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evento storico (9-10 settembre 1943) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
La fuga da Roma del re d'Italia Vittorio Emanuele III di Savoia e del maresciallo d'Italia Pietro Badoglio (genericamente nota anche come fuga di Pescara, fuga di Ortona o fuga di Brindisi) consistette nel precipitoso abbandono della capitale – all'alba del 9 settembre 1943 – alla volta di Brindisi, da parte del sovrano, del capo del Governo e di alcuni esponenti della Real Casa, del governo e dei vertici militari. La fretta con la quale la fuga fu realizzata comportò l'assenza di ogni ordine e disposizione alle truppe e agli apparati dello Stato utile a fronteggiare le conseguenze dell'Armistizio, pregiudicando gravemente l'esistenza stessa di questi nei convulsi eventi bellici delle 72 ore successive. Questo avvenimento segnò una svolta nella storia italiana durante la seconda guerra mondiale.
In seguito a questo evento – che seguì immediatamente l'annuncio, la sera dell'8 settembre, dell'armistizio siglato con gli Alleati il 3 settembre – le forze di terra italiane, abbandonate a loro stesse e senza ordini e piani precisi,[1] non furono in grado di opporre un'efficace e coordinata resistenza alla ovvia e prevedibile reazione tedesca, disintegrandosi nel volgere di poche decine di ore e finendo in larga parte preda dei tedeschi, con eccezione delle guarnigioni di Sardegna e Corsica, in Puglia e – almeno per due giorni – alla periferia sud di Roma. Fu in tal modo consentito all'ex alleato di occupare agevolmente oltre due terzi del territorio nazionale e tutti i territori occupati dal Regio Esercito nella Francia meridionale, nei Balcani e in Grecia, e di catturare ingentissime quantità di bottino e quasi seicentomila militari italiani; questi furono dai tedeschi considerati non come prigionieri di guerra, soggetti quindi alla convenzione di Ginevra in materia, ma come "internati", classificazione che dava al governo tedesco, secondo un'interpretazione assolutamente unilaterale voluta da Hitler in persona, il diritto di trattare e sfruttare i prigionieri con metodi e modi del tutto al di fuori delle convenzioni internazionali.
Con la subitanea avanzata alleata in Calabria e gli sbarchi anfibi di Salerno e Taranto in concomitanza con l'Armistizio, il restante terzo del Paese fu rapidamente occupato dagli angloamericani. L'Italia fu perciò trasformata in larga parte in un campo di battaglia, usata dai due contendenti rispettivamente dal primo per la difesa del territorio e degli interessi strategici e politici del Terzo Reich, e dai secondi per attaccare l'Asse nel suo "ventre molle", attirando in Italia il maggior numero possibile di divisioni tedesche per sguarnire gli altri fronti. Il Paese fu così esposto ai rigori e alle sciagure di ulteriori venti mesi di guerra, sottoposto alla duplice occupazione di truppe straniere spesso indifferenti alle condizioni della popolazione civile e al patrimonio artistico, industriale e infrastrutturale italiano.[2]
«Stiamo per invadere un Paese ricco di storia, di cultura e d'arte come pochissimi altri. Ma se la distruzione di un bellissimo monumento può significare la salvezza di un solo G.I., ebbene, si distrugga quel bellissimo monumento.»
L'offensiva lanciata dagli Alleati nell'estate del 1943 contro il territorio italiano, quello che Winston Churchill aveva definito "il ventre molle d'Europa", non tardò ad aver successo, rendendo chiara l'inevitabilità della sconfitta e causando la caduta del regime fascista, insediato al potere da 21 anni a seguito della Marcia su Roma non contrastata dal re Vittorio Emanuele III.
Tra il 9 e il 10 luglio 1943 iniziò l'invasione della Sicilia - non contrastata dalla Regia Marina, i cui alti ufficiali erano in massima parte fedelissimi al sovrano - e Palermo cadde nelle mani degli americani già il 22 luglio 1943. Nello stesso giorno, Vittorio Emanuele III si rivolse con queste parole a Dino Grandi «Mi dia un voto del Gran Consiglio del Fascismo che mi offra un pretesto costituzionale per dimissionare Mussolini».[4]
Il 19 luglio 1943 Roma fu colpita da un devastante bombardamento aereo, più volte pubblicamente minacciato dagli Alleati sin dal 1940, malgrado gli sforzi del Pontefice e del Vaticano, le uniche autorità impegnate sin dall'inizio del conflitto in una fitta attività diplomatica volta a tentare di scongiurare il pericolo che la città eterna subisse dal cielo devastazioni simili a quelle che colpirono innumerevoli città europee.[5] Il bombardamento causò più di 2000 vittime.
