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Elephantidae
famiglia dell'ordine Proboscidae Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
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Gli elefanti (Elephantidae Gray, 1821) sono una famiglia appartenente all'ordine dei proboscidati. La famiglia comprende i più grandi animali terrestri viventi e rappresenta inoltre gli unici esponenti ancora esistenti di questo ordine. Si distinguono tre specie attuali: l'elefante africano, che abita le vaste regioni aperte dell'Africa a sud del Sahara; l'elefante di foresta, anch'esso africano ma confinato per lo più nelle foreste pluviali tropicali; e l'elefante asiatico, diffuso nell'Asia meridionale e sud-orientale, che occupa una grande varietà di ambienti. Tutti gli elefanti si caratterizzano per la proboscide, un organo muscolare derivato dalla fusione del naso con il labbro superiore, e per le zanne, sviluppate a partire dagli incisivi superiori. Altri tratti distintivi sono la corporatura massiccia con zampe a forma di colonne e la pelle grigia, scarsamente pelosa.
Gli elefanti sono animali sociali che vivono in gruppi familiari composti da femmine e dalla loro prole. Si spostano entro areali più o meno estesi alla ricerca di cibo. La dimensione degli areali e l'ampiezza delle migrazioni dipendono dalle condizioni locali, come il tipo di ambiente sfruttato e la disponibilità di risorse alimentari. I maschi, al contrario, vivono per lo più solitari o si aggregano in gruppi di scapoli. La comunicazione tra individui, sia all'interno che tra diversi gruppi familiari, avviene attraverso molteplici modalità: segnali olfattivi veicolati da feci, urina e secrezioni ghiandolari; contatti tattili, soprattutto tramite la proboscide; varie posture e gesti corporei; oltre a una ricca gamma di vocalizzazioni, tra le quali spiccano i brontolii a bassa frequenza.
La dieta degli elefanti è costituita da piante raccolte con la proboscide. In genere consumano sia parti dure, come le erbe, sia più tenere, come foglie e rami, con una composizione che varia secondo la disponibilità stagionale. I maschi adulti entrano una volta all'anno nella fase di musth, che può durare anche diversi mesi ed è caratterizzata da un forte incremento ormonale. Ne derivano una secrezione continua e un'accentuata aggressività verso i rivali. Il musth fa parte del comportamento riproduttivo. Il ciclo sessuale delle femmine è straordinariamente lungo ed è anch'esso contrassegnato da picchi ormonali evidenti. Dopo una gestazione di quasi due anni nasce generalmente un unico piccolo, che cresce all'interno del gruppo familiare. Le femmine giovani vi rimangono anche dopo aver raggiunto la maturità sessuale, mentre i maschi se ne allontanano.
La storia evolutiva degli elefanti risale al tardo Miocene, circa 7 milioni di anni fa. Ebbe origine in Africa e rappresenta la fase finale dell'evoluzione dei proboscidati. Oltre ai due generi attuali (Loxodonta per gli elefanti africani ed Elephas per quelli asiatici), sono note numerose forme estinte. Tra le più famose figurano i generi Mammuthus (i mammut) e Palaeoloxodon. Essi colonizzarono anche aree non occupate dalle specie odierne, come l'Eurasia occidentale e settentrionale. Entrambe le regioni furono soggette, durante il Pleistocene, a ripetute glaciazioni, da cui ebbero origine varie specie di elefanti adattate al freddo, tra cui il noto mammut lanoso. Alcuni mammut raggiunsero anche il Nord America, unici elefanti a farlo, sviluppando lì una linea evolutiva indipendente. Gran parte delle specie di questi generi si estinse alla transizione tra Pleistocene e Olocene, circa 10 000 anni fa, anche se alcune forme insulari nane sopravvissero un po' più a lungo.
Nello sviluppo delle società umane e nella storia, gli elefanti hanno avuto un ruolo rilevante. Inizialmente furono cacciati come risorsa alimentare e fonte di materie prime, vennero rappresentati in arte e cultura già più di 30 000 anni fa e acquisirono ulteriore importanza con la sedentarizzazione e l'emergere delle civiltà. Solo l'elefante asiatico fu però addomesticato stabilmente e messo al servizio dell'uomo: dapprima come animale da soma e da lavoro, poi anche impiegato in guerra e considerato simbolo di grandezza e potere.
La prima descrizione scientifica degli elefanti africani e asiatici risale al 1758. In un primo momento furono assegnati allo stesso genere; solo all'inizio del XIX secolo venne operata la distinzione tra i due. L'elefante di foresta è stato riconosciuto come specie autonoma solo a partire dagli anni 2000. La famiglia degli elefanti fu introdotta nel 1821. Le popolazioni delle tre specie sono considerate minacciate in misura variabile.
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Descrizione
Riepilogo
Prospettiva
Aspetto

Gli elefanti sono i più grandi animali terrestri viventi. Il più piccolo rappresentante attuale, l'elefante di foresta (Loxodonta cyclotis), raggiunge un'altezza al garrese di circa 2,1 m e un peso di circa 2 t, mentre la forma più grande esistente, l'elefante africano (Loxodonta africana), arriva fino a 3,7 m di altezza con un peso di circa 6,6 t.[3][4] L'esemplare più grande misurato scientificamente, proveniente dall'Angola, aveva un'altezza alla spalla di 4 m e probabilmente pesava circa 10 t.[5][6][Anm 1] L'elefante asiatico (Elephas maximus) si colloca tra queste due specie per dimensioni e peso. Nel corso della loro storia evolutiva gli elefanti mostrarono una maggiore variabilità morfologica. Le forme più piccole erano rappresentate da alcune specie nane insulari, nelle quali il fenomeno di nanismo fu così accentuato che raggiungevano solo tra il 2 e il 7% delle dimensioni delle specie originarie.[7] Tra queste si annoverano il piccolo elefante siciliano (Palaeoloxodon falconeri) o il mammut nano di Creta (Mammuthus creticus), alti appena 1 m e con un peso compreso tra 170 e 240 kg.[8][9] Le forme più grandi erano rappresentate da Palaeoloxodon namadicus e Palaeoloxodon recki, così come dal mammut delle steppe (Mammuthus trogontherii) e dal mammut colombiano (Mammuthus columbi), con altezze al garrese comprese tra 4,2 e 4,5 m e un peso stimato tra 12 e 15 t.[10][11] Nelle specie attuali è marcato il dimorfismo sessuale, con i maschi sensibilmente più grandi delle femmine.[3][4]
In generale gli elefanti sono animali massicci, con un capo grande e corto, ma alto, sorretto da un collo breve, zampe a forma di colonna e una coda lunga oltre un metro terminante in un ciuffo. La caratteristica più evidente è la proboscide, un organo muscolare a forma di tubo originato dalla fusione del naso con il labbro superiore. Lo sviluppo della proboscide fa sì che l'apertura orale negli elefanti sia relativamente piccola. Un altro tratto distintivo sono le zanne superiori, presenti soprattutto negli adulti. Ai lati della testa si inseriscono grandi orecchie a ventaglio, di dimensioni variabili a seconda della specie. Il corpo è tozzo, con una linea dorsale che risulta diritta o insellata negli elefanti africani, mentre è arcuata in quelli asiatici. Nei primi il punto più alto del corpo si trova alle spalle, nei secondi sulla fronte. Il mantello è molto rado, con peli più lunghi di solito presenti sul mento, sulla punta della proboscide e all'estremità della coda. La pelle è di colore grigio, ma spesso mostra zone prive di pigmentazione; il colore può inoltre apparire alterato per la copertura di terra o polvere.[3][4]
Le zampe anteriori, più grandi, sostengono circa il 60% del peso corporeo. Sia le zampe anteriori che quelle posteriori terminano in cinque dita, non visibili esternamente perché inserite in un cuscinetto formato da fasci e strati di tessuto connettivo fibroso, intervallati da camere di tessuto adiposo. Questo cuscinetto, contenente anche collagene, reticolina e fibre elastiche, attraversa l'intero piede e riempie lo spazio tra le ossa. La pianta del piede è un'unica superficie, rotondeggiante anteriormente e ovale posteriormente. Sulla parte anteriore si trovano strutture simili a unghie o zoccoli, il cui numero è talvolta usato per distinguere le specie (elefante africano: quattro davanti e tre dietro; elefante di foresta: cinque davanti e quattro dietro; elefante asiatico: cinque davanti e da quattro a cinque dietro), anche se si tratta di un carattere fortemente variabile. Generalmente le unghie laterali sono ridotte.[12][13] Gli «zoccoli» assomigliano molto alle strutture equivalenti presenti negli ungulati.[14][12]
Apparato scheletrico
Cranio

Il cranio degli elefanti è grande, alto e corto. La volta cranica, nel suo punto più elevato, si innalza in parte a forma di cupola. La riduzione della regione del muso e lo spostamento in avanti dell'osso occipitale hanno determinato la forma breve del cranio; quest'ultimo, negli elefanti attuali, è molto inclinato verso l'avanti. La compressione della parte anteriore e posteriore del cranio ha come effetto lo spostamento del centro di gravità molto indietro. Un tratto caratteristico è rappresentato dalle grandi cavità a nido d'ape, piene d'aria, che attraversano l'osso frontale, il parietale, il nasale e il mascellare. In questo modo, la volta cranica può raggiungere uno spessore fino a 40 cm. Le pneumatizzazioni aumentano enormemente la superficie del cranio e ampliano così l'area di inserzione per la poderosa muscolatura masticatoria e del collo, riducendo al contempo il peso complessivo. Un'altra peculiarità è la forte riduzione dell'osso nasale, che ha reso possibile lo sviluppo della muscolatura eccezionalmente grande della proboscide. Entrambi questi caratteri si riscontrano in diverse linee di proboscidati. Per effetto della riduzione dell'osso nasale, il mascellare si collega direttamente al frontale, un carattere tipico dei Tethytheria. Negli elefanti, il mascellare incornicia ciascun alveolo delle zanne. Gli alveoli delle zanne sono orientati quasi verticalmente nel cranio, per cui le zanne fuoriescono verso il basso, conseguenza anch'essa del cranio accorciato. Ciò contrasta nettamente con la maggior parte delle forme di proboscidati precedenti, i cui alveoli erano orientati più orizzontalmente a causa della forma allungata del cranio. Altri caratteri tipici degli elefanti sono la posizione elevata delle narici e le orbite orientate in avanti. La compressione del cranio ha portato anche a modifiche alla base cranica, tra cui la posizione verticale delle lamine pterigoidee dello sfenoide e il palato incurvato verso il basso.[15][16][17]
La mandibola degli elefanti è corta e alta. Il corpo orizzontale dell'osso appare massiccio, mentre il ramo ascendente è fortemente allargato. Per la particolare conformazione della mandibola, il processo coronoideo – una sporgenza ossea che serve come punto d'inserzione muscolare – è collocato molto in avanti, più o meno sopra il centro di gravità della mascella. Insieme al condilo articolare, esso si innalza notevolmente, così che l'articolazione con il cranio si trova nettamente al di sopra del piano masticatorio. Anche la sinfisi, che unisce le due metà della mandibola anteriormente, è breve. Rispetto alle forme di elefanti più antiche, la mandibola degli odierni rappresentanti appare quindi peculiare: in quelle era infatti molto più allungata, con una sinfisi estesa a cui si collegavano lateralmente gli alveoli delle zanne inferiori.[15][15][16][17]
Molti dei tratti cranici e mandibolari tipici degli elefanti derivano da una riorganizzazione dell'apparato masticatorio, che comportò l'accorciamento longitudinale del cranio. L'apparato masticatorio è specializzato in movimenti orizzontali in avanti e indietro, mentre altre linee più antiche di proboscidati utilizzavano prevalentemente movimenti masticatori laterali.[15][15]
Dentatura
Gli elefanti possiedono due tipi di denti: i secondi incisivi superiori (I2), trasformati in zanne ipertrofiche e prive di radice, e i molari. Forme più antiche, come Stegotetrabelodon, avevano ancora zanne anche nella mandibola, derivate dagli incisivi inferiori interni, che tuttavia andarono perdute nel corso dell'evoluzione a causa dell'accorciamento della mandibola, in particolare a livello della sinfisi, un processo osservabile in più linee di proboscidati. Gli elefanti attuali utilizzano le zanne soprattutto per scavare, scortecciare gli alberi, trasportare oggetti pesanti e come arma contro i rivali o negli atteggiamenti di minaccia. Le zanne crescono in continuazione per tutta la vita. Possono essere presenti in entrambi i sessi – come nell’elefante africano e in diversi mammut – oppure principalmente nei maschi, come nell'elefante asiatico. In genere sono curve verso l'alto e verso l'esterno, oppure spiralate. Le specie viventi possono sviluppare zanne lunghe fino a 345 cm e pesanti oltre 110 kg, con l'elefante africano che possiede mediamente zanne più grandi rispetto all'asiatico.[18][19] Le zanne più lunghe conosciute appartenevano però ai mammut, con record di 490 cm di lunghezza e circa 170 kg di peso, e in alcuni esemplari persino fino a 230 kg.[20] Normalmente circa un quarto della lunghezza totale della zanna è inserito nell'alveolo.[21] I giovani hanno zanne da latte, dette tushes in inglese, che cadono già durante il primo anno di vita e vengono sostituite dai denti permanenti.[22]
Le zanne, comunemente note come avorio, sono composte da cristalli di carbonato-idrossilapatite (prevalentemente dahllite), legati a fibre di collagene. I cristalli conferiscono durezza, mentre le fibre garantiscono elasticità. Strutturalmente le zanne sono formate da tre zone: il tessuto principale è la dentina, simile all'osso ma altamente mineralizzata e priva di cellule, dalla struttura fibrosa e attraversata da numerosi canalicoli riempiti di collagene. La dentina è composta per circa il 59% da materiale minerale, per il 33% da materiale organico e per il resto da acqua.[22] La dentina è ricoperta da uno strato sottile di cemento dentale. All'interno si trova la polpa, la principale zona di crescita. Qui si forma il nuovo materiale dentario che si deposita a ondate successive, con incrementi da pochi millimetri fino a 35 cm. In media si registra una crescita annuale di circa 17 cm.[16] Questi depositi successivi danno alla zanna la struttura di numerosi «coni» sovrapposti. In sezione trasversale, le diverse fasi di crescita appaiono come anelli concentrici, con le zone più antiche all'esterno e le più recenti all'interno, in modo analogo agli anelli degli alberi ma in ordine inverso.[23][24] La formazione della dentina richiede grandi quantità di calcio e sodio: nell'elefante asiatico, per esempio, circa 60 g di calcio e 100 g di sodio al giorno.[22] Lo smalto è di norma assente nelle zanne, salvo in prossimità della punta, dove viene però rapidamente consumato dall'uso. Le zanne da latte, al contrario, possiedono ancora un sottile strato di smalto. Questa assenza di smalto nelle zanne distingue gli elefanti dalle linee più antiche di proboscidati.[23][22]

