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opera di Giovanni Boccaccio Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Il Decameron, o Decamerone (parola composta dal greco antico: δέκα?, déka, "dieci" e ἡμερῶν, hēmerôn, genitivo plurale di ἡμέρα, hēméra, "giorno", letteralmente "di dieci giorni", nel senso di "[opera] di dieci giorni")[3], è una raccolta di cento novelle scritta da Giovanni Boccaccio nel XIV secolo, probabilmente tra il 1349 (anno successivo all'epidemia di peste nera in Europa) e il 1351 (secondo la tesi di Vittore Branca) o il 1353 (secondo la tesi di Giuseppe Billanovich). Anche se il primo a capire che si trattava di un testo autografo fu Alberto Chiari, Vittore Branca nel 1962 dimostrò come il codice Hamilton 90, conservato a Berlino, fosse un prezioso autografo risalente agli ultimi anni di vita di Boccaccio[4].
Decameron | |
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Altri titoli | Decamerone |
Incipit dell'opera in un'edizione stampata a Venezia nel 1492 | |
Autore | Giovanni Boccaccio |
1ª ed. originale | 1349-1353 |
Editio princeps | 1470? |
Genere | raccolta di novelle[1][2] |
Lingua originale | italiano |
Ambientazione | Firenze |
È considerata una delle opere più importanti della letteratura del Trecento europeo, durante il quale esercitò una vasta influenza sulle opere di altri autori (si pensi ai Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer, opera con una struttura e una cornice narrativa del tutto simili), oltre che la capostipite della letteratura in prosa in volgare italiano. Boccaccio nel Decameron raffigura l'intera società del tempo, integrando l'ideale di vita aristocratico, basato sull'amor cortese, la magnanimità e la liberalità coi valori della mercatura: l'intelligenza, l'intraprendenza, l'astuzia.
Il libro narra di un gruppo di giovani che per dieci giorni si trattengono fuori da Firenze, spostandosi in una villa sulle colline del fiorentino, per sfuggire alla peste nera che imperversa nella città, e che a turno si raccontano delle novelle di taglio spesso umoristico e con frequenti richiami all'erotismo bucolico del tempo. Per quest'ultimo aspetto il libro fu tacciato d'immoralità o di scandalo e fu in molte epoche censurato o comunque non adeguatamente considerato nella storia della letteratura. Il Decameron fu anche ripreso in versione cinematografica da diversi registi, tra cui Pier Paolo Pasolini e i fratelli Taviani.
Decameron è un termine che deriva dal greco, che letteralmente significa "di dieci giorni". Il titolo è un rimando all'Exameron ("di sei giorni") di Sant'Ambrogio, una riformulazione in versi del racconto biblico della Genesi. Il titolo in greco è anche sintomo dell'entusiastica riscoperta dei classici della commedia e della tragedia ellenica, non filtrati in latino prima dalla Roma imperiale e poi da quella cristiana. L'intenzione di Boccaccio è costruire un'analogia tra la propria opera e quella di Sant'Ambrogio: come il santo narra la creazione del mondo e dell'umanità, allo stesso modo il Decameron narra la ri-creazione dell'umanità, che avviene per mezzo dei dieci protagonisti e del loro novellare, in seguito al flagello della peste abbattutasi a Firenze nel 1348.
A mano a mano che si susseguono i racconti dei protagonisti, tramite essi vengono ricostruiti l'immagine, le strutture relazionali e i valori dell'umanità e della società che altrimenti sarebbero perduti, dal momento che la città è sotto l'effetto distruttivo e paralizzante della peste. Si tratta di una metafora importante, in quanto esprime la concezione preumanistica di Boccaccio nella quale le humanae litterae (qui rappresentate dalle cento novelle) hanno la facoltà di rifondare un mondo distrutto e corrotto. In particolare, è notevole la capacità del Boccaccio di passare senza soluzione di continuità dal sublime al triviale e viceversa, pur mantenendo costante la sua estrema avversione rispetto alle aberrazioni e ai soprusi.
