Come mai oggi che la cultura non solo filosofica, ma anche scientifica respingono l'idea di uno stare, di un sapere stabile...come mai in questa situazione c'è uno che ripropone l'assolutamente stabile, l'Assolutamente stante? L'eliminazione di ogni sapere definitivo proviene dal modo in cui la filosofia greca ha mosso i primi passi. Il destino mette in questione quei primi passi. Quindi, mettendoli in questione, ecco che diventa meno paradossale la pretesa di gettare uno sguardo sull'Assolutamente stabile.[1]
Da quando l'URSS non controlla più le spinte dal basso contro la ricchezza planetaria e alla loro testa si è posto l'Islam, la sopravvivenza del mondo ricco è in pericolo.[3]
È del tutto fuorviante condannare l'«Occidente» e il capitalismo per aver dominato e sfruttato il resto del mondo. I popoli non hanno morale. Se ne è mai visto uno sacrificarsi per un altro? Quando hanno potenza si impongono sui più deboli, come la natura riempie il vuoto.[4]
In passato, la tesi che questa conversazione è eterna, provocava talvolta qualche risolino ma poi mi sono reso conto che valeva la pena di ricordare che la relatività di Einstein, pur con una logica molto diversa dalla mia, dice che le cose future e le cose passate non sono meno reali delle presenti. Tant'è vero che quando Popper dialogava con Einstein lo chiamava Parmenide. [Il fisico inglese Julian Barbour afferma l'inesistenza del tempo e che gli eventi sono come cartoline appese a un filo da stendere, tutte contemporaneamente presenti...] Sì, ha variato di poco l'immagine che Popper usava con Einstein di fotogrammi avvolti in una bobina. Ma nessuno di loro sa spiegare la macchina da presa o il movimento dello sguardo che passa da una cartolina all'altra. Per farlo occorre una logica [...] di cui la scienza non può disporre. In generale, la scienza crede che la mente sia una cosa particolare tra le cose. Qui entra in gioco la teoria dell'esperienza che gli scienziati tendono a trascurare. L'esperienza è la mente trascendentale, essa non entra o esce da un campo visivo ma è il luogo in cui tutto entra ed esce. Per capire che cosa sia la sbobinatura dei fotogrammi o lo sguardo che scorre sulle cartoline bisogna introdurre il concetto di coscienza trascendentale che era stato in qualche modo intravisto dall'idealismo, il luogo cioè all'interno del quale sopraggiungono gli eterni. Il cosiddetto divenire del mondo non può essere il cominciare a essere e il cessare di essere ma è il comparire e lo scomparire degli eterni in quella coscienza trascendentale.[5]
In quanto destino della necessità, la verità è l'apparire dell'esser sé dell'essente in quanto tale (ossia di ogni essente); e cioè l'apparire del suo non esser l'altro da sé, ossia dell'impossibilità del suo divenir l'altro da sé, ossia del suo essere eterno. L'apparire dell'essente è l'apparire della totalità degli enti che appaiono [...] Le parti sono un molteplice. L'apparire di una parte è la relazione dell'apparire trascendentale a una parte di tale totalità [...] Ciò significa che esiste una molteplicità di queste relazioni. In questo senso, molteplice non è solo il contenuto che appare, ma anche il suo apparire.[6]
L'essere al quale Heidegger [...] motivatamente pensa, è [...] ciò che differisce da tutte le determinazioni, differisce dagli enti ed è appunto [...] questa differenza [...] – è la figura centrale del discorso heideggeriano – che Heidegger chiama differenza ontologica [...] in quanto l'essere è l'apparire degli enti, in quanto differisce dagli enti, è non ente, e Heidegger esplicitamente dice è il nulla; l'essere è il nichts, ma quando introduce questo nulla, intende introdurre appunto ciò che non è in alcun modo ente, ma non ciò che – e qui Heidegger è del tutto esplicito – non ciò che si costituisce come nihil negativum, cioè nihil absolutum, Sul rapporto fra Heidegger e il nihil absolutum mi sono espresso più volte nel senso che è strano come Heidegger tratti con supponenza il concetto di nihil absolutum e raramente si chieda [...] qual è la derivazione storica di questo concetto. A lui preme soprattutto mettere in rilievo che l'essere [...], das Sein, l'Essere non è ente e in questo senso è nulla, ma non nihil absolutum. Ora, quando Heidegger parla dell'ente, esplicitamente lo caratterizza come non nihil absolutum: l'albero, il muro, la casa, non sono un nulla assoluto. [...] una volta con Gadamer [...] proprio a proposito [...] della differenza ontologica, tentavo di mostrargli la necessità che al di sopra della differenza ontologica di essere e di ente, ci fosse un piano più originario dell'ente che include e ciò che Heidegger chiama ente e ciò che Heidegger chiama Essere. E l'osservazione che gli facevo era questa: ma se sia l'essere, nichts, se sia l'essere nulla, l'essere che è nulla nel senso indicato non è un nihil absolutum e se, a sua volta l'ente non è un nihil absolutum, allora i due che costituiscono la differenza ontologica, per quanto radicalmente differenti, convengono nel loro non essere un nihil absolutum, sì che allora il tratto del non essere un nihil absolutm, accomuna [...] i radicalmente differenti; se si compie questo passo, si vede allora che [...] il concetto tradizionale di essere come tratto comune della totalità delle differenze, adeguatamente pensato, è in grado di ricomprendere in sé quella differenza ontologica che per Heidegger dovrebbe portare radicalmente e definitivamente [...] al di fuori del concetto classico di essere come koinón [...], come il comune delle differenze; quindi il koinón sta [...] nel non essere un nulla assoluto da parte e del Sein[7]e da parte del Seiendes[8].[9]