La dentina delle zanne mostra una struttura caratteristica, detta «linee di Schreger», esclusiva degli elefanti. Si tratta di alternanze di aree chiare e scure che in sezione trasversale formano un motivo a scacchiera, composto da figure romboidali di diversa grandezza e tonalità, orientate sia radialmente (dal cemento esterno verso la polpa interna), sia tangenzialmente lungo il perimetro della zanna. Le dimensioni variano a seconda della posizione: più piccole all'interno, più grandi all'esterno e tendenzialmente quadrate nella zona centrale. Ogni figura misura tra 200 e 800 μm². Questo pattern produce in sezione un effetto ottico a spirale con linee che si incrociano. L'angolo di intersezione, detto «angolo di Schreger», è utile per identificare le specie: elefante africano 118° (L. africana) - 123° (L. cyclotis), elefante asiatico 112°, mammut lanoso 87°, elefante dalle zanne dritte 130°. In direzione longitudinale, le linee appaiono come bande chiare e scure di circa 500 μm di spessore. L'origine di questo motivo è ancora dibattuta: alcuni studiosi lo attribuiscono alla disposizione dei canalicoli dentinali, formatisi durante la migrazione degli odontoblasti nel corso della crescita, altri invece lo ricollegano alla particolare orientazione delle fibre collagene.[24][25][26][22]
Dentizione posteriore e cambio dei denti

In alto: elefante africano.
Al centro: elefante asiatico.
In basso: † mammut lanoso.
Il numero e lo spessore delle lamelle di smalto forniscono indicazioni sulle abitudini alimentari.

Un tratto caratteristico dei denti posteriori degli elefanti è la loro struttura a lamelle, definita perciò lamellodonte.[27] Le singole lamelle sono formate da smalto e inglobate in una matrice di cemento dentale. A seconda della specie, i denti differiscono per numero e disposizione delle lamelle di smalto, motivo per cui hanno valore tassonomico. Un criterio distintivo è la cosiddetta frequenza lamellare, calcolata sul numero di lamelle di smalto ogni dieci centimetri di lunghezza del dente. A questo scopo viene solitamente preso in considerazione il terzo molare, che è il più grande e quindi quello con il maggior numero di pieghe di smalto. Esso può pesare fino a 5 kg e presentare fino a 13 lamelle di smalto nell'elefante africano e fino a 24 in quello asiatico. Il mammut lanoso (Mammuthus primigenius), la specie di elefante più specializzata, possedeva molari con fino a 30 lamelle di smalto. In generale, nelle diverse linee evolutive (generi) degli elefanti si osserva un aumento progressivo del numero di lamelle, accompagnato da un assottigliamento dello smalto. Le forme più giovani da un punto di vista filogenetico hanno dunque lamelle più strette e ravvicinate rispetto a quelle più antiche. L'aumento del numero di lamelle per dente riflette direttamente i cambiamenti nelle abitudini alimentari. Per resistere all'usura derivante dalla masticazione di vegetali coriacei, lo smalto assottigliato sviluppò pieghe e ondulazioni molto strette, mentre parallelamente le corone dentarie si elevarono. Gli elefanti odierni hanno infatti molari ipsodonti (a corona alta, cioè con altezza superiore alla larghezza), mentre le forme più primitive possedevano spesso denti brachiodonti (a corona bassa).[28][15][29][30]
Tra le zanne e i molari si trova una zona priva di denti, detta diastema, caratteristica tipica delle dentature erbivore. Nell'arco della vita, un elefante dispone complessivamente di sei denti posteriori per metà mandibolare: tre premolari da latte (dP2-dP4 o dp2-dp4) e tre molari permanenti (M1-M3 o m1-m3), per un totale di 24 denti. La formula dentaria, comprensiva delle zanne, è generalmente indicata come [31] Negli elefanti attuali adulti non sono dunque più presenti premolari permanenti; in forme più antiche, come Stegotetrabelodon, Primelephas e in alcuni rappresentanti primitivi del genere Loxodonta, compariva ancora un ultimo premolare permanente. Questo dente, di solito molto piccolo, era diffuso soprattutto tra le linee più antiche dei proboscidati, ma si è perso più volte in maniera indipendente nel corso dell'evoluzione, spesso in relazione alla riduzione delle zanne inferiori e al conseguente accorciamento della sinfisi mandibolare.[32]
Poiché le mandibole degli elefanti sono relativamente corte e i molari molto grandi, in ciascuna metà mandibolare sono presenti contemporaneamente solo da uno a tre molari, dei quali soltanto una parte è effettivamente spuntata e quindi visibile. La superficie masticatoria è sempre costituita dal dente (o dai denti) vicino al diastema, cioè nella parte anteriore della mandibola. Negli adulti, quindi, risultano funzionali al massimo uno o un dente e mezzo per lato.[15][15][4] Durante la triturazione del cibo vegetale, relativamente duro, i denti subiscono un'intensa usura. Per mantenere costante la capacità masticatoria, nuovo materiale dentario migra progressivamente dalla parte posteriore della mandibola verso il diastema, come su un «nastro trasportatore» molto lento. Questo processo è reso possibile dal riassorbimento e dalla ricostruzione del tessuto osseo della mandibola. I denti fortemente consumati vicino al diastema perdono la radice per riassorbimento, muoiono, si staccano dall'osso e infine cadono.[33] Dopo la caduta dei primi tre molari giovanili, il quarto dente erompe completamente tra i 10 e i 14 anni, il quinto tra i 26 e i 27 anni e il sesto e ultimo tra i 34 e i 37 anni (nel caso dell'elefante africano). Quando un elefante consuma tutti i 24 molari nel corso della sua vita, va incontro a morte per inedia.[31] Questa particolare modalità di sostituzione dentaria, detta ricambio orizzontale, è oggi quasi esclusiva degli elefanti. Essa si è sviluppata molto presto all'interno dei proboscidati, ed è attestata per la prima volta nel genere Eritreum dell'Oligocene superiore, circa 27 milioni di anni fa.[34]
Il ricambio orizzontale comporta variazioni cicliche del peso corporeo negli elefanti. Questo accade quando un nuovo dente entra in funzione e fornisce un'ulteriore superficie masticatoria, consentendo così all'animale di ingerire più cibo o di triturarlo meglio. Le oscillazioni di peso possono raggiungere i 300 kg, ma sono state osservate soltanto negli individui in cattività, sottoposti a un'alimentazione regolare e costante. Negli elefanti selvatici, la disponibilità di cibo varia invece stagionalmente sia in qualità sia in quantità, e ciò potrebbe mascherare questo effetto.[35]
Scheletro postcraniale


Lo scheletro degli elefanti è costituito da 320 a 346 ossa. In un elefante asiatico esaminato, il peso fresco dello scheletro era di 374 kg, pari a circa il 15% della massa corporea. La colonna vertebrale comprende 7 vertebre cervicali, 18-21 toraciche, 3-5 lombari, 3-6 sacrali e 18-34 caudali. Il numero delle vertebre e anche quello delle costole (18-21 paia) varia a seconda della specie.[36][16] Le ossa lunghe non presentano la tipica cavità midollare, ma sono riempite internamente da tessuto spugnoso, caratteristica che riguarda anche le costole. Nelle zampe anteriori l'omero è estremamente robusto e la sua testa articolare non si distingue nettamente dal corpo osseo. Nell'avambraccio domina l'ulna, che pesa circa cinque volte più del radio; le due ossa non sono fuse tra loro. Il bacino è caratterizzato dall'estrema ampiezza e dalla vasta estensione dell'ileo. Il femore è l'osso più lungo dello scheletro: negli elefanti africani può raggiungere 127 cm, mentre in alcune forme estinte, come in rappresentanti dei generi Mammuthus e Palaeoloxodon, arrivava a 140-165 cm.[10][11] La testa articolare è tipicamente ben arrotondata; il terzo trocantere (trochanter tertius) è assente e sostituito da un piccolo rilievo sotto il grande trocantere (trochanter major) sul margine anterosuperiore del corpo osseo. L'articolazione del ginocchio mostra una posizione di riposo estesa, per cui in stazione l'angolo tra femore e tibia si avvicina ai 180°. Ciò è inusuale per i vertebrati terrestri quadrupedi e ricorda piuttosto la condizione del bipede umano. Anche l'articolazione femorale degli elefanti presenta grandi somiglianze con quella dell'uomo. I menischi sono molto sottili e il sistema dei legamenti crociati è presente. I movimenti delle zampe posteriori, deputate al sostegno del peso, ricordano quindi più quelli umani che quelli dei vertebrati terrestri cursoriali (adattati alla corsa). Il movimento principale del ginocchio è l'estensione-flessione, con un'escursione di 142°. In età avanzata le articolazioni del ginocchio sono soggette ad artrosi.[37] Come nelle zampe anteriori, anche in quelle posteriori tibia e perone non sono fusi tra loro.[38][39]

Le ossa dei piedi anteriori e posteriori sono disposte ad arco, con orientamento prevalentemente verticale, un adattamento al peso eccezionale dell'animale che riduce la pressione sull'articolazione del carpo e del tarso durante la deambulazione. Dal punto di vista anatomico, gli elefanti possono quindi essere considerati digitigradi; dal punto di vista funzionale, però, sono plantigradi, poiché a compensare il peso scaricato sulle punte delle dita si è sviluppato il già menzionato cuscinetto plantare che forma una suola continua. Tipico dei Tethytheria è l'assetto seriale delle ossa carpali e tarsali, disposte in file regolari una dietro l'altra anziché alternate. Questa disposizione, detta taxeopodia, è condivisa dai proboscidati con gli iraci e i sirenî.[40] Nella mano, le tre dita centrali (II-IV) portano ciascuna tre falangi, il primo (I) ne ha una e il quinto (V) due. Nel piede, le dita dal secondo al quinto possiedono falangi, mentre il primo è ridotto al solo metatarso. Tre falangi complete compaiono solo nei diti III e IV, mentre gli altri ne hanno due. La variabilità nel numero delle falangi è comunque elevata negli elefanti attuali.[41] Le falangi sono corte e larghe, e la loro dimensione diminuisce rapidamente dalla prima alla terza. La falange terminale, molto piccola se presente, di norma non si articola direttamente con quella media. A supporto del piede, oltre ai cinque diti regolari, si è sviluppato un sesto, posto sul lato interno: nel piede anteriore prende il nome di prepollex («pre-pollice»), a quello posteriore di prehallux («pre-alluce»). Entrambe le strutture derivano da ossa sesamoidi cartilaginee che con il tempo si ossificano. La loro formazione è collegata alla ristrutturazione del piede nel corso dell'evoluzione dei proboscidati, quando la postura digitigrada si sviluppò a partire da quella plantigrada dei loro antenati primitivi.[38][39][12][42]
Tessuti molli e organi interni
Proboscide


La proboscide è uno dei tratti anatomici più caratteristici degli elefanti. Si tratta di una fusione del naso con il labbro superiore, che avviene già in età fetale.[43][44] Esternamente appare come un tubo muscolare privo di struttura ossea, attraversato dai condotti nasali, i quali sboccano in basso nelle narici. In un elefante asiatico con proboscide lunga circa 1,8 m, il volume interno era di circa 2,2-3,1 l. Le narici sono circondate da una superficie ampia e piatta, ai cui margini si sviluppano estroflessioni «a dito»: due contrapposte, una superiore e una inferiore, nell'elefante africano, mentre nell'asiatico solo una superiore. Il mammut lanoso possedeva anch'esso un unico «dito» superiore, accompagnato da un'appendice opposta larga e a forma di pala. Queste estroflessioni funzionano principalmente come organi prensili. La proboscide è composta da pelle, peli e muscoli, oltre che da vasi sanguigni e linfatici, nervi e una piccola quantità di tessuto adiposo. Cartilagine è presente solo alla base nasale. Essendo un organo altamente sensibile, la proboscide è attraversata da due nervi principali: il nervo facciale (nervus facialis) e il trigemino (nervus trigeminus). I muscoli sono organizzati in due tipologie: longitudinali e trasversali/diagonali. In passato si stimava che la proboscide fosse mossa da 40 000-60 000 fasci muscolari, ma dissezioni successive hanno suggerito fino a 150 000 fasci. Tra i gruppi principali figurano i levatores proboscidis anteriori, che si inseriscono sull'osso frontale, attraversano tutta la proboscide e ne permettono il sollevamento, e i depressores proboscidis, che occupano la parte inferiore, fortemente collegati ai muscoli trasversali e alla pelle. Nella proboscide dell'elefante africano sembrano essere presenti più muscoli ad anello trasversali, che la rendono più mobile e «lassa» rispetto a quella dell'elefante asiatico.[36][16]
Dal punto di vista evolutivo, la proboscide comparve molto presto nella storia dei proboscidati. La sua formazione comportò alcune modifiche anatomiche al cranio, dovute soprattutto alla necessità di sviluppare una muscolatura imponente. La più evidente è la drastica riduzione dell'osso nasale e l'ampliamento delle narici. In seguito si verificò anche la regressione della dentatura anteriore. Poiché la proboscide compensa la distanza tra la testa e il suolo, che il collo corto non può colmare, è indispensabile per l'alimentazione. Gli incisivi, che in altri mammiferi svolgono un ruolo centrale nel taglio degli alimenti, persero così la loro funzione primaria nei proboscidati, riducendosi progressivamente a eccezione delle zanne. La proboscide è inoltre un organo multifunzionale: funge da organo tattile e prensile, è essenziale per respirare e percepire gli odori, viene usata come arma e strumento di minaccia, ma anche come pompa aspirante e premente per bere. I peli tattili posti all'estremità la rendono un organo sensoriale capace di percepire anche minime irregolarità delle superfici. È impiegata inoltre nei contatti sociali tra conspecifici, ad esempio nei complessi rituali di saluto e durante il gioco. Con la proboscide gli elefanti spargono polvere e terra sulla pelle, proteggendosi così dal sole e dagli insetti. Serve anche per afferrare oggetti e portarli alla bocca, o per raggiungere rami e vegetali fino a sette metri d'altezza, raddoppiando così la propria altezza di foraggiamento, in modo simile al collo delle giraffe. Talvolta viene usata come «snorkel» durante il bagno o il nuoto, mentre per fiutare l'aria viene sollevata verso l'alto. Gli elefanti addestrati, grazie alla proboscide in combinazione con le zanne e sotto la guida del mahout, sono in grado di sollevare, spostare e manipolare oggetti di notevole peso.[45][4][4]
Pelle e orecchie

