno, al suo posto, fu nominato da Niccolò V, Latino Orsini, del ramo del Orsini di Bracciano, con la carica che comportava un reddito di 200 fiorini d’oro di camera.[111] Consigliere di Sisto IV della Rovere[112], divenuto camerlengo nel 1471, nel 1477 Latino affidò la commenda a suo nipote, Giovanni Battista Orsini, del ramo degli Orsini di Monterotondo[113].
Durante tutto il XV secolo la penisola fu attraversata da eserciti di mercenari al soldo dei signori italiani e dei sovrani dei paesi europei.
Anche il territorio dell'abbazia fu interessato da questi eventi durante il governo degli abati Orsini. Nel 1460 quando sì combatté la guerra angioino-aragonese (1460-1464) ai confini dello stato pontificio tra il duca Giovanni d'Angiò ed il Re Ferdinando, alleato di papa Pio II e di Francesco Sforza duca di Milano: al soldo degli Angiò gli eserciti del capitano Jacopo Piccinino, di passaggio da Cittaducale a Monteleone Sabino, nel settembre 1460[114] attraversarono i territori dell'abbazia incendiando e depredando[115]. Solo il 27 luglio 1461 con l'arrivo a Petrella Salto di Federico da Montefeltro, capitano generale dell'alleanza aragonese, i Mareri, passati nel capo degli angioini, rinunciarono alla guerra e la situazione tornò alla normalità nei domini dell'abbazia, come si premurò di comunicare Federico da Montefeltro allo Sforza in una lettera[116].
Trent'anni più tardi alla calata in Italia di Carlo VIII di Valois, re di Francia, che reclamava la corona del regno di Napoli, incoraggiato da Ludovico Sforza, trascinato alla guerra da Alfonso II, suo cognato e re di Napoli, i territori dell'abbazia vennero di nuovo coinvolti nella guerra: si ricorda nelle fonti il passaggio e la sosta all'abbazia di San Salvatore di 200 soldati di Carlo VIII dopo aver cercato di saccheggiare il 24 gennaio 1495 Grotti di Cittaducale[117].
Tutti i paesi dell'abbazia furono coinvolti in questi episodi bellici tanto che in questo periodo vennero definitivamente abbandonate le ville ovvero i centri isolati non fortificati che all'inizio del XV secolo ancora sorgevano nei pressi dei castelli dell'abbazia e facevano parte del loro territorio.[118]
Papa Borgia, Alessandro VI (1492-1503)[119], nel 1494[120], unì la commenda di San Salvatore Maggiore a quella di Farfa di cui era già investito, dal 1482, lo stesso Giovanni Battista Orsini che la ritenne fino al 1503 anno della sua morte in Castel Sant'Angelo per mano del principe Cesare Borgia dopo il coinvolgimento del cardinale nella congiura della Magione.
Dal 1494, di fatto, il governo delle due abbazie di Farfa e San Salvatore, seguì, fino al XVII secolo, lo stesso destino.
La morte del papa Borgia, Alessandro VI nel 1503 e l'elezione al soglio di un nuovo papa della famiglia della Rovere, Giulio II, portarono quest'ultimo a favorire per la carica di abate commendatario di Farfa e San Salvatore Maggiore un suo nipote, Galeotto Franciotti della Rovere che ritenne la commenda dal 1505 per poi consegnarla nelle mani del suo alquanto inetto fratellastro Sisto Gara della Rovere il quale rimase in carica fino al 1513.
Durante il governo di Sisto Gara della Rovere venne restaurato il monastero di Farfa così come vennero intraprese opere in quello di San Salvatore Maggiore.
È al tempo di Giulio II, sotto la commenda di Sisto Gara della Rovere, nel 1506, che venne realizzato il portale della cattedrale di San Salvatore raffigurante le formelle con i 24 castelli dell'abbazia (16 abitati e 6 diruti).
Alla morte di Sisto Gala dalla Rovere nel 1513, Giulio II affidò la commenda di Farfa e San Salvatore Maggiore a Gian Giordano Orsini condottiero sposo in seconde nozze di Felice della Rovere, figlia naturale del papa Giulio II. Il governo di Gian Giordano, seppur breve, fu segnato da diversi abusi[121].
Nel 1517 fu quindi papa de' Medici Leone X a conferire la commenda a Napoleone Orsini, figlio di Gian Giordano Orsini, in prime nozze, con Maria Cecilia d'Aragona, figlia naturale di Ferdinando I d'Aragona, Re di Napoli (1458-1494): matrimonio avvenuto grazie ai servigi del condottiero Gentile Virginio Orsini, signore di Bracciano e padre di Gian Giordano che, avendo combattuto al soldo del Re di Napoli, aveva ottenuto il privilegio di avere in sposa per il figlio una figlia del re e di far fregiare i loro eredi del titolo "d'Aragona" da aggiungere al proprio nome. I contrasti di Napoleone con i propri famigliari, specie con la matrigna, Felice della Rovere che voleva per il figlio Francesco la rendita mensile di 1000 ducati d'oro[122] della commenda di Farfa, lo portarono alla morte nel 1533. Nel frattempo la commenda passò, nel 1530, proprio a Francesco Orsini d'Aragona (1530-1543), Vescovo di Tricarico fratello di Napoleone Orsini d'Aragona, figlio di Gian Giordano Orsini e Felice Della Rovere il quale, come commenta lo Sperandio, "fece un'ottima riuscita nel governo dell'abbazia"[121].
Alla morte di Clemente VII de' Medici che aveva favorito gli Orsini nella commenda, salì al trono nel 1536 Paolo III Farnese che, nel solco della tradizione tracciata da quanti l'avevano preceduto, investì della commenda, nel 1546, il proprio nipote, Ranuccio Farnese.