L'individuo Severino, in quanto ancora abitato dalla volontà di potenza, può cedere a tutte le debolezze cui si abbandonano gli immortali. Ma l'io Severino autentico, che come tutti sta da sempre aperto alla verità, e perciò è qualcosa di infinitamente più grande di Dio, non può avere paura della morte.[10]
La civiltà della tecnica è ciò che chiamo "la forma più rigorosa della Follia estrema". Ancora più sottovoce: la Follia estrema è credere nel carattere effimero, temporale, contingente, casuale, dell'uomo e della realtà: è la convinzione che ogni cosa venga dal nulla e vi ritorni. Però la difesa suprema dall'angoscia suscitata da questa convinzione – la difesa che nella tradizione è costituita, in ultimo, da Dio – è diventata la tecnica. Ovunque, la tecnica sta diventando la forma più radicale di salvezza, che oggi ha soppiantato qualsiasi altra forma di rimedio contro la morte.[11]
La tecnica tende a entrare in simbiosi con gli ultimi duecento anni di pensiero filosofico che spingono verso la luce il loro terribile spirito di distruzione del passato, mostrando che il passato non può più avere diritto di contrapporsi al processo che lo toglie di mezzo. La tecnica autenticamente potente e vincente è strettamente unita al messaggio sapienziale, filosofico, terribile e distruttivo della "morte di Dio". "Se Dio è morto, allora tutto è permesso", diceva Dostoevskij. Ma non è così: se Dio è morto non c'è il caos, perché la potenza stabilisce la gerarchia in cui le potenze più deboli sono subordinate a quelle più forti. Si va cioè verso un tempo in cui la potenza maggiore, quella tecnico-filosofica, va subordinando a sé, gerarchizzandole, tutte le altre forme di potenza del passato (anche la potenza dell'islam, dunque).[12]
La posizione di Parmenide è singolare perché è anche il punto di maggiore contatto con l'Oriente.[...] La soluzione radicale di Parmenide è questa: il divenire non minaccia più, non può essere nocivo perché non esiste. [...] Tutto l'angosciante, tutto il terribile, tutto l'orrendo del mondo è illusione; questo è il senso della doxa di Parmenide. Ebbene questa è anche la strada percorsa dall'Oriente: i Veda, le Upanishad, la ripresa buddista del bramanesimo sono tutti grandi motivi che convergono su questo punto: l'uomo è infelice perché non sa di essere felice, perché non sa che il dolore è al di fuori di lui, e che lui è un puro sguardo che non è contaminato dal dolore che gli passa innanzi, così come lo specchio non è contaminato dall'immagine che si riflette in esso.[13]
Ma la concordanza di Bruno con Parmenide è insieme concordanza con Eraclito, per il quale, ricorda Bruno, tutte le cose sono Uno. Proprio mentre l'epistéme[14] sta per abbandonare la fiducia nella capacità immediata del pensiero di cogliere il senso più profondo della verità, quella fiducia trova nella filosofia di Bruno una delle sue espressioni più potenti e grandiose.[15]
Ma, si dirà, e la scienza? La scienza è fede?! Sì. Per avere potenza sul mondo, la scienza ha rinunciato da tempo ad essere «verità», nel senso attribuito a questa parola dalla tradizione filosofica. La scienza è divenuta sapere ipotetico. Sa di non essere sapere assoluto («verità», appunto) – e in questo senso non è fede ma dubbio –; tuttavia per aver potenza sul mondo deve aver fede nella propria capacità di trasformarlo; ed è all'interno di questa fede che essa elabora, risolve o conferma i propri dubbi.[16]
[Guarda le partite di calcio?] Non sono un tifoso, mi appassionano i Mondiali. E la scherma, sa perché? mio padre era maestro di scherma e fece vincere la sua squadra militare prima della Prima Guerra. Fu l'unico sport in cui seppi fare qualcosa, fino a qualche tempo fa avrei potuto sbudellare qualcuno. [La vita come va presa, a baci o a schiaffi?] Avermi dato mia moglie è stato un grande bacio, avermela tolta un grande schiaffo. [Un'ultima domanda: che cos'è l'amore?] Ah, l'amore è pur sempre una forma di volontà e però lascia sempre in una insoddisfazione: dunque chiudere una trasmissione con questa frase lascia un po' di amaro in bocca.[17]
Oggi il clima culturale filosofico e scientifico, per non parlare della letteratura, si è allontanato dal concetto di verità definitiva, incontrovertibile. "Le verità" odierne servono a trasformare il mondo secondo certi progetti. Nessuno dice più, come Galileo, che l'uomo conosce le verità matematiche così come le conosce Dio. [...] Il pensiero greco intende la verità definitiva delle cose come un oscillare delle cose tra il non essere, l'essere e il non essere. Se le cose del mondo, secondo la convinzione dell'umanità attuale, non erano e non saranno, è inevitabile che non esista alcuna verità definitiva.[5]