La pelle di un elefante asiatico studiato pesava complessivamente 211 kg e copriva una superficie di 11,96 m², corrispondente a circa il 9,8% del peso corporeo dell'animale.[36] Nell'elefante africano, invece, la superficie cutanea può raggiungere i 26 m². La pelle è in parte molto spessa: fino a 30 mm nell'elefante asiatico e fino a 40 mm in quello africano. Caratteristiche tipiche sono lo spesso strato corneo, la presenza di pieghe cutanee e l'assenza di ghiandole sudoripare e sebacee. La termoregolazione avviene quindi tramite l'evaporazione dell'acqua depositata sulla superficie cutanea e attraverso il movimento delle orecchie.[46][47] Ulteriori strategie individuali comprendono bagni d'acqua e di fango. Oltre alle pieghe, la pelle dell'elefante africano è contraddistinta da profonde scanalature che la rendono fortemente ornamentata. Queste fessure si formano negli strati superiori dell'epidermide (stratum corneum), che negli individui adulti possiede solo poche scaglie e risulta molto cheratinizzata, per cui tende a spaccarsi sotto sollecitazioni meccaniche. L'acqua che penetra nelle fessure può essere trattenuta cinque-dieci volte più a lungo rispetto a quella presente sulla superficie, contribuendo così alla regolazione della temperatura corporea.[48]
Gli elefanti africani e quello asiatico si differenziano anche per la grandezza delle orecchie. Nell'asiatico misurano circa 60 cm in larghezza e 55 cm in altezza, per una superficie di circa 0,5 m² complessivi (entrambe le orecchie).[36] Negli africani raggiungono fino a 137 cm di altezza e 89 cm di larghezza, arrivando a costituire fino al 20% dell'intera superficie cutanea.[49][46] Un'ulteriore differenza riguarda la piegatura delle orecchie, che nell'asiatico interessa la parte superiore, mentre nell'africano quella laterale. Le orecchie del mammut lanoso erano invece decisamente più piccole rispetto a quelle dell'elefante asiatico. Le dimensioni auricolari seguono in parte la regola di Allen, riflettendo un adattamento alla latitudine geografica: negli elefanti africani, tipici delle regioni equatoriali, le orecchie sono molto grandi, mentre nel mammut lanoso, abitante delle fredde regioni artiche, risultano ridotte.[31] Le orecchie sono costituite da due strati cutanei e da un livello intermedio di tessuto cartilagineo.[36]
Ghiandole temporali
Un altro tratto distintivo e unico è rappresentato dalla ghiandola temporale («ghiandola della tempia»), situata lateralmente all'occhio, che nei maschi durante il musth secerne una sostanza oleosa. La presenza della ghiandola è documentata anche in forme fossili come il mammut lanoso.[16] Essa misura 13-14 cm di lunghezza, ha forma appiattita e un peso compreso tra 0,23 e 1,59 kg. Internamente è costituita da diverse strutture lobulari, connesse da tessuto connettivo, che racchiudono una cavità di circa 5 cm di diametro. Questo spazio interno si apre all'esterno tramite un orifizio di soli 2 cm. È circondato da cellule a bastoncello o tubulari e da vari lumi. Durante la fase di musth avanzato, i lumi sono riempiti da materiale cellulare lasso, nuclei liberi e mitocondri. Questi ultimi mostrano una struttura tipica delle cellule produttrici di steroidi (con membrana interna a creste), come ad esempio le cellule interstiziali di Leydig. Insieme al reticolo endoplasmatico liscio e all'apparato del Golgi, sono fondamentali per la produzione di testosterone. Nelle cellule attorno alla cavità si trovano inoltre numerosi microvilli e vacuoli secretori.[50][36][51]
Durante la produzione di testosterone, le cellule vanno incontro a ipertrofia. Aumentano sia di numero sia nella quantità di membrana interna mitocondriale, di reticolo endoplasmatico liscio e di corpi del Golgi. Al culmine dell'attività, le strutture cellulari si disgregano e riempiono i lumi. L'origine della ghiandola temporale sembra risalire a ghiandole sudoripare con meccanismo di secrezione apocrina.[51] La composizione chimica della secrezione varia tra le specie di elefante: ad esempio, nell'elefante africano la percentuale di proteine, sodio e fosfatasi acida è nettamente inferiore rispetto a quella dell'elefante asiatico.[52][53]
Organi interni
Gli organi interni degli elefanti non sono proporzionalmente più grandi rispetto a quelli degli altri mammiferi. Il cervello degli elefanti attuali contiene circa 257 miliardi di neuroni, ossia circa tre volte il numero presente nell'uomo. Di questi, circa il 98% è distribuito nel cervelletto. Questa straordinaria concentrazione è interpretata come conseguenza delle capacità tattili particolarmente sviluppate dell'animale. Nella corteccia cerebrale, che è circa il doppio di quella umana per estensione, si trovano invece soltanto 5,6 miliardi di neuroni, mentre nell'uomo sono circa il triplo, fatto che riflette le superiori capacità cognitive della nostra specie.[54] Nel complesso, il cervello di un elefante adulto ha un volume compreso tra 2900 e 5140 cm³, circa tre volte quello dell'uomo. Tuttavia, in rapporto al peso corporeo, il cervello è più piccolo rispetto a quello umano e dei grandi primati: il quoziente di encefalizzazione negli elefanti moderni è infatti circa 1,7, mentre nell'uomo raggiunge 7,5.[31] I neonati possiedono già il 35% del volume cerebrale dell'adulto. In alcune forme estinte, come l'elefante dalle zanne dritte, il cervello raggiungeva oltre 6000 fino a 9000 cm³. Un cervello fossilizzato di mammut lanoso ricostruito aveva un volume di circa 4100 cm³, molto simile a quello degli elefanti odierni.[55] Degno di nota è il fatto che alcune forme nane possedevano cervelli insolitamente grandi in rapporto al corpo: il piccolo elefante siciliano pesava circa 189 kg, ma il suo cervello raggiungeva 1800 cm³, con un quoziente di encefalizzazione di 3,75.[56]
Il cuore pesa tra 12 e 27 kg, misura in lunghezza 45-57 cm e in larghezza 32-48 cm. Presenta un'estremità appuntita divisa in due parti, carattere riscontrato anche nei sirenî e considerato piuttosto primitivo. È inoltre presente una vena cava doppia. A riposo il cuore batte 28-35 volte al minuto, meno che nell'uomo. Lo stomaco ha una capacità di circa 77 litri, mentre l'intestino supera i 610 litri. L'intestino misura complessivamente 18-35 m, di cui fino a 22 m spettano all'intestino tenue, che rappresenta la porzione principale; il colon può raggiungere i 14 m di lunghezza. Il cieco è grande e a forma di sacco, come anche la porzione iniziale del colon. Al centro del cieco è presente una piega, che lascia supporre un'origine bicamerale.[36][57] La vescica ha una capacità di circa 18 litri.[58][59] Il fegato è relativamente semplice, suddiviso in due lobi di dimensioni diverse.[18][19] La cistifellea è assente o solo rudimentale. I polmoni, che insieme pesano circa 98 kg, sono lunghi circa 1 m e larghi 1,2 m. Una peculiarità degli elefanti è che i polmoni, a differenza della maggior parte dei mammiferi, sono direttamente connessi alla cavità toracica: manca infatti lo spazio pleurico, colmato da tessuto connettivo lasso. Le due pleure possono comunque scorrere l'una sull'altra, ma risultano molto meno delicate. Questo consente, ad esempio, agli elefanti di attraversare un fiume respirando attraverso la proboscide come uno «snorkel», mentre il corpo – e dunque i polmoni – si trovano circa 2 m sotto il livello dell'acqua. Una simile differenza di pressione schiaccerebbe e distruggerebbe i vasi sanguigni pleurici in qualunque altro mammifero dotato di normale spazio pleurico.[60][19][61][62]
I testicoli dei maschi misurano circa 17 cm di lunghezza e 15 cm di larghezza, con un peso variabile tra 1,36 e 3,18 kg. Sono situati nella cavità addominale, tra e leggermente dietro i reni.[63] Il pene è ben sviluppato e muscoloso: pesa circa 49 kg, è lungo 100 cm e ha un diametro di 15 cm. La guaina prepuziale è ben formata; lo sbocco dell'uretra mostra un decorso a Y, con la biforcazione rivolta dorsalmente. Il muscolus levator penis è doppio, i due fasci si uniscono dorsalmente al corpo cavernoso e sono probabilmente responsabili dell'andamento a S del pene eretto, con l'apice rivolto verso l'alto. Questa conformazione facilita l'introduzione del pene nella vulva, situata ventralmente tra le zampe posteriori della femmina, durante l'accoppiamento.[64] La notevole posizione avanzata della vulva nella femmina, tra gli arti posteriori, è dovuta all'allungamento del tratto urogenitale, che può raggiungere 130 cm e rappresenta circa la metà dell'intero tratto genitale. L'apertura vulvare è prolungata tra le gambe. La clitoride, dotata di prepuzio, è lunga circa 50 cm ed è quindi particolarmente sviluppata. L'utero è bicorne, con corna molto allungate, mentre il corpo uterino è relativamente corto (circa 15 cm). Anche la cervice, pieghettata e conica, raggiunge i 15 cm di lunghezza.[65][66] A differenza della maggior parte dei mammiferi, la mammella delle femmine si trova, come nei primati e nei sirenî, tra gli arti anteriori.[31][67][68][69][18][19]
Citologia
Sia l'elefante africano sia quello asiatico possiedono un corredo cromosomico di 2n = 56. Nell'elefante africano il cariotipo diploide è costituito da 25 coppie di cromosomi acrocentrici/telocentrici e due coppie di cromosomi metacentrici/submetacentrici. Al contrario, l'elefante asiatico presenta una coppia di acrocentrici in meno e una coppia di submetacentrici in più. In entrambe le specie il cromosoma X è grande e submetacentrico, mentre il cromosoma Y è piccolo e acrocentrico. Le differenze risiedono nel fatto che, nell'elefante asiatico, il cromosoma sessuale maschile corrispondente è leggermente più grande e mostra bande G più evidenti rispetto a quello dell'elefante africano.[70][71]
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Distribuzione e habitat
Riepilogo
Prospettiva

Oggi gli elefanti sono diffusi in Asia e in Africa. L'areale originario dell'elefante asiatico si estendeva un tempo dall'Asia orientale attraverso il Sud-est fino all'Asia meridionale, e forse in continuità fino alla parte occidentale del continente. Attualmente è fortemente frammentato e limitato al subcontinente indiano, ad alcune regioni dell'Indocina, a Sri Lanka, ad alcune delle grandi isole della Sonda e all'estrema parte meridionale della Cina. Questa specie occupa sia paesaggi relativamente aperti sia aree più ricche di foreste. L'elefante africano in passato popolava quasi l'intero continente africano, mentre oggi è presente in habitat anch'essi molto frammentati, situati a sud del Sahara. Il limite settentrionale della sua distribuzione si trova nel Sudan meridionale; da qui l'areale si estende attraverso l'Africa orientale e occidentale fino al Sudafrica. Questa specie colonizza una grande varietà di ambienti, dalle savane alle foreste pluviali tropicali fino alle aree semi-desertiche. L'elefante di foresta vive invece nelle foreste pluviali dell'Africa occidentale e centrale.[3][4]
Nel corso della loro storia evolutiva, gli elefanti furono molto più diffusi, non solo nelle aree oggi occupate, ma anche in gran parte dell'Eurasia settentrionale. La maggior parte delle specie è però documentata solo in determinate regioni e risultava quindi localmente circoscritta; alcune forme nane, inoltre, vissero come endemismi insulari.[9][72][7] Alcuni rappresentanti, al contrario, raggiunsero un'ampia distribuzione, come l'elefante dalle zanne dritte (Palaeoloxodon antiquus), diffuso in gran parte dell'Eurasia occidentale,[73][74] o il mammut delle steppe (Mammuthus trogontherii), che occupava diversi ambienti dall'Europa occidentale fino all'Asia orientale. Alcuni mammut (Mammuthus) attraversarono inoltre lo stretto di Bering, raggiungendo il Nordamerica e assumendo così una distribuzione pan-eurasiatica e nordamericana. Tra questi spicca il mammut lanoso (Mammuthus primigenius), che durante l'ultima glaciazione colonizzò prevalentemente le steppe aperte note come «steppa dei mammut».[75][76][77]
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Biologia
Riepilogo
Prospettiva
Comportamento territoriale e sociale
Caratteristiche generali


