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poetessa, scrittrice e ambientalista canadese Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Margaret Eleanor "Peggy" Atwood (1939 – vivente), poetessa e romanziera canadese.
Si dormiva in quella che un tempo era la palestra. L'impiantito era di legno verniciato, con strisce e cerchi dipinti, per i giochi che vi si effettuavano in passato; i cerchi di ferro per il basket erano ancora appesi al muro, ma le reticelle erano scomparse. Una balconata per gli spettatori correva tutt'attorno allo stanzone, e mi pareva di sentire, vago come l'aleggiare di un'immagine, l'odore acre di sudore misto alla traccia dolciastra della gomma da masticare e del profumo che veniva dalle ragazze che stavano a guardare, con le gonne di panno che avevo visto nelle fotografie, poi in minigonna, poi in pantaloni, con un orecchino solo e i capelli a ciocche rigide, puntute e striate di verde. C'erano state feste da ballo; la musica indugiava, in un sovrapporsi di suoni inauditi, stile su stile, un sottofondo di tamburi, un lamento sconsolato, ghirlande di fiori di carta velina, diavoli di cartone e un ballo ruotante di specchi, a spolverare i ballerini di una neve lucente.
Sesso, solitudine, attesa di qualcosa senza forma né nome.
Uomo delle Nevi si sveglia prima dell'alba. Giace immobile, ascoltando la marea che sale e onda dopo onda lambisce le varie barriere, cic-ciac, cic-ciac, il ritmo del battito cardiaco. Vorrebbe tanto credere di essere ancora addormentato.
A est l'orizzonte è pervaso da una foschia grigiastra, ora accesa da un bagliore roseo, mortale. Strano come quel colore appaia ancora delicato. Gli alti edifici al largo vi si stagliano contro in scure sagome, sorgendo inverosimilmente dal rosa e dall'azzurro pallido della laguna. I gridi degli uccelli che vi fanno il nido e il rumore dell'oceano lontano che si infrange contro le finte scogliere fatte di pezzi di macchine arrugginite, mattoni ammucchiati e detriti vari fanno quasi pensare al traffico dei giorni di festa. (Mango, p. 9)
Ora che sono morta so tutto. Avrei voluto che fosse così, ma come molti dei miei desideri neanche questo si è avverato. Conosco solo alcuni eventi che prima ignoravo, entrati nella tradizione, ma forse infondati. Inutile dire che è un prezzo molto alto per soddisfare una curiosità.
Da quando sono morta — da quando ho raggiunto questa condizione di senzaossa, senzalabbra, senzapetto — ho imparato cose che avrei preferito non sapere, come succede se si origlia dietro le finestre o si aprono le lettere degli altri. Credete che vi piacerebbe leggere nelle menti? Ripensateci.
Perché la sete di queste storie? Sempre che sia sete. Forse è piuttosto prepotenza. Forse vogliamo solo avere il controllo, della vita, a prescindere da chi l'abbia vissuta.
Se ci sono foto è meglio. Le persone là dentro non hanno più le scelte – prendi questa, scarta quella. Coloro che hanno vissuto le vite in questione hanno avuto le loro occasioni, che per lo più hanno sprecato.
Oh, no. Non di nuovo lui. È il sogno dei vestiti. Sono cinquant'anni che lo faccio. Un corridoio dopo l'altro, un camerino pieno d'abiti dopo l'altro, una rastrelliera metallica dopo l'altra che si stendono a perdita d'occhio sotto il bagliore delle luci fluorescenti – un sogno altrettanto chiassoso ed esagerato e inquietante, e in conclusione tetro e opprimente, di quelli che fa un vecchio fumatore di oppio.
«Voglio solo essere come tutti gli altri» ho detto.
«Ma non lo sei» è quello che mi ha detto lui. «Non sei come loro».
«Perché no?» ho chiesto. Ero incline ad ascoltarlo. Aveva modi persuasivi.
«Perché ti amo».
«Tutto qui?»
«Non sono mica uno qualunque» ha detto.
«Nessuno lo è» ho ribattuto.