Quando [...] la Chiesa condanna il divorzio, l'aborto, l'eutanasia, lo sfruttamento del lavoro, il profitto come scopo primario dell'attività economica, l'annullamento dell'uomo nello Stato totalitario (e via via, fino al rifiuto di considerare "famiglia" le unioni non stabili e a maggior ragione le coppie omosessuali), la Chiesa condanna qualcosa che, per essa, non è soltanto una negazione della verità soprannaturale del cristianesimo, ma è anche negazione di quelle "verità naturali" che ogni uomo, anche il non credente, può conoscere e praticare.[18]
Quando sussiste una situazione conflittuale – cristianesimo contro democrazia e capitalismo; ieri, capitalismo contro comunismo – alimentata non solo a parole ma anche a fatti, con la forma maggiore di potenza a disposizione, cioè la tecnica guidata dalla scienza moderna, allora si mette in moto un meccanismo inesorabile. Il meccanismo cioè per il quale ogni forza ha interesse a che lo strumento di cui essa si serve per realizzare i propri scopi specifici funzioni in modo ottimale; sicché quando tale forza si mette in questa direzione, in cui essa ha tutto l'interesse a far prevalere il proprio scopo – chiamiamolo "ideologico" senza dare a questa parola un significato negativo – e quindi a far funzionare in modo ottimale il proprio strumento, allora si produce un ribaltamento decisivo – o per lo meno una forte tendenza al ribaltamento – per cui lo strumento con cui si tenta di realizzare il proprio scopo diventa così indispensabile da divenire esso lo scopo di quelle forze, che pertanto diventano esse qualcosa di strumentale. [...] Se il meccanismo è questo, per cui le forze che si servono della tecnica tendono a dare tale un'importanza tale allo strumento di cui si servono da farlo diventare addirittura lo scopo, rinunciando progressivamente a parti più o meno determinanti del proprio scopo originario, allora si può pensare che abbia a prodursi un processo in cui non sarà più l'Occidente – il capitalismo, il comunismo, l'islam – a servirsi della tecnica, ma sarà la tecnica a servirsi dell'Occidente; un processo che coinvolgerà anche aggregati sociali come l'islam o la Cina.[12]
Questo Papa, da buon pastore, sta cercando di cambiare le cose. Ma non vorrei che si perdesse di vista che la "corruzione" di fondo è l'"evasione" del mondo dal passato dell'Occidente. Vorrei dire che il processo in cui le strutture del passato stanno andando in malora è come la febbre: se non la si avesse non si potrebbe guarire. Stiamo andando verso un mondo gestito dalla razionalità tecnologica; ed è probabile che l'Italia, proprio perché ha avuto gli inconvenienti di cui abbiamo parlato, anticipi i tempi rispetto agli altri popoli meno febbricitanti.[11]
Se ci si debba affidare alla scienza o alla religione o ad altra forma di sapienza o di esperienza non lo può dire né la scienza, né la religione, né altro. Rispondere a questo tipo di domande è sempre stato il compito della filosofia. A chi vorrebbe metterla da parte sarebbe da ricordare che sbarazzarsene è ed è sempre stato una forma di filosofia. E ancora: siamo proprio sicuri che tra "spiritualità" e "tecnica" ci sia un'opposizione così insanabile e che esse, al di sotto del loro opporsi, non abbiano un'anima comune?[11]
Se si dà già per scontato che cosa sia la pazzia, la filosofia diventa completamente superflua.[19]
[...] se si parte dalla fede nell'esistenza della «storia» (come storia della libertà), tutti gli immutabili, gli eterni, gli dèi, le strutture fisse e rigide che sono comparse e ricomparse lungo la storia dell'Occidente risultano costrizioni che soffocano l'umanità: in tal senso, certamente, la storia dell'Occidente è una storia di progressiva liberazione dagli immutabili. Tale movimento di emancipazione è analogo alla liberazione dei servi dai padroni, per richiamarci alla celebre figura della Fenomenologia dello Spirito di Hegel: gli «immutabili», qui, sono i padroni; e il divenire è il movimento di liberazione attraverso il quale i servi insorgono contro i padroni. In questa vicenda, tuttavia, tanto i servi quanto i padroni sono concordi e solidali nell'essenziale: hanno entrambi fede nell'esistenza della storia (nell'esistenza del divenire) e nell'esistenza di forze capaci di «fare la storia», capaci di creare e annientare le cose del mondo. Si tratta invece di pensare una dimensione diversa da quella in cui si collocano i grandi «padroni» e i grandi «servi» della nostra cultura: una dimensione diversa, in cui si prende coscienza della follia estrema della fede originaria che anima l'intera storia dell'Occidente. Quando si prenda coscienza di questa follia, si fa innanzi un senso dell'eterno, che è del tutto diverso da quello per il quale sono «eterni» i «padroni» della nostra cultura. Se si ha fede nell'esistenza della creazione e dell'annientamento, allora si innalzano i «padroni» e gli «dèi»; ma quando si scorge la follia di quella fede, allora, con i «servi», tramontano tutti i «padroni». L'eterno non è più il padrone, ma il cuore delle cose.[20]