Lo stile di vita degli elefanti odierni è relativamente ben studiato. Essi hanno un ritmo circadiano: le attività si svolgono sia di giorno sia di notte. La maggior parte del tempo attivo è dedicata all'alimentazione, che può occupare da due terzi a tre quarti dell'intera fase di attività. Il sonno, invece, dura generalmente poche ore, spesso nelle ore notturne più tarde o intorno a mezzogiorno. Durante il riposo, gli animali rimangono per lo più in piedi e raggiungono raramente la fase REM.[78][3][4]
Gli elefanti si muovono di solito all'ambio, in modo che almeno due zampe siano sempre a contatto con il terreno. La velocità media in questa andatura è di circa 1,4 km/h. In generale, gli animali possono raggiungere anche velocità relativamente elevate, comprese tra 14 e 24 km/h. Tuttavia, a causa delle loro dimensioni e del grande peso corporeo, non corrono nel senso stretto del termine: manca cioè una fase di sospensione in cui tutte e quattro le zampe si staccano contemporaneamente dal suolo. L'ambio rimane pressoché invariato, senza passaggi ad altre forme di locomozione tipiche delle alte velocità (come trotto o galoppo). Come negli altri quadrupedi, con l'aumentare della velocità cresce la frequenza dei movimenti e la lunghezza del passo, ma almeno un arto resta sempre in contatto con il suolo. Studi sul movimento degli elefanti ad alta velocità hanno mostrato che le zampe anteriori mantengono un'andatura più simile al passo, mentre quelle posteriori eseguono movimenti più vicini alla corsa.[79][80][81] Tutte e quattro le zampe svolgono però la stessa funzione: diversamente da altri mammiferi quadrupedi, anche a velocità elevate non si distinguono arti propulsivi da arti frenanti. Tuttavia, come negli altri mammiferi, il lavoro svolto dagli arti anteriori è maggiore rispetto a quello delle zampe posteriori, in accordo con la distribuzione del peso corporeo.[82]
Gli elefanti sono invece eccellenti nuotatori, che si muovono in acqua con ampi movimenti ondulatori simili a quelli dei delfini. La velocità media di spostamento è di circa 2,7 km/h. La proboscide viene utilizzata come «snorkel» mantenuto al di sopra della superficie. Sono stati osservati individui capaci di coprire distanze fino a 48 km in acque aperte. È quindi plausibile che questa abilità natatoria abbia consentito in passato agli elefanti di raggiungere isole remote e, successivamente, di dar luogo a forme nane insulari. Le ragioni precise di questo comportamento restano oggetto di ipotesi: si suppone, ad esempio, che gli animali percepissero l'odore di cibo proveniente da isole visibili e le raggiungessero intenzionalmente.[83]
Struttura sociale e territorio


Gli elefanti sono in generale animali sociali che vivono in comunità complesse. Vi sono però differenze tra i maschi e le femmine. Le femmine formano con i piccoli gruppi sociali, in cui il legame più stretto è quello tra la madre e il suo cucciolo. Oltre a questo, si possono distinguere diversi livelli di aggregazione. Nell'elefante africano, l'unità di base è rappresentata dai gruppi familiari o dalle mandrie, che riuniscono più nuclei madre-figlio. Questi possono a loro volta fondersi in famiglie allargate e infine, al livello più alto, in clan. In genere gli individui di tali gruppi sono legati da stretta parentela. I gruppi familiari o le mandrie sono guidati da una matriarca, solitamente un individuo più anziano ed esperto. Il suo ruolo non è importante solo nella conduzione del gruppo, ma anche nella trasmissione ai piccoli di comportamenti fondamentali.[84] La gerarchia all'interno della mandria è di tipo lineare, per cui alla morte della matriarca il ruolo viene assunto per lo più dalla figlia maggiore. Le mandrie costituiscono quindi l'unità stabile all'interno della struttura sociale dell'elefante africano. Nell'elefante asiatico, invece, all'interno dei gruppi familiari esistono legami individuali più o meno stretti, ma la matriarca non riveste un ruolo così dominante. In entrambe le specie, tuttavia, i gruppi sociali superiori tendono a formarsi e disgregarsi in maniera flessibile, in un sistema definito fission-fusion («suddividersi e riunirsi»).[85] I maschi, invece, in tutte le specie di elefante vivono per lo più solitari o si aggregano in gruppi di scapoli, che riuniscono individui di età diverse.[3][4]
I vari gruppi di elefanti utilizzano home range, la cui ampiezza dipende generalmente dalla disponibilità di risorse alimentari della regione. Essi risultano tanto più piccoli quanto più l'ambiente è umido e ricco di vegetazione. Nelle aree boscose misurano spesso solo poche decine o centinaia di chilometri quadrati, mentre in ambienti semi-desertici possono superare i diecimila chilometri quadrati. Di norma, gli home range comprendono diversi tipi di paesaggio, sfruttati a seconda delle necessità. All'interno di questi territori, i gruppi si spostano alla ricerca di cibo, percorrendo di solito distanze modeste, spesso di pochi chilometri al giorno. Tuttavia, le migrazioni possono essere fortemente influenzate da fattori esterni, come la presenza di insediamenti umani e aree agricole. Su base annuale, gli elefanti possono comunque coprire anche diverse migliaia di chilometri. Lungo i percorsi più utilizzati si formano i cosiddetti «sentieri degli elefanti», che possono mantenersi per secoli ed essere sfruttati anche da altre specie animali.[3][4]
Comunicazione e capacità cognitive

La convivenza all'interno del gruppo e tra i diversi gruppi familiari è in genere pacifica e cooperativa. La comunicazione avviene attraverso vari segnali ottici, stimoli tattili e chimici, oltre che mediante vocalizzazioni. Elementi fondamentali della comunicazione visiva sono la proboscide e le orecchie, insieme a diverse posture del capo e del corpo, spesso combinate tra loro. Ad esempio, una testa tenuta alta o bassa esprime atteggiamenti dominanti o sottomessi. I combattimenti che insorgono da situazioni conflittuali seguono schemi fortemente ritualizzati; fanno eccezione i maschi in musth, nei quali gli scontri possono diventare talvolta letali. Anche per la comunicazione tattile la proboscide ha un ruolo centrale, come nei complessi rituali di saluto tra gruppi familiari imparentati. La comunicazione chimica comprende marcature di urina e feci, oltre che le secrezioni delle ghiandole temporali e interdigitali. Questa forma è spesso molto mirata, poiché i feromoni contenuti hanno effetto stimolante solo sugli individui sessualmente attivi.[86] Inoltre, i membri di un gruppo familiare riescono a distinguere attraverso l'olfatto diverse decine di consanguinei e parenti più lontani, così come individui di altre specie.[87][88][4]
Gli elefanti utilizzano una comunicazione sonora estremamente varia, studiata in modo più approfondito nell'elefante africano rispetto all'asiatico. Gran parte della comunicazione avviene nell'infrasuono. Queste vibrazioni, impercettibili all'orecchio umano, si trasmettono sia nell'aria sia nel suolo per diversi chilometri e sono poco soggette a interferenze come riflessione o assorbimento. Inoltre, risultano efficaci sia in ambienti aperti sia in foreste dense.[66] Caratteristico è soprattutto il brontolio sociale, con frequenze comprese tra 10 e 200 Hz. Questo viene impiegato in diverse situazioni, ma serve soprattutto al mantenimento del contatto dentro e fuori dal gruppo familiare. I suoni variano sensibilmente da un individuo all'altro, cosicché gli animali riescono a riconoscersi reciprocamente. Gli individui destinatari rispondono ai richiami modulati in modo specifico, un comportamento che, in analogia con quello umano, equivale a un vero e proprio uso di «nomi».[89] Il brontolio sociale può essere prodotto sia attraverso la proboscide (nasale) sia attraverso la laringe (orale). I due suoni differiscono per la lunghezza del tratto di emissione, doppia nel caso del brontolio nasale, il che determina frequenze diverse e usi comunicativi distinti: i brontolii nasali sono impiegati più spesso nella ricerca di contatto, quelli orali all'interno del gruppo familiare.[90][91][92] Accanto a queste vocalizzazioni a bassa frequenza, esistono anche suoni più acuti, che possono raggiungere i 9000 Hz. Tra questi vi sono il noto barrito, ma anche abbai, muggiti, urla, sbuffi e gracchiamenti. La loro emissione dipende da diversi fattori e serve spesso come segnale di allarme o avvertimento, oppure è legata a stati di disagio o agitazione.[92] Il brontolio sociale è la vocalizzazione più frequente in tutte le specie di elefante; i suoni a bassa frequenza sono talvolta combinati con quelli ad alta frequenza. In questo campo si osservano alcune differenze tra le specie: negli elefanti africani e asiatici prevale la combinazione alto/basso, mentre in quelli di foresta ciò non avviene. È possibile che tali differenze dipendano dall'ambiente: le aree aperte frequentate dagli elefanti africani e asiatici sono più soggette all'azione del vento, che influisce maggiormente sui suoni a bassa frequenza, motivo per cui una sequenza vocale con toni alti in apertura attira più facilmente l'attenzione degli ascoltatori.[93] Una peculiarità è rappresentata dalla capacità di imitare suoni estranei, inclusi quelli del linguaggio umano, una facoltà rarissima tra i mammiferi. È possibile che ciò sia collegato al riconoscimento individuale tipico della struttura sociale di tipo fission-fusion.[94][95] Attraverso i segnali acustici, gli elefanti distinguono non solo membri della propria specie, ma anche animali di altre specie, classificandoli in base alle esperienze precedenti.[96]
Accanto a una comunicazione così complessa, gli elefanti possiedono anche notevoli capacità cognitive. In un test allo specchio condotto su esemplari di elefante asiatico in cattività, gli animali hanno dimostrato di possedere autocoscienza, riconoscendosi nel riflesso, come già documentato in gazze, delfini e grandi scimmie.[97][98] Altri studi hanno mostrato che gli elefanti sanno distinguere coppie di concetti opposti come «bianco/nero» o «piccolo/grande» e conservarne memoria a lungo termine. È stato inoltre dimostrato che sono in grado di contare, di risolvere semplici operazioni di addizione e di confrontare quantità diverse.[99][100][101] Le capacità mnemoniche degli elefanti sono particolarmente notevoli: essi riconoscono e rispondono anche a distanza di anni ai richiami di parenti emigrati o defunti.[102] In seguito a esperienze fortemente traumatiche, possono sviluppare disturbi di tipo post-traumatico, con origini che risalgono perfino alla fase fetale e con effetti che perdurano per anni. Inoltre, gli elefanti manifestano comportamenti altruistici, riconoscono i bisogni degli altri membri del gruppo e sono in grado di formare alleanze temporanee. Ulteriori ricerche hanno documentato l'uso di strumenti e persino dell'aria come mezzo per raggiungere obiettivi specifici, dimostrando una certa comprensione dell'ambiente fisico circostante.[103] Un comportamento particolarmente significativo è rappresentato dalla tendenza a visitare le ossa e le zanne degli elefanti morti, non solo parenti ma anche individui estranei. Tali occasioni sono accompagnate da un aumento della secrezione della ghiandola temporale e da intense interazioni sociali intorno al corpo del defunto.[104][105][106][107]
Nutrizione e digestione

Gli elefanti sono esclusivamente erbivori. Hanno un ampio spettro alimentare che spazia da parti vegetali tenere, come foglie, ramoscelli, cortecce, semi e frutti, fino a piante più dure, come le graminacee. Possono quindi essere considerati specializzati in una dieta vegetale mista. Il loro regime alimentare comprende diverse centinaia di specie vegetali. La composizione stagionale della dieta varia: durante la stagione delle piogge gli animali consumano prevalentemente erba, mentre nella stagione secca aumenta la quota di piante più tenere. Vi sono inoltre notevoli variazioni spaziali, legate alla disponibilità di cibo locale. Le differenze stagionali nel comportamento alimentare vengono spesso messe in relazione con la composizione chimica delle piante, in particolare con il contenuto proteico e quello di carboidrati. In generale, le graminacee hanno un minor contenuto proteico rispetto alle piante più tenere, ma un contenuto più elevato di carboidrati. Questi ultimi risultano più facilmente digeribili per gli elefanti di tutte le età. Un eccessivo apporto di proteine, al contrario, richiede un maggiore consumo di acqua, il che può diventare problematico in ambienti più aridi. Ogni giorno un elefante necessita in media di circa 3 g di proteine per chilogrammo di peso corporeo. L'assunzione di quantità adeguate di erba può soddisfare sia il fabbisogno proteico sia quello energetico in carboidrati. Durante la stagione secca, tuttavia, quando l'erba fresca scarseggia, anche un modesto aumento della quota di piante più tenere nella dieta è sufficiente a bilanciare il fabbisogno proteico.[108][3]
In media, un elefante consuma circa 150 kg di cibo fresco al giorno. L'assunzione di tale quantità richiede dalle 17 alle 19 ore quotidiane.[109] Durante l'alimentazione la proboscide svolge un ruolo centrale, in particolare grazie alle estroflessioni «a dito», capaci di afferrare singoli steli e fili d'erba. La corteccia viene invece spesso raschiata con l'ausilio delle zanne. L'erba viene digerita per circa il 45%, poiché il sistema digestivo degli elefanti è meno efficiente di quello, ad esempio, dei ruminanti. A riposo, un individuo necessita di circa 49 000 chilocalorie al giorno.[19] Lo stomaco ha principalmente funzione di serbatoio, dove il cibo viene pre-digerito in un ambiente acido con pH attorno a 2. La scomposizione principale avviene solo dopo il passaggio nello stomaco, a livello del cieco e del colon, grazie all'azione di microorganismi (batteri e protozoi). L'intero processo, dall'ingestione all'espulsione, dura circa 33 ore. Le feci degli elefanti sono relativamente grossolane e contengono molto materiale fibroso.[110][111] Come nei cavalli, possono essere in parte reinghiottite per sfruttare meglio i nutrienti in esse contenuti.[112] Inoltre, gli elefanti ingeriscono occasionalmente terreni ricchi di minerali o frequentano saline naturali, così da introdurre nel corpo elementi nutritivi essenziali.[113][3]
Gli elefanti sono strettamente dipendenti dall'acqua. Normalmente bevono una volta al giorno, ingerendo fino a 140 litri. Con l'aumentare dell'aridità di un ambiente, tendono a rimanere più vicini alle fonti idriche, mentre nelle regioni più umide le distanze dagli specchi d'acqua dolce aumentano. In zone prive di acque superficiali, gli elefanti scavano con le zampe piccole buche, che consentono anche ad altre specie animali di accedere all'acqua.[3]
Riproduzione
Estro, musth e accoppiamento

