poeta, scrittore e drammaturgo italiano Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Pietro Aretino (1492 – 1556), scrittore, poeta e drammaturgo italiano.
Chi non sa che la filosofia è simile a uno che favella sognando? Ella è una speculativa confusione che cinguetta in essempio e in oscurità, scrivacchiando in figure e in chimere, come le rivelazioni divine piovessero negli ingegni umani a vanvera; [...].[1]
Eccoti un lapis lazoli. Oh, che colore d'azzurro oltramarino da cinquanta scudi l'oncia![2]
Intanto non si manchi di essercitar la penna nelle carte, se bene il mestier vostro è di porre lo scalpello ne' marmi, et in quanto al mio giuditio mi risolvo a dire, che se voi [Danese Cattaneo] intendeste lo intagliar de le figure, come intendete il compor dei versi, vi avvicinareste a Michelagnolo più che non se gli discostano i più dotti, in cotal arte.[4]
Io vorrei dir la donna ch'ebbe il vanto
di leggiadra et angelica bellezza,
la qual l'amato ben sospirò tanto
che depose la gioia e l'alterezza,
et imparato a pianger con quel pianto
che ad altri insegnò già la sua durezza:
Medor pur chiama in suon languido e fioco,
che non l'ascolta e 'l suo mal prende a gioco.
Citazioni
Non si curi del ciel chi in terra vive | felice amando e del suo amor contento | né lassú brami fra le cose dive | sentir la gioia ove ogni spirto è intento, | perch'al sommo diletto par che arrive | solo il gioco amoroso, e in quel momento | che de la donna sua si bascia il viso | s'ha il medesimo ben ch'è in paradiso. (canto II, 1; p. 26)
O beati color ch'hanno duo cori | in un sol core e due alme in un'alma, | due vite in una vita, e i loro ardori | quetano in pace graziosa et alma; | beatissimi quei ch'hanno i fervori | con desio pari scarchi d'ogni salma, | né invidia o gelosia né avara sorte | gli nega alcun piacer sino a la morte. (canto II, 2; p. 26)
Seguitava la donna e dir volea
il nome suo e come disperata
partì, morto il suo dio, con pena rea
mentre istoria sì dura ha racontata,
ma le parole in bocca le rompea,
facendo a punto ne la selva entrata,
un rumor che direste, o cade il mondo,
o il centro ha fin sotto il terrestre pondo.
Il martello ch'i' ho di voi dua, poi ch'io cangiai un fiume al mare e Roma con Venezia, vuol ch'io v'indrizzi la vita d'Astolfo e de gli altri paladini, detta da me l'Astolfeida. Io la mando a voi perché nascesti innanzi a' paladini, i quali son terra da ceci già 700 anni in circa. Voi soli avete visto e cognosciuto chi è visso e morto, chi vive ora e chi viverà poi.
Citazioni
Le temerarie imprese, i strani effetti, | i cuor bramosi, l'insaziabil menti | de' cavallieri erranti, i gran concetti, | le sorti, i paragon di tutte genti, | baron da mensa e campioni da letti, | di Carlo Magno e tutti i suoi parenti, | de' paladin da ver, di quei da ciance | canto l'armi, l'amor fra spade e lance. (canto I, 1; p. 5)
Falsi i poeti e l'istorici vani | di Troia e Tebe, di Sparta e Tesaglia | son presso a l'opra ov'io caccio le mani; | a dir de' paladin, se 'l ver mi vaglia, | son le buggie un abbaiar de cani. | Io in pace dirò piú che in battaglia, | de' cronichisti mendaci al dispetto, | de' paladin di Francia il vero schietto. (canto I, 3; p. 5)
I' non chiamo le Muse e manco Apollo | per non esser tenuto partigiano, | di ser Cupido son stracco e satollo, | Minerva è capricciosa e Marte è strano, | Giove è fallito e non può dar più un crollo: | l'ombra chiam'io di Tiresia tebano, | perché fu uomo e donna, putto e vecchio, | arcivide il futuro in uno specchio. || Te solo invoco, o Tiresia eccellente, | ch'avesti il naturale e la natura; | tu fusti a un tempo agente e paziente, | dicesti il vero a tutti a la sicura; | porgimi il tuo favore omnipotente, | ch'io canti il ver, senza dubbio o paura, | de' paladin, de' cavallieri erranti, | più ver che le menzogne de' furfanti. (canto I, 10-11; pp. 6-7)
D'amor, di fé, di cuor, di lingua schietto | fu Carlo Magno al mondo celebrato; | Carlo e Carlone insieme li fu detto | perch'era grande, grosso e ben formato; | di credulo e corrivo ebbe difetto | per creder troppo a Gano suo cognato; | del resto fu da ben più del bisogno, | tanto da ben ch'a dirlo mi vergogno. (canto I, 25; p. 9)
Saturno, antico dio, gran menchiatarro, | perduti i coglion suoi, perse ogni gioia; | poi nacque in mar del suo seme bizzarro | Vener, madre d'Amor, dea de la foia. (canto III, 1; p. 21)
Entrando nel gran sesso femminino, | de la donna esce l'uom, chiaro e 'vidente, | com'esce del fossato un granchiolino, | poi ci rientra più grande e possente. | La donna è detta in vulgare, in latino, | il vaso, il seme in parte de la gente; | la donna e l'uom son due in carne una: | co la natura il natural s'adduna. (canto III, 22; p. 24)
Nanna. Che collera, che stizza, che rabbia, che smania, che batticuore e che sfinimento e che senepe è cotesta tua, fastidiosetta che tu sei? Pippa. Egli mi monta la mosca, perché non mi volete far cortigiana come vi ha consigliata monna Antonia mia santola. Nanna. Altro che terza bisogna per desinare. Pippa. Voi sète una matrigna, uh, uh... Nanna. Piagni su, bambolina mia. Pippa. Io piagnerò per certo.
