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scrittrice, poetessa e traduttrice italiana (1923-1977) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Cristina Campo, pseudonimo di Vittoria Maria Angelica Marcella Cristina Guerrini[1][2] (Bologna, 29 aprile 1923 – Roma, 10 gennaio 1977), è stata una scrittrice, poetessa e traduttrice italiana.
«Era una donna di rara eleganza, piena di fascino. Era anche molto spiritosa, faceva il verso alla gente della strada che a Roma la ispirava molto, ma in maniera naturalmente elegante. Non aveva età, come spesso le persone malate[3].»
Nacque a Bologna, unica figlia di Guido Guerrini, musicista e compositore originario di Faenza, e di Emilia Putti, nipote di Enrico Panzacchi e sorella di Vittorio Putti, celebre chirurgo ortopedico. Per una congenita malformazione cardiaca, che rese sempre precaria la sua salute, Cristina crebbe isolata dai coetanei e non poté seguire regolari studi scolastici.[4]
Fino al 1925 la famiglia Guerrini visse presso la residenza del professor Putti, nel parco dell'Ospedale Rizzoli di Bologna. Successivamente la famiglia si trasferì a Parma, e dal 1928 a Firenze, dove Guido Guerrini fu chiamato a dirigere il conservatorio Cherubini. L'ambiente culturale fiorentino fu determinante nella formazione di Cristina Campo, a cominciare dall'amicizia con il germanista e traduttore Leone Traverso, da lei chiamato affettuosamente "Bul", al quale, per qualche tempo, fu legata anche sentimentalmente. Importanti furono gli incontri con Mario Luzi e Gianfranco Draghi (che le fecero conoscere il pensiero di Simone Weil), Gabriella Bemporad e Margherita Pieracci Harwell, la letterata che avrebbe curato la pubblicazione delle opere postume di Cristina Campo. Restò a Firenze fino al 1955, divenendo nota negli ambienti culturali:
«Era il 1954. Firenze in quegli anni era così, si aveva l'impressione di vivere al centro del mondo e al tempo stesso in provincia. Si andava ogni giorno al caffè, ci si conosceva tutti. Prima o poi qualcuno ti chiedeva: hai già incontrato Vittoria Guerrini? La nostra fu un'amicizia breve ma felice. Parlavamo quasi solo di poesia. A volte le suonavo con la chitarra le canzoni popolari italiane, le arie francesi. Lei non cantava. Diceva di non avere orecchio.[5]»
La sua natura solitaria, per certi versi anacoretica[6], la portò a rifuggire da riconoscimenti e apprezzamenti (preferì firmare con nomi fittizi le poche opere pubblicate in vita[7]), dimostrandosi sempre indifferente alle strategie e alle esigenze del mercato letterario. Così fu descritta da Pietro Citati:
«Questa anacoreta possedeva un garbo mondano, una grazia squisita e inafferrabile, come una signora italiana del Rinascimento, o una dama della Fronda. [...] In genere i suoi amici erano meno brillanti di lei. Aveva bisogno di possedere. Aveva bisogno di essere ascoltata...»
Di sé amava dire: "Ha scritto poco, e le piacerebbe aver scritto meno".[9] Il suo stile personalissimo, ricorrente nei diversi generi letterari da lei praticati, è caratterizzato da una spiccata tensione a far coincidere la parola con il suo significato più profondo, rifuggendo da tutto ciò che era da lei ritenuto ovvio o superfluo.[10]
Cristina Campo fu traduttrice soprattutto di autori di lingua inglese, come Katherine Mansfield, Virginia Woolf, John Donne, e William Carlos Williams. Per tutta la vita predilesse Hugo von Hofmannsthal e Simone Weil, della quale tradusse la tragedia Venezia salva e il saggio Iliade Poema della forza.
Il padre nel 1945 è internato in un campo di concentramento degli alleati perché simpatizzante del fascismo, e lei fa da interprete per tedeschi e americani. Dall'apparenza eccentrica[11] e dal carattere molto forte e spigoloso[12], nel dopoguerra «a Firenze, si divertiva a lodare ad alta voce Mussolini per scandalizzare i passanti» ha scritto la sua biografa Cristina De Stefano.[13]
Nei primi anni Cinquanta lavorò alla compilazione di un'antologia di scrittrici, Il Libro delle ottanta poetesse, concepita come "una raccolta mai tentata delle più pure pagine vergate da mano femminile attraverso i tempi".[14] L'antologia, alla quale Cristina Campo lavorò a lungo, coinvolgendo nella traduzione vari amici, non venne tuttavia mai pubblicata.
Nel 1955 si trasferì a Roma, dove il padre fu chiamato a dirigere il conservatorio di Santa Cecilia e il Collegio di Musica. In questa città, verso la quale ebbe sempre un rapporto controverso, strinse nuove amicizie, come quelle con Margherita Dalmati (pseudonimo di Maria-Nike Zoroghiannide), Roberto Bazlen, María Zambrano. Nel 1956, per un mese, fu al capezzale di Corrado Alvaro nella casa dello scrittore calabrese in Piazza di Spagna.[15] Sempre a Roma, il dottor Ernst Bernhard, lo psicoanalista e astrologo tedesco di origine ebraica che introdusse le tecniche di Carl Gustav Jung in Italia, la guarì da una fastidiosa agorafobia.[16]
Al 1958 risale l'incontro, per lei fondamentale, con lo studioso e scrittore Elémire Zolla, con il quale visse a lungo;[17] anche se poco prima della morte della scrittrice il rapporto sentimentale era cessato, convissero fino alla di lei scomparsa.[18]
Negli ultimi anni di vita ebbe un intenso scambio epistolare con il filosofo Andrea Emo, che come lei visse appartato e la cui opera solo di recente è stata scoperta e pubblicata postuma.