[Il pianoforte come strumento a percussione. Abbiamo ragione di pensare che il suo punto di riferimento era Strawinski?] Sì, ero imbevuto di fonica e di formule strawinskiane, ma forse soprattutto bartokiane. [Ma chi l'aveva avviato alla musica?] Mio fratello, che aveva otto anni più di me, era un ottimo pianista. Io lo ascoltavo volentieri, e poi, quando potevo, mi mettevo anch'io al pianoforte, e "componevo". Mi ha sempre attirato, fin da ragazzino, il mondo dei suoni, mi attirava il combinarsi dei rapporti sonori. Sopra di noi abitava il Maestro Guastalli, l'insegnante di mio fratello, che deplorava quel mio modo di suonare, e mi esortava a studiare regolarmente, ma io ostinato preferivo combinare suoni. Ho anche, per la verità, negli anni successivi, studiato con una certa regolarità, ma non sempre con continuità. Sono rimasto, così, un modesto pianista.[21]
Si può dire che l'unico bene precluso ai popoli del "paradiso della tecnica" è la verità del paradiso. Un paradiso senza verità può essere un inganno. Il sospetto che lo sia lo rende un inferno.[22]
Sono io il primo a riconoscerlo. Quando ho iniziato a maturare questo modo di pensare – ma andiamo molto indietro – ero io il primo a capire che avrei dovuto lasciare quell'università. [Lei, tuttavia, non ha mai rotto umanamente e anche come stima personale, con il suo maestro, Gustavo Bontadini?] Ci siamo voluti un bene, che mi commuovo tuttora pensarci. Io mi ricordo che quando era negli ultimi giorni... ah, che caro uomo... Andai a trovarlo in via Stradella – abitava in via Stradella, dalle parti di Corso Buenos Aires –, gli dissi: «Maestro, sono Emanuele Severino». Lui, che non apriva gli occhi da giorni, ha avuto un sussulto, e mi ha aperto le braccia. Ci siamo abbracciati a lungo. Dopo, lui ha lasciato le braccia e l'ho lasciato.[1]
Tutta la civiltà occidentale dice: «Le cose non sono un niente». Però l'Occidente aggiunge: «Tuttavia divengono». Questo atteggiamento si fonda sulla fede nel divenire, la fede di fondo della nostra civiltà, la quale, pur opponendo le cose al niente, le identifica peraltro al niente; giacché, pensare che esse, divenendo, escono dal niente e vi ritornano significa pensare che esse sono niente. Sin dall'inizio, la cultura occidentale ha un senso ontologico. Lo ha anche quando non sa di averlo. Ma è l'ontologia che identifica l'essere al niente. Questa identificazione è l'essenza stessa della Follia. La Non-Follia è l'apparire dell'eternità di tutte le cose. Il divenire del mondo non è la creazione e l'annientamento dell'essere, ma è la vicenda del comparire e dello scomparire dell'eterno. Appunto per questo noi (e ogni cosa) siamo eterni e mortali: perché l'eterno entra ed esce dall'apparire. La morte è l'assentarsi dell'eterno. (da In cammino verso il nulla, in Filosofia al presente, pp. 37-38)
Pier Luigi Vercesi, Corriere della Sera, 30 dicembre 2018.
[Mi spiega, nel modo più semplice possibile, in cosa consiste la sua filosofia?] Noi siamo Re che si credono Mendicanti. Non metto in discussione solo il Cristianesimo, ma tutta la civiltà occidentale e la sua filosofia, secondo la quale noi veniamo dal nulla e finiamo nel nulla. Questa è l'essenza del nichilismo. No, ognuno di noi è un dio con la convinzione di essere contingenza, ombra di un sogno. L'uomo è una povera cosa: lo dice Pindaro, lo dicono Shakespeare e Leopardi, è il clima creato da Bertolt Brecht. In realtà siamo l'eterno apparire del destino. I nostri morti ci attendono come le stelle del cielo attendono che passino la notte e la nostra incapacità di vederle se non al buio. Siamo destinati a una Gioia più intensa di quella che le religioni e le sapienze di questo mondo promettono. Il mendicante è il nostro essere convinti, per esempio, che io stia farneticando, perché le cose reali sono questo mondo, l'Europa, l'Italia, i rapporti economici, giuridici, sessuali. Mentre il fondo dell'uomo consiste nella sua permanenza assoluta. Con la morte noi superiamo lo stato di mendicità: la morte ci consente di oltrepassare il senso del nulla.[23]
Anche per l'ateo le cose escono dal nulla e vanno nel nulla: l'amico di dio è un folle che crede di aver bisogno di un padrone, di un signore, di un creatore; l'ateo è un folle che crede di non averne bisogno, ma appartengono entrambi alla stessa anima.
La forma più rigorosa di follia oggi è la tecnica: viviamo il tempo del passaggio dalla tradizione a questo nuovo dio. La globalizzazione autentica non è quella economica, è quella tecnica. Commettiamo l'errore di credere che capitalismo e tecnica siano la stessa cosa: no, hanno scopi diversi. Il capitalismo ambisce all'incremento infinito del profitto privato, la tecnica all'incremento infinito della capacità di realizzare scopi, ovvero della potenza. La tecnica ucciderà la democrazia, a partire dagli Stati più deboli come l'Italia. Tale processo poi investirà anche Usa, Russia e Cina. Gli Stati Uniti a un certo punto prevarranno, ma non in quanto nazione, bensì come gestori primari della potenza tecnologica. Ora fatichiamo a comprenderlo, perché ci troviamo in un tempo intermedio. Siamo come il trapezista che ha lasciato un attrezzo (la tradizione) e non si è ancora aggrappato all'altro (la tecnologia, il nuovo dio). Siamo sospesi nel vuoto e ci sembra di essere sperduti
Da Hemingway, il nichilista che sapeva uccidere
Corriere della Sera, 28 settembre 2008
Hemingway aveva imparato che il piacere della vita è inseparabile dal dolore: la vita è lotta – è «guerra», diceva l'antichissimo Eraclito.