Ecco un merciaro ha stringhe, specchi, guanti, corone, nastri, ditali, spilletti, aghi, cinte, scuffioni, balzi, saponetti, olio odorifero, polver de cipri, capelli e centomilia di ragion cose. Così una puttana ha nel suo magazzino parolette, risi, basci, sguardi: ma questo è nulla: ella ha ne le mani e ne la castagna i rubini, le perle, i diamanti, gli smeraldi e la melodia del mondo. (Nanna: Giornata prima)
Pippa: Meffé sì che ci vuole altro a esser cortigiana che alzarse i panni e dir «Fà, che io fo», come dicesti dianzi, e non ne sta nel buona robba: voi sète indovina. Nanna: Come uno spende dieci ducati in cavarsi tutte le voglie che si pon cavare di una giovane, egli è suto crocifisso a Baccano; e come ci fanno uno straccio intorno, il popolo strabilia e va chiacchiarando per tutto come la tal traditora ha rovinato il cotal garzone. Ma quando giuocano le costole del petto rinegando il battesimo e la fede, son laudati, che se ne spenga il seme. (Giornata prima)
Nanna: Lo intertenere con quella certa ciarlia che non vien mai in odio, è il limone che si spreme ne le coradellette soffritte ne la padella, e il pepe che ce si spolverizza suso ed è una dolce novella, quando ti ritrovi a trebbio con diverse generazioni, sodisfacendo a tutti con un berlingare che non venga in fastidio; e han pur troppo del buono alcuni motti insalati e alcune strettine che si danno a chi entra sul volertici còrre: e perché i costumi altrui son di più ragioni che le fantasie de le persone, studia, spia, antivedi, considera, pon mente, asottigliati e crivella i cervelli di tutti. [...] Pippa: Io so ben che non ci è guadagno con loro. Nanna: Tu non hai da fare altro seco che render fume per vento, e fiato per quei sospiri che sanno sì sbudellatamente formare: inchìnati pure ai loro inchini, basciandogli il guanto, non che la mano e se non vuoi che ti paghino de la vincita di Milano, disbrigategli dianzi il meglio che sai. Pippa: Farollo. (Giornata prima)
Io non so dove si venga questo mal nome, che noi abbiamo, di fare e dire agli uomini; e rinasco a non sentire chi conti i portamenti loro inverso de le puttane: che tutte son puttane le donne che si intabaccano seco. Ma ponghinsi da un canto tutti gli uomini rovinati da le puttane, e da l’altro lato tutte le puttane sfracassate dagli uomini: e vedrassi chi ha più colpa o noi o loro. Io potria anoverarti le dicine, le dozzine e le trentine de le cortigiane finite ne le carrette, negli spedali, ne le cocine, ne la strada e sotto le banche, e altrettante tornate lavandaie, camere-locande, roffiane, accatta-pane e vendecandele, bontà de lo aver sempre puttanato col favor di colui e di costui; ma non sarà niuno che mi mostri a lo incontro persone che per puttane sien diventati osti, staffieri, stregghiatori di cavalli, ceretani, birri, spenditori e arlotti. Almeno una puttana sa mantenersi un pezzo quello che per le sue fatighe riceve dagli uomini; ma gli asini scialacquano in un di ciò che ci furano e quello che le pazze a bandiera gli gittano drieto. (Nanna: Giornata seconda)
[...] io credo che la ruffianaria sia figliuola de la puttanaria, o vero che la puttanaria sia uscita del ventre a la ruffianaria. (Comare: Giornata terza)
[...] il puttanare non è traffico da ognuno; e perciò il viver suo è come un giuoco de la ventura, che per una che ne venga benefiziata, ce ne son mille de le bianche. Nientedimeno il ruffianare è di più acutezza. Non nego che il diseperarsi da sieme non sia uno di quelli impacci che hanno le mani mentre, nel volersi lavare da se stesse, si danno l'acqua da lor medesime: ma la ruffiana pesca più a fondo de la puttana; e non ci si torca il muso, che tanto è. (Comare: Giornata terza)
Un medico va con scigurtà per tutte le case, e una ruffiana che ci sa essere fa il simigliante; un medico conosce le complessioni, i polsi, i difetti, e collere e le malatie di questo e di quello: e la ruffiana i fernetichi, gli umori, le nature e le magagne di chi si voglia; il medico ripara al mal del fegato, del polmone, del petto e del fianco: e la ruffiana al mal de la gelosia, del martello, de la rabbia e del core de le donne e degli uomini. Il medico conforta, e la ruffiana consola il medico sana, e la ruffiana con il menar l'amica a letto fa il medesimo. La cera lieta del medico rallegra lo ammalato, e la faccia balda de la ruffiana ravviva lo amante e tanto più merita la ruffiana del medico, quanto son più pazzi e più indiavolati i mali d'amore che quelli del madrone. Il medico tocca tuttavia denar nuovi, e la ruffiana ancora, e buon per chi si ammala, se il medico vedesse ne la orina quel che vede la ruffiana nel viso di coloro che vengano a lei per aiuto e per consiglio. E sì come il medico vuole essere motteggero, parlante e pieno di facezie, così la ruffiana non vale se non ha sempre in punto cento novellette. Il medico sa promettere di sanare chi si more de l'altro dì, e la ruffiana pone in isperanza colui il qual s'impicca. (Comare: Giornata terza)
Balia: Questo è bello bestialmente, e dicano di gran poltronerie cotesti tuoi poeti cicale, e ferneticano continuamente. Comare: Ai dipintori e a loro sta bene ogni bugia: ed è un modo di favellare facendo grandi le donne che amano e la passione che sopportano amando. Balia: Una fune, e legare insieme dipintori, scultori e poeti: perché son pazzi. Comare: I dipintori e gli scultori, salvo la grazia di Baccino, son matti volontari: e che sia il vero, tolgano il naturale a lor medesimi per darlo a le tavole e ai marmi. (Giornata terza)
Così disse la Comare; e parendole l'ora di ridursi a casa, basciata che ebbe la Pippa, con una «buona sera» e «buona sera e buono anno», si redusse con la Balia dove avevano a ridursi.