Il giovane cardinale si diede da fare per il monastero: per rendere più confortevole il proprio soggiorno (e quello dei suoi successori) all’interno del complesso monastico del Salvatore, vi fece eseguire dei lavori di ampliamento e di ristrutturazione, quindi, nelle vesti d’abate commendatario, donò[123] la cosiddetta Croce Astile di Vallecupola, una croce processionale in lamina d’argento e listata in rame dorato opera della bottega di Jacopo del Duca (1520-1604) assistente di Michelangelo a Roma, alla chiesa arcipreturale di Santa Maria della Neve di Vallecupola e questo, in concomitanza della riconsacrazione, dopo gli ampliamenti apportati alla chiesa, intorno al 1554, resisi necessari, essendo l’edificio divenuto angusto per una popolazione in crescita.[124]
Dopo essere stato insignito della cattedra episcopale di Bologna, nel 1563, il cardinale Ranuccio lasciò la commenda di Farfa e di San Salvatore Maggiore al fratello maggiore Alessandro Farnese, uomo di cultura e grande mecenate, iniziatore della collezione Farnese[125].
Dopo la sua nomina il cardinale Alessandro, promosse il restauro della chiesa dell'abbazia di Farfa nel 1577 e, nel 1581, promosse a Farfa il primo sinodo delle abbazie di Farfa e San Salvatore Maggiore. Sette anni dopo, nel 1589, colpito da un ictus il cardinal Farnese passò a miglior vita.
La salita al soglio di Sisto V da Grottammare vide elevato alla commenda, come da consuetudine, suo nipote Alessandro Peretti di Montalto (1589-1623) che, a differenza di molti dei suoi predecessori alla commenda, si mosse per il corpo monastico di San Salvatore Maggiore. La commenda, istituita definitivamente nel 1494, aveva avuto l'effetto di far decadere la disciplina monastica dei monaci del Letenano venendo a togliere loro di mano ogni ingerenza e responsabilità nel governo delle terre abbaziali:
«[...] i monaci vennero a rattrappirsi d'ozio e di noia entro quel vecchio edificio screpolato e cadente, senza alcun ideale elevato, senza alcuna prospettiva dinanzi a loro.»
Il 20 giugno 1604, durante il governo del cardinale Peretti, il vicario e visitatore generale della badia, Bernardino Manasse da Priferno, presiedette il Sinodo che si svolse a Farfa e ne pubblicò gli atti.[126]
Nel 1609 lo stesso cardinal Peretti, ammirando quanto fatto a Farfa dalla Congregazione Cassinese, tentò d'indurre anche i monaci di San Salvatore Maggiore ad accettare un piano di riforma. Paolo V Borghese, con un breve del 18 novembre 1614, incorporava così alla Congregazione Cassinese, oltre alla abbazia di San Salvator Maggiore, i priorati da essa dipendenti nelle Marche e a Roma.
Nel 1623, Francesco Orsini, succeduto al cardinale di Montalto, fece revocare da Gregorio XV, l'atto pontificio, con cui Paolo V aveva introdotto a San Salvatore Maggiore i cassinesi, considerando l'atto lesivo dei suoi interessi poiché, in teoria, il Montalto aveva affidata la commenda all'Orsini, già dal 1620, sotto il pontificato di Paolo V Borghese. La revoca suscitò così una lite tra i commendatari di San Salvatore e la Congregazione Cassinese che durò per oltre una trentina d'anni.[127]
Dopo cinque anni di governo, però, nel 1627, il commendatario Francesco Orsini entrò nella Compagnia di Gesù lasciando la commenda.
Venne così la volta, al governo della commenda, della facoltosa famiglia, di origine toscana, dei Barberini.
Papa Barberini, Urbano VIII, eletto al soglio nel 1623, come di consuetudine, scelse come commendatario per le due abbazie, suo nipote, il cardinale Francesco Barberini, che resse la commenda per oltre trent'anni, dal 1627 al 1660[128].
«[...] San Salvatore, che aveva retto all'impeto dei barbari, ora non poté reggere all'urto dei Barberini che avidamente agognavano alle sue spoglie.»
Sotto il governo di Francesco Barberini suonò l'ultima ora per i monaci di San Salvatore i quali, dopo la cacciata dei cassinesi, erano stati affidati alle cure di vari priori rimasti in carica tre anni ognuno non riuscendo però a riformare la disciplina dei monaci del monastero che, nelle parole dello Schuster: « [...] usavano financo vesti poco diverse da quelle dei secolari. Il popolo li chiamava «berrettanti» dal largo berretto clericale che li distingueva, ma Urbano VIII ne aveva un concetto così triste, che li giudicava inadatti a qualsiasi riforma».
«Il commendatario ne voleva ad ogni costo le pingui rendite, e innanzi alle cupide brame del cardinal nepote convenne cedere, cosi che Urbano VIII con un tratto di penna soppresse l' abbazia con bolla del 1629. [...] Alla lite già lunghi anni pendente colla Congregazione Cassinese viene imposto il silenzio cosi che arbitrati, sentenze di Tribunali, decisioni rotali o pontificie, nulla insomma possa essere invocato contro l'onnipotente cardinal nepote, il quale dové ereditare senza disturbo d'alcun competitore tutta la potenza, i diritti e le ragioni dell'abbazia.»
Fu così che, in forza della bolla Singulari diligentia, del 12 settembre 1629, Urbano VIII, su richiesta di suo nipote Francesco Barberini, soppresse, unendola all'abbazia di Farfa, l'antica abbazia di San Salvatore Maggiore: dopo quasi nove secoli i monaci furono costretti ad abbandonare l'edificio sul monte Letenano e così 34 monaci benedettini, per la maggior parte originari dei territori dell'abbazia, testimoni e custodi delle tradizioni religiose e civili del territorio[120] vennero cacciati dal monastero, ridotti a clero secolare e forniti di una pensione annua di 10 scudi mentre i priorati dipendenti nelle diocesi di Fermo e di Montalto dovevano essere convertiti in altrettante collegiate canonicali, riservando alla diretta giurisdizione del commendatario le monache di Santa Vittoria, che prima dipendevano dal priore di San Salvatore Maggiore.[129]
La cupidigia dei Barberini verso i beni della Chiesa non si fermò alla commenda di Farfa e San Salvatore Maggiore. Anche il resto della Sabina divenne fonte di rendita per la famiglia romana: alla doppia commenda per il nipote Francesco Barberini Seniore, papa Urbano ottavo aggiunse anche il governatorato pontificio di Poggio Mirteto e delle altre torri e castelli, già separati dai monasteri di Farfa e di San Salvatore e fino a quel tempo soggetti alla Congregazione del Buon Governo e della Consulta.[130][131]
Fu durante il governo dei Barberini che anche la lana degli ovini del territorio di San Salvatore Maggiore servì all'arazzeria dei Barberini istituita in Palazzo Barberini a Roma dal cardinale Francesco Barberini nel 1627 e attiva fino al 1683: gli arazzi ivi prodotti, realizzati su cartoni dei grandi artisti del barocco romano, quali Pietro da Cortona, Pietro Lucatelli, Antonio Gherardi, sono, oggi, tra quelli esposti nei Musei Vaticani nella galleria degli arazzi[132] e, negli Stati Uniti, al Museum of Fine Arts[133] di Boston e nella Cathedral of St. John the Divine[134] a New York[135].