Nel 1956, presso l'editore Vanni Scheiwiller di Milano, apparve il suo primo libro, la raccolta di poesie Passo d'addio. Nel 1962 uscì da Vallecchi il volume di saggi Fiaba e mistero, in parte confluito nel libro successivo Il flauto e il tappeto, pubblicato nel 1971 da Rusconi.
Nella sua vita frequentò anche Mario Luzi,[19] e al suo cenacolo letterario parteciparono diversi scrittori e poeti divenuti famosi in seguito, come Guido Ceronetti. Riguardo al rapporto con Luzi, con cui ebbe una storia d'amore:
«I suoi amori erano tempestosi, sfrenati – e condannati. Nessuno può resistere, in continua tensione, a un volo senza stasi[20] [...] Il grande amore, e l'unico della sua vita, fu un'altra persona, quella del Moriremo lontani, un amore impossibile poiché la persona amata aveva tutte le virtù cantate dai poeti; inoltre lei era libera, lui no[21] [...] Parlava troppo e a voce alta – questo tradiva la solitudine della sua infanzia.[6]»
L'ultimo decennio della sua vita la vide emarginata dalla scena culturale e profondamente interessata alle tematiche del sacro e della spiritualità. Così Elémire Zolla ricorda quegli anni:
«Durante la vita Vittoria non fu menzionata da nessuno di coloro che oggi si sentono liberi di parlarne. Non desidero valutare i loro criteri di silenzio e se mai volessi dichiararli, sarei portato molto lontano, dove non desidero andare. Fino al 1980 c'era comunque un sistema di divieti, instaurati nel Sessantotto, e rientrava in essi la proibizione di menzionare Vittoria. Fece eccezione Calasso, che osò scriverne un necrologio per il Corriere della Sera»
Tra i pochi che scrissero della Campo in occasione della morte, vi furono Roberto Calasso della casa editrice Adelphi e Alfredo Cattabiani, che in qualità di direttore editoriale della Rusconi aveva pubblicato Il flauto e il tappeto.[22]
La sua concezione del cristianesimo, a cui si avvicinò sempre più negli anni fino a diventare una fervente cattolica, nonostante convivesse da anni con un uomo sposato e poi divorziato, fu nettamente "ortodossa", contrapposta alle riforme liturgiche[23] seguite al Concilio Vaticano II[24] e in favore della messa tridentina.[25][26][27][28] Cristina Campo fu tra coloro che fondarono la prima associazione di cattolici tradizionalisti, Una Voce,[29][30] alla cui vicepresidenza onoraria fu nominato Eugenio Montale. Fu anche la redattrice del testo in italiano del Breve esame critico del Novus ordo Missae, firmato dai cardinali Alfredo Ottaviani e Antonio Bacci, il cosiddetto "Intervento Ottaviani", lavoro di disamina critica di tali riforme,[31] inviato a papa Paolo VI.[32][33] Il suo amore per la liturgia la avvicinò dapprima all'Abbazia benedettina di Sant'Anselmo sull'Aventino a Roma, dove si cantava ancora il gregoriano, e successivamente al Collegium Russicum. Individuò infatti nel rito bizantino, praticato dalla Chiesa ortodossa e dalle chiese romane di rito greco-orientale, una maggiore aderenza al suo modo di concepire la spiritualità cristiana. Fu altresì una seguace del gruppo tradizionalista della Fraternità Sacerdotale San Pio X.
«È stata forse la più grande prosatrice italiana di questo mezzo secolo. Del suo libro vendemmo poche copie, e non ottenemmo nessuna recensione perché l'autrice era considerata reazionaria. Aveva fondato Una Voce, aveva attaccato il pontefice. Oggi si tende a dimenticarlo, ma dal punto di vista religioso aveva una sensibilità molto tradizionale. Era un'estremista. È stata lei a curare il libro di Lefèbvre (sic) Un vescovo parla, pubblicato nel 1974 da Rusconi e ritirato quasi subito per intervento del Vaticano. Fu lei a spingerlo su posizioni di rottura. Direi quasi che fu Lefèbvre (sic) a essere un discepolo di Cristina.[34]»
Monsignor Lefebvre, a cui la Campo era molto devota[35], fu scomunicato in seguito da Giovanni Paolo II per aver ordinato vescovi senza il permesso del papa, atto che fu considerato "scismatico".[36][37]
Sulla rivista Conoscenza religiosa, diretta da Elémire Zolla, apparvero gli ultimi scritti di Cristina Campo, tra i quali vanno ricordati il saggio Sensi soprannaturali e le "poesie sacre"[38] ispirate alla liturgia bizantina.
«Nobilissimi ierei,
grazie per il silenzio,
l'astensione, la santa
gnosi della distanza,
il digiuno degli occhi, il veto dei veli,
la nera cordicella che annoda ai cieli
con centocinquanta volte sette nodi di seta
ogni tremito del polso,
l’augusto cànone dell’amore incommosso,
la danza divina del riserbo:
incendio imperiale che accende
come in Teofano il Greco e in Andrea Diacono,
di mille Tabor l’oro delle vostre cupole,
apre occhi del cuore negli azzurrissimi spalti,
riveste i torrioni di Sangue...
Che prossimità spegne
come pioggia di cenere»
Cristina Campo morì a Roma il 10 gennaio 1977, all'età di 53 anni, per un'ennesima crisi improvvisa di scompenso cardiaco,[40][41] assistita negli ultimi istanti da Zolla;[42] è sepolta nel Cimitero monumentale della Certosa di Bologna.
«[...] ma di noi
sopra una sola teca di cristallo
popoli studiosi scriveranno
forse, tra mille inverni:
"nessun vincolo univa questi morti
nella necropoli deserta"»
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