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uccisione di un individuo ordinata da un'autorità in seguito alla condanna di un tribunale Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
La pena di morte (detta anche pena capitale,[1] esecuzione capitale[2][3] e condanna a morte) è una sanzione penale la cui esecuzione consiste nel togliere la vita alla persona condannata.
Secondo un rapporto di Amnesty International[4], in alcuni ordinamenti giuridici, come in Burkina Faso, Cile, El Salvador, Guatemala ed Israele, in tempo di pace la pena capitale è prevista per le sole colpe più gravi come per esempio omicidio, genocidio e alto tradimento; in altri si applica anche ad altri crimini violenti, come la rapina o lo stupro, o legati al traffico di droga; in alcuni Paesi infine è prevista per reati d'opinione come l'apostasia o per orientamenti e comportamenti sessuali come l'omosessualità o l'incesto.
La pena di morte è stata abolita, o non è applicata nella maggioranza degli Stati del mondo, ma nel 2022, oltre che nei Paesi già citati, era ancora in vigore in 53 Stati: Afghanistan, Antigua e Barbuda, Arabia Saudita, Bahamas, Bahrein, Bangladesh, Barbados, Belize, Bielorussia, Botswana, Cina, Comore, Corea del Nord, Cuba, Dominica, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Gambia, Giamaica, Giappone, Giordania, Guyana, India, Indonesia, Iran, Iraq, Kuwait, Lesotho, Libano, Libia, Malesia, Nigeria, Oman, Pakistan, Palestina, Qatar, Repubblica Democratica del Congo, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Singapore, Siria, Somalia, Stati Uniti d'America, Sudan, Sudan del Sud, Thailandia, Trinidad e Tobago, Uganda, Vietnam, Yemen e Zimbabwe.[5]
La pena di morte (o pena capitale) è presente sin dall'antichità, in tutti gli ordinamenti antichi. Il diritto romano prevedeva la pena di morte e concedeva una speciale garanzia per i cittadini romani: una condanna a morte emanata in base all'imperium del magistrato non poteva essere eseguita senza concedere al condannato facoltà di fare appello ai comizi centuriati per il tramite dell'istituto della provocatio ad populum.
Nel corso della storia limitarono la pena di morte alcuni imperatori, l'imperatore romano Tito che non emise personalmente condanne a morte durante il suo principato, il re indiano Ashoka, l'imperatore giapponese Saga (primo abolizionista della storia) e, in Russia, una breve abolizione (o meglio una forte limitazione) avvenne nel 1753 per opera della zarina Elisabetta I. Se si considera l'abolizione "di fatto", lo Stato abolizionista più antico è la Repubblica di San Marino, tuttora esistente: l'ultima esecuzione ufficiale risale al 1468, mentre l'abolizione definitiva fu sancita per legge nel 1865.
Il primo Stato al mondo ad abolire legalmente la pena di morte fu il Granducato di Toscana il 30 novembre 1786 con l'emanazione del nuovo codice penale toscano (Riforma criminale toscana o Leopoldina, preparata dal giurista Pompeo Neri alcuni anni prima) firmato dal granduca Pietro Leopoldo, influenzato dalle idee di pensatori come Cesare Beccaria; tale giornata è festa regionale in Toscana. Tuttavia Leopoldo nel 1790 reinserì la pena di morte per i cosiddetti crimini eccezionali. Seguirono il Granducato la Repubblica Romana di ispirazione mazziniana (che tuttavia ebbe breve esistenza) nel 1849, il ricordato San Marino (1865) e altri. L'Italia l'abolì, tranne che per reati militari, nel 1889, per poi reinserirla con il Codice Rocco del 1930, e abolirla definitivamente nel 1948. Anche la Francia dal 1981 non ricorre più alla ghigliottina, mentre nel Regno Unito, pur non essendo mai stata abolita, a partire dagli anni sessanta la pena capitale è stata autonomamente disapplicata dalla magistratura, che in sua sostituzione commina l'ergastolo.
Un altro importante capitolo della storia della pena di morte viene scritto il 18 dicembre 2007, quando, dopo una campagna ventennale portata avanti dall'associazione Nessuno Tocchi Caino e dal Partito Radicale Transnazionale, da Amnesty International e dalla Comunità di Sant'Egidio, l'ONU approva una storica risoluzione su iniziativa italiana per la moratoria universale della pena di morte, ossia per una sospensione internazionale delle pene capitali.
Nell'Antico Testamento (Genesi, 4,23-24) esistono passi in cui Dio condanna la vendetta umana, minacciando punizioni peggiori («sette volte» e «settanta volte sette») per chi avesse ucciso Caino e Lamech.
Nella Bibbia sono elencate situazioni in cui nelle leggi, che Dio dona a Mosè per esporle al popolo ebraico, si stabilisce la pena capitale come punizione per determinate colpe: per esempio nell'Antico Testamento è scritto
« Colui che colpisce un uomo causandone la morte, sarà messo a morte. » ( Es 21,12, su laparola.net.) |
Diversi passi, in prevalenza dell'Antico Testamento, affermano la legittimità della pena di morte quando è violata la legge di Mosè. A questi si aggiungono gli episodi di guerra e della storia del popolo eletto, dove i nemici periscono per volontà divina. Riguardo alla violazione della legge ebraica, nella Lettera agli Ebrei 10,28: «Quando qualcuno ha violato la legge di Mosè, viene messo a morte senza pietà sulla parola di due o tre testimoni». In Levitico 24,16[6] viene messo a morte «Chi bestemmia il nome del Signore», in Levitico 20,10[7] chi commette adulterio, in 27,29[8] «Nessuna persona votata allo sterminio potrà essere riscattata; dovrà essere messa a morte», e in Levitico 24,17[9] «Chi percuote a morte un uomo». In Esodo 21,17[10] viene messo a morte chi maledice il padre o la madre.
Il passo è ripreso nel Nuovo Testamento, da Vangelo di Marco 7,10: «Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte». In Numeri 35,30, si afferma che non si può accettare un prezzo di riscatto da un omicida: «Se uno uccide un altro, l'omicida sarà messo a morte in seguito a deposizione di testimoni, ma un unico testimone non basterà per condannare a morte una persona. Non accetterete prezzo di riscatto per la vita di un omicida, reo di morte, perché dovrà essere messo a morte».