La soppressione dell'abbazia nel 1629 per opera del pontefice Urbano VIII avveniva assecondando il desiderio dell’allora abate commendatario Francesco Barberini, che voleva farne la sede di un seminario: il cardinale Francesco Barberini, fu incaricato di utilizzare gli stabili e i beni del monastero per l’istituzione di un seminario e fu affiancato da un vicario foraneo che provvedesse all’amministrazione dei castelli dell'abbazia.
Di fatto il cardinale Barberini, istituì a Toffia un seminario, mettendo a frutto i beni stabili lasciati in eredità da don Marzio Ruffetti ed unì a esso le rendite di San Salvatore. Un breve d'Urbano VIII del 6 luglio 1637 approvò questo stato di cose.[136]
Su richiesta diretta del cardinale Barberini al fondatore dell'ordine Giuseppe Calasanzio, nel 1628, alcuni scolopi si insediarono a San Salvatore Maggiore ma diversi motivi[137] consigliarono loro di abbandonare l'opera nel 1635[138].
Nel 1660 il cardinale Francesco Barberini Seniore cedette la commenda in favore del nipote, il cardinale Carlo Barberini (1654-1703) il quale proclamò un sinodo a Farfa nel 1685 durante cui venne nuovamente confermato dal cardinale e da tutta l'assemblea lo stato di cose ordinato precedentemente dall'influente zio cardinale Francesco Barberini.
Il governo dei Barberini nella commenda terminò con Francesco Barberini Iuniore che prese possesso della commenda alla morte di Carlo nel 1703, per tenerla, per oltre trent'anni, fino alla propria morte, avvenuta nel 1738.
Alla morte di Benedetto XIII Orsini (1724-1730), con la salita al soglio del fiorentino papa Corsini, Clemente XII, nel 1730, assunse il titolo della commenda, il 26 Settembre 1738, per soli 15 giorni, suo nipote, il cardinale Giovanni Antonio Guadagni il quale la rimise in favore del cardinale, appena eletto, Domenico Passionei, nelle parole dello Sperandio «porporato insigne per dottrina e altre virtù, segretario dei brevi»[139] legatissimo allo storico, abate Pier Luigi Galletti[140]. Il cardinale Passione ritenne la commenda per otto anni fino al 1746.
Il bolognese papa Lambertini, Benedetto XIV (1740-1758), passò la commenda a Marcello Federico Lante (1746-1763), della famiglia pisana dei Lante Montefeltro della Rovere, figlio di Antonio Lante Montefeltro della Rovere, marchese di Rocca Sinibalda[141] e barone di Antuni[142].
Nel 1746 il cardinale Federico Marcello Lante decise di trasferire nel vecchio monastero di San Salvatore Maggiore, dopo opportuni interventi di restauro, il seminario che nel 1629 il cardinale Francesco Barberini aveva istituito a Toffia con parte delle rendite della appena soppressa Abbazia di San Salvatore Maggiore.[143] Trovava così compimento l'intenzione di istituire un seminario[144] a San Salvatore Maggiore che era stata l'idea, prima causa della dismissione dell'abbazia, più di un secolo prima.
Nel 1769 al cardinale Federico Lante della Rovere successe il pronipote Antonio Lante Montefeltro della Rovere (1763-1817) che nel maggio del 1789, sotto Pio VI, promosse l'ultimo sinodo diocesano tenutosi nell'abbazia di Farfa per i territori sottoposti alla sua autorità[145].
Alla fine del Settecento, durante il governo del cardinale Antonio Lante Montefeltro della Rovere, furono gli eserciti della rivoluzione francese a portare scompiglio nella penisola italiana tanto che gli effetti della rivoluzione ebbero eco fin nei territori dell'abbazia. Nel 1796, in coincidenza della Campagna d'Italia del generale Bonaparte, fu indetta, nei territori dello Stato Pontificio, la leva generale: ogni paese dell'abbazia doveva fornire un soldato ogni 100 abitanti[146]. Alcuni degli abitanti dei borghi del territorio dell'abbazia, fedeli al regime papale, provvidero anche a fornire dei beni propri per l'acquisto di armamenti per la campagna dell'esercito pontificio del 1796[147].
Nel dicembre del 1798 l’esercito francese, proveniente da Terni, conquisto Rieti occupandola con due colonne armate e insediandovi il governo repubblicano mentre le truppe lasciarono ben presto la città puntando verso il Regno di Napoli. Durante la breve esperienza della Repubblica Romana, che vide la cattura e morte in esilio di papa Pio VI, il territorio dell'abbazia fu assegnato al Dipartimento del Clitunno - Cantone di Castelvecchio[148]. In quel periodo si ricorda del passaggio di una colonna di soldati francesi da Rieti a San Salvatore Maggiore per raggiungere il Cicolano ove erano continue insurrezioni realiste[149] ma una volta raggiunto Borgo San Pietro le truppe francesi vennero battute dagli armati cittadini che le costrinsero a ripiegare a Poggio Vittiano in attesa di rinforzi[150][151]. Dopo l'occupazione di Roma da parte dell'esercito borbonico il 30 settembre 1799, le terre delle Stato Pontificio tornarono sotto il controllo di Papa Pio VII eletto nel conclave del 1800 tenutosi a Venezia e rientrato a Roma nel giugno dello stesso anno.