Porzia fedel s'avea fatto chiavare
molt'anni col consenso del marito,
ma perché non poté mai figli fare,
ell'era da ciascun mostrata a dito:
un astuto villan fece chiamare
e fe' di figli un numero infinito;
or il marito l'ha per vituperio,
utrum possa accusarla d'adulterio?
Risoluzione I
La legge adulter singulare, testo,
dice ad legem Juliam de adulterio:
quando il marito non accusi presto
la moglie, che gli fa tal vituperio
e sa ch'ella molt'anni in disonesto
modo si dà con altri refrigerio,
più non la può de crimine accusare
e a tutta briglia si può far chiavare.
Citazioni
Aveva la Martuzza un giorno tolta | la medicina, e non potea cacare; | ond'ella avea dolor e pena molta | e quasi tutta si sentia crepare. | Talchè temendo di restar sepolta, | un grosso cazzo in cul si fe' cacciare: | guarì, ma nel guarir gustò sapore. | È tenuta di dirlo al confessore? (dubbio II)
La Doralice a un medico promese | dargli una chiavatura a tutto pasto, | se guarito le avesse il mal Francese, | che 'l fegato e 'l polmon le aveva guasto; | quel fè tutta la cura a proprie spese: | ma alfin lei si morì fra quel contrasto. | Tenetur nè la figlia, come erede, | dargli la chiavatura ch'egli chiede? (dubbio IV)
Era gravida Monna Berniciglia, | e vide un cazzo dalla sua finestra | colla testa si grossa, che somiglia | ad un grosso bolzon d'una balestra; | lei, che voglia n'avea lo prese a briglia; | tutta giojosa colla sua man destra, | e se lo pose in bocca con gran furia. | Peccò costei di gola o di lussuria? (dubbio XIII)
Altri dubbi amorosi
De' Gesuiti il padre sacristano | per raffrenar la sua lussuria tanta | cacciò il cazzo e i coglion nell'acqua santa | fu caso meritorio, oppur profano? (dubbio IV)
Destossi l'abadessa con gran furia | sognando di mangiar latte e gioncate, | trovossi in bocca il cazzo dell'abbate. | Fù peccato di gola o di lussuria? (dubbio V)
Un giorno stando Giulia in una scola | prese in la bocca il cazzo a un suo Bertone, | e in un istante gli diè un morsicone. | Ditemi se costei peccò di gola? (dubbio VII)
Livia volea saper che cosa è amore, | e per questo si fè chiavare alquanto, | nacque in questa maniera un dubbio intanto, | s'ella sol per provar commise errore? (dubbio IX)
Non è peccato quel che per provare | si fà, nemmen si tiene che lussuria | sia, onde non dee mettersi in furia | costei che il cazzo volse esprimentare. (risoluzione IX)
Sul cazzo che rizzato avea fra Carlo | giù dal balcon cascò suor Margarita, | le ruppe il culo e le salvò la vita. | Dovea perciò dolersi o ringraziarlo? (dubbio X)
Se nel precipitar suor Margherita | non dava il cul sul cazzo di fra Carlo | certo morià, onde ringraziarlo | dee, che col cazzo suo le diè la vita. (risoluzione X)
Un frate Zoccolante, per ventura, | fottendo a potta dietro un abadessa | gli el cacci in cul credendo foss'in fessa, | ditemi se peccò contro natura? (dubbio XVI)
Istrione del prologo: Io avevo imparato un certo proemio, diceria, sermone, filostoccola, intemerata o prologo che se sia, e ve'l volevo recitare per amor de un mio amico, ma ognun mi vuole in pasticci. Ma se voi siate savi: Plaudite et valete! Istrione dell'argomento: Come Plaudite et valete? Donque io ho durato tanta fatica a comporre questo argumento, serviziale, cristioro o quel che diavol si chiami, et ora vuoi ch'io lo getti via? Per mia fe', che tu hai magior torto che 'l campanile de Pisa e che la superchiaria.
Citazioni
E a Siena c'è lo Studio, c'è Dottori, fonte Branda, fonte Beccia, la piazza, la guardia, si fa la caccia del toro, e' carri, con ceri e pimpinelli e mille gentilezze per mezzo agosto: a Siena ci si fanno e' marzapani, e' bericuocoli a centinaia, e ci vuol ben l'imperadore e tutto il mondo, fòr che i fiorentini. (Sanese: atto I, scena I)
Che cicalone e simpliciotto è questo mio padrone: ti so dire che per un pecorone egli non ha invidia a niuno. Ma gli è capitato in buone mani a maestro Andrea e al Zoppino! Uno giuntaría l'usura e l'altro faría impazzire la sapienza capranica. O può fare questo la natura, ch'egli si creda che gli asini tenghino scuola? Veramente gli è, come disse la buona memoria de Strascino, un maccherone senza sale, senza caseo e senza fuoco. (Grillo: atto II, scena XIX)
Talanta: Tuttavia che la festa di Testaccio si fa, in Roma non riman persona; ma poi che non ci si vede alcuno, spasseggiamo un poco ragionando. Aldella: Di gratia. Talanta: Che ti parve del pianto, nel quale hiersera entrò quel corrivo, perch'io gli giurai di ficcarmi ne
le convertite? Aldella: Egli se la bevve. Talanta: Se non si facesse tal'hora di simili fintioni, onde il martello non lavorasse, potremmo andare a riporci. Aldella: Voi la intendete. Talanta: Sappi, sorella, che la industria de le mie pari nacque da la taccagneria di que primi che ci fecero meretrici. Aldella: Puo essere. Talanta: Onde non siamo buone, perche essi furon pessimi, e pero il fargli il peggio che si puo, è una limosina. Aldella: Così credo io.
