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movimento letterario e artistico italiano Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
La poesia visiva nasce da tutte quelle sperimentazioni artistiche e letterarie compiute nel clima della Neoavanguardia, a partire dagli anni sessanta del XX secolo.
«Ogni parola, in quanto tale, è una generalizzazione[1]»
Anche se, tuttavia, è dalla rinascita culturale del secondo dopoguerra che le ricerche verbo-visive hanno il loro punto di partenza, come presa di posizione critica sulla cultura, sulla società e sul linguaggio attraverso il quale si esprime la nuova realtà modernizzata e industrializzata del secondo dopoguerra. Sono gli anni in cui gli intellettuali si specializzano negli ambiti della cultura e si fanno più pragmatici e coinvolti nell'interpretazione dei grandi mutamenti della società e nella partecipazione attiva alla critica militante, culturale e sociale. Attività intellettuali che rispecchiavano il desiderio di rinnovamento e, quindi, di svecchiamento della cultura italiana, ancora ancorata all'estetica romantica e simbolista, all'idealismo crociano e gentiliano.
La Neoavanguardia - all'interno della quale si sviluppano le ricerche verbo-visuali - si qualifica come uno strumento di analisi, come azione sul piano della cultura, come interpretazione della realtà e, di conseguenza, come analisi dell'intreccio fra Arte e Cultura, caratteristico dei dibattiti intellettuali degli anni Sessanta. Le ricerche linguistiche ed estetiche della Poesia Visiva nascono in questi contesti - facili definire - di "eclettismo" culturale. Solo analizzando la cultura e le ideologie dell'epoca si può avere una chiara percezione della complessità dei dibattiti e del perché la Poesia Visiva abbia avuto uno sviluppo simultaneo a livello mondiale, collocandosi a metà fra i generi artistici e i generi letterari, essendo essa un fenomeno ibrido di Arte e Letteratura.[2].
A partire dalla prima metà degli anni cinquanta e per tutto il seguente decennio, le ricerche verbo-visuali delle cosiddette seconde avanguardie furono segnate da alcune tappe fondamentali:
La Poesia Visiva, agli inizi degli anni Sessanta, si presentava come strumento operativo, come modalità alternativa di interpretazione, come sintesi di critica ideologica e teoria artistica la cui unica possibilità d'espressione poteva manifestarsi soltanto attraverso le tendenze visive e iconografiche della cultura di massa. Fu l'intreccio fra Arte e cultura – degli anni Sessanta e Settanta – a caratterizzare la ricerca verbo–visuale come unione di prassi e teoria, affermando sistematicamente il nuovo carattere gnoseologico ed ermeneutico dell'Arte. Si trattava, dunque, per gli intellettuali di interpretare artisticamente il riflesso incondizionato che la società di massa aveva avuto sulla società e, nello stesso tempo, di evidenziare la necessità di un'Arte che fosse espressione della cultura di massa.
Lamberto Pignotti ed Eugenio Miccini furono i fondatori del Gruppo 70, al quale successivamente prenderanno parte Lucia Marcucci, Anna Oberto, Martino Oberto, Luciano Ori, Mirella Bentivoglio, Ketty La Rocca, Giuseppe Chiari, Emilio Isgrò, Michele Perfetti, Sarenco, Magdalo Mussio, Ugo Carrega, Roberto Sanesi, Adriano Spatola, Vincenzo Ferrari, Gianfranco Baruchello.
Pignotti ha parlato di "cultura del neo-ideogramma" intendendo proprio la nuova civiltà dell'immagine, della tecnologia e dei mass-media, in cui l'Arte e la Letteratura divenivano un semplice messaggio, uno strumento dell'informazione e della comunicazione, a vantaggio del contenuto e del significato. È nella cultura del neo-ideogramma che la poesia diviene un segno, più precisamente un segno culturale e semiologico. Nel corso dei dibattiti intellettuali che in questi anni tentano una storicizzazione della crisi della capacità comunicativa del sistema letterario, furono molti i temi presi in considerazione che allargarono la questione della morte dell'Arte, divenendo di dominio comune e tutti incentrati più o meno sull'esigenza di un linguaggio adatto alle mutate istanze culturali. Si sottolineava così la crisi della rappresentazione: la parola per sottrazione di senso diviene, nelle ricerche verbo-visuali, autoreferenziale, matericità e parola-oggetto. Nella stagione dell'espansione della comunicazione, segno linguistico e segno visivo si contaminavano in operazioni osmotiche come prova linguistica empirico-razionale di decostruzione e destrutturazione del discorso poetico, e come tentativo di traduzione della caoticità oggettiva del mondo, attraverso l'uso di una semantica realistica. Si trattava, in sostanza, della proposta e della presa di coscienza del nuovo obiettivo delle arti e della cultura, ossia dell'acquisizione di una nuova esperienza artistica come creazione di nuovi territori della parola, di forme espressive adeguate alla nuova estetica tecnologica. La letteratura giungeva a un confronto critico con il senso comune della società. Confrontandosi con la cultura l'Arte della Poesia Visiva affondava le proprie radici nell'ambito del sistema linguistico.