La persona che hai in mente si è persa. È questa l'idea che mi sto facendo. Lui crede di essersi perso nel bel mezzo di una foresta impenetrabile. Ha la testa piena di alberi. Di rami contro cui va a sbattere. Di rovi in cui si è impigliato. Di sentieri che non portano da nessuna parte.
Ho deciso di incoraggiare i giovani. Una volta non l'avrei fatto, ma ormai non ho niente da perdere. I giovani non sono miei rivali. I pesci non sono rivali delle pietre.
Ho avuto in dono la voce. Questo è quanto diceva di me la gente. Ho coltivato la mia voce, perché sarebbe stato un peccato sprecare un simile talento. Mi immaginavo questa voce come una pianta in una serra, qualcosa di lussureggiante con le foglie lucide e il termine tuberoso nel nome, e di notte un profumo muschiato. Mi assicuravo che alla voce fossero garantiti la giusta temperatura, il giusto grado di umidità, la giusta atmosfera. Placavo le sue paure; le dicevo di non tremare. La curavo, la allenavo, la guardavo arrampicarsi all'interno del mio collo come una pianta rampicante.
La mia voce fioriva.
Basta foto. Ce ne sono sicuramente abbastanza. Basta ombre di me stessa proiettate dalla luce su pezzi di carta, su quadrati di plastica. Basta con i miei occhi, bocche, nasi, stati d'animo, brutte angolazioni. Basta sbadigli, denti, rughe. Soffro della mia molteplicità.
I. Come spiegano in fretta le vele gli orfani! La pistola dello starter non fa in tempo a fare fuoco che già volano via! I loro yacht sono più affusolati, le loro linee più eleganti delle nostre – delle nostre pesanti chiatte. Non trascinano ancore, non trasportano zavorra, buttano tutti i bagagli a mare e l'unica bandiera che issano è sempre bianca. Non c'è da stupirsi se schizzano fuori dalla baia davanti a tutti gli altri, non c'è da stupirsi se doppiano il capo così alla svelta! Ma ora che succede? Non manterranno la rotta, non giocheranno secondo le regole ben concepite, disprezzano il premio. Si dirigono verso il mare aperto. Fanno vela verso il sole. Sono spariti.
Ti saresti aspettato una strada, un fiume, una barca, un cancello, un guardiano. Ed erano tutti là, ma niente era come te l'eri immaginato. La strada non si distingueva da molti dei marciapiedi su cui ti eri trascinato tanto spesso: colate di calcestruzzo, sporche come sempre – gomme da masticare indurite, sputi freschi, di tanto in tanto qualche escremento di cane. Avevi i piedi stanchi – di chi erano le scarpe che portavi? – ma non c'era un posto dove sedersi.
Abbassa di più l'orecchio, avvicinalo. Copri l'altro con una mano. Pensa alle conchiglie. Ecco. Adesso puoi sentirmi.
C'erano una volta, dici, dei germi con le corna. Vivevano nel bagno ed era possibile eliminarli solo con litri e litri di candeggina. Bevendola ci si poteva suicidare, e certe donne lo facevano.
I giovani alzano lo sguardo su di te con gli occhi spalancati. O forse abbassano lo sguardo su di te: sono diventati molto alti. Quanto sono giovani i giovani, di questi tempi? Dipende. Alcuni di loro sono piuttosto vecchi. Ma ti credono ancora, perché tu eri qui, tanto tempo fa, e loro no.
Quando eravamo piccole Helen viveva in fondo alla mia strada. Vendevamo Kool-Ade nella veranda davanti di casa sua, e doveva essere sempre lei a portare il bicchiere giù dai gradini, con le ciglia abbassate e quel fiocco rosa tra i capelli, procedendo a passettini come se camminasse sulle uova. Credo che nascondesse qualche nichelino nel palmo della mano, visto che non era proprio un esempio di onestà. So che adesso è famosa e tutto, ma allora era una rompipalle, e continua a esserlo.