La morte del colpevole avveniva per lapidazione. Questa forma di esecuzione coinvolge tutta la comunità locale adulta, che collettivamente è chiamata ad applicare la legge, e risparmia l'individuazione di un singolo come boia.
Nel Nuovo Testamento Gesù richiama più volte al perdono e condanna l'episodio della lapidazione della donna adultera:
« Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei. » ( Gv 8,7, su laparola.net.) |
La maggioranza dei filosofi antichi giustifica la pena di morte, anche se spesso contestando l'uso spregiudicato che se ne faceva nel mondo greco-romano e orientale. Tra gli stoici, sostenitori del diritto naturale, si levarono alcune voci contro le condanne troppo facili e numerose; tra essi, Seneca, pur essendo favorevole alla pena capitale per gravi delitti, invita l'imperatore Nerone alla clemenza, erogando la massima pena solo in casi estremi, e seguendo la ragione e non l'impulso del momento e citando esempi di generosità.[11] Seneca ricorda poi alcune motivazioni dettate dalla ragione, che anticipano di sedici secoli quelle di Cesare Beccaria:
«Ma i costumi dei cittadini si correggono maggiormente con la moderazione nelle punizioni: il gran numero di delinquenti, infatti, crea l'abitudine di delinquere, e il marchio della pena risulta meno grave quando è attenuato dalla moltitudine delle condanne, e il rigore, quando è troppo frequente, perde la sua principale virtù curativa, che è quella di ispirare rispetto.»
«Nello Stato in cui gli uomini vengono puniti raramente, si instaura una sorta di cospirazione a favore della moralità, della quale ci si prende cura come per un bene pubblico. I cittadini si considerino privi di colpe e lo saranno; e si adireranno maggiormente con quelli che si allontaneranno dalla rettitudine comune, se vedranno che sono pochi. È pericoloso, credimi, mostrare ai cittadini quanto più numerosi siano i cattivi.»
Ad Agostino di Ippona (354- 430) si deve la prima condanna esplicita e argomentata della pena di morte nella storia del pensiero cristiano. Nella lettera 153 del proprio epistolario, Agostino risponde a Macedonio, un luogotenente imperiale che lamentava la continua intercessione dei vescovi africani per impedire le esecuzioni capitali. Agostino risponde che risparmiare i colpevoli non è affatto un segno di approvazione verso la colpa. Al contrario, il disprezzo per la colpa non può essere disgiunto dall'amore per la creatura umana che l'ha commessa.
«Quanto più ci dispiace il peccato, tanto più desideriamo che il peccatore non muoia senza essersi emendato. È facile ed è anche inclinazione naturale odiare i malvagi perché sono tali, ma è raro e consono al sentimento religioso amarli perché sono persone umane, in modo da biasimare la colpa e nello stesso tempo riconoscere la bontà della natura; allora l'odio per la colpa sarà più ragionevole poiché è proprio essa a macchiare la natura che si ama»
Agostino chiama in causa diversi passi evangelici che invitano al perdono. È legittimo supporre che[senza fonte] la sua condanna della pena di morte sia una conseguenza in campo giuridico della dottrina della grazia indebita e predestinata: se la salvezza dipende solo dall'intervento imprevedibile della grazia divina, irriconoscibile agli uomini, è ipocrita da parte degli uomini infliggere condanne definitive.
«Ma pensi tu, forse, o uomo, che condanni chi fa tali azioni e poi le fai tu stesso, di sfuggire alla condanna di Dio? Ti burli forse dell'immensa bontà, pazienza e tolleranza di Lui? Ignori forse che la pazienza di Dio t'invita al pentimento? Tu invece con la tua durezza di cuore impenitente ti ammassi sul capo un cumulo di punizioni per il giorno della collera e del giudizio finale, in cui Dio, rendendo pubblico il Suo verdetto, darà a ciascuno secondo quel che avrà fatto in vita»
Tommaso d'Aquino, il cui fratello era stato giustiziato, sostenne la liceità della pena di morte sulla base del concetto della conservazione del bene comune. Il teologo sosteneva tuttavia che la pena andasse inflitta solo al colpevole di gravissimi delitti, mentre all'epoca veniva utilizzata con facilità e grande discrezionalità. L'argomentazione di Tommaso d'Aquino è la seguente:
«Ora, qualsiasi parte è ordinata al tutto come ciò che è meno perfetto è ordinato a un essere perfetto. Perciò la parte è per natura subordinata al tutto. Ecco perché, nel caso che lo esiga la salute di tutto il corpo, si ricorre lodevolmente e salutarmente al taglio di un membro putrido e cancrenoso. Ebbene, ciascun individuo sta a tutta la comunità come una parte sta al tutto. E quindi se un uomo con i suoi peccati è pericoloso e disgregativo per la collettività, è cosa lodevole e salutare sopprimerlo, per la conservazione del bene comune; infatti, come dice S. Paolo: "Un po' di fermento può corrompere tutta la massa".»
Lo Stato pontificio ha mantenuto nel suo ordinamento la pena di morte fino al XX secolo, abolendola nel 1969, benché inapplicata dopo il 9 luglio 1870, data dell'ultima esecuzione capitale. Per la posizione attuale della Chiesa cattolica vedi più avanti.
Nel 1764 la pubblicazione del pamphlet (trattato breve, libello) Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria stimolò la riflessione sul sistema penale vigente. Nel trattato (in particolare nel capitolo XXVIII), Beccaria si esprimeva contro la pena di morte, argomentando che con questa pena lo Stato, per punire un delitto, ne commetterebbe uno a sua volta:
«Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio.»
Tuttavia, la condanna di Beccaria verso la pena di morte, pur nella sua portata storicamente innovativa, non era espressa in termini assoluti: essa è necessaria, ma non giusta, in quanto "infrazione (come scrisse Piero Calamandrei) della legge morale per la quale l'uomo, anche nei confronti dello Stato, è sempre non mezzo, ma fine".
«La morte di un cittadino non può credersi necessaria, che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza, che interessi la sicurezza della nazione; il secondo, quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di un cittadino divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell'anarchia, quando i disordini stessi tengono luogo di leggi.»