Citazioni
[...] i vecchi sono eunuchi del tempo. (Pitio: atto I, scena XIII)
Non ci sono le più false pazzie, che quelle che talor fanno i savi. (Peno: atto II, scena X)
La lode che s'acquista in non lasciarsi offendere avanza la gloria che si guadagna vendicandosi. (Armileo: atto III, scena XVII)
Nel quale si introducono le Carte parlare co 'l Padouano In Fiorenza
Padovano, Carte
Deh, guarda un poco con che tresca di scompiglio queste carte so in disordine; certo che il diavolo che le trovò, l'haro scolate di modo insieme, ch'è un rinnegare il tempo o ci perderò in raccozzarle.
Carte: Se la ingratitudine fosse cosa nuova, da che tu isvillaneggi noi che ti habbiamo dato l'essere, ti chiameremmo veramente ingrato. Padovano: Oh Dio buono, le carte favellano.
Citazioni
[...] il pane e noi concorriamo insieme circa la famigliarità con l'universale, e sì come i dottori, i filosofi, i gentiluomini, i cavalieri, i signori, i conti, i marchesi, i duchi, i re, gl'imperadori e i papi, con ogni altra spezie di genìa, mangiano lui, così le medesime varietà di genti maneggiano noi. E ne la foggia che la sustanzia del pane su detto nutrisce le turbe che diciamo, resta in noi la volontà de le persone che ci adoprano; onde siamo or larghe, or misere, or piacevoli, or furibonde, or taciturne, or cicale, or facete, or ritrose, ora sapute e ora triviali. (Carte: pp. 3-4)
Il cuore di colui che disputa di materie importanti, essulta ne la efficacia de la mente, la qual procrea i pensieri che formano le cose che poi distingue la lingua, caso che chi lo ascolta accenni con la intelligenzia di capire i sensi dei i concetti che esso prepara di esprimere. (Carte: p. 9)
È pure uno strano spettacolo di toleranza quello di un fantaccino che, vestito da state nel cuor del verno, si reca giocando là dove la scalmana del perdere lo fa sudar di bel gennaio. [...] Ti pare egli che l'orare de i romitori sia di cotal sorte? e che il sobrio del digiuno e il desto de la vigilanza trapeli nel paracore con la sottogliezza del freddo che gli congela i mocci che gli escon dal naso, come i ghiacciuoli pendenti da i tetti? In cotal mentre il vento che soffia gli riarde in modo le membra che il vederlo è una pietà, e aggiunta la sì fatta miseria a la perdita de i dinari che si guadagna con le ferite e con la morte (avenga ch'ei lo sopporti con la somma del la pazienza su detta), chi è quel santificetur che lo pareggi di merito? (Carte: pp. 18-19)
Due cose mantengono vive le creature: il letto e il giuoco; peroché l'uno è refrigerio de le fatiche e l'altro ricreazione de i fastidi. (Carte: p. 61)
Il nascerci accomodato porta con seco la indiscrezione, la dapocaggine e l'ozio e il venire al mondo infantem nudum, la sollecitudine, l'industria e l'avertenza. (Carte: p. 93)
Essi [i furiosi] frequentano l'arte del giocare per abituarsi ne la rigidezza del dispetto, accioché il lor fronte, ottenebrato da i nuvoli de lo sdegno, spaventi ognuno che si move a dimandargli grazie. (Carte: pp. 98-99)
Guardisi a tutte le cose e, se in ognuna non si trova da fare, tengansi solo le nostre per ladre e per traditore. Ecco, nel mondo non ci è maggior piacere che il vivere e, benché i suoi guai lo travagliono di continovo, non si dee però dir male de la vita. Chi contasse le pioggie, le grandini, i venti, le nevi, i nuvoli e le nebbie intravenenti ne l'anno, avanzerien forse i sereni con che il sole e la luna illustrano i suoi dì e le sue notti; né per ciò resta che tutte quattro le stagioni insieme non lo faccino giocondo. (Carte: pp. 159-160)
Non ragionamo a la carlona e il nostro uscire spesso del solco è la luna a cui abbaiano i cani pedanti. (Carte: p. 193)
Il bello animo è il tesoro di chi l'ha tale e il disprezzar le ricchezze dee tenersi per grande entrata; e chi, giocando, tolera la perdita, diventa savio, che altro è che parere, e in vero i posessori de i danari vengon detti saputi sì perché altri gli adula, sì perché la loro massa così fa parergli. (Carte: pp. 195-196)
Puossi giocar senza peccato, ma puttaneggiar non miga. (Carte: p. 226)
Il tornare e il ritornare a i casi nostri, non è altro che un provare e riprovare che noi siamo e buone e ottime a chi ci usa e adopra bene e per bene, osservando le otto leggi esplicate di sopra; o, se pur si rompono giocando secondo il desiderio e non co'l modo de la ragione, mostrisi nel perdere e nel vincere la fronte ferma de la verace costanzia, imitando la suprema eccellenza del senno che stabilisce il magno de l'animo del signor Girolamo Martinengo, isplendore de la splendida isplendidezza. (Carte: pp. 278-279)
Or non pure il giuoco e la milizia, ma la sanità, la ricchezza, la forza e la beltade, non si usando con i mezi dovuti, doventarieno mali. (Carte: p. 283)
[...] il danaio che si spende è sterile, e quel che si giuoca fruttifero. (Carte: p. 291)
Essendo, signor mio, maggior la felicità del donare che quella del ricevere, io ho caro fuor di modo che dal presente de gli scudi de la impresa e del saio di raso bianco che mi fate, nasca in voi il sommo grado de la consolazione. Ed è vostra gran ventura che tanto possa la vertù de la cortesia; perché facendo voi l'essercizio de la liberalità nel donar continuo, continuamente siete felice. Per la qual cosa farei ingiuria a la Signoria Vostra prolungandomi in ringraziarla di quello che, per avere accettato i suoi doni, merito di esser ringraziato io. (da Al conte Guido Rangone, p. 14)