Il papa Pio XII fece allora pubblicare un vero e proprio atto di accusa contro chi non rispettava né gli altissimi valori tradizionali rappresentati da Roma, né la presenza della Chiesa, né la vita delle persone che vi si erano rifugiate.[senza fonte]
Di fronte all'inarrestabile avanzata alleata e alla campagna di bombardamenti aerei e navali che investiva il resto d'Italia, prima ancora che Catania fosse occupata dagli inglesi il 5 agosto 1943 e che l'ultimo lembo di terra siciliana fosse evacuato dalle forze dell'Asse (occupazione di Messina il 17 agosto), il Re decise infine di liberarsi di colui che gli Italiani ritenevano il primo responsabile del disastro, destituendo e facendo arrestare Benito Mussolini il 25 luglio 1943, appena dopo la sfiducia decretatagli a maggioranza nella notte precedente dallo stesso Gran consiglio del fascismo, per iniziativa di Dino Grandi. Lo stesso Grandi, interpellato dal sovrano sulla situazione, già il 28 luglio 1943 lo avvisò dell'imminente e grave pericolo che versava sulla nazione qualora alla caduta di Mussolini non fossero seguiti speditamente un armistizio con gli Alleati e la rottura con i tedeschi e se contro questi non fossero state rivolte con decisione le armi:
«Se il nostro esercito non si difende e non contrattacca le forze di invasione tedesche che già stanno attraversando il Brennero, e simultaneamente il governo non prende alcun serio contatto con gli Alleati, prevedo giorni tremendi per la nazione.[6]»
Mussolini fu speditamente sostituito alla testa del governo dal maresciallo d'Italia Pietro Badoglio, un militare piemontese largamente compromesso con le iniziative del regime fascista e – malgrado la pessima prova da questi fornita durante la campagna di Grecia – preferito dal sovrano al parigrado Enrico Caviglia, del quale lo stesso Grandi aveva caldeggiato la candidatura, e che pare fosse sospettato a corte di essere "troppo filobritannico".
Il successivo 31 luglio il governo Badoglio comunicava di aver deciso di dichiarare Roma città aperta, chiedendo a tutti i belligeranti a quali condizioni la dichiarazione potesse essere accettata. Il 13 agosto, gli americani effettuarono sulla città una nuova, pesantissima incursione aerea.[7]
Il 14 agosto venne allora diramato un comunicato ufficiale nel quale si diceva che, «in mancanza di evasione della richiesta del 31 luglio», il governo italiano si vedeva «costretto alla proclamazione unilaterale, formale e pubblica di Roma città aperta, prendendo le necessarie misure a norma del diritto internazionale». Il 22 agosto veniva diramato un altro comunicato ufficiale, nel quale si informava che, in occasione dei sorvoli di aerei nemici sulla capitale non si sarebbe più fatto luogo a manifestazioni di difesa contraerea.
La vacuità delle parole tardivamente proferite dal governo Badoglio, che s'era deciso a dichiarare unilateralmente Roma "città aperta" non prima di trenta ore dopo il secondo bombardamento che l'aveva sconvolta,[8] è testimoniata dal fatto che gli Alleati avevano chiarito – già prima della caduta di Mussolini, e con ogni mezzo – che la dichiarazione di Roma "città aperta" del governo italiano – unilaterale e priva dei necessari requisiti di smilitarizzazione e verifica da parte di osservatori neutrali – non aveva alcun valore.[9] Non a caso la città verrà nuovamente bombardata numerose volte, sino alla liberazione, avvenuta il 4 giugno 1944.
Nel frattempo, avendo verificato l'incapacità o la mancata volontà del re e del governo Badoglio di provvedere adeguatamente al grave pericolo che incombeva sul Paese, Dino Grandi riparò nella Spagna franchista. Stando invece ad Aldo Castellani, Grandi andò in Portogallo per ordine del Re, al fine di prendere contatto con gli inglesi[10].
A causa dell'avanzata degli Alleati dal sud Italia, il governo italiano, messo sotto pressione dal generale Eisenhower,[11] il 3 settembre 1943, aveva firmato a Cassibile la prima versione di un armistizio con gli inglesi e gli americani (il cosiddetto armistizio corto), abbandonando di fatto l'alleanza con i tedeschi. L'accordo era stato firmato dal generale Giuseppe Castellano.[12]
L'armistizio era stato tenuto segreto per alcuni giorni nella vana speranza di tenerne all'oscuro i tedeschi, che invece stavano preparando segretamente l'operazione Alarico, mirante a prendere il completo controllo dell'Italia; questa in realtà era articolata in Achse ("Asse"), con l'obiettivo di catturare la flotta militare italiana, Schwartz, volta a disarmare l'esercito italiano, Eiche, per la liberazione di Mussolini e Student che doveva prendere il controllo di tutto il territorio italiano ancora non invaso dagli Alleati, instaurando un nuovo governo fascista (che non prevedeva una presenza monarchica). Si voleva infatti dare all'esercito italiano il tempo di organizzarsi contro la reazione dei nazisti, temendo la reazione tedesca. Le operazioni a tal fine erano state affidate al generale Badoglio che, come capo del governo, aveva preso il posto di Mussolini il 27 luglio.