In controtendenza rispetto alle idee moderne fu Friedrich Nietzsche, che contestò il concetto filosofico di libero arbitrio e la funzione rieducativa della pena, considerando la morte del criminale come l'unico atto che restituisce dignità al suo gesto (come il suicidio nella morale greco-romana), assolvendolo dalla colpa e liberandolo dall'umiliazione del pentimento, imposto dalla morale cristiana:
«Per colui che soffre talmente di sé stesso, non vi è redenzione, se non la rapida morte»
Nella Genealogia della morale (1887), Nietzsche sostenne che il valore della pena non debba essere quello di destare il senso di colpa né di rieducare il criminale, ma soltanto quello di punire in chiave extramorale «un cagionatore di danni, un irresponsabile frammento di fatalità». Separando nettamente il diritto dalla morale, e ribaltando la prospettiva di Cesare Beccaria in chiave diametralmente opposta, Nietzsche considerò positivamente la situazione in cui il criminale si senta moralmente sollevato dal proprio gesto a patto che si trovi «nell'impossibilità di avvertire come riprovevole la sua azione, la specie del suo atto in sé: vede infatti esercitata al servizio della giustizia esattamente la stessa specie di atti, e quindi approvata, esercitata con tranquilla coscienza»[12].
La posizione di Nietzsche si inserì nel quadro filosofico di una critica radicale all'universalismo morale di origine cristiana e, in diverse sue opere, il filosofo contestò l'eticità intrinseca dei comandamenti biblici, presupponendo un'equiparazione extramorale tra i delitti e le pene:
«Non rubare! Non ammazzare! - un tempo si dissero sacre queste parole; dinnanzi ad esse si piegavano le ginocchia e la testa e si toglievano i calzari. Ma io vi chiedo: quando mai vi furono al mondo predoni e assassini al pari di queste parole sacre? Forse che la vita stessa, intera, non è un predare e ammazzare? E col santificare queste parole, forse, non venne ammazzata la verità? O fu una predica di morte, quella che santifica la contraddizione e la confutazione della vita? Fratelli miei, spezzate, spezzate, ve ne prego, le antiche tavole!»
In Umano, troppo umano (1879), il filosofo tedesco contestò l'utilizzo della giustizia, e anche della stessa pena capitale, in chiave moralista e colpevolista:
«Come è che ogni esecuzione ci offende più di un omicidio? È la freddezza dei giudici, sono i meticolosi preparativi, è il sapere che qui un uomo viene usato come mezzo per spaventarne altri. Giacché la colpa non viene punita, se anche ce ne fosse una: questa è negli educatori, nei genitori, nell'ambiente, in noi, non nell'omicida, - intendo le circostanze determinanti»
Nella stessa opera egli affermò il diritto a una morte dignitosa, scrivendo:
«Esiste un diritto per il quale togliamo la vita a un uomo, ma non uno per il quale gli togliamo la morte: ciò è pura crudeltà»
In Così Parlò Zarathustra (1883) suggerì idee affini, senza rinnegare l'utilizzo della pena capitale, bensì riaffermandola in chiave assolutoria e "sacrificale":
«La vostra uccisione, giudici, ha da essere compassione e non vendetta. Badate, nell'uccidere, di giustificare la vita! Non basta che vi conciliate con colui che uccidete. Il vostro cordoglio sia amore per il superuomo: così giustificherete il vostro restare in vita!»
In uno dei Frammenti postumi egli chiarì che:
«La pena di morte è la conseguenza di un'idea mistica oggi completamente incompresa. [...] Perché il sacrificio possa essere perfetto, occorre che da parte della vittima ci sia accettazione e gioia»
In generale, pur non prendendo un'esplicita posizione a sostegno della pena di morte, il pensiero di Nietzsche risultò esplicitamente contrario a quegli stessi principi filosofici che, in occidente, portarono alla progressiva abolizione della pena capitale e all'idea dei diritti umani. Il suo pensiero è considerato tuttora di grande attualità da parte di coloro che non riconoscono il fondamento etico di tali diritti[14].
Secondo l'antropologo e criminologo piemontese Cesare Lombroso la delinquenza è da considerare una malattia. Analizzando centinaia di crani Lombroso arrivò a stabilire precisi segni fisiologici che identificherebbero un criminale fin dalla nascita. Uno di questi segni è la fossa nell'occipite (la regione posteriore del cranio) che si trova solo negli animali inferiori. per i criminali nati non esisterebbe cura né rieducazione ma solo la pena nei "manicomi criminali" e nei casi più gravi la pena di morte.[15].
Il Catechismo della Chiesa Cattolica (1997) parla della pena di morte all'interno della trattazione sul quinto comandamento, "Non uccidere", e più specificamente nel sottotitolo che tratta della legittima difesa.
In questo contesto dice (n. 2266-2267):
«2266: Corrisponde ad un'esigenza di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell'uomo e delle regole fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto. La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l'ordine pubblico e a tutelare la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole.»
«2267: L'insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell'identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l'unica via praticabile per difendere efficacemente dall'aggressore ingiusto la vita di esseri umani.
Se invece i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall'aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l'autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana.
Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l'ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo "sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti" [Evangelium vitae, n. 56].»
Il catechismo, pubblicato due anni dopo, ha sostanzialmente recepito ciò che Giovanni Paolo II ha precisato nell'enciclica Evangelium vitae ma ancora lasciandone la possibilità in casi eccezionali.
L'enciclica recita:
«il problema della pena di morte ... registra, nella Chiesa come nella società civile, una crescente tendenza che ne chiede un'applicazione assai limitata ed anzi una totale abolizione ... È chiaro che ... la misura e la qualità della pena devono essere attentamente valutate e decise, e non devono giungere alla misura estrema della soppressione del reo se non in casi di assoluta necessità, quando cioè la difesa della società non fosse possibile altrimenti. Oggi, però, a seguito dell'organizzazione sempre più adeguata dell'istituzione penale, questi casi sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti.»
D'altra parte la teologia più volte ha ribadito l'importanza del diritto alla vita e che la vita è per i cristiani un dono di Dio, che è l'unico ad avere il diritto di donarla e di toglierla, come si legge nel catechismo nº 2280:
«Ciascuno è responsabile della propria vita davanti a Dio che gliel'ha donata. È lui che ne rimane il sovrano Padrone. Noi siamo tenuti a riceverla con riconoscenza e a preservarla per il suo onore e per la salvezza delle nostre anime. Siamo gli amministratori, non i proprietari della vita che Dio ci ha affidato. Non ne disponiamo.»