Gli elefanti possono riprodursi in linea di massima durante tutto l'anno, ma nelle regioni con stagioni più marcate si osserva una certa stagionalità. Il ciclo estrale delle femmine è uno dei più lunghi tra i mammiferi e dura tra le 13 e le 18 settimane. Si suddivide in una fase luteale, che va da 6 a 12 settimane, e in una fase follicolare della durata di 4-6 settimane. Tra le due si colloca una breve fase non luteale, durante la quale si verifica una duplice impennata della produzione di ormone luteinizzante. Solo il secondo picco ormonale porta infine, dopo 12-24 ore, all'ovulazione. La funzione del primo incremento non è ancora del tutto chiara: potrebbe far parte della strategia riproduttiva degli elefanti, consentendo alle femmine di attirare precocemente l'attenzione dei maschi pronti all'accoppiamento; un'altra ipotesi è che rappresenti una preparazione fisiologica all'imminente fecondazione. A causa di questo ciclo lungo, le femmine sono in media recettive soltanto tre o quattro volte l'anno. Nella maggior parte dei casi si forma un ovulo fecondato; il follicolo ha un diametro di 21 mm, dimensione relativamente piccola per un animale di queste proporzioni. Lo stato del ciclo sessuale viene comunicato sia attraverso suoni a bassa frequenza, sia tramite segnali chimici come i feromoni presenti nelle urine, entrambi percepibili a grande distanza.[66][3]
I maschi di elefante sperimentano periodicamente una modifica del comportamento sessuale, di durata molto variabile, nota come musth. A differenza della stagione degli amori di molti ungulati, il musth non è sincronizzato ma si manifesta individualmente, cosicché nelle popolazioni intatte vi è sempre almeno un maschio riproduttivamente attivo in qualsiasi momento dell'anno. Questa asincronia riduce i costi energetici legati ai combattimenti e alla competizione. Caratteristica distintiva del musth è l'aumento di aggressività nei maschi, che consente loro di dominare anche individui fisicamente più forti. Esteriormente, il musth è segnalato dall'intenso flusso secreto dalle ghiandole temporali. È accompagnato da un aumento estremo dei livelli di testosterone, che possono crescere fino a cento volte rispetto ai valori normali.[114][115][116] Durante il musth i maschi si spostano più frequentemente e visitano diversi gruppi, esaminando le parti genitali e altre regioni del corpo delle femmine per individuare quelle pronte all'accoppiamento. A loro volta, comunicano il proprio interesse tramite tastamenti, «lotte» ritualizzate con la proboscide o morsi al collo. L'attenzione dei maschi si concentra soprattutto sulle femmine nella fase intermedia del ciclo estrale. L'accoppiamento richiede la collaborazione attiva della femmina, poiché il pene del maschio, a forma di S, può essere introdotto nella vulva soltanto quando l'animale rimane fermo.[66][3]
Nascita e sviluppo

La gestazione dura 640-660 giorni, ovvero circa 22 mesi, il periodo più lungo tra tutti i mammiferi terrestri. Di norma nasce un solo piccolo, che può pesare fino a 100 kg. Nei primi anni non vi sono grandi differenze nello sviluppo tra maschi e femmine. A partire dai cinque-sei anni, tuttavia, i giovani maschi crescono sensibilmente più velocemente delle femmine. Nei maschi lo sviluppo prosegue fino a tarda età, poiché essi aumentano in altezza e peso per quasi tutta la vita. Nelle femmine, invece, questo processo rallenta intorno ai 30 anni. Per questo motivo i maschi adulti sono molto più grandi e pesanti delle femmine. Anche lo sviluppo sociale segue traiettorie differenti: le giovani femmine orientano sempre le loro attività al gruppo familiare e talvolta si occupano anche della cura dei piccoli più giovani («cure alloparentali»). Dopo il raggiungimento della maturità sessuale, le femmine restano di solito nella mandria materna. I giovani maschi, invece, cercano più spesso attività all'esterno del gruppo familiare, entrando in contatto con individui estranei. Intorno ai nove anni i giovani maschi si separano dal branco materno e si uniscono frequentemente a gruppi di scapoli. La pubertà inizia verso i 14 anni, ma le possibilità di riproduzione sono ancora scarse, poiché non possiedono ancora le caratteristiche fisiche necessarie per competere con i maschi adulti. La prima fase di musth si manifesta infatti solo intorno ai vent'anni. In generale, gli elefanti, sia maschi che femmine, restano fertili fino a tarda età. Tra due nascite successive nelle femmine possono trascorrere da tre anni e mezzo fino a nove anni. Questo intervallo riproduttivo estremamente lungo rende le femmine recettive relativamente rare in una popolazione di elefanti e costringe i maschi a compiere lunghe migrazioni per visitare diversi gruppi. L'età massima in natura, in ambienti incontaminati, è stimata intorno ai 60-65 anni, coincidente con la perdita dell'ultimo molare. In aree soggette a forte pressione venatoria da parte dell'uomo, ma talvolta anche in cattività, l'aspettativa di vita può invece ridursi drasticamente.[3][Anm 2]
Ecologia