Gli Alleati, al fine di aiutare l'Italia nella difesa di Roma, erano anche pronti a mettere in campo una divisione aviotrasportata, la 82ª statunitense, che sarebbe dovuta atterrare in uno o più aeroporti vicini a Roma, posto che il Comando Supremo italiano avesse assicurato la difesa dell'aeroporto stesso. A tale scopo, già durante l'incontro di Cassibile, nella notte tra il 3 e il 4 settembre, era stata evidenziata alla delegazione italiana la necessità di verificare la difendibilità da parte italiana di Centocelle e Guidonia, non scartando altre opzioni; il piano era denominato Giant 2; Castellano suggerì alternative come Cerveteri e la frazione Furbara, lontane dagli acquartieramenti tedeschi.[13] A tale scopo venne inviata una missione militare a Roma, nella notte tra il 6 e il 7 settembre, con il generale Taylor, vicecomandante della 82ª. Di fronte alla disorganizzazione italiana (il generale Carboni, comandante del corpo d'armata motocorazzato, introvabile, era convinto che l'armistizio dovesse essere proclamato il 12), Taylor chiese di vedere Badoglio, il quale in piena notte lo scongiurò di rimandare l'armistizio e di spostare i luoghi dell'aviosbarco.[14] Con questi presupposti, il generale Taylor inviò il radiomessaggio Situation innocuous, che cancellava l'operazione.[15]
Informalmente, alla firma dell'armistizio gli Alleati avevano avvertito il governo italiano che gli sbarchi sulla penisola sarebbero avvenuti entro due settimane, e la previsione italiana era che l'armistizio sarebbe stato comunicato il 12 settembre o successivamente; visti i tentennamenti italiani, Eisenhower, dopo aver scritto una lettera a Badoglio che diceva fra l'altro «Il rifiuto da parte vostra di adempiere a tutti gli obblighi dell'accordo firmato avrà le più serie conseguenze per il vostro paese…», anticipava di alcune ore la diffusione della notizia e la radio alleata,[16] captata in Italia, diede la notizia della firma della resa alle ore 16.30 dell'8 settembre,[17] sorprendendo un «consiglio della Corona» convocato dal re al Quirinale (poi trasferitosi nel vicino Palazzo Baracchini, sede del ministero della Guerra), il quale ancora la mattina aveva rassicurato l'ambasciatore tedesco della fedeltà ai patti stipulati.[18]
Dopo frenetiche discussioni, durante le quali si era perfino ipotizzato di rigettare la firma della resa, Badoglio alle ore 19:42 diede disposizione di annunciare per radio la firma dell'armistizio alla popolazione italiana, ordinando ai reparti di «cessare le ostilità contro le forze angloamericane e di reagire ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».
Era tutto interesse di Hitler quello di contrastare l'operato di Badoglio occupando l'Italia, in quanto la penisola era di enorme importanza strategica nel confronto militare con le forze degli inglesi e degli americani. In Italia erano già stanziate delle truppe tedesche il cui compito principale era quello di tenere lontani gli angloamericani dalla Germania: infatti in quei giorni le truppe alleate, sbarcate in Sicilia circa due mesi prima (il 10 luglio) avevano già completato l'occupazione dell'isola e tenevano sotto controllo diverse zone meridionali della penisola, spostando gradualmente il fronte verso nord; più precisamente, il piano definitivo di ritirata tedesca prevedeva un ritiro lento dalla Calabria verso la Campania in modo da consentire la realizzazione delle opere difensive che poi – su impulso di Albert Kesselring – diedero forma alla linea Gustav. Erwin Rommel, al contrario, avrebbe voluto una rapida evacuazione dell'intera Penisola sino all'Appennino settentrionale.[senza fonte]
«Nell'ora solenne che incombe sui destini della patria ognuno riprenda il suo posto di dovere, di fede e di combattimento: nessuna deviazione deve essere tollerata, nessuna recriminazione essere consentita.»
In questa situazione di emergenza, i compiti di assoluta necessità cui dovevano adempiere il governo e la monarchia erano molteplici. Tra l'altro si ricordano i seguenti:
È peraltro chiaro che questi obiettivi si trovavano in parziale contraddizione tra loro. Vittorio Emanuele III e il generale Badoglio diedero la priorità soprattutto alla propria sicurezza, optando per la fuga. Vollero scegliere una destinazione che garantisse una certa sicurezza dagli attacchi tedeschi. L'Italia meridionale, in parte già abbandonata dai nazisti, pareva offrire le migliori premesse in questo senso.[senza fonte]
Secondo Paolo Puntoni, aiutante di campo del re, Vittorio Emanuele aveva già discusso di un suo allontanamento da Roma chiedendogli, già il 28 luglio, (tre giorni dopo l'arresto di Mussolini) di organizzare il necessario nel caso si presentasse questa evenienza.[21] Commentando: «Non voglio correre il rischio di fare la fine del re dei Belgi. […] Non ho alcuna intenzione di cadere nelle mani di Hitler e di diventare una marionetta di cui il Führer possa muovere i fili a seconda dei suoi capricci».[senza fonte]
Questa evenienza si sarebbe tuttavia presentata molto presto, ossia dopo gli avvenimenti dell'8 settembre 1943: dopo la diffusione della notizia della firma dell'armistizio, re e Badoglio, con parte della corte e la quasi totalità dei ministri fuggirono dalla capitale verso la costa adriatica. È opinione prevalente tra gli studiosi che la decisione di cercare scampo nella fuga sia stato un gesto irresponsabile[22]. Abbandonando la capitale, le massime personalità politiche di un Paese all'orlo del collasso non lasciarono dietro di sé un vero e proprio governo ad interim, ma il caos più completo.[20]
Va tuttavia aggiunto che il Re era ormai anziano (aveva quasi 74 anni) e che erano ben lontani gli anni della prima guerra mondiale, quando Vittorio Emanuele, sovente in visita al fronte, s'era guadagnato l'appellativo di "Re soldato". In effetti il sovrano non aveva più esercitato alcun ruolo militare durante il ventennio fascista, e aveva interamente ceduto a Mussolini il ruolo di comandante supremo. Durante la seconda guerra mondiale il Re non aveva mai esercitato il comando, al punto da non visitare mai le truppe presso alcun fronte.[senza fonte]
«Sono appena passate le sei, qualche soldato, fermo sui marciapiedi davanti agli edifici del Ministero della Guerra e dello Stato Maggiore, saluta; ma gli altri, i più, restano come sono, berretto di traverso, viso torvo, mani in tasca. Annusano la fuga dei capi.»