In base a questo principio, e riprendendo Tommaso d'Aquino, si basa anche la possibilità della legittima difesa (nº 2263):
«La legittima difesa delle persone e delle società non costituisce un'eccezione alla proibizione di uccidere l'innocente, uccisione in cui consiste l'omicidio volontario. «Dalla difesa personale possono seguire due effetti, il primo dei quali è la conservazione della propria vita; mentre l'altro è l'uccisione dell'attentatore... Il primo soltanto è intenzionale, l'altro è involontario.[16]»
Importanti esponenti della Chiesa cattolica sono attualmente in prima fila per chiedere l'abolizione della pena di morte nel mondo. Lo stesso Giovanni Paolo II ha più volte espresso tale posizione[17]; durante la sua ultima visita negli Stati Uniti, il 27 gennaio 1999 il pontefice ha dichiarato:
«La nuova evangelizzazione richiede ai discepoli di Cristo di essere incondizionatamente a favore della vita. La società moderna è in possesso dei mezzi per proteggersi, senza negare ai criminali la possibilità di redimersi. La pena di morte è crudele e non necessaria e questo vale anche per colui che ha fatto molto del male.»
La pena di morte in Città del Vaticano non era prevista per alcun reato già dal 1967, su iniziativa di Paolo VI; tuttavia venne rimossa dalla Legge fondamentale solo il 12 febbraio 2001, su iniziativa di Giovanni Paolo II.[18]
Nel giugno 2004 l'allora cardinale Joseph Ratzinger, futuro papa Benedetto XVI, inviò, in qualità di prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, una lettera al cardinale Theodore Edgar McCarrick - arcivescovo di Washington - e all'arcivescovo Wilton Daniel Gregory - presidente della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti - nella quale affermava che può tuttavia essere consentito [...] fare ricorso alla pena di morte:
«Non tutte le questioni morali hanno lo stesso peso morale dell'aborto e dell'eutanasia. Per esempio, se un cattolico fosse in disaccordo col Santo Padre sull'applicazione della pena capitale o sulla decisione di fare una guerra, egli non sarebbe da considerarsi per questa ragione indegno di presentarsi a ricevere la Santa Comunione. Mentre la Chiesa esorta le autorità civili a perseguire la pace, non la guerra, e ad esercitare discrezione e misericordia nell'applicare una pena a criminali, può tuttavia essere consentito prendere le armi per respingere un aggressore, o fare ricorso alla pena capitale. Ci può essere una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici sul fare la guerra e sull'applicare la pena di morte, non però in alcun modo riguardo all'aborto e all'eutanasia.»
Il 1º agosto 2018 con il Rescriptum "ex Audentia SS.mi" Papa Francesco ha stabilito una nuova redazione del punto nº 2267 del Catechismo della Chiesa Cattolica rendendo la pena di morte sempre inammissibile.[20]
«2267. Per molto tempo il ricorso alla pena di morte da parte della legittima autorità, dopo un processo regolare, fu ritenuta una risposta adeguata alla gravità di alcuni delitti e un mezzo accettabile, anche se estremo, per la tutela del bene comune.
Oggi è sempre più viva la consapevolezza che la dignità della persona non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini gravissimi. Inoltre, si è diffusa una nuova comprensione del senso delle sanzioni penali da parte dello Stato. Infine sono stati messi a punto sistemi di detenzione più efficaci, che garantiscono la doverosa difesa dei cittadini, ma, allo stesso tempo, non tolgono al reo in modo definitivo la possibilità di redimersi.
Pertanto la Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che «la pena di morte è inammissibile perché attenta all'inviolabilità e dignità della persona»[21], e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo.»
Il fondatore del buddhismo, il Buddha Sakyamuni, si pronunciò contro la vendetta e lo spargimento di sangue, non legittimando tali atti in nessun caso:
«Il sangue non pulisce ma sporca.»
«L'odio non cessa con l'odio, in nessun tempo; l'odio cessa con l'amore, questa è la legge eterna.»
«Tutti tremano davanti a un'arma, tutti temono la morte. Provando per gli altri gli stessi sentimenti che provi per te stesso, non uccidere e non far uccidere.»
«Il Beato osservò il comportamento della società e notò come molta infelicità derivasse da malignità e da sciocche offese, fatte soltanto per compiacere la vanità e per orgoglio personale. E il Buddha disse: "Se un uomo stupidamente mi fa del male, gli restituirò la protezione del mio amore senza risentimento; più male mi viene da lui, più bene andrà da me a lui; la fragranza della bontà torna sempre a me, e l'aria nociva del male va a lui.»
Il Buddha condannò la violenza e le punizioni corporali, e anche se molte interpretazioni ammettono l'autodifesa e la guerra (praticata anche da molti buddhisti nel corso dei secoli), i comportamenti e i pensieri violenti furono proibiti da lui anche in casi estremi, in particolare per i monaci, ponendo l'accento più che altro sulla disposizione mentale:
«O ancora, monaci, se briganti e assassini con una sega da alberi vi staccassero articolazioni e membra, chi per questo provasse furore non adempirebbe il mio insegnamento. Quindi voi monaci dovete ben esercitarvi a non essere turbati, a non lasciar sfuggire dalla bocca nessuna cattiva parola, a rimanere amichevoli e compassionevoli, con animo amorevole, senza segreta malizia. E dovete esercitarvi a irradiare chi vi sta davanti, con animo amorevole, e poi, cominciando da quella, a irradiare il mondo intero con animo amorevole, con animo ampio, profondo, illimitato, privo di rabbia e rancore. Di questo insegnamento col paragone della sega vogliate voi spesso ricordarvi.»
Ancora:
«Detestando ogni tipo di uccisione, l'asceta Gotama si astiene dall'uccidere, vive senza bastone o spada, coscienzioso, compassionevole, gli sta a cuore solo il benessere di tutti gli esseri viventi. Per questo motivo gli uomini lodano il Tathagata.»