Salomè seguiva l'insegnante di religione. Era davvero meschino da parte sua, lui non era certo alla sua altezza, aveva meno senso di autoprotezione di una zucchina, sempre a sproloquiare sulla moralità e via dicendo, ma poi al supermercato tastava i pompelmi in quel modo subdolo, un pompelmo in ogni mano, se ne stava là quasi sbavando, uno di quegli uomini dall'aria desolata che cadrebbero in ginocchio se mai una donna li guardasse sul serio, solo che finora nessuna l'aveva fatto.
Fin da piccolo ho capito che la mia ambizione era quella di comparire in una trama. O in parecchie trame – ci pensavo come a una carriera. Ma non mi è capitata nessuna trama. Devi fare domanda, mi ha detto un amico. Era una persona di mondo, anche se personalmente non era comparso in nessuna trama, perciò ho accettato il suo consiglio e sono andato alla fabbrica delle trame. Come per qualsiasi altra cosa, bisognava fare un colloquio.
Un paese ha bisogno di una qualche risorsa, e il nostro non ne ha. Niente pozzi di petrolio, niente giacimenti di minerali, niente diamanti, niente foreste, niente ricco soprassuolo, niente fiumi impetuosi utilizzabili per l'energia elettrica. Come potremmo avere simili risorse, bloccati come siamo in pieno oceano su uno sterile blocco di geologia infestato dalle capre in un punto equidistante da qualsiasi luogo di una certa importanza?
Il nostro gatto è stato assunto in cielo. Le altezze non gli erano mai andate a genio, così ha provato ad affondare gli artigli nel serpente invisibile, nella mano gigantesca o nell'aquila, qualunque cosa fosse a sollevarlo in quel modo, ma non ha avuto fortuna.
Alla fine è arrivato in paradiso, che era un grande campo. C'era un'infinità di affarini rosa che correvano di qua e di là e all'inizio li ha scambiati per topi. Poi ha visto Dio appollaiato su un albero.
Chicken Little leggeva troppi giornali. Ascoltava troppa radio e guardava troppa televisione. Un giorno qualcosa scattò dentro di lui. Quale fu la goccia che fece traboccare il vaso? Difficile a dirsi, ma di qualunque cosa si trattasse non avrebbe dovuto dare in escandescenze. Tanti di fronte a certe cose non fanno una piega, ma non Chicken Little. Lui prendeva sempre fuoco alla svelta. Corse lungo la strada pigolando a squarciagola. Il cielo sta cadendo! pigolava.
Hanno clonato il tilacino. Hanno estratto da un osso un po' di DNA e hanno tolto il nucleo a un ovulo di diavolo della Tasmania e hanno messo il DNA dell'osso di tilacino nell'ovulo, e quello è cresciuto, e lo hanno impiantato, e non ha funzionato, e ci hanno provato ancora, ancora, ancora, e hanno tentato in modo leggermente diverso, e hanno apportato piccole modifiche, e finalmente hanno clonato il tilacino.
I.
Fu l'orso a cominciare. Disse: | mi libererò dal gioco. | Non sono Orso, L'Ours, Ursus, Baar | o qualsiasi altra sillaba | mi abbiate affibbiato. | Dimenticate gli arazzi dei castelli, | dove sono trascinato in catene ricamate, | e le glorie scarlatte della caccia | che gloriosa era solo per voi, | voi con le vostre mazze e i vostri randelli.
I. Verme Zero
In questo romanzo muoiono tutti i vermi. Inclusi i nematodi. E tutto ciò che ha la forma del verme ma potrebbe anche non essere un vero verme. Dovrei includere i bruchi? E le larve? Ne saprò di più una volta che mi sarò dedicata anima e corpo a questa faccenda.
II. La spugna micidiale
In questo romanzo una spugna situata su un banco di sabbia vicino alla costa della Florida comincia a crescere a ritmo vertiginoso. Ben presto ha raggiunto la spiaggia e avanza gocciolando nell'entroterra, ingoiando cammin facendo i condomini e le comunità recintate sulla spiaggia. Nulla riesce a fermarla. Non dimostra alcun rispetto per i blocchi stradali, per la polizia statale e nemmeno per le bombe. Una spugna che si scatena è un nemico formidabile. Non ha un sistema nervoso centrale, come noi.