La sera dell'8 settembre 1943, in coincidenza con l'annuncio dell'armistizio siglato cinque giorni prima, vari comandi e presidi italiani in Patria e all'estero venivano attaccati o sopraffatti dai tedeschi, sicché il Re e il governo Badoglio temevano un colpo di mano nazista per impadronirsi della capitale (intervento che poi puntualmente avvenne e fu completato il 10 settembre). Anziché organizzare la difesa della capitale - ciò che pure era militarmente possibile, come poi attestato dagli stessi tedeschi - decisero di allontanarsi precipitosamente da Roma. Cadute rapidamente le ipotesi di raggiungere per nave la Sardegna (da dove le forze germaniche presenti, la 90ª Divisione PanzerGrenadier, stavano già muovendo verso la Corsica per consolidarne il controllo), per via della rapida occupazione da parte tedesca delle basi navali di Gaeta e Civitavecchia, si delineò l'ipotesi di rivolgersi al fronte adriatico, particolarmente sguarnito di forze germaniche, finendo per scegliere la via Tiburtina quale via di fuga per raggiungere il porto di Ortona.
A seguito della caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943, l'ambasciatore tedesco in Italia, von Mackensen, fu richiamato in Patria, accusato da Hitler di non esser stato in grado di preavvertire Berlino del "colpo di Stato" ai danni del duce del fascismo. A Villa Wolkonsky, allora sede dell'ambasciata tedesca a Roma, giunse a sostituirlo come incaricato d'affari Rudolf Rahn. Tuttavia, nonostante il precedente del 25 luglio, né Rahn, né il console tedesco a Roma, Eitel Friedrich Moellhausen, furono in grado di anticipare la notizia dell'armistizio italiano dell'8 settembre. L'attonito Rahn ricevette la notizia direttamente dal ministro degli esteri di Badoglio, Raffaele Guariglia, che gliela comunicò personalmente solo attorno alle 19:45 dell'8, quasi in coincidenza con la diffusione via radio dell'annuncio della fine delle ostilità verso gli angloamericani. Guariglia illustrò personalmente e francamente la situazione ai suoi interlocutori tedeschi i quali, avendo di conseguenza un chiaro quadro della portata dell'evento, senza indugi trassero drastiche conclusioni e, informata Berlino dello straordinario evento, chiesero e ottennero il permesso di lasciare al più presto la capitale italiana. Fu pertanto avviata in gran fretta la distruzione di pratiche e documenti segreti e sensibili dell'ambasciata; quindi il personale, grazie anche all'aiuto di amici italiani e di colleghi di altre legazioni, provvide nel giro di poche ore a liquidare ogni pendenza, dalla chiusura dei conti correnti bancari alla risoluzione di contratti d'affitto. Il ministero degli Esteri italiano, dando prova di quell'organizzazione e freddezza che la sera dell'8 settembre parvero del tutto mancare al Quirinale e a Palazzo Baracchini (sede del Ministero della Guerra), fece preparare alla stazione Termini un treno speciale per rimpatriare i diplomatici tedeschi.
Rahn e Moellhausen non ebbero dubbi sul da farsi, né si attendevano che la capitale italiana potesse cadere subito in mani tedesche e pertanto accettarono, assieme al personale dell'ambasciata, di servirsi senz'altro del treno per lasciare al più presto Roma, smentendo quanti ex post hanno sostenuto che la prospettiva di una rapida occupazione nazista fosse scontata e inevitabile. Il treno dei diplomatici tedeschi lasciò la stazione in piena notte, poco prima che il piccolo corteo di auto con a bordo i reali d'Italia lasciasse furtivamente (fu utilizzato un ingresso secondario in via Napoli) il Ministero della guerra verso la via Tiburtina. Secondo Moellhausen, il treno viaggiò verso Terni, dove fu deviato verso la linea della costa adriatica, senza che nessuno sapesse sin dove sarebbe potuto arrivare. Il treno, a bordo del quale erano anche diversi italiani, rimase fermo presso una piccola stazione, durante quasi tutta la giornata del 9, senza che i diplomatici tedeschi riuscissero a contattare i propri superiori, sinché un capostazione convinse un conduttore a far ripartire il treno in direzione nord. Il convoglio giunse infine a Verona, che i passeggeri fuggiaschi trovarono già caduta in mani tedesche: Moellhausen e Rahn poterono così contattare i loro superiori a Berlino. Stupefatti ricevettero l'ordine di tornare immediatamente a Roma, assieme con tutto il personale: la capitale italiana, appresero, era stata abbandonata dal Re e dal governo e, lasciata senza una coerente difesa, era ormai controllata dai soldati tedeschi.[23]
Alcuni degli incarichi più importanti furono delegati a chi doveva restare: la presidenza del Governo fu frettolosamente affidata ad Umberto Ricci, allora ministro degli Interni. Mario Roatta, vice Capo di Stato Maggiore (anche lui in fuga), diede sommarie istruzioni sul da farsi al generale Giacomo Carboni, ordinandogli in particolare di disporre affinché due tra le più potenti formazioni militari italiane (la divisione corazzata Ariete e la divisione motorizzata Piave) poste a difesa della capitale abbandonassero la difesa di Roma e fossero invece disposte, di fatto, a difesa della via di fuga scelta dal Re, la via Tiburtina, uscendo da Roma e schierandosi a cavallo della strada verso Tivoli (nella quale avrebbe dovuto anche essere spostato il comando corpo d'armata), sì da impedire eventuali puntate germaniche in quella direzione.
«Roatta: Tu puoi muovere subito le tue divisioni?
Carboni: Perché?
Roatta: Non possiamo difenderci a Roma, siamo in una trappola. Stavo scrivendo l’ordine di spostare il tuo Corpo d’Armata a Tivoli.
