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specie di cactus Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Il fico d'India o ficodindia (Opuntia ficus-indica ((L.) Mill., 1768), è una pianta succulenta appartenente alla famiglia delle Cactacee[2], originaria del Centroamerica ma naturalizzata in tutto il bacino del Mediterraneo, in Italia soprattutto nelle regioni centro meridionali[3].
Fico d'India | |
---|---|
Opuntia ficus-indica con frutti | |
Stato di conservazione | |
Dati insufficienti[1] | |
Classificazione APG IV | |
Dominio | Eukaryota |
Regno | Plantae |
(clade) | Angiosperme |
(clade) | Mesangiosperme |
(clade) | Eudicotiledoni |
(clade) | Eudicotiledoni centrali |
(clade) | Superasteridi |
Ordine | Caryophyllales |
Famiglia | Cactaceae |
Sottofamiglia | Opuntioideae |
Tribù | Opuntieae |
Genere | Opuntia |
Specie | O. ficus-indica |
Classificazione Cronquist | |
Dominio | Eukaryota |
Regno | Plantae |
Divisione | Magnoliophyta |
Classe | Magnoliopsida |
Ordine | Caryophyllales |
Famiglia | Cactaceae |
Genere | Opuntia |
Specie | O. ficus-indica |
Nomenclatura binomiale | |
Opuntia ficus-indica (L.) Mill., 1768 | |
Sinonimi | |
Bas.: Cactus ficus-indica L. |
«… erano di pietra celeste, tutti fichidindia, e quando si incontrava anima viva era un ragazzo che andava o tornava, lungo la linea, per cogliere i frutti coronati di spine che crescevano, corallo, sulla pietra …»
L'O. ficus-indica è nativa del Messico. Da qui, nell'antichità, si diffuse tra le popolazioni del Centro America che la coltivavano e commerciavano già ai tempi degli Aztechi, presso i quali era considerata pianta sacra con forti valori simbolici. Una testimonianza dell'importanza di questa pianta negli scambi commerciali è fornita dal Codice Mendoza[4]. Questo codice include una rappresentazione di tralci di Opuntia insieme ad altri tributi quali pelli di ocelot e di giaguaro. Il carminio, pregiato colorante naturale per la cui produzione è richiesta la coltivazione dell'Opuntia, è anch'esso elencato tra i beni commerciati dagli Aztechi.
La pianta arrivò nel Vecchio Mondo verosimilmente intorno al 1493, anno del ritorno a Lisbona della spedizione di Cristoforo Colombo. La prima descrizione dettagliata risale comunque al 1535, ad opera dello spagnolo Gonzalo Fernández de Oviedo y Valdés nella sua Historia general y natural de las Indias. Linneo, nel suo Species Plantarum (1753), descrisse due differenti specie: Cactus opuntia e C. ficus-indica. Fu Miller, nel 1768, a definire la specie Opuntia ficus-indica, denominazione tuttora ufficialmente accettata.
È una pianta succulenta arborescente che può raggiungere i 4-5 metri di altezza.
Il fusto è composto da cladodi, comunemente denominati pale: si tratta di fusti modificati, di forma appiattita e ovaliforme, lunghi da 30 a 40 cm, larghi da 15 a 25 cm e spessi 1,5-3,0 cm, che, unendosi gli uni agli altri formano delle ramificazioni. I cladodi assicurano la fotosintesi clorofilliana, vicariando la funzione delle foglie. Sono ricoperti da una cuticola cerosa che limita la traspirazione e rappresenta una barriera contro i predatori. I cladodi basali, intorno al quarto anno di crescita, vanno incontro a lignificazione dando vita ad un vero e proprio fusto.
Le vere foglie hanno una forma conica e sono lunghe appena qualche millimetro. Appaiono sui cladodi giovani e sono effimere. Alla base delle foglie si trovano le areole (circa 150 per cladode) che sono delle ascelle modificate, tipiche delle Cactaceae.
Il tessuto meristematico dell'areola si può differenziare, secondo i casi, in spine e glochidi, ovvero può dare vita a radici avventizie, a dei nuovi cladodi o a dei fiori. Da notare che anche il ricettacolo fiorale, e dunque il frutto, è coperto da areole da cui si possono differenziare sia nuovi fiori che radici.