Uno dei precetti morali buddhisti (sila) così recita:
«Mi asterrò dall'uccidere o dal nuocere agli esseri viventi.»
La maggioranza dei leader buddhisti contemporanei si sono pronunciati contro la vendetta e l'uccisione legalizzata anche se alcuni l'hanno vista come una forma di karma retributivo, sempre che il boia e il giudice non siano animati da sentimenti di odio e rancore verso il condannato, la quale cosa è però considerata difficile; così sostenne il monaco thailandese Buddhadasa.[22][23] Molti maestri buddhisti hanno definito la posizione dei favorevoli come un grave fraintendimento della legge di causa-effetto, poiché spetta solo al karma e alla rinascita stabilire la retribuzione, non al boia e ai giudici, che produrrebbero karma negativo per sé e per altri.[24]
Tra gli oppositori alla pratica vi sono il XIV Dalai Lama e il leader della Soka Gakkai Daisaku Ikeda.
«Sono contrario alla pena di morte, che in Tibet fu abolita dal mio predecessore. Trovo inconcepibile che essa sia mantenuta in vigore in grandi Paesi come la Cina e l'India: uccidono ancora la gente in nome della giustizia nel Paese del Mahatma Gandhi, nel Paese stesso in cui insegnò il Buddha! La pena di morte è pura violenza, barbarica e inutile, addirittura pericolosa, perché può solo condurre ad altri atti di violenza, come d'altronde ogni violenza. La punizione massima dovrebbe essere la detenzione a vita, senza la pratica di alcuna brutalità.»
«La ragione per la quale insisto sulla necessità di abolire dovunque la pena di morte si basa sul rispetto buddista per la vita. Chi si schiera per l'abolizione della pena di morte di solito basa la sua argomentazione su due punti: un essere umano non ha il diritto di giudicare e metterne a morte un altro; l'abolizione della pena di morte non fa aumentare il numero di crimini. Chi invece è a favore della pena capitale è fermamente convinto che questa punizione diminuisca il numero dei reati. Che abbia o no quest'effetto, la pena di morte implica la soppressione di una vita come deterrente o come rappresaglia di un crimine. Ma una ritorsione, provocandone inevitabilmente un'altra, mette in moto una catena di atti malvagi. A mio parere la vita, in quanto valore assoluto meritevole del più grande rispetto, non deve mai essere utilizzata come strumento per ottenere qualcosa di diverso dalla vita stessa. La dignità della vita è un fine in sé, quindi, se è necessaria una costrizione sociale, occorre trovare un altro metodo che non coinvolga la vita. Il ricorso alla pena di morte come deterrente mette in luce la deplorevole tendenza che per lungo tempo ha afflitto la società umana e che oggi pare addirittura accentuarsi, vale a dire la tendenza a sottovalutare la vita. La guerra è una delle principali cause di questa tendenza. In quasi tutti i casi, le guerre si combattono fra Stati che agiscono nel loro esclusivo interesse: la vita umana è considerata soltanto un mezzo per ottenere la vittoria e, in quanto tale, può esser utilizzata e spesa. Non c'è crimine umano più odioso di questo. Fino a quando sarà consentito commettere liberamente questo delitto mostruoso, tutti gli altri reati seguiteranno a esser commessi su scala sempre più ampia e più grave.»
Secondo il monaco Theravada thailandese Phra Paisal Visalo, abate del monastero di Wat Pasukato, la pena di morte
«Non protegge dai crimini né provoca una loro riduzione. Ricerche compiute in tutto il mondo mostrano invece che i Paesi che hanno cancellato la pena capitale hanno assistito ad una drastica diminuzione dei reati gravi (...) uccidere o distruggere una vita è contro la dottrina buddista. È il primo e il più importante dei precetti. Un buddista non dovrebbe uccidere né danneggiare una vita, perché crede che ci siano metodi migliori per risolvere i problemi. [Una riduzione dei crimini] può essere ottenuta con misure restrittive che tolgano la possibilità ai colpevoli di commettere ulteriori crimini. Inoltre, lo sviluppo economico e sociale è una strada per incoraggiare le persone a fare qualcosa di buono, diminuendo l'inclinazione al delitto.[26]»
Contrario anche il maestro zen vietnamita Thích Nhất Hạnh.[27] Ugualmente contrario fu Nāgārjuna.[28]
Il re buddhista Ashoka (III secolo a.C.) fu il primo nella storia ad abolire le pene corporali e ridurre drasticamente la pena di morte, riducendo le condanne e concedendo 25 volte (sui primi 26 anni dall'incoronazione) l'amnistia ai prigionieri come detto nei suoi editti.[29] Alcuni storici si riferiscono a ciò come a un'abolizione di fatto, la prima moratoria della storia.[30] L'imperatore del Giappone Saga, seguace del buddhismo Shingon, abolì la pena di morte durante l'ultima parte del suo regno (818-823), divenendo il primo abolizionista di diritto. Dopo la sua abdicazione forzata però venne ripristinata.
Oggi la posizione più diffusa dei buddhisti si riassume in alcuni punti[31]:
Il buddhismo attualmente non è religione di Stato (con l'eccezione della Cambogia) nemmeno in Paesi dove è molto diffuso ed estremamente rispettato dai governanti o presente a livello culturale, infatti molte nazioni a maggioranza buddhista o con consistenti comunità buddhiste applicano comunque la pena di morte (Giappone, Thailandia, Taiwan, Cina, Vietnam, Corea del Sud, Singapore, India e Indonesia[32], ecc.) o la mantengono nei loro codici (Birmania, Laos, Sri Lanka), mentre altri Paesi l'hanno invece abolita (Nepal, Bhutan, Hong Kong, Mongolia, Cambogia, più il Governo tibetano in esilio erede del Tibet storico). Spesso le nazioni mantenitrici sono Paesi con una forte secolarizzazione e una netta separazione tra Stato e religione, oppure con il buddhismo che non è maggioranza (con l'eccezione della Thailandia). In Giappone alcuni ministri della giustizia di religione buddhista hanno imposto una moratoria, rifiutando la controfirma delle condanne, adducendo la loro fede come motivazione (il caso più recente è Seiken Sugiura).[33]
A differenza della filosofia dominante in Cina di Confucio, il taoismo rigetta la pena capitale. Scrive nel VI secolo a.C. Lao-tzu, fondatore della scuola:
«Il popolo non teme la morte: come spaventarlo con la pena di morte? Anche ammesso che il popolo temesse sempre la morte e che potessimo catturare e far uccidere coloro che fanno cose strane, chi oserebbe farlo? C'è sempre un Ministro della Morte che uccide. Ora, uccidere al suo posto è come prendere il posto del grande carpentiere nel tagliare. Ora, chi si mette a tagliare al posto del grande carpentiere è raro che non si ferisca la mano.»