Nell'analizzare il gran numero di artisti coinvolti nelle ricerche verbo-visuali, si evidenzia una diversa concezione del linguaggio. In quegli anni, società, lingua e cultura furono unite in un continuo processo di rinnovamento e consolidamento delle strutture approvate. La lingua, in quanto sistema di segni, può essere esaminata come struttura di relazioni significative, nello stretto rapporto che si instaura fra il codice linguistico della collettività (langue) e l'attuazione individuale delle potenzialità del medesimo codice (parole) come è stato affermato da De Saussure. In tale sistema di relazioni, la lingua si caratterizza per la propria referenzialità, a partire dalla nascita della lingua nazionale, qualificandosi come riflesso indiscusso della realtà sociale. La massificazione della comunicazione e dell'informazione, prodotta dalla società industriale e del consumo, generò, in tal modo, nuovi modelli di lingua, aprendo i confini della linguistica ai nascenti concetti di lingua trasmessa, formale/informale, settoriale/tecnica e di sottocodice. Alla fine degli anni Cinquanta, infatti, l'elemento tecnologico, analizzato in senso critico, assume un peso considerevole nelle attività artistico-culturali. I poeti verbo-visivi tentano, in questi anni, di strutturare un codice linguistico alternativo, mettendo in evidenza le contraddizioni della nuova era tecnologica e dei nuovi linguaggi mass-mediatici, e riflettendo, quindi, sui rapporti arte e tecnologia e arte e comunicazione. Segno verbale e segno visivo assumono un rapporto reciproco di equilibrio senza subordinarsi a vicenda, avendo lo stesso peso nell'insieme dell'opera d'arte. Si tratta in sostanza del 'potenziamento espressivo' di una prassi artistica che si muove al di là del canone tradizionale. Analizzando i rapporti fra "arte e comunicazione" e "arte e tecnologia", i poeti visivi hanno distinto il linguaggio propriamente detto dai sottocodici prodotti dalla civiltà industriale. Non a caso l'allargamento lessicale – iniziato già con le avanguardie storiche – e la simultaneità dei codici espressivi nell'ambito dello stretto legame che si crea fra forma e referente, fra significante e significato, si configura, ancora oggi, come una risposta culturale – di matrice artistica – alla complessità del rapporto fra comunicazione verbale e comunicazione visiva, caratteristico dell'espansione mediatica della società di massa. Si può fare riferimento, per esempio, alla tecnica del collage, del fotomontaggio o all'assemblage – intesi come recupero di tecniche già usate storicamente dalle arti minori – in cui il reale viene percepito in concreto senza ricorrere all'illusione pittorica con l'intento di dar vita a una tecnica pittorica in cui l'Arte possa competere con i mezzi di comunicazione. In tal senso è significativo ricordare la tecnica dell'affiche e del manifesto, in quanto rispondono all'esigenza degli artisti di stabilire una presa diretta con il pubblico. In questo contesto s'inseriscono i ready-made di Duchamp, i poèmes-objet di André Breton, i fotomontaggi dadaisti, i collage prettamente pittorici dei futuristi e dei cubisti.