Grazie alle loro dimensioni e alla vita in branco, gli elefanti hanno pochi nemici naturali. Solo i grandi felini come leoni e tigri riescono talvolta a predare i giovani.[117][118] In alcune regioni africane, i leoni cacciano gli elefanti più spesso di quanto si ritenesse in passato: si tratta di un adattamento alle stagioni secche, quando la maggior parte degli ungulati migra verso aree più ricche di risorse. La maggioranza delle vittime è costituita da giovani elefanti che hanno appena lasciato la mandria materna.[119] Durante l'era glaciale, gli elefanti dovevano inoltre temere anche i felini dai denti a sciabola, oggi estinti. Per il genere Homotherium è stato dimostrato almeno localmente che questi predatori catturavano occasionalmente giovani proboscidati.[120]
Gli elefanti svolgono un ruolo fondamentale nella rete ecologica delle loro regioni e sono quindi considerati ecosystem engineers. La loro funzione si manifesta, ad esempio, nel trasporto dei semi ingeriti anche per lunghe distanze, contribuendo così alla diffusione delle piante.[121] Inoltre, i semi di alcune specie vegetali mostrano una maggiore capacità di germinazione dopo il passaggio attraverso l'apparato digerente degli elefanti. Lo scortecciamento o l'abbattimento degli alberi apre le foreste compatte, creando nuovi spazi utilizzabili da altre specie animali e portando talvolta alla formazione di habitat più strutturati.[122] Queste radure possono poi essere colonizzate da piante pioniere.[123][124] I sentieri frequentemente percorsi dagli elefanti rimangono visibili per decine di chilometri e vengono utilizzati anche da altri mammiferi. Inoltre, pozze d'acqua scavate, piccole raccolte d'acqua nelle impronte o persino gli escrementi possono costituire habitat di rifugio o riproduzione per diversi organismi.[125][126] Accanto ai numerosi effetti positivi, però, una popolazione eccessiva di elefanti in una regione può avere conseguenze devastanti sul paesaggio, con trasformazioni profonde. Le interazioni tra elefanti e ambienti erbosi o boschivi non sono ancora state studiate in maniera completa.[3][4]
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Tassonomia
Riepilogo
Prospettiva
Posizione tassonomica
Sistematica dei proboscidati secondo Cozzuol et al., 2012[127] |
Gli elefanti (Elephantidae) sono una famiglia appartenente all'ordine dei proboscidati (Proboscidea). Rappresentano oggi l'unico membro di questo gruppo tassonomico, che può quindi essere considerato attualmente monotipico. I proboscidati, a loro volta, insieme ai sirenî (Sirenia) e agli iraci (Hyracoidea), formano il clade dei Paenungulata, il quale, insieme agli Afroinsectiphilia, costituisce gli Afrotheria, una delle quattro principali linee dei mammiferi superiori, con un'origine prevalentemente africana. Secondo indagini di biologia molecolare, gli Afrotheria si formarono già nel Cretaceo superiore, tra 90,4 e 80,9 milioni di anni fa. Circa 15 milioni di anni più tardi, questo gruppo ancestrale si divise nelle due principali linee attuali. All'interno dei Paenungulata, sirenî e proboscidati costituiscono un'unità di parentela più stretta, definita Tethytheria. La loro separazione risale al Paleocene, circa 64 milioni di anni fa.[128][129][130][131][132] Il record fossile dei proboscidati si estende pressappoco fino a quel periodo, facendo di essi un gruppo molto antico. Nel corso della loro storia evolutiva mostrarono una grande varietà di forme, con un alto grado di diversificazione, risultato di diverse fasi di radiazione adattativa. I vari rappresentanti svilupparono molteplici adattamenti a differenti biotopi e regioni climatiche. L'antica distribuzione dei proboscidati spaziava dall'Africa a gran parte dell'Eurasia e delle Americhe. Gli elefanti, all'interno dei proboscidati, rappresentano una linea evolutiva relativamente recente e costituiscono parte dell'ultima fase di espansione, iniziata nel corso del Miocene. Sistematicamente appartengono alla superfamiglia degli Elephantoidea, della quale fanno parte anche gli Stegodontidae, considerati il gruppo fratello degli elefanti. I primi reperti fossili attribuibili agli elefanti risalgono a circa 7 milioni di anni fa.[133][4]
Sistematica interna
Sistematica secondo Cozzuol et al. (2012)[127] |
Sistematica secondo Meyer et al. (2017)[134] |
All'interno della famiglia degli elefanti si distinguono due sottofamiglie: gli Stegotetrabelodontinae e gli Elephantinae. I primi sono noti esclusivamente per via fossile ed erano diffusi principalmente in Africa e nella penisola arabica. Si caratterizzavano per una lunga sinfisi mandibolare, la presenza di zanne inferiori e molari brachiodonti (a corona bassa) con poche pieghe di smalto, che nello stato non consumato risultavano inoltre interrotte lungo l'asse mediano del dente – un carattere primitivo tipico dei proboscidati. Tuttavia, il cranio mostrava già il tipico accorciamento anteriore e posteriore proprio degli elefanti. Talvolta si è ipotizzato che gli Stegotetrabelodontinae rappresentassero il gruppo ancestrale degli elefanti, ma più probabilmente costituivano solo un ramo collaterale. Il gruppo comparve nel Miocene superiore e si estinse nel Pliocene.[135][136] Gli Elephantinae, invece, mostrano una tendenza alla riduzione delle zanne inferiori e all'aumento dell'altezza della corona dei molari. I denti posteriori presentano un numero maggiore di pieghe di smalto, con un minimo di sette nell'ultimo molare. Inoltre, scompare l'incisione mediana delle corone dentarie. La sottofamiglia comprende gli attuali rappresentanti viventi, suddivisi in due generi e tre specie. Le due specie africane appartengono al genere degli elefanti africani (Loxodonta), mentre l'unica specie asiatica appartiene al genere Elephas. La loro separazione, secondo i dati di biologia molecolare, risale a circa 7,6 milioni di anni fa.[137][138] Oltre a queste, sono documentati anche alcuni generi estinti, più o meno strettamente imparentati con i generi attuali. I mammut (Mammuthus) appartenevano ai parenti più prossimi del genere Elephas, mentre Palaeoloxodon, secondo le ricerche più recenti, formava un gruppo comune con gli elefanti africani. Il gruppo di parentela più stretto degli attuali elefanti africani viene quindi assegnato alla tribù dei Loxodontini, mentre quello degli elefanti asiatici alla tribù degli Elephantini.[139]
Sottofamiglie e generi degli elefanti
La famiglia degli elefanti si suddivide oggi come segue:[139][136]
- Famiglia Elephantidae Gray, 1821
- Sottofamiglia Stegotetrabelodontinae Aguirre, 1969
- Stegotetrabelodon Petrocchi, 1941
- Stegodibelodon Coppens, 1972
- Sottofamiglia Elephantinae Gray, 1821
- Primelephas Maglio, 1970
- Loxodonta Anonymous, 1827
- Stegoloxodon Kretzoi, 1950
- Palaeoloxodon Matsumoto, 1924
- Elephas Linnaeus, 1758
- Mammuthus Brookes, 1828
- Sottofamiglia Stegotetrabelodontinae Aguirre, 1969
La posizione di Stegodibelodon all'interno degli Stegotetrabelodontinae non è del tutto chiara, poiché alcuni autori lo assegnano invece agli Elephantinae.[136] Le effettive relazioni di parentela tra i diversi rappresentanti degli elefanti, soprattutto all'interno della sottofamiglia Elephantinae, risultano complesse secondo le indagini genetiche. Sono state riscontrate infatti varie ibridazioni tra le due specie di elefante africano,[140][141][142] così come tra gruppi tassonomici superiori dell'elefante asiatico.[143] Inoltre, sono documentate mescolanze genetiche tra diverse forme di mammut.[144][145][146] L'individuazione di singoli aplotipi condivisi sia in specie attuali sia in specie fossili fa risalire questo fenomeno fino alla linea ancestrale degli elefanti, suggerendo che l'ibridazione tra specie si verificò già molto presto ed evidentemente anche oltre i confini di genere.[147] In epoca moderna, l'unico ibrido conosciuto nacque nel 1978 presso lo zoo di Chester da una femmina di elefante asiatico e un maschio di elefante africano. Si trattava del giovane maschio «Motty», che presentava caratteri misti di entrambe le specie, ad esempio per quanto riguarda la dimensione delle orecchie, ma che morì già dopo dieci giorni.[148][149]
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Storia evolutiva
Riepilogo
Prospettiva
Origini e tendenze evolutive
I proboscidati costituiscono un ordine relativamente antico di mammiferi. Le loro origini risalgono al Paleocene dell'Africa settentrionale, circa 60 milioni di anni fa.[150] All'interno dell'ordine si distinguono varie famiglie, come i Deinotheriidae, i Gomphotheriidae, i Mammutidae e gli Stegodontidae, emerse in diverse fasi di radiazione evolutiva. Gli elefanti, in questo contesto, rappresentano un gruppo relativamente giovane: appartengono infatti alla terza e ultima fase di radiazione dell'ordine, iniziata nuovamente in Africa nel corso del Miocene. Alcune delle linee più antiche di proboscidati, già citate e originate nelle fasi precedenti di radiazione, sopravvissero comunque fino al tardo Pleistocene, come contemporanee degli elefanti. Tra le tendenze evolutive degli elefanti si annoverano il restringimento del cranio anteriormente e posteriormente, che ne aumentò l'altezza complessiva. Le riduzioni in lunghezza portarono inoltre a un accorciamento della mandibola, nella quale le zanne inferiori non trovarono più spazio e finirono per regredire. Nella struttura dei molari si osservano invece l'aumento dell'altezza delle corone dentarie, in direzione dell'ipsodontia, e la crescita del numero delle pieghe di smalto. In quest'ultimo processo lo spessore delle bande di smalto di ciascuna lamella si ridusse progressivamente. Entrambe le modifiche – incremento dell'altezza coronale e del numero di lamelle – sono connesse a una più marcata adattabilità a una dieta basata sulle graminacee.[29][133][136]
Miocene
La linea evolutiva degli elefanti ebbe inizio nel tardo Miocene, circa 7 milioni di anni fa, in Africa. I nuovi proboscidati si distinguevano dagli altri rappresentanti dell'ordine per l'assenza dello smalto che ricopriva le zanne e per la presenza di lamelle di smalto sui molari. Entrambi i caratteri sono considerati tratti tipici degli elefanti, sebbene gli stegodonti abbiano sviluppato indipendentemente strutture simili alle lamelle di smalto. Tra le forme più antiche degli elefanti figurano i rappresentanti delle Stegotetrabelodontinae. La forma caratteristica di questo gruppo, Stegotetrabelodon, possedeva ancora zanne inferiori e molari a corona molto bassa, con poche lamelle, divise però al centro dell'asse longitudinale del dente. Nonostante le corone basse, la struttura lamellare indica già una dieta con una crescente componente di erbe. La maggior parte dei ritrovamenti proviene dall'Africa orientale e dalla penisola arabica, ma resti sono documentati anche nell'Europa meridionale. Di particolare rilievo è il sito di Lothagam in Kenya; in Europa Stegotetrabelodon è attestato, tra l'altro, a Cessaniti in Italia.[151][152][133][136]
Con Primelephas comparve per la prima volta, nel Miocene superiore dell'Africa orientale, un rappresentante dei moderni Elephantinae. Questa forma, conosciuta soprattutto attraverso resti dentari, è ben documentata nella regione di Djourab, nel Ciad settentrionale. I ritrovamenti provengono da vari siti come Toros-Menalla, Kossom-Bogoudi o Koulà, datati tra 7,4 e 4 milioni di anni fa. Ulteriori resti sono stati rinvenuti nel triangolo di Afar in Etiopia, tra cui l'area dell'Awash, oltre che a Lothagam e nelle Tugen Hills in Kenya. Non è chiaro se questi animali possedessero ancora zanne inferiori. Una caratteristica peculiare risiede nelle lamelle di smalto dei molari, separate da profonde incisioni a V.[153][154][136]
Quasi contemporaneamente a Primelephas si sviluppò Loxodonta, documentato da ritrovamenti isolati in Africa orientale, ad esempio nelle formazioni di Lukeino e Chemeron, nell'ovest del Kenya, con datazioni comprese tra 6,2 e 4 milioni di anni. Resti di età simile dei primi elefanti africani provengono anche dal sito di Langebaanweg, nella parte sud-occidentale del continente.[155] In genere si tratta di denti isolati, attribuiti in parte alla specie Loxodonta cookei. Il tratto distintivo dei membri di Loxodonta consiste nelle estroflessioni romboidali dello smalto delle lamelle dei molari.[136]
Anche il più noto genere di elefanti estinti, Mammuthus (i mammut), ebbe origine in Africa. La forma più antica è Mammuthus subplanifrons, di cui sono stati rinvenuti resti a Langebaanweg,[155] nell’area dell'Awash e nella formazione di Nkondo in Uganda. Le datazioni variano tra 6 e 5 milioni di anni fa. Mammuthus subplanifrons era un mammut molto primitivo: possedeva ancora molari bassi con poche lamelle di smalto, ma spesse. È conosciuto prevalentemente tramite denti e mandibole, mentre non sono stati ritrovati crani. Tuttavia, un frammento di zanna associato a molari proveniente dal Sudafrica (Virginia) mostra già la caratteristica torsione spiralata, tipica del genere. Nel complesso, i molari di Mammuthus subplanifrons risultano fortemente variabili. L'esiguità del materiale fossile limita però le possibilità interpretative, lasciando aperta la questione se il taxon non comprenda in realtà più specie.[29][136]
Pliocene e Pleistocene
Nel primo Pliocene africano è ancora documentato Stegodibelodon, appartenente al gruppo degli Stegotetrabelodontinae, nel quale le zanne inferiori risultavano già ridotte. La sinfisi mandibolare era però ancora relativamente lunga e la divisione mediana delle lamelle di smalto persisteva. La forma è nota dal centro Africa, ad esempio dalle cave di Kollé in Ciad, da cui provengono anche resti tardivi di Primelephas.[156]
Loxodonta raggiunse nel Pliocene e nel Pleistocene un'ampia distribuzione in Africa, con fossili rinvenuti dal nord al sud del continente. Inizialmente comparve Loxodonta adaurora, una forma simile agli attuali elefanti africani ma con molari ancora bassi. Gli animali popolavano paesaggi a mosaico; resti significativi della specie provengono dall'area dell’Awash e dell'Omo in Etiopia, da Kanapoi e dalla regione occidentale del lago Turkana in Kenya. Di età simile a Loxodonta adaurora è Loxodonta exoptata, che però possedeva molari con corone più alte e un numero maggiore di lamelle. L'areale delle due specie era in gran parte sovrapposto, ma Loxodonta exoptata si spinse anche nell'Africa centrale, come dimostrano i ritrovamenti di Koro-Toro in Ciad. Loxodonta atlantica si diffuse invece principalmente nel Pliocene superiore e nel Pleistocene, sia in Africa settentrionale che meridionale. Questa forma mostra una forte specializzazione, con molari estremamente ipsodonti e il maggior numero di lamelle smaltate di qualsiasi rappresentante del genere, un chiaro adattamento a una dieta prevalentemente erbivora. L'attuale elefante africano è attestato per la prima volta nel Pleistocene inferiore, ad esempio nell'area dell'Awash, mentre per l'elefante di foresta non esistono finora prove fossili. È notevole, inoltre, che Loxodonta, a differenza di altri elefanti, non sia mai stato documentato al di fuori dell'Africa.[136]
Il genere Palaeoloxodon, strettamente imparentato con gli elefanti africani, si originò anch'esso in Africa nel corso del Pliocene inferiore. I suoi rappresentanti svilupparono molto presto molari ipsodonti con fino a 19 lamelle smaltate nell'ultimo molare, come adattamento al clima progressivamente più arido del continente.[157] Le prime forme africane sono attribuite a Palaeoloxodon eokorensis, definito in base a denti di Kanapoi (Kenya; un'altra specie più antica proposta, Palaeoloxodon nawataensis, oggi non è più accettata[136]).[153] Palaeoloxodon fu durante il Pliocene e il Pleistocene una delle forme dominanti di elefante africano; ne è esempio Palaeoloxodon recki, attestato in siti di rilievo come Olorgesailie e Olduvai. Questa specie ebbe una lunga durata, dal Pliocene superiore fino al Pleistocene medio, quando venne sostituita in Africa da Palaeoloxodon jolensis, che sopravvisse fino alla transizione tra Pleistocene medio e superiore, come indicano i ritrovamenti nella Kibish Formation di Natodomeri (Kenya settentrionale). Questi resti, noti quasi esclusivamente dai denti, mostrano una struttura fortemente ipsodonte; analisi isotopiche confermano una dieta prevalentemente erbivora.[158] Palaeoloxodon si diffuse anche in Eurasia durante il Pleistocene, dove il rappresentante più noto è Palaeoloxodon antiquus (elefante dalle zanne dritte), di dimensioni imponenti. La sua distribuzione copriva gran parte dell'Europa e dell'Asia occidentale. Una delle più importanti collezioni fossili è quella della valle di Geiseltal, che conserva diversi scheletri completi.[159] La dieta era composta da una combinazione di piante tenere e dure,[160] per cui la specie era presente a nord delle Alpi soprattutto nelle fasi interglaciali del Pleistocene medio e superiore. Più a est, nell'Asia centrale e meridionale, l'elefante dalle zanne dritte fu sostituito da Palaeoloxodon namadicus, probabilmente conspecifico. Da Palaeoloxodon antiquus derivarono alcuni elefanti nani insulari che colonizzarono nel Pleistocene varie isole del Mediterraneo: Palaeoloxodon falconeri (elefante nano siciliano) di Sicilia e Malta, Palaeoloxodon tiliensis di Tilos e Palaeoloxodon cypriotes di Cipro.[9][72][133]

Accanto a Mammuthus subplanifrons, in Africa era presente anche Mammuthus africanavus, limitato tuttavia al Pliocene dell'Africa settentrionale e centrale.[136] Non più tardi di 3 milioni di anni fa i mammut raggiunsero l'Eurasia. I più antichi rappresentanti extra-africani sono generalmente associati a Mammuthus meridionalis (mammut meridionale), anche se alcuni studiosi ipotizzano una maggiore frammentazione delle forme precoci, suddivise in Mammuthus rumanus e Mammuthus gromovi. Le differenze riguardano soprattutto il numero di lamelle di smalto. Tra i ritrovamenti più antichi in Eurasia vi sono denti da Cernătești (Piccola Valacchia, Romania), seguiti da siti poco più recenti in Italia centrale e in Inghilterra.[161][162] Nella linea eurasiatica dei mammut si sviluppò dapprima Mammuthus trogontherii (mammut delle steppe), diffuso durante il Pleistocene inferiore e medio, con un'altezza alla spalla di 4,5 m, tra i più grandi proboscidati conosciuti.[16] La forma terminale fu Mammuthus primigenius (mammut lanoso), specie caratteristica delle steppe fredde eurasiatiche (steppa dei mammut), che ospitavano anche il cosiddetto complesso faunistico Mammuthus-Coelodonta, comprendente tra gli altri il rinoceronte lanoso. Resti eccezionali di mammut lanosi sono le mummie ghiacciate ritrovate nel permafrost siberiano, con tessuti molli in ottimo stato di conservazione. Per le sue specializzazioni alle condizioni glaciali, il mammut lanoso è considerato la forma più adattata del gruppo, caratterizzato da molari altissimi e con oltre trenta lamelle smaltate. Nel Pleistocene superiore il mammut lanoso attraversò lo stretto di Bering e colonizzò ampie regioni del Nordamerica. Già in precedenza, tra 1,5 e 1,3 milioni di anni fa, il mammut meridionale o quello delle steppe si era diffuso nel continente, dando origine a una linea autonoma: Mammuthus columbi (mammut colombiano).[21][163] Nel Pleistocene superiore gli areali del mammut lanoso e di quello colombiano si sovrapposero in Nordamerica, con episodi di ibridazione.[146][145] Come in Palaeoloxodon, anche all'interno della linea Mammuthus comparvero forme nane insulari: Mammuthus creticus di Creta, Mammuthus lamarmorai della Sardegna e Mammuthus exilis delle Channel Islands californiane.[164][8]
Il genere Elephas, più prossimo ai mammut, compare relativamente tardi. I primi ritrovamenti risalgono al Pliocene superiore nei Siwalik dell'Asia meridionale e appartengono a Elephas planifrons. Questa specie fu sostituita all'inizio del Pleistocene inferiore da Elephas hysudricus, diffuso dall'Asia meridionale a quella occidentale. Altri rappresentanti, come Elephas platycephalus, compaiono nello stesso periodo, ma sono estremamente rari.[29] L'attuale elefante asiatico è documentato con certezza dal Pleistocene superiore, con resti che forse risalgono già al Pleistocene medio. L'arcipelago malese ospitava invece il genere Stegoloxodon, una forma nana i cui denti ricordano parzialmente quelli degli elefanti africani. Sono però noti solo pochi reperti fossili, provenienti da Sulawesi e Giava.[165]
Olocene ed estinzione delle diverse forme di elefanti
Le informazioni sulla scomparsa delle diverse forme di elefanti nel corso della loro storia evolutiva sono frammentarie, a causa di un record fossile spesso poco ricco. Questo riguarda in particolare i rappresentanti africani e quelli dell'Asia meridionale e sud-orientale. Risulta invece relativamente meglio documentata l'estinzione di alcune specie di elefanti (e di altri gruppi di proboscidati) nel passaggio dal Pleistocene all'Olocene, come ad esempio diversi appartenenti ai generi Mammuthus e Palaeoloxodon, le cui linee evolutive si estinsero completamente. In Eurasia, il mammut lanoso scomparve tra circa 12 300 e 8700 anni fa. Il ritiro della specie avvenne probabilmente da ovest verso est, poiché le ultime datazioni della sua presenza in Europa occidentale risultano mediamente più antiche rispetto a quelle dell'Asia nord-orientale. Nelle zone continentali dell'Asia settentrionale, come la penisola di Taimyr, il mammut lanoso sopravvisse fino all'Olocene inferiore.[166][167] Una piccola popolazione rimase sull'isola di Wrangel fino all'Olocene medio, circa 3700 anni fa.[168] Un altro gruppo che sopravvisse ampiamente nell'Olocene si trovava nelle isole Pribilof, al largo dell'Alaska, dove visse fino a circa 5700 anni fa.[169][170] Per quanto riguarda il mammut colombiano in Nordamerica, le ultime datazioni sono comprese tra 11 400 e 9300 anni fa, mentre per Mammuthus exilis risalgono a circa 11 000 anni fa.[171][172]
Mentre l'elefante dalle zanne dritte si estinse in Eurasia non oltre circa 33 000 anni fa, con gli ultimi ritrovamenti documentati nella penisola iberica,[173] i suoi discendenti insulari nel Mediterraneo sopravvissero in alcuni casi molto più a lungo. A Cipro, Palaeoloxodon cypriotes era ancora presente circa 11 500 anni fa, mentre Palaeoloxodon tiliensis di Tilos si estinse tra 4400 e 3300 anni fa.[174]
La fine di varie linee di elefanti nel tardo Pleistocene e nel corso dell'Olocene coincide con l'ondata di estinzioni quaternarie, le cui cause sono state oggetto di ampio dibattito. L'estinzione dei mammut e dei rappresentanti di Palaeoloxodon si protrasse comunque per diverse migliaia di anni, e non costituì dunque un evento unico e improvviso. Probabilmente furono coinvolti più fattori, in particolare i cambiamenti climatici legati alla fine dell'ultima glaciazione e le conseguenti trasformazioni degli habitat. In combinazione con ciò, anche l'uomo esercitò almeno localmente un'influenza significativa sulla scomparsa di alcune popolazioni di elefanti, soprattutto attraverso la caccia attiva.[175]
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Storia tassonomica
Riepilogo
Prospettiva