Lao-tzu ritiene prerogativa delle divinità taoiste (dèi di tipo naturalistico-panteistico) togliere la vita o ne deriveranno conseguenze spiacevoli a livello "karmico" anche per il boia e i giudici.
L'opinione pubblica di molti Paesi è divisa. In quelli nei quali vige la pena di morte, primo fra tutti gli Stati Uniti, esiste un movimento che ne chiede l'abolizione[34].
L'opinione pubblica contro la pena capitale si divide inoltre in abolizionisti (come Amnesty International) e sostenitori della moratoria (come l'associazione radicale Nessuno tocchi Caino). C'è chi considera anzitutto la sospensione, in particolare a livello internazionale, un primo e migliore passo, poiché gli Stati autoritari possono revocare l'abolizione, che comunque è più difficile da ottenere e non si può imporre o decidere da parte di organismi sovranazionali.
Chi sostiene la necessità di mantenere la pena di morte, oppure la possibilità di introdurla laddove non è in vigore, avanza tra gli altri i seguenti argomenti:
Diversi movimenti oggi si battono per l'abolizione della pena di morte, in nome dei diritti umani. Il 18 dicembre 2007 l'ONU, con 104 voti favorevoli, 54 contrari e 29 astenuti, ha approvato la Moratoria universale della pena di morte, promossa dall'Italia a partire dal 1994.
Tra le motivazioni contrarie alle pena di morte si cita che essa:[41]
Storicamente sono apparsi molti modi per applicare la pena di morte secondo le varie epoche e culture:
Al 24 dicembre 2022 cinquantatré Stati continuano ad applicare la pena di morte nei loro ordinamenti, mentre 142 non l'applicano, di diritto o in pratica. Tra questi ultimi, 109 l'hanno abolita per tutti i reati, 9 l'hanno abolita per reati comuni (mantenendone la previsione solo per reati particolari, come quelli commessi in tempo di guerra) e 24, pur mantenendo la norma giuridica, non l'applicano da oltre dieci anni (abolizionisti de facto). Il 15 novembre 2007 la Terza commissione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato con 99 voti favorevoli, 52 contrari e 33 astenuti una risoluzione, fortemente sostenuta dall'Italia, che chiede la moratoria universale della pena di morte[45].
L'Assemblea Generale ha votato la risoluzione il 18 dicembre 2007 con 104 voti a favore, 54 contrari e 29 astenuti. La moratoria è stata approvata con cinque voti in più rispetto alla votazione della Terza commissione il 17 novembre 2007[46].
Tranne che per il regicidio, l'alto tradimento e delitti commessi in tempo di guerra[senza fonte], la pena di morte in Italia fu abolita la prima volta in Toscana nel 1786 e successivamente durante il Regno d'Italia, nel 1889, nel codice penale opera del ministro liberale Giuseppe Zanardelli. L'Italia fu dunque tra le prime nazioni europee a espungere dal proprio diritto penale la sanzione della pena capitale.
Fu reintrodotta dal regime fascista con il codice Rocco nel 1930, poi abolita nel 1944 e ripristinata l'anno seguente; con l'avvento della Repubblica (1946) è stata espressamente vietata dalla costituzione del 1948, tranne i casi previsti da leggi di guerra. Solo nel 1994 venne abolita completamente anche nel codice penale militare di guerra e sostituita dalla pena massima prevista dall'ordinamento, ovvero l'ergastolo. L'ultima esecuzione è avvenuta a Torino nel 1947; in essa vennero fucilati tre uomini colpevoli della strage di Villarbasse.
Nel 2007 è stata espunta dalla Costituzione anche con riferimento alle leggi militari di guerra per effetto della legge costituzionale 2 ottobre 2007, n. 1: (Modifica all'articolo 27 della Costituzione, concernente l'abolizione della pena di morte).
Gli Stati Uniti sono, assieme al Giappone, l'unico Paese industrializzato, completamente libero e democratico che applica ancora la pena di morte. La pena capitale è legale a livello federale per quarantadue reati (alto tradimento, tradimento, spionaggio che metta in pericolo la sicurezza nazionale, omicidio di agenti federali, omicidio compiuto in parchi nazionali, omicidi in ambito militare, gravi atti di terrorismo ecc.). Pertanto può essere inflitta in tutto il territorio degli Stati Uniti. È fortemente contrastata dai governi dei territori non incorporati, come Porto Rico.
Nei singoli Stati è in vigore per l'omicidio di primo grado (cioè l'omicidio premeditato), ma anche, in alcune giurisdizioni, come nel Texas, per traffico di droga, omicidio con particolare violenza, e altri reati. Non è in vigore nel Distretto di Columbia e nel territorio di Porto Rico. Ventitrè dei cinquanta Stati effettivi degli USA, compresi alcuni Stati considerati "conservatori", non prevedono la pena di morte nel loro statuto: Alaska, Colorado, Connecticut, Dakota del Nord, Delaware, Hawaii, Illinois, Iowa, Maine, Maryland, Massachusetts, Michigan, Minnesota, New Hampshire, New Jersey, New York, Nuovo Messico, Rhode Island, Vermont, Virginia, Virginia Occidentale, Washington e Wisconsin. Nel Kansas la pena di morte non è più applicata dal 1965; le sentenze possono essere emesse ma non eseguite: la maggioranza di esse sono state commutate in ergastolo o sospese. In Oregon è in vigore una moratoria dal 2011 e tutte le condanne sono sospese.[47] Anche la California, la Carolina del Nord, il Kentucky, il Montana e la Pennsylvania sono in moratoria.