Hemingway concepiva la sincerità come il supremo comandamento morale. Anche e innanzitutto nella scrittura, che non deve nascondere quello che l'uomo prova veramente.
Il culmine della follia non è forse pensare che l'essere è il nulla? E «nichilismo» non è forse, innanzitutto, pensare che l'essere è nulla? E non è forse per questo antico pensiero che possono esser maturate tutte le radicali distruzioni che scandiscono la storia dell'Occidente?
Se i cristiani sono convinti che Gesù sia il più santo, devono credere che natura, indole, impulsi siano in lui i più malvagi e che egli sia il più santo proprio perché, solo lui, riesce a vincerli. La crudezza di certe espressioni di Gesù può essere un sintomo. Il primo passo per vincere quanto di «terribile-temibile» è presente in ognuno di noi è guardarlo in faccia.
Dell'Occidente degli ultimi duecento anni [possiamo dire che il] relativismo - il cui nome oggi circola così tanto grazie alla Chiesa - è un fenomeno più profondo di quanto si creda. Riguarda l'esito della Storia. Pensiamo a due tempi: il primo, quello della tradizione filosofica tout court fino a Hegel, è seguito da quello del tramonto degli dei, ovverosia lo smantellamento inevitabile di questa tradizione. Ecco, è il tempo del relativismo». [Perché uno smantellamento inevitabile?] Perché non si tratta di un cambiamento di gusto, che Dio è morto perché la gente ha perso il gusto di credervi. Significherebbe che può rinascere. Io parlo di inevitabilità, di incontrovertibilità. Nelle conferenze verrà rovesciato un modo di pensare ancora prevalente, riconducibile per esempio a Marx, che vuole che sia l'esistenza e la vita dell'uomo a trasformare il mondo. Come dire, la filosofia sarebbe solo una sovrastruttura posta su una realtà di base. Non è così. Il discorso filosofico contemporaneo ha una sua invincibilità.[24]
Si crede che ci sia opposizione tra Islam e Cristianesimo, ma essi stanno dalla stessa parte. Il loro nemico - d'altra parte il Pontefice lo ha rilevato - è la distruzione della tradizione occidentale. Questo è l'autentico scontro di civiltà, che non è tra le due religioni, che hanno in comune la relazione al Dio dei filosofi - greci - e al dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.
Si tratta però di capire – ed è tutt'altro che agevole – quali siano le ragioni della tecnica e quelle delle forze che tentano di resisterle. Ma si possono capire le loro ragioni se non si sa che cosa significa "ragione" e in che consista la "potenza" da cui è sostenuta? A quale sostegno ci affideremo per saperlo? Se ci si debba affidare alla scienza o alla religione o ad altra forma di sapienza o di esperienza non lo può dire né la scienza, né la religione, né altro. Rispondere a questo tipo di domande è sempre stato il compito della filosofia. A chi vorrebbe metterla da parte sarebbe da ricordare che sbarazzarsene è ed è sempre stato una forma di filosofia. E ancora: siamo proprio sicuri che tra "spiritualità" e "tecnica" ci sia un'opposizione così insanabile e che esse, al di sotto del loro opporsi, non abbiano un'anima comune?
Gli amici del determinismo e gli amici della libertà sono due modi di esprimersi della stessa anima: l’anima della fede in cui si crede che – o ineluttabilmente o liberamente – le cose escano dal nulla e vi ritornino. La non-Follia sta al di fuori di questa opposizione. Sta anche al di fuori dell’opposizione tra gli amici e i nemici di Dio. L’istante indimenticabile è la non-Follia della verità – eternamente al di fuori dell’oblio. Non è il possesso di qualche privilegiato. Sta e si illumina nel profondo di ogni uomo. Anche di coloro che non sanno di esserne la manifestazione.
[La salvezza nel futuro è un innalzamento culturale, ha anche detto. Lo pensa ancora?] È in atto uno scontro. Da una parte la tradizione, che crede in un senso definitivo del mondo. Dall'altra la contemporaneità. Penso alla visione che si è venuta a formare negli ultimi 200 anni, che non crede nell'esistenza di un senso unitario, ma considera il mondo un insieme di frammenti.
[Nel maggio 1974, dopo la strage in piazza Loggia, lei metteva nero su bianco il suo monito contro il fascismo. Un pericolo tuttora attuale?] A quella opposizione al fascismo si è sostituita quella fra capitalismo democratico e comunismo. Che, a sua volta, col passare del tempo si è indebolita. Il comunismo sta finendo anche in Cina. Si è affacciato un protagonista nuovo sul quale credo si insista poco: si chiama tecnologia. Tramontano le forme del potere di un tempo, presto sarà la tecnica a servirsi delle forze in campo che si illudono di comandarla.
[Filosofia e politica possono ancora camminare insieme?] Una domanda alta... Se torniamo nell'antica Grecia, la politica nasce come volontà di adeguarsi alla verità quale scoperta dal pensiero filosofico. Per la chiesa cattolica la politica non può essere invenzione arbitraria, ma deve attenersi alla verità rivelata, il pensiero filosofico ritenuto autentico. Dunque anche per la chiesa la politica deve trovare fondamento in una competenza filosofica. Poi ha preso piede, invece, una democrazia procedurale che prescinde dalla verità: le leggi sono scritte e vengono osservate in quanto esito di votazione della maggioranza, che decide e determina.