Dopo la nuova entrata dei francesi a Roma nel febbraio del 1809 e l'annessione di Lazio e Umbria all'Impero francese nel 15 luglio del 1809[152], sotto il governo napoleonico, le terre dell'abbazia già nello Stato Pontificio, come il resto dell'Alta Sabina, furono incluse nel Dipartimento del Tevere che il 17 febbraio 1810 mutò il nome in Dipartimento di Roma, nell'Arrondissment (o Circondario) di Rieti, nel Cantone di Monteleone[153].[154] Dopo l'annessione all'Impero francese, anche gli abitanti dei territori abaziali abili alle armi, vennero coscritti nella Grande Armée partecipando alle campagne napoleoniche[155].
Nel 1812 i paesi dell'abbazia già nello Stato Pontificio, per quanto riguarda l'amministrazione della giustizia, sottostavano alla Prefettura di Rieti - Percezione di Longone[156].
Al termine del periodo napoleonico, già nel 1814 le terre abbaziali tornarono sotto il governo della Camera Apostolica e fino alla sua morte, nel 1817, il cardinale Antonio Lante rimase titolare della commenda che gli era stata affidata, 54 anni prima, nel 1763. Tuttavia già nel 1816 il governo dei domini papali era stato oggetto di una profonda riorganizzazione e i territori dell'abbazia confluirono nell'allora creata Delegazione Apostolica di Rieti tanto che, nel 1817, i paesi dell'abbazia già nello Stato Pontificio (Porcigliano, Cenciara, San Silvestro, Magnalardo, Roccaranieri, Concerviano, Pratoianni, Vaccareccia, Longone, Vallecupola, Rocca Vittiana, Poggio Vittiano e Varco) divennero "appodiati", ovvero frazioni, dei comuni di Belmonte e Rocca Sinibalda.
Nell'Ottocento si avvicendarono alla commenda, col titolo di "abate commendatario di Farfa e di San Salvatore Maggiore" altri alti prelati della curia romana quali Luigi Ercolani (1818-1825)[157], creato cardinale nel 1816 da Pio VII, "uomo religiosissimo e degli indigenti grandi sovvenitor" che si adoperò molto nel restaurare le chiese della commenda, migliorando i fondi alle parrocchie e facendo rifiorire il seminario di San Salvatore Maggiore con incoraggiamenti ai maestri e sovvenzionando, con generosità, il mantenimento di 11 giovanetti[158], il cardinale Belisario Cristaldi (1826-1831), già rettore de' La Sapienza (1817-1828), il cardinale Giacomo Giustiniani (1832-1833) ed infine il cardinale Luigi Lambruschini (1834-1841), cardinal segretario di Stato dal 1836 al 1846. Quest'ultimo, pochi mesi dopo essere stato eletto alla carica, volle visitare il seminario per pubblicare poi un volume con le regole da seguire nel seminario[159].
«Due sono le cose, figliuoli dilettissimi, all'acquisto delle quali deggiono con ogni studio aspirare coloro che sono chiamati allo stato ecclesiastico, la santità, e la dottrina. La prima noi conseguiamo, esercitandoci nelle opere buone, e schivando le malvage: la seconda ci viene dall' applicazione allo studio delle lettere e delle scienze. Ma poichè voi non sareste bastantemente atti a conseguire l'una e l'altra da voi soli, ossia senza l'ajuto ed una guida sicura, che quasi per mano vi ci conduca; perciò vi si assegnano le presenti Regole, colle quali Noi intendiamo d' insegnarvi il modo di ben diriggere la vostra vita sino dai più teneri anni vostri, e di profittare negli studii: come altresì ai Superiori ed ai Maestri, che sono incaricati di governarvi ed istruirvi, si porge la norma che seguire dovranno per ben esercitare l'importante ed arduo ministero lor confidato.»
Fu il cardinale Lambruschini nel 1841, considerando eccessivo l'isolamento in cui si trovava il seminario di San Salvatore a rispetto del 1738, data in cui vi era stato spostato da Toffia, a motivazione anche del degrado del complesso, a decidere di spostare nuovamente il seminario prima a Poggio Mirteto[160].
Con la bolla Studium quo impense afficimur di Gregorio XVI del 24 novembre 1841[161] vennero, poi, smembrati i territori delle due abbazie di Farfa e di San Salvatore Maggiore: alcune delle terre vennero restituite alla diocesi di Rieti, a cui appartenevano prima dell'attribuzione all'abbazia nullius diocesis, cioè non sottoposta ad alcuna diocesi, di San Salvatore Maggiore, altre vennero attribuite all'appena costituita diocesi di Poggio Mirteto[162]. Il titolo di "Abate di San Salvatore Maggiore" passava, da allora, al titolare della Cattedra di Poggio Mirteto[163] che oltre al complesso abbaziale rimase titolare di ciò che rimaneva delle antiche rendite abbaziali in favore del seminario diocesano trasferito a Poggio Moiano.
Già dal 1839, prima dello spostamento del seminario a Toffia nel 1841, e della bolla che smembrava i possedimenti di San Salvatore Maggiore, l’abbazia fu affidata dal cardinale Lambruschini ai Padri Passionisti di San Paolo della Croce in forza di una convenzione del 5 novembre 1836 che prevedeva la cessione alla loro congregazione della chiesa del Salvatore, dell'abbazia, dell’orto, del molino e di alcuni terreni adiacenti all'abbazia. I passionisti operarono, come i monaci dell'abbazia prima di loro, nei castelli limitrofi e addirittura a Rieti ove il vescovo Filippo Curoli li chiamava a dare esercizi spirituali ai religiosi e agli alunni del seminario di Rieti alcuni dei quali venivano, già da allora, inviati in ritiro presso il monastero del Salvatore in preparazione dell'assunzione degli ordini sacri.
Tra il 1849 ed il 1850 anche Rieti ed il suo circondario vissero il passaggio della legione di Garibaldi e le vicende della Seconda Repubblica Romana finché, il 22 novembre 1850, Pio IX, rientrando dall'esilio di Gaeta e Napoli, promulgò un editto sul governo delle province e sull'amministrazione provinciale, modificando ancora l'assetto territoriale dello Stato della Chiesa. Nel 1853, con la creazione dei comuni di Longone, Concerviano oltre a quello già esistente di Rocca Sinibalda, i paesi dell'abbazia già nello Stato Pontificio divennero quindi appodiati di questi ultimi[164] in una suddivisione che rimarrà, più o meno invariata, dopo l'Unità d'Italia, con l'annessione delle legazioni di Marche ed Umbria, di cui il territorio dell'abbazia faceva parte, al Regno d'Italia, nel dicembre del 1860.