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha dichiarato, a livello federale, che potrebbero essere considerate punizioni crudeli (e quindi, in teoria, assimilate a tortura e proibite dall'ottavo emendamento del Bill of Rights della Costituzione degli Stati Uniti) la sedia elettrica, l'impiccagione e la camera a gas (in alcuni Stati sono però ancora utilizzabili, per esempio in Florida il condannato può optare per la sedia elettrica), ma non le ha espressamente proibite, mentre non è stata considerata incostituzionale la pena di morte applicata con l'iniezione letale o la fucilazione, quest'ultima quasi mai applicata: solo nello Utah il condannato può scegliere la fucilazione (legge del 2004), se preferisce ciò (le ultime volte in cui avvenne un'esecuzione con il plotone in USA furono 1996 e 2010, sempre nello Utah). Sono ventidue Stati, più il distretto federale, a non contemplare, di legge (17) o di fatto (5), la pena di morte. In conclusione sono comunque ventotto gli Stati che, più o meno regolarmente, per quanto riguarda i reati di competenza statale, applicano ancora l'esecuzione capitale. Lo Stato più attivo nelle esecuzioni è da sempre il Texas: l'unica esecuzione commutata in ergastolo negli ultimi decenni è stata quella di Kenneth Foster, condannato a morte per concorso in omicidio di primo grado e rapina.
Il poeta François Villon parla della pena di morte nella sua La ballata degli impiccati (1462). Villon, che attende di essere condannato all'impiccagione, che riuscirà ad evitare, invita alla pietà, in senso religioso e civile, verso sé stesso e i suoi compagni condannati. La redenzione è al centro della ballata. Villon riconosce di essersi preoccupato troppo del suo essere di carne a discapito della sua spiritualità. Questa constatazione è rafforzata dalla cruda e insopportabile descrizione dei corpi marcescenti (che fu probabilmente ispirata dal macabro spettacolo del «carnaio degli innocenti») che produce un forte contrasto con l'evocazione dei temi religiosi. Gli impiccati esortano in primo luogo i passanti a pregare per loro; poi, nel corso dell'appello, la preghiera si generalizza verso tutti gli esseri umani.
Franz Kafka descrive nel racconto Nella colonia penale (1919) i tentativi che un ufficiale fa per convincere un esploratore a difendere l'esemplare procedura di esecuzione in uso nella colonia. Il vecchio comandante aveva inventato e realizzato una macchina che causava la morte del reo incidendogli sulla schiena la regola o il comando da lui non rispettato fino a trapassarlo da parte a parte. Accortosi che tale procedura suscitava orrore sia all'esploratore sia al nuovo comandante della colonia, decide egli stesso di sottoporvisi. La macchina si guasterà e con l'ufficiale, ultimo suo sostenitore, moriranno l'antica procedura e il suo strumento.
Anche in Il processo (1925) si descrive la condanna a morte di una persona.
Una ricostruzione della pena di morte in Italia, sotto il profilo giuridico, la si può ritrovare nel testo di Italo Mereu, La morte come pena, pubblicato nel 1982.
Lo scrittore russo Fëdor Dostoevskij, condannato a morte ma in seguito graziato, nei primi capitoli de L'idiota fa pronunciare al protagonista del romanzo, il principe Myškin, una violenta requisitoria contro la pena di morte.
«Ora, può darsi che il supplizio più grande e più forte non stia nelle ferite, ma nel sapere con certezza che, ecco, tra un'ora, poi tra dieci minuti, poi tra mezzo minuto, poi adesso, ecco, in quell'istante, l'anima volerà via dal corpo e tu non esisterai più come uomo, e questo ormai con certezza; l'essenziale è questa certezza. [...] La punizione di uccidere chi ha ucciso è incomparabilmente più grande del delitto stesso. L'omicidio in base a una sentenza è incomparabilmente più atroce che non l'omicidio del malfattore. [...] Uccidere chi ha ucciso è, secondo me, un castigo non proporzionato al delitto. L'assassinio legale è assai più spaventoso di quello perpetrato da un brigante. La vittima del brigante è assalita di notte, in un bosco, con questa o quell'arma; e sempre spera, fino all'ultimo, di potersi salvare. Si sono dati casi, in cui l'assalito, anche con la gola tagliata, è riuscito a fuggire, ovvero, supplicando, ha ottenuto grazia dagli assalitori. Ma con la legalità, quest'ultima speranza, che attenua lo spavento della morte, ve la tolgono con una certezza matematica, spietata. [...] Forse esiste un uomo al quale hanno letto la sentenza, hanno lasciato il tempo di torturarsi, e poi hanno detto: “Va', sei graziato". Ecco, un uomo simile forse potrebbe raccontarlo.»
Anche un altro scrittore, Lev Tolstoj, si pronuncia contro la pena di morte:
«[...] ho visto a Parigi decapitare un uomo con la ghigliottina, in presenza di migliaia di spettatori. Sapevo che si trattava di un pericoloso malfattore; conoscevo tutti i ragionamenti che gli uomini hanno messo per iscritto nel corso di tanti secoli per giustificare azioni di questo genere; sapevo che tutto veniva compiuto consapevolmente, razionalmente; ma nel momento in cui la testa e il corpo si separarono e caddero diedi un grido e compresi, non con la mente, non con il cuore, ma con tutto il mio essere, che quelle razionalizzazioni che avevo sentito a proposito della pena di morte erano solo funesti spropositi e che, per quanto grande possa essere il numero delle persone riunite per commettere un assassinio e qualsiasi nome esse si diano, l'assassinio è il peccato più grave del mondo, e che davanti ai miei occhi veniva compiuto proprio questo peccato.[48]»
Mark Twain scrisse anche lui un resoconto di un'esecuzione, che lo farà diventare un abolizionista:
«La tensione dentro di me, invece, era insopportabile (...) Gli restavano venti momenti di vita, poi quindici, dieci, cinque, quattro, tre - santo cielo come correva il tempo! - eppure lui se ne stava lì tranquillo anche se sapeva che lo sceriffo stava per afferrare la leva che azionava il trabocchetto mentre il cappuccio nero gli veniva calato sulla testa. E poi giù! Legato con tutte quelle cinghie, caduto nel buco dell'impalcatura con la velocità di una freccia! Un tremendo sussulto è cominciato all'altezza delle spalle, e poi giù lungo tutto il corpo, violentemente, fino a spegnersi in quell'irrigidimento verso il basso delle dita dei piedi, come due pugni chiusi - e tutto era finito! Ho visto tutto. Ho preso appunti precisi su ogni dettaglio - anche il modo garbato con cui aiutò a sistemare le cinghie che gli legavano le gambe e la calma con cui scostò le sue ciabatte - e spero di non dover assistere ad una simile scena mai più.»