Silvia Truzzi, ilfattoquotidiano.it, 8 giugno 2019
[Professore, perché non ha mandato a Heidegger la sua tesi?] Ero un ragazzo, per carattere non sono uno che si promuove. Erano anche altri tempi, non usava. [A quei tempi il filosofo tedesco era poco conosciuto in Italia.] Non conosciuto come meritava. A 19 anni ho dovuto fare i conti con Sein und Zeit. Il tedesco lo conoscevo perché al liceo andavo a lezione di tedesco da un gesuita: Padre Auer. E Padre Auer conosceva Hitler. Ricordo che mi raccontava i contorcimenti di Hitler quando le cose non andavano come voleva lui.[25]
[Come ha fatto a prendere la libera docenza a 21 anni?] Mi sono laureato giovane, avevo saltato la prima liceo. Dopo la guerra c'era voglia di fare tutto subito. Nell'inverno del 1950 Esterina, che l'anno dopo sarebbe diventata mia moglie, vide sul Corriere una noticina in cui si diceva che quell'anno poteva partecipare al concorso di libera docenza anche chi era laureato da meno di cinque anni.
[Quando ha deciso di studiare filosofia?] Mio fratello, morto alpino nell'ultima guerra, era normalista a Pisa e aveva come docenti Gentile, [Armando] Carlini, Russo e Calogero. A casa parlava dei suoi studi, io lo adoravo. Quindi direi che il mio primo contatto con la filosofia è stato con quanto mio fratello diceva di Gentile e che mi sembrava estremamente intelligente, anche se capivo poco. [Era un bimbo!] Sì, sì, ero un bimbo. Intuivo che poi, quando sarei andato al liceo, avrei capito di più. Ma quando dovetti decidere cosa fare ero indeciso tra fisica, matematica e filosofia.
La filosofia va necessariamente verso il proprio tramonto, cioè verso la scienza, che tuttavia è il modo in cui oggi la filosofia vive. [...] Tutti possono vedere che la filosofia, su scala mondiale, declina nel sapere scientifico.
La scienza è una elaborazione di tecniche per raggiungere in modo ottimale certi scopi. [...] Dati certi scopi la scienza indica i mezzi relativamente più idonei per realizzarli; ma non indica quali scopi debbano essere perseguiti.
Nascere vuole dire [...] uscire dal niente; morire vuol dire tornare nel niente: il vivente è ciò che esce dal niente e torna nel niente.
La grande filosofia degli inizi non appare sul fondamento del tragico, ma è la grande tragedia attica ad apparire sul fondamento dello spazio aperto dalla testimonianza del senso ontologico del divenire.
Il grido. Sta all'inizio della vita dell'uomo sulla terra. Il grido di caccia, di guerra, d'amore, di terrore, di gioia, di dolore, di morte. Ma anche gli animali gridano; e per l'uomo primitivo grida anche il vento e la terra, la nube e il mare, l'albero, la pietra, il fiume. Ma solo l'uomo si raccoglie attorno al proprio grido, in assenza degli eventi che l'hanno provocato. Al grido sono legati gli aspetti decisivi dell'esistenza e nella rievocazione del grido le più antiche comunità umane non solo scorgono la trama che le forma, ma annodano stabilmente i fili della trama, cioè si stabiliscono e confermano nel loro essere comunità umane. L'intera vita dei popoli più antichi si raccoglie intorno alla rievocazione del grido, cioè attorno al canto; e il canto avvolge i viventi ben più strettamente del calore dei fuochi attorno a cui essi stanno. (p. 41[26])
Il grido indica in modo semplice e potente che l'inflessibilità del mondo ha ceduto in un punto. Il nemico ucciso, l'animale catturato e divorato, la donna posseduta, ma anche l'incombenza della morte e lo scacco subito e il corpo e l'anima dilaniati sono, da che i mortali si affacciano sulla terra, i punti cardinali dove l'inflessibilità del mondo cede. Sino a quel momento l'ordine inflessibile del mondo è una parete che non si lascia scalfire o si spera non venga scalfita: i punti dove l'inflessibile è piegato, flesso, stanno sia al di fuori, sia all'interno del gridante. Il grido è lo schianto della parete si incrina, come il tuono è lo schianto del lampo che incrina il cristallo del cielo. L'incrinatura – la flessione dell'inflessibile – strappa il grido al mortale, come il lampo strappa il tuono al cielo. Incrinatura e grido fanno tutt'uno, nel senso che il grido non è l'oggetto di una decisione. Ma l'incrinatura degli inflessibili è il divenire del mondo. La flessione è l'«opera» che genera il mondo. I punti della flessione sono i vari modi in cui il mondo diviene. Il grido indica il divenire del mondo, lo esprime, ne è lo specchio come il tuono è lo specchio del lampo. È la parola primordiale. Ma anche ambigua. (p. 47[27])
La musica è la casa natale della parola, ma solo le parole che in questa casa vengono alla luce la riconoscono come la loro casa natale e come la rievocazione del grido.
La storia dell'essenza del nichilismo (cioè della persuasione che l'ente è niente) incomincia con Parmenide – che pure afferma l'eternità dell'Essere e quindi l'impossibilità che esso, divenendo, non sia, cioè sia niente. È con Parmenide che incomincia la separazione degli enti dall'Essere.