Le spine propriamente dette sono biancastre, sclerificate, solidamente impiantate, lunghe da 1 a 2 cm. Esistono anche varietà di Opuntia inermi, senza spine.
I glochidi sono invece sottili spine lunghe alcuni millimetri, di colore brunastro, che si staccano facilmente dalla pianta al contatto, ma essendo muniti di minuscole scaglie a forma di uncino, si impiantano solidamente nella cute e sono molto difficili da estrarre, in quanto si rompono facilmente quando si cerca di toglierle. Sono sempre presenti, anche nelle varietà inermi.
L'apparato radicale è superficiale, non supera in genere i 30 cm di profondità nel suolo, ma di contro è molto esteso.
I fiori sono a ovario infero e uniloculare. Il pistillo è sormontato da uno stimma multiplo. Gli stami sono molto numerosi. I sepali sono poco vistosi mentre i petali sono ben visibili e di colore giallo-arancio.
I fiori si differenziano generalmente sui cladodi di oltre un anno di vita, più spesso sulle areole situate sulla sommità del cladode o sulla superficie più esposta al sole. All'inizio, per ogni areola, si sviluppa un unico fiore. I fiori giovani portano delle foglie effimere caratteristiche della specie. Un cladode fertile può portare sino a una trentina di fiori, ma questo numero varia considerevolmente in base alla posizione che il cladode occupa sulla pianta, alla sua esposizione e anche in base alle condizioni di nutrizione della pianta.
Il frutto è una bacca carnosa, uniloculare, con numerosi semi (polispermica), il cui peso può variare da 150 a 400 g. Deriva dall'ovario infero aderente al ricettacolo fiorale. Certi autori lo considerano un falso arillo. Il colore è differente a seconda delle varietà: giallo-arancione nella varietà sulfarina, rosso porpora nella varietà sanguigna e bianco nella muscaredda. La forma è anch'essa molto variabile, non solo secondo le varietà ma anche in rapporto all'epoca di formazione: i primi frutti sono tondeggianti, quelli più tardivi hanno una forma allungata e peduncolata. Ogni frutto contiene un gran numero di semi, nell'ordine di 300 per un frutto di 160 g. Molto dolci, i frutti sono commestibili e hanno un ottimo sapore. Una volta sbucciati e privati delle punte si possono tenere in frigorifero e mangiare freddi.
Il fico d'india è una pianta xerofila ed eliofila. Recenti studi genetici indicano che O. ficus-indica è originaria del Messico centrale.[5] Da qui si diffuse successivamente a tutto il Mesoamerica e quindi a Cuba, Hispaniola, e alle altre isole dei Caraibi, dove i primi esploratori europei della spedizione di Cristoforo Colombo la conobbero, introducendola in Europa. È verosimile che la pianta fosse stata introdotta in Sud America in epoca precolombiana, sebbene non vi siano prove certe in tal senso; quel che sembra accertato è che la produzione del carminio, strettamente correlata alla coltivazione della Opuntia, fosse già diffusa tra gli Incas.
In Europa la pianta oltre che per i suoi frutti, suscitò attenzione quale possibile strumento per l'allevamento della cocciniglia del carminio, ma si dovette aspettare sino al XIX secolo perché il tentativo avesse successo nelle isole Canarie. Agli inizi restò pertanto una curiosità da ospitare negli orti botanici.
Da qui si diffuse rapidamente in tutto il bacino del Mediterraneo dove si è naturalizzata al punto di divenire un elemento caratteristico del paesaggio. La sua diffusione si dovette sia agli uccelli, che mangiandone i frutti ne assicuravano la dispersione dei semi, sia all'uomo, che le trasportava sulle navi quale rimedio contro lo scorbuto. In nessun'altra parte del Mediterraneo il ficodindia si è diffuso come in Sicilia e Malta, dove oltre a rappresentare un elemento costante nel paesaggio naturale, è divenuto anche un elemento ricorrente nelle rappresentazioni letterarie e iconografiche dell'isola, fino a diventarne in un certo qual modo il simbolo. Le pale raccolte in Sardegna furono portate anche in Eritrea per introdurre la coltivazione a fini alimentari. La qualità sarda tra l'altro è nota per non avere spine[6]
Opuntia ficus-indica si espanse inoltre negli ambienti aridi e semi-aridi dell'Asia (India e Ceylon) e dell'emisfero sud, in particolare in Sudafrica, Madagascar, Réunion e Mauritius, così come in Australia. In molti di questi paesi, i fichi d'India sono diventati infestanti tanto da invadere milioni di ettari e da richiedere gran quantità di diserbanti per contenerne l'invadenza;[7] soltanto la lotta biologica poté venirne a capo intorno al 1920-1925, con l'introduzione di insetti fitofagi come la farfalla Cactoblastis cactorum e la cocciniglia Dactylopius opuntiae.