J. R. R. Tolkien scrive:
«- [...] Merita la morte. - Se la merita! E come! Molti tra i vivi meritano la morte. E parecchi che sono morti avrebbero meritato la vita. Sei forse tu in grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi: sappi che nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze.»
Tolkien, cattolico, pensa che solo Dio possa togliere o dare la vita.
Un importante romanzo sul tema è Lo straniero (L'Étranger 1942), di Albert Camus, autore che nel 1957 pubblicò anche un saggio contro la pena capitale:
«Il senso d'impotenza e di solitudine del condannato incatenato, di fronte alla coalizione pubblica che vuole la sua morte, è già di per sé una punizione inconcepibile. [...] Generalmente l'uomo è distrutto dall'attesa della pena capitale molto tempo prima di morire. Gli si infliggono così due morti, e la prima è peggiore dell'altra, mentre egli ha ucciso una volta sola. Paragonata a questo supplizio, la legge del taglione appare ancora come una legge di civiltà. Non ha mai preteso che si dovessero cavare entrambi gli occhi a chi aveva reso cieco di un occhio il proprio fratello.»
Jack London scrisse contro la pena capitale nei suoi romanzi, facendo pronunciare ad un suo personaggio, un uomo in attesa di esecuzione:
«L'uso peggiore che si possa fare di un uomo è quello di impiccarlo». No, non ho alcun rispetto per la pena di morte. Si tratta di un'azione sporca, che non degrada solo i cani da forca pagati per compierla ma anche la comunità sociale che la tollera, la sostiene col voto e paga tasse specifiche per farla mettere in atto. La pena di morte è un atto stupido, idiota, orribilmente privo di scientificità: «... ad essere impiccato per la gola finché morte non sopravvenga» recita il famoso frasario della società...»
Victor Hugo dedicò molte opere al tema; definì la pena di morte, in un discorso parlamentare, come "segno eterno e caratteristico della barbarie";
così scrisse:
«Come! In giacca non posso uccidere, in toga posso! Come la tonaca di Richelieu, la toga copre tutto. Vindicta pubblica? Oh, ve ne prego, non mi vendicate. Assassinio, assassinio! Vi dico. All'infuori del caso di legittima difesa, inteso nel suo senso più ristretto (perché una volta che il vostro aggressore ferito da voi sia caduto, voi dovete soccorrerlo), l'omicidio è forse permesso? Ciò che è vietato all'individuo è dunque lecito alla comunità? Il carnefice quale sinistra specie d'assassino, l'assassino ufficiale, l'assassino patentato, mantenuto, fornito di rendita, chiamato in certi giorni, che lavora in pubblico, uccide in pieno sole, avendo tra i propri arnesi "la spada della giustizia", riconosciuto assassino dallo Stato; l'assassino funzionario, l'assassino che ha la sua nicchia nella legge, l'assassino in nome di tutti! Esso ha la mia procura e la vostra per uccidere. Strangola o scanna, poi batte la mano sulla spalla della società e dice: "Io lavoro per te, pagami". È l'assassino cum privilegio legis, l'assassino il cui crimine è decretato dal legislatore, deliberato dal giurato, ordinato dal giudice, permesso dal prete, protetto dal soldato, contemplato dal popolo.»
Oscar Wilde, imprigionato per omosessualità, conobbe in prigione un condannato a morte per l'omicidio della moglie e assistette alla sua esecuzione; alla vicenda ispirò un lungo componimento, La ballata del carcere di Reading, in cui Wilde prende una chiara posizione contro la pena capitale, opponendo la pietà cristiana e umana all'ipocrisia di carcerieri e uomini di chiesa:
«Il Cappellano non s'è inginocchiato / accanto alla sua tomba maledetta (...) / eppure anch'egli / appartiene alla schiera di coloro / che il Signore venne in terra a salvare. / Non importa: se egli ha attraversato / il limite fissato per la vita / lacrime sconosciute riempiranno /l'urna della Pietà per lui. Avrà / i lamenti degli uomini esiliati: / per gli esiliati esiste solo il pianto.»
Il poeta Giovanni Pascoli, il cui padre venne assassinato per motivi mai completamente chiariti, si pronunciò contro la pena di morte e contro l'ergastolo:
«Che è? siamo malfattori anche noi? Oh! no: noi non vorremmo vedere quelle catene, quella gabbia, quelle armi nude intorno a quell'uomo; vorremmo non sapere ch'egli sarà chiuso, vivo, per anni e anni e anni, per sempre, in un sepolcro; vorremmo non pensare ch'egli non abbraccerà più la donna che fu sua, ch'egli non vedrà più, se non reso irriconoscibile e ignominioso dall'orrida acconciatura dell'ergastolo, i figli suoi... Ma egli ha ucciso, ha fatto degli orfani, che non vedranno più affatto il loro padre, mai, mai, mai! E vero: punitelo! è giusto!... Ma non si potrebbe trovare il modo di punirlo con qualcosa di diverso da ciò ch'egli commise?... Così esso assomiglia troppo alle sue vittime! Così andranno sopra lui alcune delle lagrime che spettano alle sue vittime! Le sue vittime vogliono tutta per loro la pietà che in parte s'è disviata in prò di lui! (...) Non essere così ragionevole, o Giustizia. Perdona più che puòi. — Più che posso? — Ella dice di non potere affatto. Se gli uomini, ella soggiunge, fossero a tal grado di moralità da sentire veramente quell'orrore al delitto, che tu dici, si potrebbe lasciare che il delitto fosse pena a sé stesso, senza bisogno di mannaie e catene, di morte o mortificazione. Ma... Ma non vede dunque la giustizia che quest'orrore al delitto gli uomini lo mostrano appunto già assai, quando abominano, in palese o nel cuore, il delitto anche se è dato in pena d'altro delitto, ossia nella forma in cui parrebbe più tollerabile?[52]»
Opere Letterarie:
Opere Cinematografiche:
Opere Musicali:
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