III. Tuffoscarafaggi
L'ho sentito come in sogno. «Tuffoscarafaggi». Ho spesso certe intuizioni, certi doni dell'Ignoto. Mi vengono e basta proprio come in questo caso.
Quella parola – sempre che lo sia – potrebbe sembrare alquanto sbalorditiva sulla sopraccoperta di un libro. Meglio «Il tuffo degli scarafaggi», in quattro parole? O forse «La caduta degli scarafaggi»? O magari «La discesa degli scarafaggi», che avrebbe un tocco più letterario?
I. «Signore, i loro cannoni hanno aperto una falla nella nave. Al di sotto della linea dell'acqua. L'acqua si sta riversando nella stiva, signore».
«Non startene là, testone! Taglia un pezzo di vela, tuffati, turala!»
«Signore, non so nuotare».
«Porco diavolo, accidenti a te, quale balia ti ha lasciato prendere il mare? Non c'è niente da fare, dovrò pensarci io. Tienimi la giacca. Spegni quel fuoco. Togli di mezzo quegli alberi».
«Signore, una cannonata mi ha maciullato le gambe».
«Be', fai del tuo meglio».
Tutti noi li abbiamo: il palazzo con la cupola, tardo vittoriano, solida muratura, facciata con leoni di pietra; le case in mattoni, a tre piani, con o senza trafori, di legno, o ferro dipinto, che ora hanno raffinate targhe smaltate o di bronzo con la parola Storica e si possono visitare tutti i giorni tranne il lunedì; le rose, grandi, di una varietà che prima qui non c'era.
La Casa dell'Eredità è la casa in cui conserviamo l'Eredità. Non è stata costruita per questo – una volta era un posto in cui la gente viveva davvero – ma là dentro ogni operazione era scomoda, per l'acqua c'era il pozzo, per la luce c'erano lampade a olio e candele di sego e per il riscaldamento c'era un caminetto di pietra, e poi c'erano i vasi da notte da vuotare e le vasche da bagno di latta da riempire. Era anche difficile tenere pulite le stanze. Perciò la gente ha costruito nuove case, con tubature e così via, ma la Casa dell'Eredità non è stata abbattuta, e quando abbiamo deciso di avere un'Eredità abbiamo convenuto che la Casa dell'Eredità era un buon posto dove accumulare le cose.
Ridateci la mamma, | la mamma che faceva il pane nel suo lindo grembiule a quadretti, | tale e quale ai grembiuli che le cucivamo | durante le lezioni di economia domestica | per farle un'improvvisata | alla Festa della Mamma -
Assentati per un poco dalla felicità, e in questo mondo feroce respira soffrendo per raccontare la mia storia[10]
Queste furono le ultime parole che mi rivolse Amleto. Be', quasi le ultime. Allora ignoravo che non si trattava di una richiesta ma di un ordine – anzi, di un'astuta e perversa maledizione. Sarei stato condannato a rimanere in vita finché non avessi davvero raccontato la storia.
Dopo essere stato deposto dalle rane, Re Travicello giaceva sconsolato tra le felci e le foglie morte poco lontano dallo stagno. Aveva avuto appena la forza di rotolare fin lì: era stato Re dello Stagno talmente a lungo da essersi impregnato d'acqua. In lontananza sentiva il gracchiare esultante e il gioioso trillare che annunciavano l'incoronazione del suo illustre successore, l'esperto ed efficiente Re Cicogna; e poi – gli parve neanche un secondo dopo – le grida di terrore e gli schizzi sollevati in preda al panico mentre Re Cicogna cominciava a trafiggere e a inghiottire i suoi nuovi sudditi.