La pianta è al giorno d'oggi coltivata in numerosi paesi, tra cui:[8] Messico, Stati uniti, Cile, Brasile, Nord Africa, Sudafrica, Medio Oriente, Turchia, Tunisia su ampie regioni del paese. In Italia è coltivata prevalentemente in Basilicata, Sicilia, Calabria, Campania, Puglia e Sardegna ma è diffusa su tutto il litorale tirrenico fino alla Liguria.
Il carattere infestante della specie, che tende a sostituire la flora autoctona modificando il paesaggio naturale, ha messo in allerta anche alcune regioni italiane, tra le quali la Toscana, dove una legge regionale ne vieta espressamente l'uso per interventi d'ingegneria naturalistica, come il rinverdimento, la riforestazione ed il consolidamento dei terreni.[9]
Opuntia ficus-indica ha una grande resistenza alla siccità (e al tempo stesso una grande produttività di biomassa) determinata dai cladodi che sono ricoperti da una spessa cuticola cerosa e dal parenchima che è costituito da strati di cellule che fungono da riserva d'acqua. Anche la presenza di radici superficiali e disposte su ampia superficie è un adattamento che consente la sopravvivenza anche in zone con precipitazioni piovose di modesta entità. La pianta inoltre, analogamente alle altre Cactacee, è dotata di un particolare metabolismo fotosintetico, denominato fotosintesi CAM (Crassulacean Acid Metabolism), che consente l'assimilazione dell'anidride carbonica e la traspirazione durante la notte, quando la temperatura è più bassa e l'umidità più alta. Le perdite di acqua per traspirazione sono conseguentemente molto ridotte, mentre la quantità di anidride carbonica assorbita è, in rapporto all'acqua disponibile, elevata. Ciò determina una maggiore efficienza d'uso dell'acqua, cioè un costo in termini di acqua necessaria per fissare una molecola di carbonio, da 3 a 5 volte più basso di quello che si registra nelle altre specie agricole.
È una pianta resistente all'aridità che richiede temperature superiori a 0 °C, al di sopra di 6 °C per uno sviluppo ottimale. Temperature invernali prolungate al di sotto di 0 °C, pur non costituendo un fattore limitante per le piante selvatiche, deprimono l'attività vegetativa e la produttività delle piante in coltura e possono portarle al deperimento.
È una pianta molto adattabile alle diverse condizioni pedologiche. I suoli idonei alla coltura hanno una profondità di circa 20–40 cm, sono terreni leggeri o grossolani, senza ristagni idrici, e con valori di pH che oscillano tra 5.0 e 7.5 (reazione acida, neutra o leggermente subalcalina). Dal punto di vista altimetrico, le superfici destinate alla coltivazione possono andare dai 150 ai 750 metri sul livello del mare.
La propagazione si attua per talea, si preparano tagliando longitudinalmente in due parti cladodi di uno o due anni, che vengono lasciati essiccare per alcuni giorni e poi immessi nel terreno, dove radicano facilmente. La potatura, da eseguirsi in primavera o a fine estate, serve ad impedire il contatto tra i cladodi, nonché ad eliminare quelli malformati o danneggiati. Per migliorare la resa è opportuna una concimazione fosfo-potassica, preferibilmente organica.