L'intitolazione del Decameron nell'apografo di Francesco Mannelli[5] (Codice Laurenziano Pluteo XLII 1), datato 13 agosto 1384, è la seguente:
«Comincia il libro chiamato Decameron, cognominato prencipe Galeotto. Nel quale si contengono cento novelle in diece dì decte da septe donne & da tre giovani huomini.»
L'opera è cognominata (ossia sottotitolata) Prencipe Galeotto, con riferimento a un personaggio, Galeuth o Galehaut, del ciclo bretone del romanzo cortese che fece da intermediario d'amore tra Lancillotto e Ginevra. "Galeotto" inoltre riecheggia un famoso verso, riferito allo stesso personaggio, del V canto dell'Inferno di Dante Alighieri, Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse, verso con cui Francesca termina il suo racconto.
A margine va annotato che il tempo effettivo trascorso fuori città dai giovani è di quattordici giorni, poiché il venerdì è dedicato alla preghiera e il sabato alla cura personale delle donne.
All'interno del Decameron, Boccaccio racconta di una brigata di dieci giovani amici, sette ragazze e tre ragazzi, tutti di elevata condizione sociale, i quali, durante il periodo in cui la peste devasta Firenze (1348), decidono di cercare una possibilità di fuga dal contagio spostandosi in campagna. Qui i dieci personaggi trascorrono il tempo secondo precise regole, tra canti, balli e giochi. Notevole importanza, come vedremo dopo, assumono anche le preghiere.
Per occupare le prime ore pomeridiane, i giovani decidono di raccontare quotidianamente una novella ciascuno, tranne il venerdì e il sabato, seguendo un preciso regolamento: ogni giorno, a turno, viene eletto un re o una regina, che fissa il tema della giornata cui tutti dovranno ispirarsi nei loro racconti. Al solo Dioneo, per la sua giovane età, è concesso di non rispettare il tema stabilito, tuttavia dovrà novellare sempre per ultimo ("privilegio di Dioneo"). Inoltre, la prima e la nona giornata hanno un tema libero per tutti.
Si sono date molteplici interpretazioni dei singolari nomi attribuiti ai narratori, in gran parte riecheggianti etimologie greche:
Pampinea, Filomena ed Elissa sono coloro che all’interno dell’opera spiccano per il loro senso di iniziativa.
Neifile, Emilia, Fiammetta e Lauretta sono parte della brigata ma non svolgono un ruolo attivo, non intervengono mai nelle scelte, tantomeno hanno spirito d’iniziativa, perciò possono essere considerate figure di contorno.
Nel Decameron le cento novelle, pur avendo spesso in comune i temi, sono diversissime l'una dall'altra, poiché l'autore ha voluto rappresentare la vita di tutti i giorni nella sua grande varietà di tipi umani, di atteggiamenti morali e psicologici e di virtù e vizi; ne deriva che il Decameron offre una straordinaria panoramica della civiltà del Trecento: in quest'epoca l'uomo borghese cercava di creare un rapporto fra l'armonia, la realtà del profitto e gli ideali della nobiltà cavalleresca ormai finita.
Come scritto nella conclusione dell'opera, i temi sono essenzialmente due. In primo luogo, infatti, l'autore voleva mostrare ai fiorentini che, se si ha il giusto spirito, è possibile rialzarsi da qualunque disgrazia si venga colpiti, proprio come fanno i dieci giovani nei confronti della peste che si abbatte in quel periodo sulla città. Il secondo tema, invece, è legato al rispetto e ai riguardi di Boccaccio nei confronti delle donne: egli infatti scrive che quest'opera è dedicata a loro, visto che le donne, a quel tempo, erano le persone che leggevano maggiormente e avevano più tempo per dedicarsi alla lettura delle sue opere.