Camminare non era abbastanza veloce, così abbiamo corso. Correre non era abbastanza veloce, così abbiamo galoppato. Galoppare non era abbastanza veloce, così abbiamo navigato. Navigare non era abbastanza veloce, così siamo sfrecciati allegramente su lunghi binari di metallo. I lunghi binari di metallo non erano abbastanza veloci, così abbiamo guidato. Guidare non era abbastanza veloce, così abbiamo volato.
Mangiavamo gli uccelli. Li mangiavamo. Volevamo che le loro canzoni montassero su per le nostre gole ed erompessero dalle nostre bocche, e così li mangiavamo. Volevamo che le loro piume spuntassero dalla nostra carne. Volevamo le loro ali, volevamo volare come loro, librarci liberamente tra le cime degli alberi e le nuvole, e così li mangiavamo.
È successo qualcosa. Ma come? È stato di punto in bianco, o ci si è avvicinato di soppiatto e ce ne siamo accorti solo ora? Sono le fanciulle, le fanciulle giovani e graziose. Una volta cantavano come sirene, metà donne e metà pesci, tutte melodie briose, dolci e liquide, melodie modulate, ma ormai sono state private delle melodie, sebbene le loro bocche continuino ad aprirsi e a chiudersi come prima. Hanno tagliato loro la lingua?
Le persone muoiono, e poi ritornano di notte mentre dormite. Quando avrete la mia età vi accadrà più di frequente. In sogno sapete che sono morti; la cosa strana è che lo sanno anche loro. I posti consueti sono una barca o un bosco; meno spesso una capanna o una fattoria isolata e, ancora più di rado, una stanza. Nel caso della stanza, spesso c'è una finestra; se c'è una finestra, ci saranno delle tendine – bianche – o pesanti tendaggi, anch'essi bianchi.
Essere un signore della guerra è il sogno dei ragazzi di tutto il mondo. Si punta il dito, si dice Bang e si fanno secche migliaia di persone. Per lo più, da grandi questi tiratori scelti diventano dentisti. Se però siete nati sotto il dominio di un signore della guerra, vi aspettano solo tre tipi di futuro. Fare il guerriero e morire servendo il signore della guerra. Deporre il signore della guerra e diventare a propria volta signore della guerra. Essere qualcuno che per definizione non può fare il guerriero – una donna, un sacerdote, un sarto con una gamba sola.
Sei in una tenda. Fuori c'è spazio e fa freddo, molto spazio, molto freddo. È una landa risonante di urla. Una landa con rocce, e ghiaccio e sabbia, e profonde fosse melmose in cui potresti affondare senza lasciar traccia. Ci sono anche rovine, molte rovine; dentro e intorno alle rovine ci sono strumenti musicali rotti, vecchie vasche da bagno, ossa di mammiferi terrestri estinti, scarpe senza i loro piedi, pezzi di auto. Ci sono arbusti coperti di spine, alberi nodosi, venti impetuosi. Ma tu hai una piccola candela nella tua tenda. Puoi stare al caldo.
Il tempo si ripiega, ha detto lui, intendendo dire che il tempo va avanti e andando avanti si deforma, nel caldo estremo, nel freddo estremo, e ciò che è passato da un pezzo si fa più vicino. Si può dimostrarlo pieghettando un nastro e infilandoci una puntina: il Punto Due, un tempo a vari metri di distanza dal Punto Uno, ora si troverà proprio accanto ad esso. Il tempo/lo spazio è un accordo, ma senza la musica? La sua era un'enunciazione di fisica dura?
Te lo ricordi. No, l'hai sognato. Nel sogno si soffocava, e si affondava, e c'era un senso di vuoto. Ti sei svegliato dal tuo incubo ed era già successo. Era tutto sparito. Tutto e tutti – padri, madri, fratelli, sorelle, i cugini, i tavoli e le sedie, i giocattoli e i letti – tutto spazzato via. Non ne rimane nulla. Non resta nulla tranne la spiaggia devastata e il silenzio.
Le cose si mettono male: lo ammetto. Peggio di quanto non accada da anni, da secoli. Peggio che mai. Pericoli incombono da tutte le parti. Ma potrebbe ancora aggiustarsi tutto.
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