Nel frattempo anche i Passionisti per la l'isolamento del luogo, per l'asprezza delle strade e degli inverni e, non ultimo, a causa dell'oneroso mantenimento del vasto fabbricato decisero di abbandonare San Salvatore restituendo ogni cosa, il 20 luglio 1854, al vescovo di Poggio Mirteto.
Nel 1855, il fabbricato dell'abbazia, già in rovina, fu così ceduto di nuovo al vescovo di Poggio Mirteto, Nicola Grispigni (1842-1867), che, dalla Congregazione dei Vescovi, ottenne di cedere San Salvatore Maggiore al seminario di Poggio Mirteto, costituito nel 1841 dopo il trasferimento dal monte Letenano, affinché fosse usato per la villeggiatura autunnale dei suoi alunni. Nel 1880, affinché l'abbazia non venisse compresa entro gli ultimi decreti d'indemaniamento dell'asse ecclesiastico, l’uso del fabbricato venne concesso da papa Leone XIII anche al vescovo di Rieti per la villeggiatura estiva degli alunni del seminario di Rieti e così il vescovo di Rieti, il domenicano Egidio Mauri, concordò con Angelo Rossi, vescovo di Poggio Mirteto, la concessione in enfiteusi perpetua, di un’ala del complesso abbaziale che fu utilizzato, dopo opportuni lavori di ristrutturazione, come casa di villeggiatura per i seminaristi delle due diocesi contermini.[165] Il 17 agosto 1881 i primi seminaristi da Rieti raggiungevano il monastero del Salvatore.
Nel 1910 il complesso dell'abbazia fu visitato dall'allora priore dell'abbazia di San Paolo fuori le mura a Roma Ildefonso Schuster che, pubblicandone la storia in un articolo nel 1914, descrisse, con amarezza[166], lo stato di abbandono dell'abbazia e dei suoi castelli.
Il 13 gennaio 1915 anche il complesso dell'abbazia di San Salvatore subì gravi lesioni, come molti edifici nei castelli del territorio abbaziale, a causa del terremoto della Marsica.
Nel 1925, la costituzione apostolica di papa Pio XI In altis Sabinae montibus[167] riunì alla diocesi di Rieti le parrocchie di Roccaranieri, di San Silvestro e di Cenciara, e quelle di Pratoianni, Vaccareccia, Longone, Vallecupola, Rocca Vittiana, Poggio Vittiano e Varco che erano state annesse, in precedenza, nel 1841, alla appena creata diocesi di Poggio Mirteto di cui costituivano un'exclave nel territorio della diocesi di Rieti. Lo stesso documento decise la nomina del vescovo di Rieti, in luogo del vescovo di Poggio Mirteto, come stabilito nel 1841, ad "Abate perpetuo di San Salvatore Maggiore" con tutti i beni e diritti pertinenti all’abbazia, eccettuati però i canoni e i censi che continuarono ad essere attribuiti al seminario di Poggio Mirteto.
Dopo il terremoto di Avezzano del 1915, per interessamento del parroco di Longone Sabino Don Sisto Fiori che, a lungo, con estrema passione, si prodigò per il recupero dell'abbazia, tramite l'intercessione del Vescovo di Rieti Massimo Rinaldi, con il patrocinio del cardinale Gaetano De Lai,[168] negli anni tra 1926 e il 1932, l’abbazia venne restaurata, con lavori mal condotti e tecnicamente scorretti, ad opera del Genio Civile.
Nel 1950 l'abbazia divenne residenza estiva dei Salesiani, cui si devono preziosi interventi di manutenzione. Nel 1960 il complesso abbaziale venne definitivamente abbandonato rimanendo privo di una funzione stabile pur restando un riferimento per gli abitanti del territorio circostante che continuarono a celebrare matrimoni nella chiesa di San Salvatore Maggiore fin oltre il 1960[169].
Lasciata in balia dei predoni, l'abbazia venne spogliata di molti dei beni architettonici in essa contenuti: di numerosi fregi, iscrizioni, dipinti e lapidi marmoree, una volta all'interno dell'abbazia, non rimane che qualche rara foto scattata da chi, come lo storico dell'arte tedesco Otto Lehmann-Brockhaus nel 1965, visitò l'abbazia nella seconda metà del Novecento[170].
Il 27 febbraio 1979 il vescovo di Poggio Mirteto, Marco Caliaro, e il vescovo di Rieti, Dino Trabalzini, provvidero alla vendita, per 3.400.000 lire, dei ruderi dell’abbazia e di alcuni terreni nelle pertinenze del complesso, per un totale di 7800 m²[171], ad un privato, il ventenne romano Guglielmo Crudelini, all'epoca della compravendita studente universitario[172]. Pochi anni dopo, il 13 maggio 1986, a seguito della prematura scomparsa del Crudelini, la famiglia del giovane cedette i ruderi ed i terreni acquisiti al Comune di Concerviano, allora sotto la guida del sindaco Damiano Buzzi, che li acquistò con lo svincolo di fondi assegnati da finanziamento regionale alla Comunità montana del Salto-Cicolano[173], di cui il comune di Concerviano faceva parte, pagando 50.000.000 di lire[174].
Nel 1985 Mons. Giovanni Fallani, allora presidente della Pontificia Commissione Centrale per l'Arte Sacra in Italia, il quale aveva conosciuto in età giovanile l'abbazia come seminario estivo, segnalò lo stato di profondo degrado in cui versava l'abbazia con la richiesta dell'interessamento da parte della Facoltà di Architettura dell'Università La Sapienza di Roma.