Riguardo alla struttura complessiva dell'opera, sono state formulate numerose interpretazioni. Tra queste segnaliamo quella del filologo Vittore Branca, che ipotizzò una struttura ascensionale dell'opera, in cui vengono contrapposti l'esempio negativo fornito da ser Ciappelletto, protagonista della prima novella della prima giornata, con quello positivo fornito da Griselda, personaggio dell'ultima novella dell'opera (e in generale dai protagonisti di tutta la decima giornata, in cui i temi assegnati sono la liberalità e la magnanimità). Altri italianisti, quali Alberto Asor Rosa, hanno ipotizzato una strutturazione del Decameron per "grappoli tematici", formati da più giornate caratterizzate da tematiche simili. Infine, il critico Ferdinando Neri tentò di dividere l'opera in due parti di cinque giornate ciascuna, cui la Prima e la Sesta giornata fungono da introduzione.
Il libro si apre con un proemio che delinea i motivi della stesura dell'opera. Boccaccio afferma che il libro è dedicato a coloro che sono afflitti da pene d'amore, allo scopo di dilettarli con piacevoli racconti e dare loro utili consigli. L'autore specifica poi che l'opera è rivolta in particolare a un pubblico di donne, e più precisamente a quelle che amano. Il destinatario dell'opera è la borghesia cittadina, che si contrappone all'istituto della corte, sviluppatosi soprattutto in Francia. Dunque la novella, essendo caratterizzata da uno stile semplice, breve e immediato, tende a interfacciarsi col nuovo ceto sociale, la borghesia laica, benestante e acculturata di cui Boccaccio è espressione.
Sempre nel proemio, Boccaccio racconta di rivolgersi alle donne per rimediare al peccato della Fortuna: le donne possono trovare poche distrazioni dalle pene d'amore rispetto agli uomini. Alle donne, infatti, a causa delle usanze del tempo, erano preclusi certi svaghi che agli uomini erano concessi, come la caccia, il gioco o il commerciare, tutte attività che possono occupare l'esistenza dell'uomo. Quindi nelle novelle le donne potranno trovare diletto e utili soluzioni che allevieranno le loro sofferenze.
Sin dal proemio, il tema dell'amore mostra la propria importanza: in effetti gran parte delle novelle tocca questa tematica, che assume anche forme licenziose e che susciterà reazioni negative da parte di un pubblico retrivo; per questo motivo Boccaccio, nell'introduzione alla IV giornata e nella conclusione all'opera, rivendicherà il suo diritto a una letteratura libera e ispirata a una concezione naturalistica dell'Eros (significativo in questo senso il cosiddetto "apologo delle papere", inizio della IV giornata).
L'uso della cornice narrativa in cui inserire le novelle è di origine indiana.[7] Tale struttura passò poi nella letteratura araba e in Occidente. La cornice è costituita da tutto ciò che non fa parte dello sviluppo delle novelle: si tratta della Firenze contaminata dalla peste, dove un gruppo di sette ragazze e tre ragazzi di elevata condizione sociale decide di ritirarsi in campagna per trovare scampo dal contagio. È per questo che Boccaccio all'inizio dell'opera fa una lunga e dettagliata descrizione della malattia che colpì Firenze nel 1348 (ispirata quasi interamente a conoscenze personali ma anche all'Historia Langobardorum di Paolo Diacono); oltre a decimare la popolazione, l'epidemia distrusse tutte quelle norme sociali e quegli usi e quei costumi che gli erano cari.
Al contrario, i giovani creano una sorta di realtà parallela quasi perfetta per dimostrare come l'uomo, grazie all'aiuto delle proprie forze e della propria intelligenza, sia in grado di dare un ordine alle cose, che poi sarà uno dei temi fondamentali dell'Umanesimo. In contrapposizione al mondo uniforme di questi giovani si pongono poi le novelle, che hanno vita autonoma: la realtà descritta è soprattutto quella mercantile e borghese; viene rappresentata l'eterogeneità del mondo e la nostalgia verso quei valori cortesi che via via stanno per essere distrutti per sempre; i protagonisti sono moltissimi, ma hanno tutti in comune la determinazione di volersi realizzare per mezzo delle proprie forze. Tutto ciò fa del Decameron un'opera unica, poiché non si tratta di una semplice raccolta di novelle: queste ultime sono tutte collegate fra di loro attraverso la cornice narrativa, formando una sorta di romanzo.