Il termine «elefante» deriva dal latino elephantus, a sua volta dal greco ἐλέφας (eléphas).[176] L'origine del termine è incerta; potrebbe derivare dall'ebraico ibah, trasmesso tramite il sanscrito con ibhas o íbhah. Entrò nel latino, dove ebur indicava l'«avorio». Già in epoca antica elephas era usato, ma per lo più con riferimento alle zanne piuttosto che all'animale stesso (ad esempio in Omero, Esiodo e Pindaro, solo nel senso di «avorio» o «dente di elefante»).[177][178] Come designazione collettiva e generale per gli elefanti, Elephas si impose già nel XVII secolo. Nel 1758 Linneo istituì nel suo fondamentale Systema Naturae il genere Elephas, includendovi sia gli animali asiatici sia quelli africani, riuniti sotto la denominazione Elephas maximus.[179] Solo 45 anni più tardi Johann Friedrich Blumenbach distinse le forme asiatiche e africane a livello specifico.[180] La distinzione generica, con l'introduzione ufficiale del genere Loxodonta, risale a un autore ignoto del 1827,[181] che riprese però un termine già usato due anni prima da Frédéric Cuvier.[182] La denominazione familiare Elephantidae, basata sul nome del genere Elephas, fu introdotta nel 1821 da John Edward Gray, che definì gli elefanti nel modo seguente: Teeth, two grinders in each jaw, composed of transverse vertical lamina, enveloped in enamel, and soldered together by a cortical substance («Denti, due molari per ciascuna mascella, formati da lamine verticali trasversali, rivestiti di smalto e saldati insieme da una sostanza corticale»).[183]
L'assegnazione sistematica degli elefanti variò nel tempo. Linneo li incluse in un gruppo chiamato Bruta, che comprendeva anche sirenî, bradipi e pangolini.[179] Blumenbach li affiancò invece a diversi ungulati, come tapiri, rinoceronti, ippopotami e suini.[180] Questa rimase la classificazione principale tra la fine del XVIII e il XIX secolo. Nel 1795 Étienne Geoffroy Saint-Hilaire e Georges Cuvier raggrupparono tutti gli ungulati menzionati da Blumenbach nei Pachydermata («pachidermi»),[184] un gruppo oggi considerato parafiletico. Successivamente Cuvier vi aggiunse anche pecari, iraci e alcune forme estinte.[185] Nel 1811 Johann Karl Wilhelm Illiger introdusse la denominazione Proboscidea, ordinando così gli elefanti in base alla loro caratteristica più evidente, la proboscide; egli non assegnò però alcuna forma fossile a questo ordine.[186] Gray nel 1821 riprese l'unità di Illiger e vi incluse, oltre agli elefanti, anche i «mastodonti», un gruppo oggi obsoleto.[183] Nella sua opera del 1811 Illiger aveva inserito i Proboscidea all'interno dei Multungulata («pluriungulati»), che concettualmente corrispondevano ai pachidermi. Già cinque anni dopo Henri Marie Ducrotay de Blainville ruppe per la prima volta lo schema dei pachidermi distinguendo vari gruppi di ungulati, tra cui quelli con numero pari di dita (onguligrades à doigts pairs) e quelli con numero dispari (onguligrades à doigts impairs). Gli elefanti furono raggruppati come unici membri di una categoria superiore chiamata Gravigrades.[187] Più tardi, nel 1848, Richard Owen riprese questa impostazione separando artiodattili e perissodattili, e sancendo così la fine definitiva dei pachidermi. Pur riconoscendo una certa affinità con i perissodattili, Owen mantenne i proboscidati in un ordine distinto per le loro particolarità, come la proboscide.[188][189]
L'affinità tra elefanti/proboscidati e ungulati restò a lungo riconosciuta. Nel 1870 Theodore Gill notò tuttavia una connessione più stretta tra proboscidati, sirenî e iraci, senza però attribuire un nome specifico al gruppo.[190] Altri autori proposero denominazioni simili, come Taxeopoda (Edward Drinker Cope, anni 1880-1890) o Subungulata (Richard Lydekker negli anni 1890, Max Schlosser negli anni 1920), rivelatesi però problematiche. Per questo George Gaylord Simpson nel 1945, nella sua classificazione generale dei mammiferi, istituì i Paenungulata, un nuovo supergruppo che comprendeva elefanti, iraci e sirenî insieme a varie forme estinte.[189] Simpson li considerò parte dei Protungulata.[189] Malcolm C. McKenna e Susan K. Bell inserirono invece i Paenungulata (qui denominati Uranotheria) all'interno degli Ungulata.[191] In molte sistematiche i Paenungulata furono a lungo ritenuti più affini ai perissodattili. Solo studi biochimici e molecolari a cavallo tra XX e XXI secolo hanno rivelato che i Paenungulata, e dunque anche gli elefanti, appartengono a un gruppo di origine africana, gli Afrotheria.[192][193][194][195][196][128]
Gli elefanti sono stati al centro di numerose ricerche scientifiche. Nella seconda metà del XX secolo Vincent J. Maglio svolse un ruolo di primo piano nello studio della loro evoluzione,[29] elaborando anche uno schema di parentela che, basato sui lavori di Emiliano Aguirre negli anni '60, è ampiamente riconosciuto ancora oggi.[197] Successivamente fu ulteriormente affinato, ad esempio grazie alle ricerche di Michel Beden negli anni '70-'80 sui fossili africani.[198] Studi più recenti sono stati condotti da Jeheskel Shoshani e Pascal Tassy a cavallo tra XX e XXI secolo, i quali nel 2005 offrirono un'ampia sintesi.[139] Indagini genetiche su specie attuali ed estinte hanno dato ulteriore precisione alla sistematica degli elefanti, in particolare grazie a Nadin Rohland.[137][138] Per quanto riguarda le specie viventi, negli ultimi decenni del XX e nei primi del XXI secolo, oltre a Shoshani, hanno contribuito soprattutto George Wittemyer e Raman Sukumar.[19][4][3][199] Di particolare importanza sono anche le ricerche sul campo di Joyce H. Poole e Cynthia J. Moss, che hanno fornito preziose informazioni sul comportamento sociale degli elefanti.[115] Tra gli studiosi focalizzati sulle forme più antiche si distinguono William J. Sanders e Adrian Lister.[155][136][21]
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Rapporti con l'uomo
Riepilogo
Prospettiva
Gli elefanti nella storia dell'uomo
Preistoria
I rapporti tra esseri umani ed elefanti risalgono a diverse centinaia di migliaia di anni fa. Il corpo dell'elefante costituiva infatti una risorsa fondamentale di materie prime, sia a scopo alimentare (carne di elefante), sia per la fabbricazione di utensili o oggetti d'arte ricavati da ossa e avorio. Resti di elefanti si rinvengono piuttosto frequentemente in siti frequentati da gruppi umani del Paleolitico inferiore e medio (tra 2,5 milioni e 40 000 anni fa): tra questi, si possono citare il cosiddetto mammut meridionale a Barranc de la Boella in Catalogna,[200] l'elefante dalle zanne dritte alla stazione di Weimar-Ehringsdorf in Turingia[201] o a Ficoncella e Polledrara, entrambi in Italia centrale,[202][203] così come Palaeoloxodon recki presso il sito Namib IV nella regione omonima[204] o a Fejej in Etiopia, nell'Africa orientale.[205] In alcuni siti è stata attestata con certezza la lavorazione dei cadaveri, come a Gröbern, in Sassonia-Anhalt.[206] Degno di nota è anche il ritrovamento della valle di Geiseltal (sempre in Sassonia-Anhalt), dove sono stati rinvenuti oltre 3120 resti ossei appartenenti a circa 70 individui di elefante dalle zanne dritte. La maggior parte apparteneva a maschi e molti ossi presentano segni di taglio, indizi di manipolazione umana. Questi reperti sono stati interpretati come resti di caccia, accumulati da vari gruppi di cacciatori in un arco temporale superiore a 2000 anni.[159][207] Non è del tutto certo se gli animali fossero già effettivamente cacciati, ma la lancia di Lehringen, datata a circa 120 000 anni fa, conficcata nello scheletro di un elefante dalle zanne dritte e associata a più di due dozzine di manufatti in selce, ne costituisce un forte indizio.[208] I siti di Gröbern, Geiseltal e Lehringen risalgono rispettivamente al penultimo e all'ultimo interglaciale (circa 240 000 e 120 000 anni fa). Le ripetute manipolazioni documentate sulle ossa di elefante in queste località mostrano che i Neandertal di quell'epoca utilizzavano già in modo relativamente regolare i proboscidati come risorsa di materie prime.[209] La fabbricazione occasionale di utensili da ossa di elefante come comportamento tipico dell'uomo antico è però molto più antica: i primi esempi risalgono a circa 1,5 milioni di anni fa, sotto forma di strumenti simili a raschiatoi rinvenuti nel Bed II della gola di Olduvai, in Tanzania.[210] Un impiego dei resti degli animali in un contesto probabilmente simbolico o artistico è suggerito da un osso tibiale inciso con motivi lineari proveniente dal sito di Bilzingsleben, in Turingia (circa 350 000 anni fa),[211] e da una lamella di zanna di mammut levigata e ricoperta di ocra rinvenuta a Tata, in Ungheria (circa 100 000 anni fa).[212]


Nel successivo Paleolitico superiore (circa 40 000-10 000 anni fa) i rapporti con gli elefanti si intensificarono. Non solo aumentano le prove di una caccia attiva – come testimoniano resti di mammut con punte di proiettile conficcate rinvenuti in diversi siti della Siberia e dell'Europa orientale[213] – ma le parti degli elefanti vennero utilizzate sempre più frequentemente come materia prima per utensili e manufatti. Le ossa e le zanne furono inoltre impiegate per la piccola arte: alcune venivano dipinte o incise, altre trasformate in statuette. Tra i reperti più celebri figurano il cosiddetto Uomo-leone di Hohlenstein-Stadel in Germania e diverse «Veneri» paleolitiche come la Venere di Brassempouy in Francia. Non mancano, inoltre, rappresentazioni di elefanti stessi, quasi sempre riferite al mammut lanoso. Queste si presentano sia sotto forma di incisioni sia come piccole sculture, considerate le più antiche raffigurazioni di questi animali. Esempi celebri provengono dalla Vogelherdhöhle in Germania e da Dolní Věstonice in Moravia (40 000-20 000 anni fa), o più tardi da Gönnersdorf in Renania-Palatinato. Alcuni reperti avevano anche una funzione pratica, come il propulsore per lance di Bruniquel, in Francia.[214] Un caso relativamente unico è l'incisione di un mammut rinvenuta a Old Vero, in Florida, che probabilmente raffigura un mammut colombiano ed è uno dei pochi esempi noti di arte paleoindiana.[215] Oltre all'arte mobiliare, i mammut furono rappresentati anche nell'arte rupestre: raffigurazioni si trovano dalla penisola iberica fino agli Urali. Tra le più celebri vi sono quelle della grotta Chauvet e della grotta di Rouffignac, entrambe in Francia, e della grotta di Kapova in Russia. Nella sola area franco-cantabrica i mammut sono rappresentati in circa un sesto delle 300 grotte con pitture rupestri, costituendo il 6% di tutte le raffigurazioni animali: erano dunque, insieme a cavalli selvaggi, uri e bisonti, stambecchi e cervi, tra gli animali più raffigurati.[216][217] Una particolarità ulteriore è rappresentata dalle capanne costruite con ossa di mammut rinvenute a Mesin e Mežyrič, in Ucraina.[214] Con l'estinzione dei mammut terminò anche la loro raffigurazione artistica. Tuttavia, raffigurazioni di elefanti sono note anche in epoca preistorica dall'Africa settentrionale e meridionale e dall'India, in questi casi riferite agli elefanti africani e asiatici.[218][219]
Antichità