Chi non dubita de le promesse de i principi, non sa ciò che sia dubbio. (da Al conte Massimo Stampa, p. 108)
Io, per dono de la cortesia che mi ha legato con le catene de la gentilezza, dico che sete quella che mi pareva impossibile che voi foste; né mi curo più che mi si faccia fede de le grazie che celestemente vi fregiano, perché dove è la cortesia sono tutti i tesori e le stelle, e senza lei è nulla qualunque grado di vertù in donna o uomo sia. (da A la signora Flaminia, pp. 127-128)
Ma Dio lo perdoni a chi assassina me, che do a ognuno quel che io ho! Per ciò mai niente ho né aver, se non cambio vezzo. La qual cosa non è possibile, perch'io ebbi la prodigalità per dota, come la maggior parte de gli uomini ha l'avarizia; ed è chiaro che i prodighi spendano ogni cosa in un tratto, come avessero a vivere un dì, e gli avari non ispendano mai cosa alcuna, come avessero a viver sempre. (da Al signor Giambattista Castaldo, pp. 128-129)
[...] veramente ch'io ho più compassione a chi pate amando che a chi si muor di fame o a chi va a la giustizia a torto: perché il morirsi di fame procede da la dapocaggine, e l'esser giustiziato a torto nasce da la mala sorte; ma la crudeltà che cade sopra uno innamorato è un assassinamento fattogli da la fede, da la sollecitudine e da la servitù de la bontà propria. (da Al conte di San Secondo, pp. 190-191)
O turba errante, io ti dico e ridico che la poesia è un ghiribizzo de la natura ne le sue allegrezze, il qual si sta nel furor proprio, e mancandone, il cantar poetico diventa un cimbalo senza sonagli e un campanel senza campane. (da A messer Lodovico Dolce, p. 193)
Quanto seria meglio per un Gran Maestro il tener in casa uomini fedeli, gente libera e persone di buona volontà, senza infreggiarsi de la volpina modestia de i pedanti asini de gli altrui libri, i quali, poi che hanno assassinato i morti e con le lor fatiche imparato a gracchiare, non riposano fino a tanto che non crocifiggano i vivi. (da Al cardinal di Ravenna, p. 223)
E ben debbo io osservarvi che il mondo ha molti re e un solo Michelagnolo. (da Al divino Michelagnolo, p. 237)
Che così non si po far de i funghi, a i quali fa bisogno bollir con due fette di medolla di pane e poi frigergli ne l'olio. E anco non si mangiano volentieri se non la mattina, per sospetto del veleno che di notte malamente si po riparare, bontà del sonno che sganghera l'eccellenza de i medici. (da Al signor Luigi Gonzaga, p. 259)
Egli, onorando gentil'uomo, mi parrebbe peccare ne la ingratitudine, se io non pagassi con le lodi una parte di quel che son tenuto a la divinità del sito dove è fondata la vostra casa, la quale abito con sommo piacere de la mia vita, per ciò che ella è posta in luogo che né 'l più giuso, né 'l più suso, né 'l più qua, né 'l più in là ci trova menda. Onde temo entrando ne i suoi meriti, come si teme a entrare in quegli de l'imperadore. Certo, chi la fabricò le diede la perminenza del più degno lato ch'abbia il Canal grande. E per esser egli il patriarca d'ogni altro rio, e Venezia la papessa d'ogni altra cittade, posso dir con verità ch'io godo de la più bella strada e de la più gioconda veduta del mondo. Io non mi faccio mai a le finestre ch'io non vegga mille persone e altrettante gondole su l'ora de i mercatanti. Le piazze del mio occhio deritto sono le Beccarie e la Pescaria; e il campo del mancino, il Ponte e il Fondaco de i tedeschi; a l'incontro ho il Rialto, calcato da uomini da faccende. Hocci le vigne ne i burchi, le caccie e l'uccellagione ne le botteghe, gli orti ne lo spazzo. (da A messer Domenico Bolani, pp. 264-265)
Certo, io stupisco come i poeti non si sbrachino per cantar le virtù de l'insalata. E si fa un gran torto a i frati e a le moniche a non lodarla, perché essi rubbano l'ore e le orazioni per ispenderle in nettarla da i sassolini, ed esse quasi balie sue gittano il tempo dietro a quel tempo che suda, in adacquarla e in curarla. (da A messer Girolamo Sarra, p. 271)
Ma voi sete giovane, e stavvi bene ogni male. Ma il Sansovino e io, vecchi alleluia, rineghiamo l'Omnia vincit nel vederci assassinare da le sue mariolarie, le quali ci giurano che la zappa e la vanga ce lo caverà de la brachetta. Per la qual cosa, avendo voi qualche bella tinta da far nere le barbe, me vobis comendo; ma guardate di non me la far turchina, che per Dio simigliarei i due gentil'uomini che stettero per cotal novella murati in casa un anno. (da A messer Luigi Anichini, p. 307)
[...] la mia stizza si dilegua col fume de le parole e fornisco di adirarmi come ho fornito di parlare; onde mi è forza poi (bontà de la natura benigna che mi ha in preda) di chieder perdono fino a chi mi offende, e ogni piccola somessione che usino i miei crocifissori mi trae le lagrime dal core non che da gli occhi. Ecco Antonio Brocardo che mi muore nimico, e io scrivo sonetti per onorar de la sua memoria. (da A messer Giulio Tancredi, p. 325)