Per evitare che il niente sia, Parmenide afferma che le cose sono niente. Parmenide, che per primo si affaccia al sentiero del Giorno, che corre lontano dal sentiero che l'Occidente ha percorso, compie insieme il primo passo lungo il sentiero della Notte dell'Occidente, il sentiero lungo il quale le cose sono pensate e vissute come un niente. Parmenide è il seminatore tragico che getta insieme la semina della verità e la semina della Follia. (p. 77[28])
Ogni civiltà, e soprattutto quella occidentale, non è stata altro che edificante – anche e proprio quando ha prodotto l'estremo della distruzione e dell'orrore. Potrà mai accadere all'uomo di non essere edificante?
Adamo sarebbe stato vittorioso sul peccato proprio e soltanto se avesse mangiato i frutti proibiti.
Ci si può proporre di controllare, modificare, produrre, distruggere le cose del mondo, solo se si ha fede che esse divengano, cioè possano sciogliere il loro legame con l'essere e col niente, possano essere e non essere. Solo se si crede che le cose siano flessibili, oscillanti tra l'essere e il niente, ci si può proporre di fletterle e di controllare la loro oscillazione. Se la volontà di potenza è la volontà di dominare il mondo, la forma originaria della volontà di potenza è appunto la fede nell'esistenza del dominabile, cioè la fede nell'esistenza del divenire. La civiltà della tecnica è la forma più rigorosa di questa fede. (cap. I, p. 17)
L'epistéme è [...] contraddizione in un duplice senso. Da un lato, essa è affermazione della differenza (o opposizione) infinita tra essere e niente, e insieme (in quanto essa è affermazione dell'esistenza del divenire) essa è affermazione dell'identità di essere e niente. Dall'altro lato, essa è affermazione della differenza infinita tra essere e niente, e insieme (in quanto essa è la Legge del Tutto, alla quale deve adeguarsi anche il non ancora essente) è entificazione del niente, cioè trasforma in un essente il non ancora essente. [...] Nel proprio sottosuolo, l'epistéme è la violazione e la smentita di ciò che essa stessa afferma alla propria superficie: la differenza infinita di essere e niente. (cap. VI, pp. 56-57)
[...] là, dove la previsione intende essere incontrovertibile – come appunto accade nell'epistéme e nei residui epistemici della scienza moderna – la previsione cancella il divenire da cui essa vorrebbe difendere – tratta come irreale il pericolo contro il quale essa vorrebbe predisporre il riparo – ed è quindi inevitabile che sia il riparo stesso a mostrarsi irreale e illusorio. Se si crede che il pericolo esiste, ma si predispone un riparo che fa perdere di vista il pericolo, il riparo è illusorio. Prima o poi viene smantellato dal pericolo nella cui esistenza, nonostante tutto, si ha fede. Se l'evocazione epistemica degli Immutabili fa perdere di vista il divenire (lo rende impossibile e apparente) è inevitabile che la fede nell'esistenza del divenire sprigioni, in sé stessa, forze che si sottraggono al dominio degli Immutabili e che dunque lo rendono apparente e illusorio. (cap. VII, p. 69)
Per i Greci, epístema è l'ornamento della prua della nave. È il simbolo dell'imporsi della prua sulla fluidità minacciosa del mare. L'epistéme è l'epístema della prua del dominio. Si impone sulla fluidità vorticosa e imprevedibile del divenire. (cap. XIII, p. 121)
Ogni individuo crede e dubita, è un groviglio di fede e di dubbio. Ma la verità non solo non è quello che gli individui pensano del mondo, ma è un dubbio infinitamente più radicale di quelli di cui essi sono capaci, perché mette in questione tutte le convinzioni dell'uomo – e ciò nonostante il suo Contenuto rimane fermo. E ancora: poiché la verità è negazione dell'errore, senza l'errore non ci sarebbe la verità. L'errore è insostituibile, ha la grandezza, la potenza e perfino la bellezza dell'insostituibile. E occorrono i grandi geni dell'Occidente per portarlo alla luce. La "nostra" civiltà ha portato alla luce l'errore. La "follia" dell'Occidente è quindi preziosa, ed è impossibile proporsi di annientare l'errore e agire per annientarlo. Anche l'errore è eterno. Si tratta allora di comprendere – al di là di tutte le nostre abitudini culturali – che cosa significa "oltrepassare l'errore" [...]. (cap. XXX, p. 295)
Nel suo significato essenziale, la "differenza ontologica" è il modo in cui si ripresenta in Heidegger la tesi di Kant del carattere sintetico dei giudizi esistenziali [...] e, in generale, il principio fondamentale del pensiero dell'Occidente che l'unità dell'essere e dell'essente ha un carattere accidentale. Per Heidegger l'"essere" (a differenza dell'"Essere" assoluto, divino della tradizione metafisica) non ha potenza sull'ente, è un lasciar essere l'ente. Ma sia l'"Essere" tradizionale, che ha potenza sull'ente, sia il lasciar essere l'ente hanno lo stesso fondamento: la fede nel divenire; e il divenire è ciò rispetto a cui si può prendere posizione sia mediante la potenza dell'Essere metafisico (o dell'Apparato scientifico-tecnologico) sia mediante il lasciarlo essere nella sua libertà e "ingenuità". Anche l'"impotenza" con cui l'"essere", per Heidegger, lascia essere l'essente si fonda sull'assoluta volontà di potenza, cioè sulla volontà che vuole l'esistenza del divenire. (cap. XXXIII, p. 318)