La concezione della vita morale nel Decameron si basa sul contrasto tra Fortuna e Natura, le due ministre del mondo (VI, 2, 6).
L'uomo si definisce in base a queste due forze: una esterna, la Fortuna (che lo condiziona, ma che può volgere a proprio favore), l'altra interna, la Natura, con istinti e appetiti che deve riconoscere con intelligenza.[8] La Fortuna nelle novelle appare spesso come evento inaspettato che sconvolge le vicende, mentre la Natura si presenta come forza primordiale la cui espressione prima è l'Amore come sentimento invincibile che domina insieme l'anima e i sensi, che sa ugualmente essere pienezza gioiosa di vita e di morte.
L'amore per Boccaccio è una forza insopprimibile, motivo di diletto, ma anche di dolore, che agisce nei più diversi strati sociali e per questo spesso si scontra con pregiudizi culturali e di costume. La virtù in questo contesto non è mortificazione dell'istinto, bensì capacità di appagare e dominare gli impulsi naturali. Nel Decameron il tema della follia compare a più riprese e si intreccia con altre tematiche, come quella della beffa e quella della follia per amore, per la quale uno dei due amanti giunge fino alla morte. Durante tutta la IV giornata vengono narrate novelle che trattano di amori che ebbero infelice fine: si tratta di storie in cui la morte di uno degli amanti è inevitabile perché le leggi della Fortuna trionfano su quelle naturali dell'Amore. All'interno della giornata, le novelle 3, 4 e 5 rappresentano un trittico che illustra in modi diversi l'amore come follia. L'elemento che le accomuna è la presenza della Fortuna coniugata come diversità di condizione sociale: prevale infatti la tematica dell'amore che travalica le leggi della casta e del matrimonio, che diventa una follia sociale e motivo di scandalo.
Un esempio è costituito dalla 5ª novella della IV giornata, ovvero la storia di Lisabetta da Messina e il vaso di basilico. In questa novella si sviluppa il contrasto Amore/Fortuna: Lorenzo è un semplice garzone di bottega, bello e gentile, con tutte le qualità cortesi per suscitare l'amore; Lisabetta, che appartiene a una famiglia di mercanti originaria di San Gimignano, incarna l'energia eroica di chi resiste all'avversa fortuna solo con la forza del silenzio e del pianto; i tre fratelli sono i garanti dell'onore della famiglia, non tollerano la relazione della sorella con qualcuno di rango inferiore. Sono costretti ad intervenire per riportare le cose in ordine e per ristabilire l'equilibrio sovvertito dalla pazzia amorosa di Lisabetta. Lisabetta è un esempio di amore dagli aspetti tragici ed elegiaci e nell'opera di Boccaccio sono presenti altre figure femminili tragiche in cui lo scrittore vede realizzarsi pienezza di vita ed intelligenza che egli chiama "grandezza d'animo".
Ad esempio si possono menzionare la moglie di Guglielmo Rossiglione (IV, 9), la quale, costretta dal marito a mangiare il cuore del suo amante, si toglie la vita gettandosi da una finestra del castello, oppure Ghismonda di Salerno (IV, 1) che, uccisole dal padre il giovane valletto di cui si era innamorata, si suicida stoicamente. Boccaccio affronta il tema dell'Amore mostrando con perfezione il gioco degli istinti e dei sentimenti, senza compiacimenti per la materia sessuale, fornendo invece esempi in cui l'Amore cozza contro il Caso o le leggi delle convenzioni sociali.