[Sul gioco del lotto] Saria una comedia da far crepar de le risa il pianto, chi facesse un libro de i pensieri che si fan verbigrazia ne i sei millia zecchini del lotto che dee venire. Chi para camere, chi ricama drappi, chi compra cavalli, chi gli pone in banco, chi ne marita sorelle, chi gli investisce in poderi. Il servitore ch'io dico scrisse al padre che facesse mercato d'un palazzo col giardino d'un che voleva riuscirne, e che non guardasse a la favola di cento più o meno. Ma tutto è burla, eccetto il dar via le buone e tenersi le triste. (da A messer Giovanni Manenti, p. 335)
Perché il secreto è de la natura del mercurio, che versa per tutto, e con più facilità si sofferiscono le passioni del corpo che le molestie date da lui a la lingua, correndole mille volte il dì fino in su la punta de la parola; e quanto più il pericolo si sforza di farlo tacere, tanto più gli cresce la voglia di no istar queto, non per altro che esser figliastro de la fama, onde tenta d'entrarle in grazie col rivelare a le sue orecchie le cose dategli in guardia da l'altrui fidanza. (da Al magnifico messer Gianiacopo Caroldo, p. 340)
Più pro fa il pane asciutto in casa sua che l'accompagnato con molte vivande a l'altrui tavola. (da Al Fausto Longiano, p. 374)
De i miracoli, signore, che fa la bontà d'Iddio, sono testimoni i voti che gli si porgono; di quegli che escono del valor de gli uomini fanno fede le statue che si gli consacrano; e de l'amore che la cortesia de i principi porta a i buoni ingegni, siamo certi per l'opre che si gli intitolano, come ora io intitolo a voi la Cortigiana. (da Al cardinale di Trento, p. 394)
E non me ne maraviglio, perché la gentilezza de la maggior parte de i mercanti è la villania, e apresso di loro non è di merito se non il furto che essi battizzono guadagno. (da A messer Domenico de i Conti, p. 459)
Siate pur certo che sì come il carnale de la voluptà genera avarizia, imprudenza, temerità, furto e vituperio, così il soverchio de lo studio procrea errore, confusione, maninconia, còlerà e sazietà. (da A messer Agustin Ricchi, pp. 491-492)
Il dono de i tartufi è suto di piacere e di maraviglia. Mi son compiaciuto ne la lor bellezza e maravigliato del vedergli ne la stagione che gli riarde. Certo, non si vantino quegli di Norcia né de l'Aquila di esser migliori. Ma s'io vi dicesse come mi hanno onorato una cenetta che a punto la sera che me gli mandaste dava a non so che Signoria, vi verrebbe voglia di essermi largo d'altrettanti acciò che invitandola una altra volta, io mi acquistassi nome di gran maestro. (da Al capitan Adrian da Perugia, p. 519)
Io so che la bontà vostra, signore, non fa punto di torto a la benignità di le stelle che vi infusero nel reale de l'animo il cortese di quelle grazie con le quali tuttodì vi insegnorite de gli altrui cori e de l'altrui menti. Ma se inverso di me che sono di sì poco merito usate ogni termine di liberalità e di mansuetudine, di che sorte devono essere gli ufici che la nobiltà de la vostra natura fa in pro di quegli che per cagione de le loro virtù sono degni d'ogni onore? [...] È vero che mi son dato a scrivere le cose di Cristo, ma la grazia in far ciò è tutta sua; ch'io per me ho talmente inebriato lo spirito nel liquore che distilla il sugo di sì dolce lezione, che più tosto ne vorrei essere lo inventore che risplendere ne gli ori. (da Al cardinale di Trento, pp. 539-540)
Da la culla, e non da la scola, deriva l'eccellenza di qualunque ingegno mai fusse.[8]
[...] l'arte è una nativa considerazione de l'eccellenze de la natura, la quale se ne vien con noi da le fasce.[9]
Lo innamorarsi è la ricetta che usano i vecchi contra il tempo, e ha cotanta virtù il lor far ciò, che tanto ritornano giovani quanto ciò fanno (da Al Sansovino, novembre 1545, III, 415)[10]
Le eroiche pazzie, li eroichi umori,
le traditore imprese, il ladro vanto,
le menzogne de l'armi e de gli amori,
di che il mondo coglion si innebria tanto,
i plebei gesti e i bestiali onori
de' tempi antichi ad alta voce canto,
canto di Carlo e d'ogni paladino
le gran coglionarie di cremesino.
Citazioni
Fu Carlo Magno un bel cacca pensieri | e padre di civetti e fottiventi | [...]. (canto I; p. 13)
Questo è la verità non dico fola | come ser Pulci, il Conte, e l'Ariosto | il mio sol Aretin che pel ciel vola | con quel lume chel sol da a mezzo Agosto | e Turpin se ne mente per la gola | e ve lo voglio far veder tantosto | state adunque ad udir, o spensierati | i ladri gesti de i guerrier pregiati. (canto I; p. 14)
Ahi famoso poltrone, ahi paladino | ahi guerrier della tavola ritonda | con le spalle s'affronta il saracino | guardami in viso pria che ti nasconda | come la furia de l'acqua un mulino | volge per forza, o qual sel vento fromba | tal la vergogna con superba voce | rispose Astolfo huilmente feroce. (canto I; p. 25)
Antonia. Che hai tu Nanna? Pàrti che cotesto tuo viso imbriacato ne' pensieri si convenga a una che governa il mondo? Nanna. Il mondo, ah? Antonia. Il mondo, sì. Lascia star pensierosa a me che, dal mal francioso in fuora, non trovo cane che mi abbai, e son povera e superba, e quando io dicessi ghiotta non peccherei in spirito santo. Nanna. Antonia mia, ci sono dei guai per tutti, e ce ne son tanti dove tu ti credi che ci sieno delle allegrezze, ce ne sono tanti che ti parria strano; e credilo a me, credilo a me, che questo è un mondaccio.