La tecnica della scozzolatura, il taglio cioè dei fiori della prima fioritura, da eseguirsi in maggio-giugno, consente di ottenerne una seconda fioritura, più abbondante, con una maturazione più ritardata, in autunno. In base a tale consuetudine si distinguono i frutti che maturano già in agosto, cosiddetti agostani, di dimensioni ridotte, e i tardivi o bastardoni, più grossi e succulenti, che arrivano sul mercato in autunno. La produzione degli agostani non necessita di irrigazione, che invece è richiesta per la produzione dei bastardoni. In coltura irrigua si può ottenere una resa di 250-300 quintali di frutto ad ettaro.
Il panorama varietale della coltura è limitato sostanzialmente a tre cultivar che differiscono per la colorazione del frutto: gialla (Sulfarina), bianca (Muscaredda) e rossa (Sanguigna). La cultivar Sulfarina è la più diffusa per la maggiore capacità produttiva e la buona adattabilità a metodi di coltivazione intensiva. In genere vi è la tendenza ad integrare la coltivazione delle tre cultivar, in modo da fornire al mercato un prodotto caratterizzato da varietà cromatica.
Il fico d'india viene coltivato in molte aree del mondo, in alcune zone per la produzione dei frutti a fini alimentari, in altre per la coltivazione della cocciniglia del carminio,[10] in altre ancora per il foraggio e in alcune zone anche per commercializzare le giovani pale usate come una sorta d'insalata.
Il Messico risulta principale produttore mondiale per quanto riguarda i frutti (circa 50.000-70.000 ettari a seconda della fonte) oltre a circa 10.000 ettari dedicati alla coltivazione di pale a fini alimentari.
Il Perù viene indicato come importante paese di produzione, con circa 30-40.000 ettari soprattutto produzione selvatica per la cocciniglia. La coltivazione avviene nelle valli andine principalmente delle regioni Ayacucho, Huancavelica, Apurímac, Arequipa, Ancash, Lima e Moquegua.
In Brasile si coltiva su circa 40.000 ettari prevalentemente per foraggio[11]. In Cile la superficie è di circa 1.000 ettari[11].
Tra i principali paesi produttori a livello mondiale e primo a livello europeo è l'Italia[12], dove la produzione riguarda di fatto esclusivamente il frutto da commercializzare. In Italia vengono prodotti da 750 000 a 900 000 quintali all'anno (periodo 1999-2010)[13], prevalentemente nelle provincie di Catania, Caltanissetta e Agrigento. Infatti, il 90% della superficie coltivata a fico d'India è localizzata in Sicilia (800.000 quintali, 8.000 ettari[14]), il rimanente 10% in Basilicata, Calabria (5.000 quintali, 50 ettari[15]), Puglia (25.000 quintali, 300 ettari[16]) e Sardegna. In Sicilia, oltre il 70% delle colture si concentrano in 3 aree: la zona collinare di San Cono, il versante sud-orientale delle pendici dell'Etna e la Valle del Belice.
In Tunisia (dove la pianta è chiamata "hindi") si stima che ci siano sui 600.000 ettari, i quali però solo in piccola parte sono utilizzati a fini commerciali, mentre la maggior parte serve per l'alimentazione animale e contro l'erosione. [17] Le principali regioni sono governatorati Kairouan, Kasserine (soprattutto presso Thala) e Sidi Bouzid, tra di loro confinanti. Nei settori (imada) El Messaid, Sayada Nord, Messiouta El Hanachir della delegazione El Alâa nella regione di Kairouan 2.000 ettari, ovvero il 15% del territorio è ricoperto da tale pianta. 1.200 di questi (9% del territorio) sono coltivati, gli altri sono formati da siepi, barriere o da piante presso gli edifici abitati. Sia le piante coltivate che quelle non coltivate sono a disposizione per la raccolta e la trasformazione di frutti, semi, fiori e pale. I frutti vengono venduti tradizionalmente da metà giugno fino a metà ottobre lungo le strade. Solo negli ultimi anni il frutto ha fatto ingresso anche nella grande distribuzione. Anche grazie agli accordi doganali tra la Tunisia e l'Unione Europea vengono esportati annualmente circa 70-80.000 tonnellate. La produzione biologica certificata nella regione Kairouan è meno diffusa che nelle regioni Kasserine e Sidi Bouzid (situazione 2015).