Mentre per Dante la Fortuna è una intelligenza angelica che agisce nell'àmbito di un progetto divino (Inferno - Canto settimo, 76-96), la Fortuna presente nel Decameron è il "caso". L'opera boccacciana non è ascetica ma laica, svincolata dal teocentrismo che invece sta alla base della Divina Commedia di Dante e della mentalità medievale della quale il Decameron rappresenta l'"autunno". L'Ingegno umano è un altro motivo ricorrente. Troviamo il gusto della beffa (Chichibio, VI, 4), la spregiudicatezza empia di Ciappelletto (I, 1), la dabbenaggine di Andreuccio da Perugia (II, 5) e Calandrino, l'arguzia e l'imbroglio (Frate Cipolla, VI, 10), gli aspetti maliziosi e ridanciani (racconto delle monache e della badessa, novella del giudice marchigiano beffato).
Incontriamo anche l'arguzia gentile di Cisti fornaio (VI, 2), l'intelligenza pronta di Melchisedech (I, 3) e l'ingegno di Giotto (VI, 5), la signorilità venata di arguzia e di bizzarria del brigante Ghino di Tacco (X, 2). Due giornate sono consacrate ai motti, cioè alla prontezza dello spirito, quattro sono dedicate alle astuzie di ogni genere, volte a conquistare l'amore o a vendicarlo o a beffare l'intelligenza altrui, o, soprattutto, a trarsi d'impaccio, mediante l'immediata intuizione, dalle situazioni più difficili e strane.
L'opera presenta una duplice "anima". La prima è realistica, riflette la mentalità e la cultura della classe borghese-mercantile (Vittore Branca ha definito l'opera di Boccaccio "epopea mercantile"). La seconda è aristocratica ed in essa sono presenti le virtù cavalleresche proprie dell'aristocrazia feudale, del mondo cortese-cavalleresco: cortesia, magnanimità, munificenza, lealtà, virtù umana fino al sacrificio (novelle della decima giornata; novella di Federigo degli Alberighi). Federigo degli Alberighi (V, 9) è un insigne esempio di dignità cavalleresca, mentre tra le novelle dell'ultima giornata emergono la magnanima cortesia di Natan (X, 3), la saggezza malinconica di re Carlo (X, 6), la virtù di Griselda (X; 10). Scrive Vittore Branca: " È un'epopea (cioè un'interpretazione al di là degli eventi) di quell'età in cui la vita cavalleresca e feudale si incontrava splendidamente con quella pulsante e fervida delle compagnie e delle arti e la grandiosa architettura dell'impero andava mirabilmente frangendosi nel molteplice e ricco mosaico dei regni, dei principati, dei comuni. [....] Accanto al mondo solenne e dorato dei re e dei cavalieri, il Boccaccio pone senza alcuna esitazione la società operosa e avventurosa degli uomini della sua età".[9]
È scomparso il Medioevo mistico e idealizzante e al suo posto è presente la vita terrena riscoperta con un senso di gioia e di prorompente vitalità, un intenso interesse per tutte quelle manifestazioni che legano l'uomo all'esistenza, intesa non solo sotto il profilo materiale ma anche spirituale, pur nell'assenza di preoccupazioni morali e religiose. Il Decameron si conclude con una giornata in cui domina appunto il motivo della virtù, seguendo quindi una parabola morale ascendente secondo lo schema della poetica medievale. Si tratta di un percorso riscontrabile anche nella Commedia di Dante e nel Canzoniere di Petrarca, dove però è presente il motivo religioso e teologico che invece manca nelle virtù terrene del laico Boccaccio. Nella Commedia dantesca si va dalla condizione di peccato alla beatitudine celeste, nel Canzoniere dall'idea di peccato e di traviamento del primo sonetto alla conclusiva canzone alla Vergine (Vergine bella).[10][11][12]
Oltre ai temi principali esposti ampiamente nell'opera, è possibile distinguere anche altri contenuti, meno argomentati, ma non per tale motivo da considerarsi di poco conto. Uno di questi è il tema dell'individualità. Con questo termine si indica il complesso di qualità che caratterizza l'individuo e lo distingue dagli altri membri della stessa società, in quanto capace di agire e di pensare secondo modalità proprie e non conformate alle altrui. Infatti nelle varie novelle c'è spesso una figura di riferimento che sembra assumere un ruolo primario nella svolta della vicenda; essa contribuisce, attraverso i propri sentimenti, azioni, impulsi, ragionamenti, a modificare la scena. Inoltre tale personaggio è pronto alle conseguenze derivanti dai propri comportamenti, delle quali si assume, seppur con qualche eccezione, la piena responsabilità.