Citazioni
La vita visse sempre a una foggia: sempre le persone mangiaro, sempre bevvero, sempre dormiro, sempre vegghiaro, sempre andaro, sempre stettero; e sempre pisciaro le donne per il fesso. (Antonia: Giornata prima)
[...] le moniche, le maritate e le puttane sono come una via croce, che tosto che giungi a essa, stai buona pezza pensando dove tu abbi a porre il piede; e avviene spesso che 'l demonio ti strascina nella più trista, [...]. (Nanna: Giornata prima)
Io sto' aspettare che tu venga ai fatti, come aspettano i bambini la balia che gli ponga la poppa in bocca, e mi pare lo indugio più aspro che non è il sabato santo a chi monda le uova avendo fatta la quaresima. (Antonia: Giornata prima)
[...] io ti dico che noi nasciamo di carne e in su la carne muoiamo; la coda ci fa e la coda ci disfà. E che tu sia in errore te lo pongo inanzi con lo essempio delle signore che hanno perle, catene e anelli da gittar via: e fino alle mendiche vorriano più tosto trovar Maria per Ravenna che un diamante in punta; e per una che le piace il marito, son mille che se ne fanno schife: ed è chiaro che per due persone che faccino il pane in casa, son settecento che vogliono quello del fornaio perché è più bianco. (Nanna: Giornata seconda)
[...] la castità donnesca è simile a una guastada di cristallo che, usata quanta diligenza tu sai, alfine ti cade di mano che non te ne avvedi, e tutta si rompe; ed è impossibile a mantenerla intera se non la tenessi sempre chiavata in un forzieri; [...]. (Nanna: Giornata seconda)
La accidia di una puttana è più acuta e più accorata che la maninconia di un cortigiano che si vede marcito in tinello sanza un quattrino di entrata; la avarizia di una puttana è simile a un boccone che uno banchiere avaro ha rubato alla sua fame e ripostolo in cassa con gli altri. (Nanna: Giornata terza)
«Tu parli bene, Antonia» disse la Nanna, «e tanto farò quanto mi consigli». E ciò detto fiocamente, fatta svegliare la fantesca che dormì sempre mentre ragionaro, ripostole in capo il canestro, e il fiasco vòto in mano, data alla Antonia le tovagliette che la mattina avea portate sotto il braccio, se ne ritornaro a casa. E mandatosi per alcuni peneti per la Nanna, guardata la sua tossa dallo aceto, con un pan bollito si cenò, dando però altro alla Antonia, che stata seco la notte, la mattina per tempo si ritornò ai suoi negozietti co' quali trampellava la vita; che venutale a noia per la sua povertà, si confortava co' ragionamenti della Nanna, rimanendo stupita nel pensare al male che fanno tutte le puttane del mondo: che sono più che le formiche, le mosche, le zanzale di venti stati, quando ella sola era creditrice di tanto, e anco non avea detto la metà.
Fottiamci, anima mia, fottiamci presto
perché tutti per fotter nati siamo;
e se tu il cazzo adori, io la potta amo,
e saria il mondo un cazzo senza questo.
E se post mortem fotter fosse onesto,
direi: Tanto fottiam, che ci moiamo;
e di là fotterem Eva e Adamo,
che trovarno il morir sì disonesto.
- Veramente egli è ver, che se i furfanti
non mangiavan quel frutto traditore,
io so che si sfoiavano gli amanti.
Ma lasciam'ir le ciance, e sino al core
ficcami il cazzo, e fà che mi si schianti
l'anima, ch'in sul cazzo or nasce or muore;
e se possibil fore,
non mi tener della potta anche i coglioni,
d'ogni piacer fortuni testimoni.
Citazioni
Mettimi un dito in cul, caro vecchione, | e spinge il cazzo dentro a poco a poco; | alza ben questa gamba a far buon gioco, | poi mena senza far reputazione. (I, II, vv. 1-4)
E chi vuol esser gran maestro è pazzo | ch'è proprio un uccel perde giornata, | chi d'altro che di fotter ha sollazzo. | E crepi in un palazzo, | ser cortigiano, e spetti ch'il tal muoja: | ch'io per me spero sol trarmi la foja. (I, II, vv. 12-17)
Ohimè, mio cazzo, ajutami, ch'io moro | e trova ben la foia in matrice: | in fin, un cazzo picciol si disdice, | se in potta osservar vuole il decoro. (I, III, vv. 4-8)
Posami questa gamba in su la spalla, | et levami dal cazzo anco la mano, | e quando vuoi ch'io spinga forte o piano, | piano o forte col cul sul letto balla. || E s'in cul dalla potta il cazzo falla, | dì ch'io sia un forfante e un villano, | perch'io conosco dalla vulva l'ano, | come un caval conosce una cavalla. (I, IV, vv. 1-8)
Tu m'hai il cazzo in la potta, e il cul mi vedi | e io veggio il tuo cul com'egli è fatto, | ma tu potresti dir ch'io sono un matto, | perch'io tengo le mani ove stanno i piedi. (I, VI, vv. 1-4)
Io 'l voglio in cul. – Tu mi perdonerai, | o Donna, non voglio far questo peccato, | perché questo è un cibo da prelato, | ch'ha perduto il gusto sempre mai. (I, X, vv. 1-4)
E non si trova pecchia | ghiotta dei fiori, com'io d'un nobil cazzo, | e no 'l provo ancho, e per mirarlo sguazzo. (I, XI, vv. 15-17)
Marte, maledettissimo poltrone! | Così sotto una donna non si reca, | e non si fotte Venere alla cieca, | con assai furia e poca discrezione. || – Io non son Marte, io son Hercol Rangone, | e fotto qui che sete Angela Greca; | e se ci fosse qui la mia ribeca, | vi sonerei fottendo una canzone. (I, XII, vv. 1-8)
Dammi la lingua, appunta i piedi al muro; | stringi le coscie, e tienim stretto, stretto; | lasciat'ire a riverso in sul letto | che d'altro che di fotter non mi curo. || Ai! Traditore! Quant'hai il cazzon duro! (I, XIII, vv. 1-5)
Adunque voi compirete? | – Adesso, adesso faccio, Signor mio; | adesso ho fatto. Et io; ohimè! o Dio!. (I, XIII, vv. 15-17)
Così all'inferno, a cazzo ritto è andato, | e al Nemico, in vece di saluto, | dentro del negro cul l'ebbe ficcato; | poi ringraziollo e disse: – O Pluto, | tu hai le corna ed io ti ho buggerato; | dunque ti posso dir becco fottuto. (II, IV, vv. 9-14)
E se del fotter mio piacer non hai, | fatti pur verso me qui, dallo spasso, | che se sino ai coglion dentro va il cazzo, | dolcezza assai maggior ne sentirai. (II, VII, vv. 5-8)
Questi nostri sonetti fatti a cazzi,
soggetti sol di cazzi, culi e potte,
e che son fatti a culi, a cazzi, a potte,
s'assomigliano a voi, visi di cazzi.