Il prof. Giovanni Carbonara propose a Donatella Fiorani, allora studentessa, come lavoro di tesi di laurea[175] in consolidamento degli edifici storici e in restauro dei monumenti, l'indagine ed il rilievo dell'abbazia prima della sua definitiva scomparsa. I risultati della tesi, discussi tre il 12 e 14 ottobre 1987 nel convegno "Riuso dei beni religiosi: memoria, continuità, trasformazione"[176][177] tenutosi a Roma nella Sala dei Cento Giorni presso Palazzo della Cancelleria, su iniziativa della Pontificia Commissione, furono conosciuti ed apprezzati dall'allora sindaco di Concerviano, Damiano Buzzi che si adoperò per trovare, presso la Regione Lazio, i finanziamenti che permettessero l'avvio di un primo cantiere onde poi procedere per lotti e finanziamenti successivi.
Alla giovane architetto Donatella Fiorani furono affiancati l'architetto Giancarlo Palmerio, professore alla Sapienza, e l'architetto Amedeo Riccini, come amministratore, espressione della comunità locale oltre all'archeologo Stefano Coccia, responsabile dell'indagine archeologica stratigrafica. Seguirono anni di cantieri con interventi di consolidamento, innovativi ed anticipatori[178], interventi di reintegrazione muraria con materiali tradizionali e moderni, opere di miglioramento antisismico. Il complesso è stato, necessariamente, ampliamente reintegrato, molto per aggiunta e pochissimo per sottrazione, ponendo in evidenza la complessa stratificazione storica.[179] I restauri, finanziati a partire dal 1989, interessarono prima la chiesa abbaziale (1990-1992) quindi il resto del complesso monastico in due fasi distinte (la prima fase tra il 1993-2006, poi, dopo qualche anno di intervallo, fino al 2014 quando venne ultimato il restauro ed il consolidamento della torre campanaria).[180]
Il restauro è stato occasione di studio ed ha permesso, anche grazie alle indagini stratigrafiche, di ampliare le conoscenze sull'origine dell'abbazia.
Attualmente di proprietà del comune di Concerviano, il complesso, finalmente restaurato, viene, saltuariamente, reso visitabile e fruibile dal comune di Concerviano, per lo svolgersi di visite, mostre, convegni e spettacoli musicali e teatrali[181].
Fin dalla sua fondazione nell'VIII secolo, l'abbazia di San Salvatore Maggiore, favorita dai gastaldi di Rieti e dai duchi di Spoleto raccolse le donazioni di quanti, nobili di origine romana o longobarda, le affidavano i propri beni accrescendo così i propri possedimenti. Nei secoli successivi le proprietà dell'abbazia vennero più volte riconosciute dall'autorità imperiale e pontificia.
Il patrimonio del monastero si concentrava, per lo più, nei dintorni dell'abbazia, sull'altopiano del monte Letenano, nel territorio detto delle Plage, situato tra la Valle del fiume Salto e quella del fiume Turano dal fosso di Paganico (fosso dell'Obìto) fino al Borgo di Rieti; questa era la parte più rilevante del patrimonio abbaziale che, per secoli, costituì una solida unità amministrativa definita in seguito, dapprima la "Baronia di San Salvatore Maggiore" dal Desanctis nel suo scritto del 1884 quindi, nel 2022, con un altro neologismo storico usato dal Leggio in un suo scritto, la "Signoria di San Salvatore Maggiore".
A partire dal XII secolo, compaiono più volte nei documenti degli elenchi degli abitati soggetti all'abbazia di San Salvatore Maggiore. Questi elenchi, nei secoli, videro scomparire alcuni dei nomi che si riferivano a realtà ormai non più esistenti o a castelli diruti mentre altri nomi comparvero in alcuni degli elenchi per poi scomparire nei decenni seguenti a seguito di acquisizioni e cessioni di proprietà da parte dell'abbazia.
La maggior parte di questi abitati, però, situati nei pressi dell'abbazia, costituiva il nucleo dell'unità territoriale dell'abbazia e, per secoli, questi paesi rimasero associati all'abbazia di San Salvatore Maggiore anche dopo la soppressione dell'abbazia stessa nel XVII secolo.
Ancora nel XVII secolo erano ricordati nel Catalogus Oppidorum, Castellorum et Villarum sub iurisdictione Abbatiali[182], elencati in ordine alfabetico, come i sedici castelli "in Corpore Abbatiae Sancti Salvatoris Maioris" i paesi di:
L'amministrazione del territorio abbaziale fu dalla fondazione, nel 735, per sette secoli, fino al 1434, quando morì l'abate Battista Orsini, ultimo tra gli abati eletto dal capitolo abbaziale, in capo all'abbazia stessa ovvero all'abate eletto dai monaci e al capitolo abbaziale.
Questo stato di cose cambiò a partire dal XV secolo con la creazione della commenda quando l'elezione dell'abate venne di fatto avocata al pontefice.
Il governo dei castelli dell'abbazia era regolato da antichi usi e consuetudini stabiliti negli statuti abbaziali redatti dall'abate e da rappresentanti dei castelli. La vita degli abitanti della signoria, detti negli statuti homines de abbatia, seguiva questi principi che per secoli scandirono il vivere civile e religioso dei luoghi soggetti all'abbazia. Tramite gli statuti l'abbazia regolò la giustizia, influenzò la morale plasmando la storia e l'economia dei suoi castelli.
Subentrata all'abate la figura del commendatario, a partire dal XVI secolo, alle consuetudini degli statuti si sostituirono le massime raccolte nei sinodi dai commendatari che puntualmente ne ordinarono, nei secoli a seguire, lo svolgimento. Erano regole di morale che indirizzavano la vita religiosa delle comunità costituenti i possedimenti abbaziali e si affiancavano alla legge amministrata a livello locale ma ormai propagazione del governo centrale della Camera Apostolica.
Al di fuori del territorio della Signoria l'abbazia era titolare di molte proprietà, alcune nelle prossimità, nei territori della bassa Sabina e del Cicolano, altre decisamente più lontane[64], fin nel Piceno e nella Marsica, oltre che a Roma.