Carboni: Posso muovere subito la divisione ‘Piave’ e quasi tutta l’’Ariete’; anche la parte di questa divisione che non può muovere subito ritengo che potrà disimpegnarsi presto senza difficoltà. Per la ‘Centauro’ bisogna tener presente che sarà più un’insidia che un vantaggio averla con noi.........»
Nella discussione tra Roatta e Carboni, bisogna tener presente che quest'ultimo rivestiva inoltre il grado di commissario del Servizio informazioni militare, e comunque non esiste analoga ricostruzione di Roatta.[24] Dal dialogo si evince anche che, della fedeltà della divisione corazzata Centauro II, denominata fino a poche settimane prima 1ª Divisione Corazzata di Camicie Nere "M" (formata da diversi Battaglioni M oltre che da un'aliquota della disciolta Centauro), il Comando Supremo non era sicuro[25][26] e preferì quindi allontanarla dalla direttrice di fuga.
Tra il 9 e il 10 settembre, nella battaglia che i militari italiani, abbandonati a se stessi, ed i cittadini combatterono per opporsi all'occupazione nazista, mentre re e governo erano in fuga, caddero – nei combattimenti a sud della Capitale, alla Montagnola, a Porta San Paolo e lungo la via Cassia – circa mille e trecento tra militari e civili.
All'alba del 9 settembre Vittorio Emanuele III di Savoia salì insieme alla regina Elena, al generale Puntoni e al tenente colonnello De Buzzacarini sulla Fiat 2800 grigioverde di quest'ultimo. Badoglio con il duca Pietro d'Acquarone e Valenzano nella seconda vettura, mentre il principe Umberto prese posto su una terza vettura. Il piccolo convoglio lasciò Roma sulla via Tiburtina.
Erano assenti tutti gli altri membri della Famiglia Reale, alcuni dei quali furono poi arrestati dai tedeschi e internati in vari campi di concentramento (la principessa Maria José e i figli riuscirono però a riparare in Svizzera). La principessa Mafalda di Savoia, sposata al principe Filippo d'Assia e che in quei giorni si trovava in Bulgaria, non fu avvisata della fuga dei Reali da Roma e dell'armistizio (ne venne avvisata durante il viaggio di rientro in Italia, ma volle proseguire[senza fonte]). Cadde quindi facilmente prigioniera dai nazisti e fu deportata nel campo di concentramento di Buchenwald ove, duramente provata dalla prigionia, morì per le ferite riportate durante un bombardamento alleato. il marito era stato già arrestato dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 e internato nel campo di Flossenbürg, poi fu trasferito al campo di concentramento di Dachau. Dopo soli dieci giorni, però, fu trasferito, insieme a circa 140 altri detenuti di spicco a Villabassa in Val Pusteria (Alto Adige), dove venne liberato dalle truppe alleate il 4 maggio 1945, presso il lago di Braies (Bolzano). La principessa Maria Francesca di Savoia fu internata in un campo di concentramento in Germania con due dei suoi figli e il marito Luigi di Borbone-Parma. Nel 1945 gli anglo-americani li liberarono ed essi fecero ritorno in Italia. La Duchessa d'Aosta Irene di Grecia insieme al figlio Amedeo, la cognata Anna d'Orléans e le sue figlie Margherita e Maria Cristina di Savoia-Aosta furono arrestate dai tedeschi il 26 luglio 1944 su ordine di Heinrich Himmler e deportate in Austria nel campo di concentramento di Hirschegg, venendo liberate solo al termine del conflitto nel maggio 1945 e rientrando in Italia il 7 luglio 1945.
Gli altri generali si mossero ad intervalli regolari seguendo il piccolo corteo di auto con a bordo i Reali. Due autoblindo, su una delle quali era trasportato il generale Zanussi, facevano da scorta al convoglio in fuga. I posti di blocco tedeschi furono superati facilmente dichiarando la presenza di "ufficiali generali" e per questo motivo si ritiene che il convoglio fosse stato esplicitamente autorizzato da Kesselring.[27][28]
L'auto su cui viaggiava Badoglio si guastò cammin facendo e questi passò perciò nell'auto del principe Umberto il quale, vedendolo infreddolito, gli prestò il suo cappotto. Badoglio si premunì di rimboccarsi le maniche per evitare che fossero visibili i gradi. Durante il tragitto, il principe Umberto espresse ripetutamente delle remore, manifestando il desiderio di rientrare a Roma e porsi alla guida delle truppe italiane a sua difesa. Tuttavia, Badoglio lo indusse bruscamente a desistere dai suoi propositi, facendo valere il fatto di essere un suo superiore nella gerarchia militare.[29]
Nel pomeriggio le auto raggiunsero l'aeroporto di Pescara, dove era presente un gruppo di volo comandato dal principe Carlo Ruspoli che, avuta notizia delle intenzioni dei Reali, espresse stupore e sdegno per quella fuga; Vittorio Emanuele III si trincerò dietro gli obblighi costituzionali ("Devo essere ossequente alle decisioni del mio governo"). A quel punto, però, l'uso dell'aeroplano fu escluso: una spiegazione si fonda sul timore di possibili ribellioni, visto che anche i piloti operanti in zona non erano d'accordo a partecipare a un'azione che consideravano indecorosa[30]; un'altra possibile spiegazione (addotta da Badoglio nella sua opera L'Italia nella seconda guerra mondiale) fu il fatto che «la regina sofferente di cuore, non avrebbe potuto sopportare il volo».[31][32]
Si decise così di continuare il viaggio in nave: in attesa di imbarcarsi, il Re pernottò presso il castello di Crecchio, di proprietà di Giovanni De Riseis duca di Bovino; lo Stato Maggiore e la nobiltà al seguito ripararono a Chieti, a palazzo Mezzanotte, di fronte alla cattedrale.