Le sue decisioni, sbagliate o giuste che siano, spesso si estendono alla folla, che, in contrapposizione, si rivela essere facilmente adulabile dall'individuo singolo. La “massa” non detiene, infatti, capacità di decisione propria nei vari ambiti, accetta semplicemente ciò che è proposto per quanto assurdo possa sembrare; assiste talvolta alle scelte della figura di riferimento senza però esprimere la propria idea. Boccaccio sembra configurare gli appartenenti ai gruppi sociali più elevati nella veste di personaggio individuale, mentre identifica la classe contadina nella folla priva di carattere. Diversi sono gli esempi inerenti a tale affermazione:
Vari aspetti del Decameron anticipano l'Umanesimo quattrocentesco: l'interesse per l'uomo e la vita sociale; l'esaltazione dell'intelligenza e di altre doti umane; l'amore considerato come sentimento naturale; la natura rappresentata come luogo di pace e serenità.
La struttura del Decameron affonda le sue radici in tradizioni lontane: il ricorso alla cornice narrativa era tipico della novellistica orientale e araba; l'idea di una brigata di dieci persone che conversa dopo pranzo per alcuni giorni è già nei Saturnalia di Macrobio; storie di varie avventure, talora oscene, sono nel filone greco e poi latino delle Satire menippee che influenza - è questa un'altra fonte sicura di Boccaccio - le Metamorfosi di Apuleio, opera in cui compare anche il tema del novellare in una situazione di pericolo, di fronte alla morte.
Come repertorio tematico delle varie novelle Boccaccio ha utilizzato poi numerose fonti medievali: i fabliaux, i lais, i cantari dei giullari, le raccolte di exempla, le vidas dei trovatori, le commedie elegìache in latino, le fiabe orientali. Egli riprende talora lo stesso materiale del Novellino e qualche volta le novelle stesse di questa raccolta. D'altra parte, il Novellino costituisce il primo serio tentativo di affermazione della novellistica prima del Decameron, ed è naturale che Boccaccio lo tenesse costantemente presente; ma nel Decameron siamo ormai al di là delle strutture narrative, ancora gracili e approssimative, di questo libro.
Alla multiforme varietà degli ambienti, dei personaggi e dei luoghi si adegua la lingua usata da Boccaccio in quest'opera. Il periodare è talvolta ampio e solenne, ricco di subordinate, di incisi, di inversioni e costrutti latineggianti; altre volte è invece più rapido. Il lessico varia da una scelta aulica ed elegante, a un dire pittoresco e gergale.[13]
Esistono nel Decameron tre livelli di narrazione: Boccaccio, l'autore, è un narratore onnisciente di primo livello. I narratori delle novelle sono quelli di secondo livello, mentre i protagonisti delle novelle che raccontano a loro volta una storia (es. Melchisedech) sono i narratori di terzo livello.
Nell'opera in genere fabula ed intreccio coincidono, ma non mancano le analessi. Per ciò che concerne il tempo della storia ed il tempo del racconto, frequente è il ricorso ad accelerazioni effettuate con sommari od ellissi, oppure a rallentamenti risultanti da digressioni o pause descrittive.