Almen l'armi portaste al mondo, o cazzi,
e v'ascondete in culi e nelle potte,
poeti fatti a cazzi, a culi, a potte,
prodotti da gran potte e da gran cazzi.
E s'il furor vi manca ancora, o cazzi,
sarete e tornerete becca-potte,
come il più delle volte sono i cazzi.
Qui finisco il soggetto delle potte.
Per entrar nel numero de' cazzi,
e lascerò voi, cazzi, in culi e in potte.
Chi ha le voglie corrotte
legga cotesta gran coglioneria
che il mal'anno e il mal tempo Dio gli dia!
Il Genesi
Prima che fosse il cielo e innanzi che fosse il mondo, il Fattore del mondo e del cielo stava raccolto in se stesso (..); e le idee, da le quali la natura toglie l'esempio de le cose, erano guardate dal secreto di lui.[11]
Gli occhi miei, da che gli fu prima inoltrato l'Alfabeto, non hanno mai letto Opere che più gli giovino e dilettino, che quelle che produce il glorioso e felice ingegno vostro. (Angelo di Costanzo)
L'uom tre volte chiarissimo e divino | il famoso immortal Pietro Aretino. (Girolamo Maggi)
Le accuse contro Galileo erano molteplici. Primo: leggeva, teneva in casa e leggeva libri proibiti, i libri dell'Aretino che indulgono ai piaceri della carne. Peccato. Non eresia ma peccato. (Enrico Bellone)
Quali si siano i difetti delle lettere dell'Aretino, a noi paion preziose come uno dei più espressivi ritratti della vita letteraria ed artistica del suo tempo. Egli solo osava dir tutto e lo diceva con certa efficacia e verità tanto che si fa leggere con sommo diletto. (Eugenio Salomone Camerini)
Quel famoso Pietro Aretino; il quale odiato e sprezzato privatamente da tutti, era pur da tutti ed in pubblico adulato, pagato, esaltato, mentre il furbo, conoscendo di quali e quante cose sia capace l'umana viltà, avverava il detto antico, essere il mondo di chi se lo piglia. (Carlo Promis)
Qui giace l'Aretin, poeta tosco: | di tutti disse mal fuorché di Cristo, | scusandosi col dir: non lo conosco. (Paolo Giovio) [scritto in forma di epitaffio]
Tu ne dirai e farai tante e tante, | lingua fracida, marcia, senza sale, | che al fin si troverà pur un pugnale | meglior di quel d'Achille e più calzante. (Francesco Berni)
Have un difetto, ch'io ne torno pazzo, | ma dir si può più tosto bizzarria, | che mai non canta se non vede il cazzo.
Pietro Aretino, sendo ermafrodito, | che presta il culo, e poi sel fa prestare, | questa sentenza non vuol egli dare, | come colui che è già, moglie e marito.
Tu mi minacci pur, Pietro Aretino, | ne sò con che, perché n'ho poca cura: | se con le chiappe mi vuoi far paura, | dillo in volgare, ch'io non so latino. || Il tuo cul so ben io ch'è un paladino | e che rompe ogni lancia ben sicura: | sò che è sì fatto che non ha misura, | e cosa da stancar Atene e Arpino.
↑ Dolce: in Ragionamento de le corti, parte prima; in Opere di Pietro Aretino e di Anton Francesco Doni, vol. 26, a cura di Carlo Cordié, Riccardo Ricciardi Editore, 1976, p. 441.
↑ Citato in Salvatore Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, Vol. VIII, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1973, p. 765.
↑ Citato in Cesare Cantù e Gaetano Barbati, Storia degli italiani, Volume 5, G.P. Lauriel, 1858, p. 487.
↑ Da una lettera a Danese Cattaneo, 3 luglio 1542; citato in Giuseppe Campori, Memorie biografiche degli scultori, architetti, pittori ec. nativi di Carrara, Tipografia di Carlo Vincenzi, Modena, 1873, p. 66.
↑ Da una lettera a Francesco Coccio, n. 347, marzo 1548; in Tutte le opere di Pietro Aretino: Lettere, libro 1-2, a cura di Francesco Flora, con note storiche di Alessandro Del Vita, Mondadori, 1960.
↑ Da una lettera a Francesco Coccio, n. 223, settembre 1547; in Lettere, a cura di Paolo Procaccioli, Salerno, 2000, p. 151. ISBN 88-8402-311-4
↑ Citato in Dizionario delle citazioni, a cura di Italo Sordi, BUR, 1992. ISBN 88-17-14603-X
↑ Citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993. È in parte una parafrasi e in parte un libero rifacimento, in gonfio stile cinquecentesco, del primo libro della Bibbia. Fu ristampato nel 1628 col titolo Lo specchio delle opere di Dio.
↑ Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937
Pietro Aretino, Lettere. Il primo e il secondo libro, a cura di Francesco Flora, con note storiche di Alessandro Del Vita, Arnoldo Mondadori Editore, 1960.
Pietro Aretino, Orlandino, Canti due di Messer Pietro Aretino, Romagnoli, Bologna, 1868.