Dipendevano ancora dall'abbazia nel XVII secolo, al tempo del commendatario Carlo Barberini, il Convento di San Francesco a Longone e i paesi di Fiumata, Ospanesco, Casalivieri e Nespolo[183] (questi ultimi furono uniti alla diocesi reatina da Benedetto XIV con bolla del 15 maggio 1747). Sono nell'elenco delle chiese dipendenti da San Salvatore Maggiore del 1398 anche S.Maria de Staffili a Staffoli e S.Pauli de Rocca Berardi a Rocca Berardi. La parrocchia di Capradosso fu unita alla diocesi di Rieti solo nel 1836[184].[185]
A Rieti il monastero del Salvatore possedeva l'intero Borgo di Rieti (solo nel 1827 papa Leone XII lo riunì alla diocesi reatina) fino al fiume Velino, limite settentrionale della Signoria, ove era anticamente il monastero di San Michele e poi la chiesa di Santa Cecilia. In città, al di là del fiume San Salvatore era titolare della Chiesa di Santa Maria in Vallibus ove è oggi il monastero di Santa Lucia[186]. È nell'elenco delle chiese dipendenti da San Salvatore Maggiore del 1398 anche S.Pastoris de Valle Reatina[184][187].[185]
Nella Sabina l'abbazia del Salvatore era titolare dei monasteri di San Giuliano, di San Giovanni in Toza in ripa fluminis presso Grappignano e vantava diritti su Poggio Sommavilla[188], di Sant'Andrea, San Vittore, Santa Maria a Poggio Moiano. Sempre in Sabina, intesa nella sua estensione antica, nella diocesi di Rieti, la chiesa di San Giuliano a Trebula, il monastero di Santa Cecilia, di San Salvatore «in Vacungno», Sant' Angelo «in casa muca» col suo castello.[185]
I monaci del Letenano erano titolari a Roma della chiesa di San Salvatore "dompni Campi"[189][190] e della vicina chiesa di San Martino[191] nel rione Arenula.[185][192]
Nella diocesi di Rieti che, prima della creazione della diocesi dell'Aquila, comprendeva allora Amiternum, il cenobio di San Paolo in Roiano e di San Bartolomeo in Scopeto, nell'allora diocesi di Furcona il monastero di Sant'Angelo de Mera. Oggi tutte realtà nella diocesi dell'Aquila.[185]
Nella diocesi di Valva, oggi nella diocesi di Sulmona-Valva, un'altra lunga lista di beni.[185]
Nella valle del Vomano i monaci del Salvatore erano titolari dell'abbazia di Santa Maria di Propezzano[193], dell'abbazia di San Salvatore a Canzano, di San Salvatore in Beczini (a Bozzino in località Cologna Spiaggia di Roseto) e del vicino castello di San Flaviano[194], nella vicina valle castellana S.Angelo in Volturino[195].[196][197]
Nella Marsica San Salvator Maggiore possedeva il monastero di Santa Maria «in Valle Maeculana» e di San Salvatore in Paterno[198].[185] Per un breve periodo, dopo l'abbandono dei monaci, ai tempi del re Roberto d'Angio, anche la chiesa di Santa Maria in Valle Porclaneta, presso Rosciolo dei Marsi, fu aggiunta ai benefici dei commendatari di San Salvatore Maggiore.[199][200]
Nelle Marche, nelle diocesi di diocesi di Fermo e di Montalto, San Salvatore Maggiore possedeva i monasteri di Santa Vittoria in Santa Vittoria in Matenano[201], San Paolo di Force, San Lorenzo di Rotella, Sant'Angelo di Montelparo e Santa Maria Cellana del Monte (Santa Maria de' Cellis a Montedinove) e, oltre a questi, nove priorati.[202][203]
Lo Schuster ricorda ancora il priorato di San Catervo di Tolentino[204] come dipendente dall'abbazia di San Salvatore Maggiore prima del 1507[205].[185]
Come è facile immaginare oltre alle chiese nei castelli dell'abbazia e a quelle sopra riportate a Roma, periodicamente, nei documenti relativi alle proprietà dell'abbazia si trovano lunghi elenchi di chiese sotto la giurisdizione dell'abbazia di San Salvatore Maggiore che si trovavano anche nel territorio di altre diocesi, lontano dalla signoria di San Salvatore Maggiore. Tali elenchi[206] erano redatte dagli abati prima e dai commendatari poi i quali reclamavano il diritto sui benefici di quelle chiese.
Serie di abati di San Salvatore Maggiore riportata da Ildefonso Schuster, Il monastero imperiale del Salvatore sul monte Letenano, p.63:
Serie degli abati commendatari di San Salvator Maggiore[209]:
Dal 1841 al 1925 il titolo di "abate di San Salvatore Maggiore" passò ai vescovi di Poggio Mirteto.
Dal 1925 sono i vescovi di Rieti a potersi fregiare del titolo di "abate perpetuo di San Salvatore Maggiore".
L’abbazia di San Salvatore Maggiore, sorge, isolata, su di un pianoro situato sull'altopiano del Letenano, ad 821 m s.l.m., nel territorio montuoso che divide la Valle del Salto da quella del Turano. Il complesso abbaziale si trova nel comune di Concerviano poco distante dall'abitato di Vaccareccia a nord-ovest, da cui la divide la valle scavata dal Fosso di Fonte che si origina da una sorgente prossima all'abbazia, detta la Fonte del Cardinale, e da quello di Pratoianni, poco più distante, verso nord-est.
L'abbazia si presenta come una costruzione imponente di quattro corpi di fabbrica, la chiesa e tre edifici, sviluppati con fasi costruttive e connotazioni architettoniche diverse, che hanno, nel tempo, ricoperto funzioni diverse. I corpi di fabbrica hanno la consueta disposizione monasteriale attorno ad un cortile quadrato di 50×50 metri:
La chiesa e l'ala est datano all'VIII secolo, probabilmente sui resti di una villa romana del I-II sec.d.C. Vennero ampliate tra l'VIII ed il IX secolo per poi essere ricostruite, dopo la devastazione dei saraceni dell'891, nel X secolo quindi di nuovo ampliate e trasformate più volte tra l'XI ed il XIII secolo a mezzo di continui lavori di riadattamento e ricostruzione che ebbero luogo anche in seguito, a causa di eventi eccezionali, come l'assedio del 1308 e danni accidentali.
Con l’istituzione della commenda, verso la fine del XVI secolo, il complesso cominciò a trasformarsi in fortilizio e il cardinale Ranuccio Farnese fece riadattare l’intera ala nord come propria residenza, aumentando lo spessore del corpo di fabbrica e realizzando il nuovo prospetto verso il cortile.