A partire dalla metà del XVI secolo il sistema di controllo delle scritture andò organizzandosi e istituzionalizzandosi per poter far fronte alla lotta contro l'eresia. Fu così istituito L'Indice dei libri proibiti voluto da Papa Paolo IV Carafa nel 1559 come "filtro" per poter fronteggiare le accuse, anche se velate, degli scrittori del tempo. L'ordine da Roma era tassativo: «...Per niun modo si parli in male o scandalo de' preti, frati, abbati, abbadesse, monaci, monache, piovani, provosti, vescovi, o altre cose sacre, ma si mutino lj nomi; o si faccia per altro modo che parrà meglio».
Il Decameron apparve nell'Indice dei libri proibiti alla lettera B nel seguente modo:
«Boccacci Decades seu novellae centum quae hactenus cum intolerabilibus erroribus impressae sunt et quae posterum cum eisdem erroribus imprimentur.»
«Le decadi di Boccaccio o Cento Novelle che finora sono state stampate con errori intollerabili e che in futuro saranno stampate con i medesimi errori.»
Nel 1573 l'Inquisizione commissionò a degli esperti fiorentini, i Deputati, il compito di "sistemare" il testo fiorentino per eccellenza. Non esiste accordo sull'identità dei Deputati alla revisione del Decameron, ma le ipotesi plausibili sembrano essere due. La prima considera tre componenti: Vincenzo Borghini, Pierfrancesco Cambi, Sebastiano Antinori. La seconda ne considera quattro: Vincenzo Borghini, Sebastiano Antinori, Agnolo Guicciardini e Antonio Benivieni. Tra i membri del gruppo emerge Vincenzo Borghini, riconosciuto come il vero promotore della censura del Decameron. Essi, ricevuto dalla Chiesa di Roma il Decameron segnato nei passi da modificarsi, procedettero con armi diverse, con ragioni culturali, tradizionali, filologiche e retoriche alla difesa del Decameron, tentando di salvare il salvabile.
Quindi alla Chiesa di Roma spettò direttamente la censura vera e propria, mentre la specializzazione linguistica e filologica spettò ai Deputati. Il 2 maggio 1572 tornò a Firenze la copia ufficiale autorizzata dall'Inquisitore di Roma per la stampa, ma solo il 17 agosto 1573 il testo venne stampato. L'anno successivo il testo dell'opera ridotta fu accompagnato da Le Annotazioni di discorsi sopra alcuni luoghi del Decameron, una raccolta di considerazioni linguistiche e filologiche che cercavano di giustificare le scelte fatte durante le singole fasi della rassettatura. Il Decameron dei Deputati si ritrovò poco dopo proibito dalla stessa Inquisizione, e conobbe perciò solo un'edizione.
Il Decameron conobbe nel 1582 un'altra edizione curata da Leonardo Salviati. Sembra che sia stato lo stesso Salviati che, tramite il suo protettore Jacopo Buoncompagni, spinse la curia romana a chiedere una nuova censura del Decameron. Infondata è l'ipotesi avanzata, secondo cui la nuova rassettatura si sarebbe resa necessaria perché i Deputati avrebbero rivelato una certa trascuratezza sul terreno della morale, soprattutto sessuale, lasciando insomma troppo correre sulla lascivia del testo.
In realtà il Decameron di Salviati, piuttosto che una vera e propria edizione fondata sui risultati di ricerche originali, appare una correzione dell'edizione precedente. Ne deriva che mentre i Deputati di Borghini si limitarono a tagliare, Salviati modificò, o più precisamente, che mentre i primi intervennero sul testo, il secondo censurò anche la lettura, facendo ricorso a glosse marginali, per svolgere apertamente una funzione di mediazione fra il testo e il lettore, per dare un'interpretazione univoca. L'operazione di Salviati risparmiò 48 novelle, mentre ne modificò 52.
Le novelle facenti parti del Decameron sono state più volte riprese in opere cinematografiche; il primo adattamento, Il Decamerone, risale al 1912.