Era stata chiamata al porto di Pescara da Zara la corvetta Baionetta, da Taranto l'incrociatore Scipione l'Africano e la corvetta Scimitarra. La popolazione della città però, venuta a sapere della fuga, si mostrò indignata e, per evitare problemi, la comitiva di fuggiaschi e le navi destinate ad essi furono deviate verso il porto di Ortona. Badoglio, sceso da Chieti in piena notte, fu l'unico che riuscì a imbarcarsi a Pescara.
La mattina successiva il Re e il suo seguito si imbarcarono da Ortona sulla corvetta Baionetta, scortato da 12 pescatori ortonesi[33], che li condusse a Brindisi, che al momento non si trovava sotto il controllo degli alleati, né dei tedeschi.[34] L'imbarco verso la salvezza fu drammatico: una folla vociante di 250 ufficiali con tanto di famiglia e conoscenti, già in attesa del Re, aveva infatti cercato (per lo più inutilmente) di aggiungersi alla comitiva. La nave non attraccò, nella lancia inviata al molo comunque fu stipata più gente che si poteva. Molti, militari e non, a seguito del Re non riuscirono ad imbarcarsi, tornarono a Chieti da dove, abbandonati gli averi e procurati abiti civili e anonimi, si diedero alla macchia.
Durante la navigazione la compagnia fu seguita da un ricognitore tedesco che documentò con fotografie la fuga dei Reali, ma nulla seguì a tale controllo. Al loro arrivo a destinazione i reali furono accolti dall'ammiraglio Rubartelli, che aveva pieno controllo della zona e che rimase sbalordito dall'improvvisa comparsa di Vittorio Emanuele.
Vi sono fondati sospetti che Badoglio avesse già da tempo fatto trasferire consistenti ricchezze in Puglia.[32] Inoltre, pare che già dai primi di settembre la moglie e la figlia di Badoglio si fossero trasferite al sicuro in Svizzera.[senza fonte] Anche sulla figura del Re sono stati sollevati dubbi riguardo alla lealtà verso il Paese, dal punto di vista economico; in un suo libro Indro Montanelli[35] sostiene come il Re mantenesse cospicui depositi di denaro in Gran Bretagna.
Dopo essersi sistemato a Brindisi, il gruppo riprese le trattative con gli alleati. Questi ultimi considerarono come confermata la loro immagine dell'Italia: quella di un interlocutore volubile e inaffidabile: inviati da Eisenhower per le trattative, il generale Mason MacFarlane e i suoi consiglieri arrivarono in Puglia sorpresi dal fatto di trovare uno staff politico totalmente impreparato alle trattative e addirittura ignaro del testo dell'armistizio corto (ossia quello firmato da Castellano il 3 settembre).[36] Paradossalmente, la diffidenza degli alleati verso Badoglio finì per somigliare a quella che i tedeschi nutrivano verso il governo italiano.
Il 27 settembre giunsero a Brindisi due rappresentanti degli alleati: Macmillan e Murphy consegnarono a Badoglio il testo ultimativo della “resa incondizionata” che sarà firmato da Badoglio a Malta il successivo 29 settembre. Questo testo, articolato in 44 articoli, verrà chiamato armistizio lungo e definirà le severe condizioni della resa italiana. Tra l'altro, il 13 ottobre l'Italia formalmente dichiarerà guerra alla Germania, condizione richiesta nelle clausole della resa per acquisire lo status di parte cobelligerante.[37]
A nord del fronte dei combattimenti, nel frattempo, la divisione dell'Italia si era formalizzata: la quasi totalità del territorio italiano a nord del fronte fu affidata al controllo di Mussolini, liberato dai tedeschi il 12 settembre e subito tradotto in Germania per un incontro con Hitler.[38] Si stabiliva così al nord la Repubblica Sociale Italiana: i tedeschi avevano occupato il nord riuscendo a mettere in atto buona parte dei punti della Operazione Alarico, eccezion fatta per la cattura della flotta italiana che, a parte un comunque consistente numero di unità minori, era partita verso porti Alleati.
Nella parte meridionale, invece, muoveva i primi passi quello che viene talvolta chiamato Regno del Sud.
Il nord Italia, organizzato come Stato fantoccio fu soggetto ad un governo di fatto con dirigenza politica fascista e organizzato sulla struttura burocratica dello Stato italiano preesistente, anche se sottoposto ad un rigido e pervasivo controllo germanico, i cui diversi emissari (militari, politici, economici, diplomatici, polizieschi) sovrapponevano le proprie competenze tra loro e su quelle italiane.
A Brindisi, Vittorio Emanuele III e Badoglio ripresero gradualmente le loro funzioni sotto il vincolo del controllo da parte del comando alleato, mantenendo la continuità istituzionale ma di fatto regnando su sole quattro province pugliesi (la Sardegna pur essendo de jure sottoposta alla sovranità brindisina, di fatto era tagliata fuori da ogni collegamento con il governo regio). Si addivenne così a quello che fu definito impropriamente "Regno del Sud", di fatto del tutto subordinato all'amministrazione militare alleata (Allied Military Government of Occupied Territories, AMGOT). Da Brindisi Vittorio Emanuele III nominò Raffaele de Courten capo di Stato Maggiore della Regia Marina, preferito dagli Alleati al principe Aimone di Savoia-Aosta, che venne nominato comandante italiano della base navale di Taranto.[39]
Radio Bari l'11 settembre diffuse un proclama del Re[40]:
«Per il supremo bene della Patria, che è stato sempre il mio primo pensiero e lo scopo della mia vita e nell'intento di evitare più gravi sofferenze e maggiori sacrifici, ho autorizzato la richiesta dell'armistizio.