Gli elefanti acquisirono nuovamente una maggiore importanza a partire dal III millennio a.C. Nella civiltà dell'Indo, nell'odierno Pakistan, gli animali furono incisi su piccoli sigilli in steatite. Questi reperti fanno supporre che già a quell'epoca l'elefante asiatico fosse stato addomesticato ed eventualmente impiegato come animale da lavoro.[220] Al più tardi dalla metà del II millennio a.C. le fonti indiane attestano la cattura e la custodia degli elefanti. Per la loro grande forza furono impiegati principalmente come animali da lavoro. Le testimonianze sul loro utilizzo come elefanti da guerra risalgono almeno al IV secolo a.C.[221][222] Dall'India la conoscenza relativa all'addomesticamento dell'elefante asiatico si diffuse fino al Sud-est e all'Est asiatico. In seguito, esso fu integrato anche in cerimonie religiose. Il suo valore sacro nella regione si riflette nella divinità induista Ganesha, dal volto di elefante, e nel racconto della nascita di Siddhartha Gautama nel buddhismo. In suo onore statue in pietra di elefanti ornano templi e palazzi, e ancora oggi (2025) in numerosi templi hindu e buddhisti di India e Sri Lanka vivono elefanti da tempio, impiegati in rituali, processioni e grandi festival religiosi.
Per la cattura e l'addestramento degli elefanti selvatici furono istituite speciali scuole; i loro addestratori vengono chiamati mahout. Questa tradizione millenaria viene in gran parte tramandata di generazione in generazione.[223] È tuttavia necessario precisare che, contrariamente a un'opinione diffusa, l'elefante asiatico non è mai stato realmente domesticato, ma soltanto addomesticato a partire da esemplari catturati in natura. Dopo la morte di un elefante, dunque, è generalmente necessario catturarne di nuovi tra le popolazioni selvatiche.[221][222]
Nell'antico Egitto gli elefanti erano conosciuti, ma non ebbero alcun ruolo nella vita quotidiana. Talvolta compaiono tuttavia nei rilievi templari. Particolarmente apprezzato era invece l'avorio delle zanne. Di Thutmosi III si racconta, ad esempio, una caccia a 120 animali in Siria intorno al 1446 a.C.[221][224] In quelle regioni fluviali gli elefanti sopravvissero fino all'VIII/VII secolo a.C.[225] I loro parenti genetici più prossimi vivono oggi nel Sud-est asiatico, il che ha indotto alcuni studiosi a ipotizzare che gli animali fossero stati introdotti artificialmente in Asia occidentale.[224][226] Gli antichi Greci conobbero inizialmente l'avorio solo come bene commerciale. Le prime descrizioni dettagliate degli animali risalgono al primo IV secolo a.C., quando il medico e scrittore Ctesia di Cnido fece ritorno dalla corte del re persiano Dario II. Durante le campagne di Alessandro Magno contro l'Impero persiano, i Greci incontrarono per la prima volta gli elefanti da guerra, a partire dalla battaglia di Gaugamela. Impressionato dall'efficacia degli animali, Alessandro iniziò a costruire un proprio esercito di elefanti. Dopo la sua morte, nel 323 a.C., gli elefanti da guerra furono impiegati nelle guerre dei Diadochi. Con la vittoria di Tolomeo I su Perdicca, gli elefanti giunsero anche in Nordafrica. Successivamente, i Tolomei, non avendo più accesso agli elefanti asiatici, tentarono di sostituirli con esemplari africani catturati nell'attuale Eritrea. Grazie a questo impiego, nella battaglia di Rafia del 217 a.C. si affrontarono per la prima volta sul campo esemplari di entrambe le specie. All'incirca nello stesso periodo, il condottiero cartaginese Annibale attraversò le Alpi con elefanti da guerra per impiegarli contro Roma durante la seconda guerra punica.[227][228][229]

I Romani incontrarono gli elefanti per la prima volta nella battaglia di Eraclea, intorno al 280 a.C., quando Pirro I d'Epiro schierò numerosi elefanti da guerra che misero in fuga le truppe romane, sconvolte da quegli enormi animali fino ad allora sconosciuti (chiamati dai Romani boves lucani, «buoi lucani», dal nome della regione della Lucania[230]). Cinque anni più tardi, però, il console romano Manio Curio Dentato sconfisse Pirro nella battaglia di Benevento e condusse alcuni elefanti catturati a Roma, mostrandoli nel suo trionfo. Intorno al 250 a.C., durante la prima guerra punica, il console Lucio Cecilio Metello sconfisse ad Agrigento il cartaginese Asdrubale e il suo esercito, che comprendeva 120 elefanti da guerra. Metello trasportò gli animali in Italia su zattere e li esibì anch'egli in un trionfo. Al più tardi intorno al 200 a.C. i Romani avevano integrato gli elefanti da guerra nei loro eserciti, utilizzandoli anche durante la seconda guerra macedonica.[231][232] Tuttavia, oltre che come armi belliche, gli elefanti furono usati a partire dal 169 a.C. anche negli spettacoli gladiatori contro uomini e altri animali. Celebre è, ad esempio, l'inaugurazione del primo teatro in pietra di Roma da parte di Gneo Pompeo Magno nel 55 a.C., in occasione della quale vennero uccisi venti elefanti. In epoca imperiale, inoltre, gli elefanti vennero addestrati anche ad eseguire esercizi per divertire il pubblico.[232][233]
Oltre a Ctesia di Cnido, furono soprattutto Aristotele, nella sua Historia animalium, e Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis historia, a occuparsi degli elefanti, quest'ultimo basandosi anche sull'opera perduta del re di Mauretania Giuba II. In età antica gli elefanti furono raffigurati ripetutamente sulle monete, soprattutto da parte di potenze che li impiegavano militarmente (Tolomei, Seleucidi, Cartaginesi), ma anche dagli Etruschi e in seguito dagli imperatori romani. Piccole raffigurazioni compaiono anche nelle gemme antiche. Nell'età tardoantica divennero comuni raffigurazioni di maggiori dimensioni, come nei mosaici con scene di caccia o nel nuovo genere della miniatura libraria.[232]
Medioevo e età moderna



Il significato dell'elefante come animale da guerra, sacro e simbolo di prestigio proseguì nei secoli. Akbar, uno dei più importanti imperatori Moghul, sconfisse nel 1556 il suo avversario Hemu nella Seconda battaglia di Panipat, durante la quale nell'esercito nemico erano schierati anche 1500 elefanti da guerra. Più tardi, intorno al 1580, Akbar stesso marciò verso Kabul con circa 500 elefanti da guerra e 50 000 soldati, riunificando definitivamente l'impero.[234] I diversi sovrani Moghul possedevano centinaia di elefanti nelle proprie scuderie, classificati in alcuni casi fino a sette ranghi distinti. Particolari meriti venivano talvolta premiati con il dono di un elefante. Inoltre, gli animali venivano impiegati non solo in guerra, ma anche come cavalcature durante le battute di caccia e nei combattimenti dimostrativi.[221] La rappresentazione della grandezza imperiale attraverso gli elefanti passò anche nei territori europei, rafforzandosi soprattutto in epoca coloniale, quando gli animali venivano talvolta offerti come doni diplomatici. Alcuni elefanti entrarono così di nome nella storia europea: tra questi si ricordano «Abul Abbas» (IX secolo), «Annone» (XVI secolo), «Solimano» (XVI secolo) e «Hansken» (XVII secolo). Di norma si trattava di esemplari di elefante asiatico, più raramente – come nel caso dell'elefante appartenuto a Luigi XIV – di elefanti africani. Alcuni individui raggiunsero grande fama e popolarità già in vita: celebre è il caso di «Annone», raffigurato più volte da Raffaello, tra cui in un affresco a grandezza naturale all'ingresso del Palazzo Vaticano, oggi perduto.[235][236] In altri casi, invece, l'importanza venne riconosciuta solo in seguito, come per «Hansken», il cui scheletro fu designato nel 2014 come esemplare tipico dell'elefante asiatico.[237] Gran parte degli animali donati venne ospitata nelle menagerie delle case principesche europee, altri invece viaggiarono come attrazioni itineranti. Tra XVIII e XIX secolo le menagerie furono progressivamente sostituite da zoo accessibili al pubblico: città come Vienna, Parigi e Londra furono le prime a dotarsene. Già molto presto vennero realizzate strutture specificamente dedicate agli elefanti, ad esempio a Parigi nel 1808 e a Londra nel 1831.[238]
Nell'epoca moderna, gli elefanti sono divenuti tra gli animali più popolari degli zoo grazie alle loro dimensioni imponenti. La loro intelligenza li ha resi adatti anche a spettacoli circensi e a esercizi di addestramento. Tuttavia, la detenzione di animali così grandi non è priva di difficoltà: da un lato comporta rischi di conflitti e incidenti con gli uomini, dall'altro, se la sistemazione non è adeguata e rispettosa delle loro esigenze, può generare varie forme di disturbi comportamentali, tra cui il tipico movimento oscillatorio ritmico (detto weaving), forse il più conosciuto.[239][240]
Conflitti tra uomo ed elefante
Oggi l'elefante asiatico è presente in circa una dozzina di Paesi dell'Asia meridionale, sud-orientale e orientale, mentre l'elefante africano abita circa una trentina di Stati nell'Africa subsahariana. La distribuzione dell'elefante di foresta nell'Africa centrale e occidentale è invece poco studiata. In Asia meridionale, l'areale dell'elefante asiatico coincide in parte con le aree di più alta densità abitativa umana. Inoltre, diversi Paesi che ospitano popolazioni di elefanti figurano tra i più poveri del mondo. In particolare, la progressiva riduzione e frammentazione degli habitat degli elefanti causa frequenti conflitti con le comunità locali, documentati dalle statistiche sul «conflitto uomo-elefante» (Human-Elephant Conflict, HEC).[241] A causa delle loro dimensioni corporee, della vita sociale e del conseguente bisogno di spazio e risorse alimentari, gli elefanti entrano spesso in competizione con l'uomo per l'uso del territorio. Ciò si traduce, ad esempio, in razzie ai campi coltivati o in un eccessivo sfruttamento delle fonti d'acqua nelle regioni aride. Gli elefanti, inoltre, al pari degli uomini, sono in grado di influenzare fortemente il loro ambiente (ecosystem engineering). I conflitti che ne derivano non si limitano a causare danni economici alle comunità coinvolte, ma possono in casi estremi anche risultare mortali. Secondo le stime, in India ogni anno tra 150 e 400 persone muoiono in scontri con elefanti, mentre fino a 500 000 famiglie subiscono danni alle coltivazioni. In Sri Lanka il numero delle vittime umane può raggiungere le 70 l'anno, mentre in Kenya, tra il 2010 e il 2017, circa 200 persone hanno perso la vita.[199][242] Parallelamente, ogni anno centinaia o migliaia di elefanti vengono uccisi dall'uomo – spesso da agricoltori che cercano di proteggere i raccolti o come ritorsione per vittime umane. Altri ancora muoiono a causa delle attività belliche, ad esempio per le mine terrestri.[241] A ciò si aggiunge il problema del bracconaggio: nel 2009 il numero di elefanti africani uccisi annualmente per il commercio dell'avorio era stimato in circa 38 000 individui.[243]
La prevenzione o la riduzione dei conflitti uomo-elefante rappresenta una delle sfide principali per la conservazione. Attualmente esistono diverse strategie per ridurre i danni alle coltivazioni o evitare scontri diretti con gli elefanti. Prioritarie sono la creazione e la tutela di aree protette e corridoi ecologici che consentano le vaste migrazioni dei gruppi familiari. Nelle zone di contatto diretto con l'uomo rientrano, inoltre, barriere fisiche come recinzioni e fossati, oppure sistemi di dissuasione basati su fuoco, rumore, luce o piantumazione di specie non appetibili, come il peperoncino, per creare fasce cuscinetto. Tali metodi possono influenzare in modo significativo i movimenti migratori locali degli animali. Altre misure prevedono l'uso di ronzio artificiale di api o di odori di grandi predatori, a cui gli elefanti reagiscono con avversione in base a esperienze negative pregresse.[244][245] È anche possibile installare sistemi di rilevamento per avvisare con anticipo dell'arrivo di branchi di elefanti. Una pratica diffusa in passato soprattutto in Africa era l'abbattimento selettivo di interi gruppi, ma oggi è in forte declino; si preferisce piuttosto la traslocazione di individui o gruppi problematici. Per ridurre ulteriormente i conflitti uomo-elefante, è fondamentale individuare e studiare in modo accurato le aree potenzialmente critiche. Il riconoscimento di tali zone consente infatti di pianificare alternative di convivenza più efficaci, sia per le popolazioni umane coinvolte che per gli animali.[199][242]
Minacce e conservazione
La minaccia principale per le tre specie di elefanti oggi esistenti è rappresentata dalla caccia illegale. Questa è rivolta soprattutto ai maschi per l'avorio, mentre in misura minore giocano un ruolo anche la carne come risorsa alimentare, così come pelle e ossa come materie prime. A ciò si aggiungono gli effetti della distruzione degli habitat dovuta alla deforestazione e alla frammentazione del paesaggio provocata dall'espansione degli insediamenti umani e delle aree agricole, fattori che incidono in modo estremamente negativo sugli effettivi. Tali pressioni contribuiscono anche ai già citati conflitti uomo-elefante. L'IUCN classifica l'elefante asiatico come «in pericolo» (endangered). La popolazione selvatica è stimata tra 48 320 e 51 680 individui, circa la metà dei quali vive in India. A questi si aggiungono circa 14 500-16 000 esemplari mantenuti come animali da lavoro. L'elefante africano è considerato «in pericolo» (endangered), mentre l'elefante di foresta è valutato «in pericolo critico» (critically endangered). Complessivamente in Africa sopravvivono probabilmente intorno a 352 000 elefanti, con la maggioranza concentrata nella parte settentrionale dell'Africa australe e nell'Africa orientale.[246] Tutte e tre le specie attuali sono inserite nell'Appendice I della Convenzione di Washington (CITES), che vieta il commercio sovraregionale e internazionale di esemplari vivi o di parti di individui morti.[247] Sia l'elefante asiatico che le due specie africane sono oggi presenti in numerose aree protette. Tra le principali sfide restano la tutela e la conservazione degli habitat e dei corridoi di migrazione delle singole popolazioni, anche oltre i confini nazionali, nonché la riduzione dei conflitti tra esseri umani ed elefanti.[248][249][250]
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Note
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