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nobiltà del Piemonte Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
La nobiltà piemontese (o nobiltà sabauda o più precisamente nobiltà subalpina) fu una classe sociale privilegiata dei possedimenti del Ducato di Savoia e del Regno di Sardegna poi. La nobiltà venne ufficialmente integrata in quella nazionale nel 1861 con l'istituzione del Regno d'Italia.
La nobiltà sabauda (da non confondersi con quella italiana post-unitaria), comparve sin dai primi domini di casa Savoia e con il sistema feudale che prevedeva la creazione di vassalli e valvassori ad aristocratici di minor rango rispetto alla casata regionale.
In realtà col tempo, in particolare nel Piemonte meridionale, iniziarono a formarsi due tipologie di aristocrazia:
Oltre a queste divisioni vi erano poi delle sottodivisioni su base regionale:
Da quando la Repubblica di Genova venne annessa nei possedimenti del Regno di Sardegna, entrarono a far parte della nobiltà sabauda anche le famiglie genovesi.
In realtà per tutto il periodo dell'Ancient Régime lo stato sabaudo non sentì mai il bisogno di varare una vera e propria legge organica che fosse in grado di stabilire con chiarezza chi avesse o meno il diritto ad esser considerato parte dell'aristocrazia e quali precisi privilegi ciò comportasse. Al contrario di quanto si possa pensare, però, questo fatto rappresentò per secoli uno dei punti di forza della nobiltà piemontese che consentiva unà estrema duttilità nel ruolo tra i territori feudali dei Savoia ed il ruolo dell'alta borghesia nobilitata.[1]
Lo storiografo saluzzese Ludovico Della Chiesa nel XVII secolo, nel suo Della nobiltà civile, o sia mondana, aveva cercato di delineare i canoni per l'ammissione nella nobiltà piemontese, pur ravvisando notevoli difficoltà in materia: erano da ricercarsi elementi quali l'uso di armi e cimieri da antica data, il possesso di cariche distinte, le virtù, le parentele, le amicizie, le ricchezze.[2]
Soprattutto tra XVII e XVIII secolo, furono in particolare i Savoia a cercare di integrare nella nobiltà quegli alti funzionari che di fatto non corrispondevano più alla borghesia, ma che non avevano interessi di tipo feudale o vasti possedimenti terrieri: con l'accentramento del ruolo dello stato ed il progressivo distacco dalla mera feudalità di tipo medievale, infatti, la società aristocratica piemontese divenne innanzitutto un ceto di servitori dello stato (dall'amministrazione all'aspetto militare). Molti furono infatti i nobili impegnati nelle alte cariche di stato come ministri, consiglieri di stato o ambasciatori, altri ancora si impegnarono nella carriera militare creando vere e proprie dinastie di soldati.
Re Vittorio Amedeo III di Savoia, nella seconda metà del Settecento, pensò di ribadire la centralità dello stato tramite riforme di assolutismo moderato che andarono ad agire direttamente anche sull'aristocrazia. Nel 1775 venne dato alle stampe il "Regolamento de' Pubblici" col quale il sovrano mirava sempre più a creare un ceto plurale nel quale confluirono titolati di vecchia data, nobili neopatentati e patrizi. In realtà, come accadde nella Lombardia austriaca e nella Toscana lorenese, il sovrano sabaudo all'inizio del XVIII secolo non poteva tollerare che all'interno del proprio stato vi fosse una nobiltà che non riconosceva nel monarca centrale la fonte stessa del proprio status, oppure che presentavano una debole o dubbia legittimazione o addirittura che erano considerate nobili solo per "pubblica fama", magari perché la medesima famiglia da più generazioni aveva ricoperto il medesimo incarico pubblico. Di conseguenza la monarchia dei Savoia ritenne necessario un proprio intervento per definire i ranghi e le gerarchie e che richiamasse la nobiltà a ricevere da essa un pubblico e legale attestato di legittimazione.
Intraprendendo tale strada, Vittorio Amedeo II sapeva bene che il primo passo da compiere era quello di disarticolare il rapporto nobiltà-governo locale, obbiettivo da perseguire col ridimensionamento del ruolo dei consigli comunali ed un maggiore controllo sui funzionari periferici dello stato. Era necessario ad ogni modo applicare regolamenti specifici per ciascuna grande città (o gruppo di città minori), fatto che fece ben presto scontrare il monarca con i diversi e intricati interessi, privilegi e rivendicazioni da parte della nobiltà locale che si contendeva da secoli i municipi in una serie di battaglie burocratiche per fazioni.[3]
L'epoca feudale finì ufficialmente nel Regno di Piemonte-Sardegna il 29 luglio 1797 quando re Carlo Emanuele IV di Savoia promulgò un decreto per la sua abolizione.[3]
Dopo la promulgazione dello Statuto Albertino, fu lo stesso Carlo Alberto di Savoia a cercare di legare il concetto di nobiltà a quello di censo, pur senza riuscirvi.[4][5]
L'abolizione della feudalità in Sardegna fu un processo molto più lento che in Piemonte, in quanto essa era ancora in vigore nella prima metà dell'Ottocento, in pieno contrasto sia con la situazione piemontese che con quella della maggior parte dell'Europa.
Fu solo Carlo Alberto che dal 1835, con un provvedimento siglato il 19 dicembre, riuscì ad avviare un lento ma progressivo tentativo di scardinare il sistema feudale sardo: egli ordinò la consegna immediata di tutti i terreni ed i possedimenti feudali dei sudditi della Sardegna, così come delle giurisdizioni e di tutti i privilegi, riservandosi di riconsegnare tutti i titoli a chi ne avesse veramente merito. Furono ad ogni modo necessarie alcune proroghe a queste disposizioni per quei feudatari che risiedevano nel Regno di Spagna e che dall'epoca degli aragonesi avevano ottenuto possedimenti e titoli in Sardegna. La giurisdizione feudale venne ufficialmente abrogata con Regio Editto del 21 maggio 1836, firmato dal viceré Giuseppe Maria Montiglio d'Ottiglio e Villanova, precisando che anche ogni forma di giurisdizione locale, fosse essa civile o criminale, veniva assunta da quel momento in poi dal demanio. Per evitare dei traumi, il re prescrisse che i titolari di tali privilegi restassero provvisoriamente nei loro impieghi, continuando ad esercitare il loro patrocinio in nome però del sovrano sabaudo e sotto la supervisione del ministro competente.
I primi territori vennero distribuiti dopo il crollo della feudalità nel 1838, cessando così anche ogni pagamento di diritti feudali. Sull'altro fronte, Carlo Alberto dovette necessariamente ricompensare i vecchi feudatari delle loro perdite con somme in denaro o meglio ancora con cariche di stato, inserendo così ancora una volta gli ex feudatari nel novero dei funzionari di stato.
L'aristocrazia piemontese seppe inserirsi a pieno titolo nel neonato Regno d'Italia, mantenendo saldamente sino agli anni '70 dell'Ottocento i principali ranghi dell'amministrazione e dell'industria, di cui divennero i principali capitani e promotori sino alla prima metà del XX secolo.[6]
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