Italiani, per la salvezza della Capitale e per poter pienamente assolvere i miei doveri di Re, col Governo e con le Autorità Militari, mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero suolo nazionale.
Italiani! Faccio sicuro affidamento su di voi per ogni evento, come voi potete contare fino all'estremo sacrificio, sul vostro Re.
Che Iddio assista l'Italia in quest'ora grave della sua storia.[41]»
Quella stessa sera fu diffuso anche un proclama del maresciallo Badoglio che, come il Re, parlava per la prima volta agli italiani dopo l'armistizio[42]:
«Italiani! Nell'annunziarvi la sera dell'8 settembre la conclusione dell'armistizio, io avevo precisato che le nostre forze armate non dovevano più compiere atti di ostilità contro le truppe anglo-americane, ma dovevano essere pronte a reagire contro chiunque le attaccasse. Ora le forze armate tedesche hanno violentemente occupato città e porti e svolto contro di noi azioni aggressive sia in terra che in mare e in cielo. Perciò ad ogni atto di imperio e di violenza si risponda di pari modo e con la massima energia.[43]»
La scelta di abbandonare Roma, condannata dalla maggioranza degli studiosi, ebbe enormi conseguenze negative nel breve e nel medio periodo:
«[…] Le Forze Armate Italiane in seguito all'armistizio dell'8 settembre abbandonate a sé stesse dagli alti comandi sono state completamente neutralizzate con un'operazione di polizia contrassegnata da isolati episodi di resistenza. 80 divisioni disarmate, 547.000 prigionieri di cui 34.744 ufficiali, un bottino di 1.255.000 fucili, 38.000 mitragliatrici, 10.000 cannoni, 15.500 automezzi, 970 mezzi corazzati, 67.000 cavalli e muli, 2.800 aerei di prima linea 600 di altro tipo, 10 torpediniere e cacciatorpediniere e 51 unità minori della Regia Marina. Sono state reperite materie prime in quantità molto superiori a quelle che ci si aspettava alla luce delle incessanti richieste economiche italiane […]»
«Da questo porto
La notte del 9 settembre 1943
L'ultimo Re d’Italia fuggì
Con la Corte e con Badoglio
Consegnando la martoriata patria
alla tedesca rabbia.
Ortona Repubblicana
dalle sue macerie e dalle sue ferite
grida eterna maledizione
alla monarchia dei tradimenti
del fascismo e della rovina d'Italia
anelando giustizia
dal Popolo e dalla Storia
nel nome santo di Repubblica.
9-9-1945»
La complessità degli avvenimenti susseguitisi alle dimissioni di Mussolini fino allo stabilimento della sede del governo a Brindisi è stata fonte di interpretazioni discordanti sulle effettive intenzioni e azione del Re e dei suoi ministri. La tesi della fuga del Re, sopra riportata, resta prevalente, ma una ricca storiografia respinge, in tutto o in parte, una simile ricostruzione[48].
Alcuni storici, tra i quali Lucio Villari, Massimo de Leonardis, Luciano Garibaldi, Giorgio Rumi, Aldo Mola, Francesco Perfetti e altri uomini di cultura, giornalisti o giuristi, quali Lucio Lami, Franco Malnati, Gigi Speroni, Antonio Spinosa, hanno formulato una loro tesi sulla fuga del Re. In generale preferiscono parlare del fatto come di un "trasferimento del Re", ma la percezione dell'avvenimento come una fuga e l'iniziale senso di smarrimento anche all'interno dell'esercito (di cui è un esempio il diario dell'ufficiale Giovannino Guareschi) non sono taciuti. In particolare, vengono sottolineate le responsabilità di parte dei vertici militari, collocando la vicenda nel complicato contesto bellico che indusse Badoglio ad optare per una strategia "temporeggiatrice", come la definisce lo storico Mola. Questa parte della storiografia accentua inoltre il ruolo della propaganda nazi-fascista nell'alimentare l'idea della fuga del Re in modo da legittimare agli occhi degli italiani la costituzione dello Stato fantoccio guidato da Mussolini.
L'elemento chiave che accomuna questi storici è quello della continuità dello Stato. In questo modo si respinge la tesi della fuga come mezzo per garantire la mera incolumità privata di Vittorio Emanuele III e dei suoi familiari. Infatti, per motivi della massima gravità, il trasferimento del Capo dello Stato e dei suoi principali collaboratori è ritenuto necessario per assicurarne lo svolgimento delle funzioni[49]. La gravità del momento era dovuta al fatto che l'Italia, che aveva perso la guerra e si ritrovava occupata a Sud dagli anglo-americani e al Centro-Nord dai tedeschi, con un esercito ormai male equipaggiato e dislocato fuori dei confini, rischiava di perdere la sua guida, il capo dello Stato e delle forze armate in quanto Hitler aveva diramato l'ordine di arrestare il Re e i membri della famiglia reale[50].
Spesso si aggiunge alla motivazione principale - quella della continuità dello Stato - la necessità di allontanarsi da Roma, dichiarata unilateralmente città aperta, per evitare la strage della popolazione civile e gravi danni ai monumenti.