Le pratiche di visualizzazione del materiale verbale si fanno promotrici di un'intensificazione del segno grafico, proprio attraverso la convergenza e l'associazione di altri tipi di segni, e le modalità con cui il messaggio ‘poetico’ viene espresso pongono l'accento sulla semanticità del segno: l'estrinsecazione del significato si attua in relazione a un trattamento pluriartistico delle potenzialità espressive e comunicative del significante, sia esso fonico o iconico. Si è trattato, in definitiva, del riscatto estetico – nella pratica operativa – della parola poetica che va incontro a una radicale trasformazione verso le forme della ‘scrittura visuale’, ibrida linguisticamente. «La scrittura verbo–visiva», come hanno dimostrato Stefania Stefanelli e Lamberto Pignotti – può essere considerata come la modalità espressiva che ha teso alla comprensione
««[…] sia quelle forme di comunicazione verbale che intendono anche farsi vedere […], sia quelle forme di comunicazione visiva che intendono anche farsi leggere [nella] consapevolezza che fra Letteratura e Arti visive, fra Pagina e Quadro, fra Parola e Immagine, non ci sono frontiere precise e neppure occasionali sconfinamenti, ma piuttosto sistematiche sovrapposizioni e integrazioni nel segno della continuità»[4]»
I rapporti di sovrapposizione e sintesi fra comunicazione verbale e le altre forme di comunicazione hanno dato il via all'interrogarsi sui linguaggi dell'arte. La Poesia visiva ha continuato a impiegare il mezzo espressivo caratteristico del canone letterario, benché il segno verbale si affrancava da quei vincoli artistici che la letteratura aveva da sempre ignorato. Si operò una «ricerca sulla parola oltre la parola», precisando sotto il profilo linguistico-formale un «riscatto» della concretezza, della materialità e della fisicità del linguaggio.[5] La promozione del significante sul significato presuppone, infatti, uno sfruttamento intensivo del corpo grafico che può essere visualizzato secondo modalità di incidenza semantica diverse di volta in volta: la pertinenza linguistica del segno può essere azzerata, ridotta oppure anche annullata del tutto, approdando sia a forme di «multigrafia» che di «agrafia» rispetto a quella tipografica tradizionale nell'intento di sfruttare «le potenzialità visuale insite nella parola segno[6] La ricerca di modalità espressive capaci di intensificare, dilatare e forzare visualmente il segno – in relazione alla dimensione valorizzata del significante – rispondeva al soddisfacimento delle finalità e delle esigenze degli intellettuali impegnati a una resa estetica della complessità del sociale, nell'intento di sottrarre il sistema linguistico al circolo economico del sistema neocapitalistico, che attraverso i mass media, trasfigurava passivamente il sistema linguistico, alienandolo dalla sua funzione principale di essere veicolo informativo e comunicativo. Per Lamberto Pignotti si è trattato in sostanza di una serie di «riesami di riscoperte del tragitto percorso dalla cultura alfabetica occidentale che ha un lungo processo di semplificazione (ma anche di impoverimento) ha portato dalla figura del pittogramma, all'ideogramma e infine alla lettera[7] Di fatto, la sperimentazione verbo-visuale affonda le sue radici nella ‘poesia figurata’ dell'antichità classica e del medioevo, e anche nel corso dell'Età Moderna si sono registrati ricorsi all'artificio grafico, al non-sense linguistico-letterario e alla visualizzazione fisica del testo poetico[8]
Il legame tra il segno come materia e il suo significato è stato studiato fin dai primi anni Sessanta da Ugo Carrega che giunge all'ipotesi che tra i vari elementi esista una vera simbiosi. Egli fa riferimento da una parte all'esempio di personalità letterarie come Ezra Pound, James Joyce, Jorge Luis Borges e dall'altra cerca di ridare al concetto il suo corpo fisico in modo da evidenziare il contatto necessario tra la mente e la mano. Viene pertanto formulata l'ipotesi che la scrittura non debba necessariamente possedere un campo preciso né essere inteso come fine, ma piuttosto come strumento e mezzo che evoca un significato e, così come per l'immagine, metafora di un atteggiamento verso il fare artistico. Rifacendosi al concetto di metafora Carrega scrive:
«Accettata linguisticamente la metafora per cui significante e significato sono le due facce di una stessa moneta, proviamo a lanciare per aria la nostra moneta: le probabilità di estrarre significante o significato sono uguali; ma quante sono le probabilità che la moneta rimanga ritta di taglio?[9]»
In questo modo significato e significante finiscono per fondersi tanto che il segno iconico e quello scrittorio arrivano a possedere una stessa finalità tecnica.
La poetica della Poesia Visiva tende, in sostanza, alla riscoperta di quel messaggio poetico - che si era perso a seguito dell'incomunicabilità dell'ermetismo e della nuova società industrializzata - attraverso il recupero fisico e materiale del grafema e la realizzazione pittorico del significante. Tutto ciò avviene grazie a vari procedimenti, tra cui:
Il risultato di tali procedimenti è un "interlinguaggio" capace di sottolineare il passaggio da un significato connotativo della 'parola industrializzata' a quello denotativo, sono ad arrivare a privilegiare il significante.
Di conseguenza leggere le Poesie Visive non è semplice, infatti tali pratiche separano la percezione linguistica da quella iconica. Al lettore è richiesto un approccio sintetico e globale, e una 'lettura simultanea' del quadro, dove il tutto prevale sulle singole parti.
In Italia la Poesia Visiva nacque all'interno delle riflessioni intellettuali e culturali delineate, ma a livello più concreto si può generalizzare ripercorrendo le tappe fondamentali delle dispute estetiche e artistico/linguistiche dalle sperimentazioni linguistiche e poetiche de "I Novissimi" del "Gruppo 63" e del "Gruppo 70"[10] e più in generale dall'ambito delle pratiche della Poesia Totale.
La rivista pubblica anche testi poetici sperimentali lineari, testi di poesia concreta, riproduzioni di opere pittoriche e numerosi articoli teorici.
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