In Marocco la produzione avviene su circa 120.000 ettari e coinvolge 23 varietà di Opuntia ficus-indica e 7 di Opuntia megacantha.[18][19]
In Spagna, dove la pianta viene chiamata "nopal" e "higuera chumba", agli inizi del XX secolo la produzione aveva ancora una certa importanza. nelle Canarie[20] e in diverse regioni tra le quali prevaleva l'Andalusia[21] Con il passare dei decenni questa pianta ha perso la sua importanza economica nell'agricoltura spagnola: agli inizi degli anni 1950 si contavano ancora 100-300 ettari.[22]. Già negli anni '70 l'Istituto nazionale di statistica non ha più rilevato il dato perché irrilevante. [23]
L'Opuntia ficus-indica, per la sua capacità di svilupparsi anche in presenza di poca acqua, si rivela una pianta di enormi potenzialità per l'agricoltura e l'alimentazione dei paesi aridi.[8] Ha un notevole valore nutrizionale essendo ricco di minerali, soprattutto calcio e fosforo, oltreché di vitamina C.
La risorsa alimentare più pregiata è rappresentata dai frutti, chiamati fichi d'India, che oltre ad essere consumati freschi, possono essere utilizzati per la produzione di succhi, liquori, gelatine (in Sicilia p.es. detta mostarda), marmellate, dolcificanti ed altro; ma anche le pale, più propriamente i cladodi, possono essere mangiati freschi, in salamoia, sottoaceto, canditi, sotto forma di confettura. Vengono utilizzati anche come foraggio. Una farina ottenuta dalle bucce dei frutti può essere come ingrediente per la produzione di biscotti.[8]
Se consumato in quantità eccessive può causare occlusione intestinale meccanica dovuta alla formazione di boli di semi nell'intestino crasso. Pertanto questo frutto va mangiato in quantità moderata e accompagnato da pane per impedire ai semi, durante l'assorbimento della parte polpacea, di conglobarsi e formare i "tappi" occlusivi. Per analogo motivo è sconsigliato questo frutto alle persone affette da diverticolosi intestinale. Questo problema è lo sfondo di una poesia di Giuseppe Coniglio, poeta di Pazzano, nel libro A terra mia.
Peculiari della tradizione messicana sono il miel de tuna, uno sciroppo ottenuto dall'ebollizione del succo, il queso de tuna, una pasta dolce ottenuta portando il succo alla solidificazione, la melcocha, una gelatina ricavata dalle mucillagini dei cladodi, ed il colonche una bevanda fermentata a basso tenore alcolico.
In Sicilia si produce tradizionalmente uno sciroppo, ottenuto concentrando la polpa privata dei semi, del tutto simile come consistenza e gusto allo sciroppo d'acero, ed utilizzato nella preparazione di dolci rustici. È utilizzato anche come infuso per un liquore digestivo.
La produzione di cladodi a scopo alimentare è ottenuta da varietà a basso tenore in mucillagini selezionate in Messico. Le pale del fico d'India (nopales), spinate accuratamente e scottate su piastre arroventate di pietra o di ferro, fanno parte delle abitudini alimentari del Messico, così come di altri paesi latinoamericani. Non è difficile trovarne nei mercati rionali già pronte all'uso o vendute dagli ambulanti per le strade, insieme a crema di fagioli, mais e cipolla.
Ficodindia | |
---|---|
Origini | |
Luogo d'origine | Italia |
Regione | Sicilia |
Zona di produzione | Sicilia |
Dettagli | |
Categoria | ortofrutticolo |
Riconoscimento | P.A.T. |
Settore | Prodotti vegetali allo stato naturale o trasformati |
La diffusione capillare in Sicilia, lo storico e ampio uso che se ne fa nella cucina siciliana hanno portato il ficodindia generico (Opuntia ficus-indica) ad essere inserito nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (P.A.T) del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali (Mipaaf) come prodotto tipico siciliano.[25] Su proposta della Regione Siciliana sono stati riconosciuti anche i seguenti prodotti tradizionali come eccellenze specifiche del territorio:[26]
Il ficodindia di San Cono e il ficodindia dell'Etna sono inoltre riconosciuti come prodotti a Denominazione di origine protetta (DOP).[27][28]
Nella medicina popolare:[29]
Evidenze mediche recenti:
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