Sempre secondo questa tesi la mancata diramazione iniziale di un piano deciso di attacco contro i tedeschi deriverebbero dalla necessità di evitare l'inasprimento dell'azione dell'ex alleato sia contro la popolazione civile sia contro gli obiettivi militari, in una situazione in cui le forze armate italiane si trovavano in netta inferiorità per dotazione di armamenti.
Vengono portati a giustificazione del trasferimento del Re altri casi in cui personalità politiche, nell'imminenza dell'invasione tedesca, si allontanarono dalle rispettive capitali o fuggirono all'estero: in Francia, nel giugno 1940, il presidente della repubblica Albert Lebrun si trasferì a Bordeaux con tutto il governo e Stalin ordinò il trasferimento del governo a Kujbyšev, 800 chilometri da Mosca, anche se in ultimo restò nella capitale,[51] mentre altri progettavano di farlo (il re Giorgio VI aveva programmato di trasferirsi in Canada nel caso in cui i tedeschi fossero riusciti ad attraversare la Manica). Vittorio Emanuele III e Badoglio si recarono a Brindisi, già evacuata dai tedeschi e ancora non occupata dagli alleati. Questi ultimi, tuttavia, sbarcarono a Taranto il giorno dopo la proclamazione dell'armistizio. Inoltre, i monarchi italiani si sarebbero comportati come quasi tutti i monarchi dei Paesi europei, che si misero sotto la protezione delle truppe alleate per poter continuare a dirigere la lotta contro i nazisti (Guglielmina dei Paesi Bassi fuggì in Gran Bretagna, Giorgio II di Grecia e Haakon VII di Norvegia si trasferirono a Londra con tutto il governo).
Le modalità del trasferimento a Brindisi, pur effettuato velocemente per via del rapido precipitare degli eventi, non assomiglierebbero, secondo alcune opinioni, a quelle di una fuga. La storia della "fuga" sarebbe nata secondo una tesi in ambienti della Repubblica Sociale Italiana e successivamente, adottata in chiave anti-monarchica da larghi settori della politica italiana.[52] Si aggiunge inoltre che molte ricostruzioni degli storici sostenitori della tesi della fuga, tra i quali Zangrandi[53], si basano su mere supposizioni non confortate da prove accademiche.
Alcuni testimoni e studiosi sostengono che la continuità dello Stato si sarebbe interrotta nel caso in cui Re e governo fossero stati catturati e che l'aver evitato ciò permise al Regno d'Italia di mantenere in vigore l'armistizio, dichiarare guerra ai tedeschi occupanti, e avere riconosciuto lo status di cobelligerante da parte degli Alleati, fatti questi che costituirono il quadro giuridico interno e internazionale in cui operarono la Resistenza italiana e il CLN quale governo clandestino nel nome dello stato legittimo (il cd. "Regno del Sud") ed evitarono, secondo tale tesi, una pace maggiormente punitiva a guerra finita. Nel 2006 il Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi commentò il punto con le seguenti parole:
«Non perdonai la fuga del re, anche se riconobbi che, andando al Sud, aveva in qualche maniera garantito la continuità dello Stato». (intervista a Marzio Breda sul Corriere della Sera del 18 aprile 2006)»
Secondo lo storico Lucio Villari:
«Sono, in proposito, assolutamente convinto che fu la salvezza dell'Italia che il Re, il governo e parte dello Stato Maggiore abbiano evitato di essere "afferrati" dalla gendarmeria tedesca, e che il trasferimento (il termine "fuga" è, com'è noto, di matrice fascista, però riscuote grande successo a Sinistra) a Brindisi gettò, con il Regno del Sud, il primo seme dello Stato democratico e antifascista, ed evitò la terra bruciata prevista, come avverrà in Germania, dagli alleati (Corriere della Sera del 9 settembre 2001[54]»
Nelle sue memorie, il colonnello delle SS Eugen Dollmann dichiarò che:
«La famiglia reale e Badoglio nel frattempo erano partiti, con somma delusione del cosiddetto gruppo estremista del quartier generale di Kesselring […] Ma non trovarono che il genero del Re, il generale Calvi di Bergolo, il cui sacrificio morale ha un valore che gl'italiani non dovrebbero dimenticare. […] Secondo il maresciallo e i suoi più intimi collaboratori, la monarchia aveva salvato l'unità d'Italia abbandonando Roma, e salvato Roma lasciandovi un membro di casa Savoia.[55]»
Le critiche che vengono mosse a queste tesi di revisione storica sul comportamento di Vittorio Emanuele III si fondano su considerazioni per lo più strategiche e militari.
«[…] Il re, dopo Mussolini, rimane il vero e il maggiore rappresentante del fascismo. Pretendere che l'Italia conservi il presente re è come pretendere che un redivivo resti abbracciato con un cadavere. Lui doveva andare via come atto di sensibilità morale. Il re si è congiunto corpo e anima al fascismo ed ha assunto una responsabilità maggiore di Mussolini. Mussolini era un povero diavolo ignorante, corto di intelligenza, ubriacato da facili successi demagogici, laddove il re era stato accuratamente educato e aveva governato un'Italia libera e civile. Il re sta tentando di ricostituire in Italia, nel Regno del Sud, un regime fascistico per proteggere la dinastia»
L'episodio della fuga di Vittorio Emanuele III è la cornice storica in cui si svolgono gli eventi del film del 1995 Io e il re di Lucio Gaudino.
Alla fuga di Vittorio Emanuele III si fa un accenno anche in una scena del film Polvere di stelle, dove la compagnia teatrale protagonista del film vede passare il re, la regina e lo stato maggiore delle forze armate lungo una strada della Valle Peligna in prossimità di Sulmona in Abruzzo.
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