Il Decameron, film di Pier Paolo Pasolini, con Franco Citti e Ninetto Davoli, presenta dieci novelle da giornate diverse ed è uscito nel 1971. Il film riscosse notevole successo e, per cavalcarne l'onda della fama, negli anni '70 furono prodotte varie pellicole simili, molte delle quali però non erano altro che film di serie B, girate a basso costo e con scene goliardiche, comiche ed erotiche, iscritte in un vero e proprio sottogenere apposito, detto "decamerotico". Si ricordano titoli come Decameron proibitissimo (Boccaccio mio statte zitto), Decamerone '300 e Le calde notti del Decameron.
Del 1972 è Il Decamerone proibito, diretto da Carlo Infascelli e interpretato, fra gli altri, da Orchidea De Santis, che rielabora le vicende dei giovani protagonisti. Fra i film che inventano nuove storie sullo stile del Boccaccio, troviamo Decameron nº 2 - Le altre novelle del Boccaccio, che inventa ben sei "novelle" seguendo le trame di Giovanni Boccaccio.
Del 2007 è la commedia romantica statunitense Decameron Pie, girato fra Italia (Siena e San Gimignano) e Stati Uniti da David Leland: narra la storia di Pampinea, promessa sposa a un conte e voluta come moglie da Gerbino de la Ratta. Il film è interpretato da Mischa Barton, Hayden Christensen, Katy Louise Saunders ed Elisabetta Canalis e anche tale genere è considerato parodistico e decamerotico.
Nel 2015 esce nelle sale Maraviglioso Boccaccio, mentre nel 2019 viene distribuito il film statunitense The Little Hours, liberamente ispirato alla prima e alla seconda novella della terza giornata.
Nel 2024 approda su Netflix un adattamento intitolato "The Decameron".
Nel 1971 il regista, attore, scrittore e poeta Pier Paolo Pasolini diede vita ad un progetto che verrà chiamato "trilogia della vita" e comprenderà, oltre a questo film, anche la prima trasposizione cinematografica italiana dell'opera di Geoffrey Chaucer: I racconti di Canterbury del 1972 (dall'omonima raccolta inglese, strutturata in modo simile al Decameron) e Il fiore delle Mille e una notte del 1974 (dalla raccolta di storie popolari arabe Le mille e una notte). Con queste pellicole, Pasolini intende innanzitutto porre sopra un piedistallo ferreo la bellezza assoluta dell'amore ed esaltare tutti i massimi piaceri della vita, che, essendo genuini e naturali, non hanno bisogno di alcun freno.
In secondo luogo Pasolini, scegliendo giovani attori, per lo più provenienti "dalla strada" e dalle borgate romane, intende denunciare gli aspetti seri e chiusi della borghesia italiana degli anni settanta, che condannava molti elementi della vita comune e del sesso. Con questo primo film, Pasolini attacca direttamente tali principi, e, volendo comunicare allo spettatore l'innocenza di ciò che compie l'uomo durante l'amplesso, inscena delle novelle scritte secoli prima da autori laici e preumanisti come Boccaccio o Chaucer.
All'epoca fece molto scandalo la presenza di alcune scene di nudo maschile e femminile, ma ciò faceva appunto parte del gioco compositivo di Pasolini di esaltazione dei piaceri dell'uomo e della naturalezza di tali gesti. La collocazione delle storie, che si svolgono una dopo l'altra senza che vi sia un prologo con dei novellatori, tranne che nel secondo tempo in cui compare un pittore allievo di Giotto (interpretato dallo stesso Pasolini) il quale, dipingendo un affresco di una cattedrale, mette a confronto e racconta l'altro ciclo di novelle, è a Napoli nel XIV secolo. Pasolini, anziché i territori originali della Toscana e di Firenze, scelse questa città perché fu una delle prime in cui Boccaccio si recò giovanissimo e diede vita alle sue prime opere e anche perché, secondo il regista, la città era una delle poche rimasta incorrotta e integra nella sua cultura attraverso i secoli.
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