Tutto il nostro passato è una eterna lampada accesa che appare in relazione a quell'eterno che è la volontà di accendere e di spegnere le eterne luci dell'essere – che cioè è la fede di avere la potenza di accenderle e di spegnerle. Concomitanti a questa volontà – quando questa volontà vuole spegnere la lampada dell'essere – appaiono le tenebre del dolore e dell'angoscia. Il dolore del mondo è l'oscurità che appare quando si crede di avere la potenza di spegnere la lampada dell'essere: è l'astro eterno della notte con cui il destino risponde alla provocazione della Follia. [...] Nella vicenda dei popoli nessuna forza riesce a spegnere le lampade del passato, non ha la potenza di spegnerle: l'oscurità del dolore del mondo è la risposta del destino alla provocazione dei mortali. La provocazione vuole l'impossibile [...] e ottiene ambigue risposte [...]. Il destino invia sempre altro da ciò che i mortali vogliono e si illudono di ottenere. [...] L'invio non è una "scelta" o una "decisione"; è l'inevitabile trascorrere, nella volta dell'apparire, delle eterne costellazioni dell'essere. È però possibile che il destino porti al tramonto la follia della volontà di potenza e sopraggiungano, dopo le costellazioni della Notte, le costellazioni del Giorno e della Gioia. (cap. XXXIX, pp. 361-362)
Il nichilismo, cioè la fede nell'esistenza del divenire – e dunque l'intera storia dell'Occidente – non è l'unica forma possibile di negazione del destino, e tuttavia ne è la negazione dominante. Nel suo inconscio, tale fede è la persuasione che l'essere è niente. Questa persuasione è l'essenza del nichilismo. Negando la non nientità dell'essente, essa è dunque negazione di sé stessa. Ma nella fede dell'occidente il destino non appare; non le sta dinanzi; ma alle spalle. La filosofia dell'Occidente "vede" (ossia crede di vedere) il divenire dell'essente. Alle sue spalle è il destino a vedere che l'affermazione del divenire dell'essente è, nel proprio inconscio inespresso, l'affermazione che l'essente è niente. È agli occhi del destino che la fede dell'Occidente appare come negazione del destino e come nichilismo, e cioè come negazione di sé stessa. (cap. XXXIX, pp. 363-364)
L'etica è una delle forme estreme della violenza, perché è l'amministrazione del divenire, in vista della realizzazione degli scopi che sono ritenuti adatti alla piena realizzazione dell'uomo.
L'orgoglio è una qualità di chi è impotente. È dal punto di vista di Dio che Lucifero pecca di orgoglio. Ma la vittoria di Dio su Lucifero è un'illusione di Dio.
Rifugiarsi nella natura è rinchiudersi nelle mura della violenza.
Si tratta di capire che la costruzione e la distruzione hanno la stessa anima...
[Rivolgendosi a Emanuele Severino] Lei sa che molti critici dicono: Severino è geniale, però dice delle cose che non stanno né in cielo né in terra. E così continuano a dormire tranquilli nella notte. Molto spesso è l'atteggiamento degli ipocriti, degli ignoranti. (Mario Capanna)
Una lezione di umiltà scaturisce dalla filosofia di Severino, comunque si voglia giudicarne i suoi presupposti parmenidei: umiltà che, se fa dell'uomo più uno spettatore che un attore, gli è tuttavia indispensabile come conoscenza della propria misura. E il secondo insegnamento che può derivare da questa filosofia è il rispetto per il mondo e per le cose del mondo che, se sono realtà autentiche, non possono essere dall'opera umana ridotti al niente. Infine (e non è certo la cosa meno importante) la filosofia che Severino difende pone come valore supremo il riconoscimento della verità, qualunque essa sia, anche se per l'uomo dolorosa e spiacevole. Umiltà, rispetto, fedeltà al vero, non sono valori che vengono comunemente riconosciuti e difesi nell'epoca contemporanea. Non so se sia indispensabile, per riscoprirli, risalire a Parmenide. È certo tuttavia che in questa epoca il fascino del nulla, che si esprime fra l'altro nella violenza e nella distruzione, ha una parte dominante: e che chi la combatte, mettendone in luce le fonti nascoste, rende un servizio non solo alla verità ma agli uomini stessi. (Nicola Abbagnano)
↑ Da Il declino del capitalismo, Bur, Milano, 2007, cap. 33, Tam evidenter.
↑ Da La filosofia contemporanea, Rizzoli, 1986, p. 28.
↑ Da In cammino verso il nulla, in Gianni Vattimo, Filosofia al presente: conversazioni con Francesco Barone, Remo Bodei, Italo Mancini, Vittorio Mathieu, Mario Perniola, Pier Aldo Rovatti, Emanuele Severino, Carlo Sini, Garzanti, Milano, 1990, pp. 32-33. ISBN 88-11-65871-3
↑ Citato in Aldo Stella, Il concetto di «relazione» nell'opera di Severino a partire da «La struttura originaria», GoWare e Edizioni Angelo Guerini e Associati, 2018, p. 363, nota 443. ISBN 9788881952960
Emanuele Severino, Il parricidio mancato, Adelphi, Milano, 1985.
Emanuele Severino, La filosofia futura, Rizzoli, BUR Saggi, Milano, 2006, p. 121. ISBN 88-17-00946-6
Emanuele Severino, La follia dell'angelo, Rizzoli, Milano, 1997.