Interventi di riadattamento più limitati sono poi dovuti al cardinale Francesco Barberini nel XVII secolo.
L’abbandono dei monaci a seguito dell'abolizione dell'abbazia benedettina nel 1629 e la nuova destinazione a sede del seminario diocesano nel 1746, provocò l’ultima grande trasformazione del complesso, che nel XVIII secolo aggiunse un nuovo corpo di fabbrica nell’ala ovest e fu riadattato per la nuova funzione di seminario cui fu destinato fino al 1841.
I padri passionisti, cui il monastero fu affidato dal 1839 al 1854, limitarono la rovina con interventi di manutenzione quindi, affidato alla diocesi di Poggio Mirteto, dal 1855 al 1880 l'edificio venne usato come residenza per le ferie autunnali dei seminaristi di Poggio Mirteto. Quando nel 1880 fu adattato a residenza estiva dei seminari di Rieti e Poggio Mirteto si provvide di nuovo a qualche lavoro di manutenzione. Lesionato dal terremoto di Avezzano del 1915, il complesso venne interessato da un intervento del Genio Civile, negli anni trenta, che causò un vero e proprio scempio delle strutture, vetuste, ma ancora resistenti, comportando numerosi crolli e distruzioni, soprattutto nell'ala est, quella di più antica costruzione.
Dagli inizi del Novecento si consumò un degrado sempre più evidente e un’accelerata distruzione, mitigata solo da qualche intervento dovuto ai Salesiani a cui il complesso venne affidato tra il 1950 ed il 1960.
Dagli anni sessanta sino alla metà degli anni ottanta, il monastero fu completamente abbandonato a sé stesso, vittima di crolli e saccheggi che lo resero un rudere fino all’intervento del Comune di Concerviano, guidato dal sindaco Damiano Buzzi, che lo acquistò nel 1986 e che successivamente si prodigò per avviarne la valorizzazione e il restauro cominciando dalla chiesa per poi passare all'ala est e quindi a quella nord e a quella ad ovest.
La chiesa, che in un’incisione del sec. XVII di Francesco Bufalini contenuta nel Synodus dioecesana insignium abbatiarum S. Mariae Farfensis et S. Salvatoris Maioris Ord. S. Benedicti del 1685, figura preceduta da un portico aperto da cinque archi (uno centrale di dimensioni maggiori e quattro più piccoli disposti in coppia alle due estremità), presenta oggi una facciata barocca su cui si apre un semplice portale; sul fianco destro, in prossimità del transetto, si erge la massiccia torre campanaria, a pianta quadrata. Nell’interno, a navata unica con cappelle laterali, sono visibili tracce di affreschi medievali; la zona presbiteriale, probabilmente riferibile alla costruzione medievale (secc. X-XI), risulta fortemente rialzata rispetto al piano della navata.
Nel sinodo farfense del 1685 la chiesa di San Salvatore Maggiore è così descritta[213]:
«Ecclesia monasterio contigua, antiqua et magnifica structura, constat unica longa nave cum quinque ab uno, et sex ab altero latere capellis decenter fornicatis. Altare maius in extrema Ecclesia pavimento celsiore elevata, religiose et speciose ornatum eminet; post quod est chorus cum antiqua sede abbatiali et reliquo monastico choragio; a cornu epistolae est sacrarium supellectile sacra et Sanctorum Reliquiis aliunde ditatum. In hac ecclesia praefati presbyteri Sacra quotidie celebrant et Sacramenta Poenitentia et SS. Eucharistiae Fidelibus eo praecipue ad solemniora anni festa ex Abbatiae Castellis confluentibus ministrant.»
«La chiesa adiacente al monastero è un'antica e magnifica struttura, composta da un'unica lunga navata con cinque cappelle su un lato e sei sull'altro, elegantemente arcuate. L'altare maggiore, elevato su un piano superiore al pavimento della chiesa, spicca con la sua sacralità e il suo splendore. Subito dopo si trova il coro con un antico seggio abbaziale e il resto del coro monastico. Sul lato destro si trova il sacello, arricchito di suppellettili sacre e ricco di reliquie dei Santi provenienti da altre fonti. In questa chiesa, i predetti sacerdoti celebrano quotidianamente i Sacramenti e amministrano i Sacramenti della Penitenza e della Santissima Eucaristia ai fedeli, soprattutto durante le solennità annuali, a coloro che affluiscono dai Castelli dell'Abbazia.»
Nei secoli successivi, seguendo le sorti del resto dell'abbazia, anche la chiesa cadde in rovina. Lo Schuster, a seguito della sua visita all'inizio del Novecento, così descrive lo stato della chiesa e dell'abbazia:
«[...] di tante ricchezze oggi San Salvatore non ha più nulla;[...] l'antica cattedrale della badia é tutta deturpata e quasi chiusa al culto. Dell' altare maggiore vagamente adorno, del coro e della cattedra marmorea dell'abbate in fondo all'abside, ricordati anche dal Marocco, non esiste quasi più nulla; le preziose reliquie e le suppellettili sacre sono andate disperse da lunghi anni, l'archivio (che però non riguarda altro che la diocesi e comincia solo col secolo XV) è stato incorporato con quello farfense, nella Curia vescovile di Poggio Mirteto.»
Poco a monte dell'abbazia una copiosa fonte d'acqua, detta Fonte del Cardinale, genera un torrente che, dopo aver attraversato la gola sotto il paese di Vaccareccia, ove si trovava la mola del paese, prende il nome di Rio di Fonte ed affluisce alla sinistra del fiume Salto a valle della diga artificiale formante il Lago del Salto presso la località di Bivio Concerviano nel comune di Concerviano. Presso quella stessa fonte, nelle pertinenze del monastero si trovava il mulino del monastero.
L'abbazia di San Salvatore Maggiore, insieme ad alcuni dei suoi castelli e ad altri luoghi nel territorio reatino, fa da scenario al giallo storico, ambientato nel XIII secolo, L'enigma dell'Abbazia - Il mistero delle divine reliquie scritto da Luciano Tribiani nel 2022[214].
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