dirigente sportivo, allenatore di calcio e calciatore italiano (1942-) Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Dino Zoff (1942 – vivente), allenatore di calcio, dirigente sportivo ed ex calciatore italiano.
Citazioni in ordine temporale.
[Sul campionato di Serie A 1972-1973] Non abbiamo avuto nemmeno il tempo di prepararci psicologicamente a questo trionfo. Ci renderemo conto solo domani dell'enorme importanza del successo. Pensavo che il Verona potesse fermare il Milan, ma non avrei mai immaginato che avrebbe infilato cinque gol ai rossoneri. Sulla legittimità dello scudetto nessun dubbio: quest'anno abbiamo effettuato due rimonte sensazionali.[1]
[Su Gaetano Scirea] [...] un uomo che non ha mai avuto abbastanza da parte di nessuno.[2]
Io sono un portiere, un portiere deve essere attento, deve prevedere...quando sono al mare d'estate e sono seduto sotto l'ombrellone leggo, ma quasi sempre con un occhio solo. Con l'altro guardo oltre e quando vedo quelle signore che fanno il bagno con i bambini dove ci sono trenta centimetri d'acqua e loro chiacchierano voltate dall'altra parte, io sto pronto a intervenire perchè so che è un attimo solo, che se uno inciampa e beve può annegare anche in trenta centimetri d'acqua. Io sono un portiere, il portiere deve sempre prevedere quello che potrebbe succedere.[3]
Io? Sono un operaio specializzato. Diciamo molto specializzato ma un operaio.[4]
[Su Giacinto Facchetti] Ho uno splendido ricordo di Giacinto. Abbiamo giocato in Nazionale insieme per tanto tempo. Un ragazzo straordinario, non si poteva non volergli bene.[5]
Ho sempre desiderato essere portiere, forse perché in campo il portiere è un uomo solo e a me piacciono gli sport individuali.[6]
[Sull'equipaggiamento calcistico] [...] io volevo solo il nero o il grigio. La nuova tendenza non mi piace affatto, e credo che almeno la prima maglia andrebbe rispettata al cento per cento. Poi, mi rendo conto che esistono pure gli sponsor. Il mondo cambia, però a me sembravano poco serie persino le maniche corte: ero un portiere, mica andavo al mare.[7]
[Dopo la vittoria del campionato mondiale di calcio 1982] Ero rimasto allo stadio più degli altri per le interviste e tornai in albergo non con le guardie del corpo, come succede oggi, ma sul furgoncino del magazziniere. Gaetano mi aspettava. Mangiammo un boccone, bevemmo un bicchiere, ci sembrava sciocco festeggiare in modo clamoroso: mica si poteva andare a ballare, sarebbe stato come sporcare il momento. Tornammo in camera e ci sdraiammo sul letto, sfiniti da troppa felicità. Però la degustammo fino all'ultima goccia, niente come lo sport sa dare gioie pazzesche che durano un attimo, e bisogna farlo durare nel cuore. Eravamo estasiati da quella gioia, inebetiti. [...] Gaetano torna sempre. Lo penso a ogni esagerazione di qualcuno, a ogni urlo senza senso. L'esasperazione dei toni mi fa sentire ancora più profondamente il vuoto della perdita. Gaetano mi manca nel caos delle parole inutili, dei valori assurdi, delle menate, in questo frastuono di cose vecchie col vestito nuovo, come canta Guccini. Mi manca tanto il suo silenzio.[8]
Gaetano? Un uomo straordinario e un calciatore straordinario. Un esempio di stile e classe sia in campo che fuori. Con lui abbiamo condiviso tanti momenti, in ritiro stavamo sempre nella stessa stanza. Ricordo che durante i Mondiali di Spagna Tardelli non riusciva a prendere sonno la notte prima delle partite. Per rilassarsi veniva in camera nostra; la chiamava la "Svizzera" perché era il posto più tranquillo del ritiro. Nel nostro modo di stare insieme, del resto, non avevamo bisogno di troppe parole, quasi sempre bastava uno sguardo. Sarebbe stato un ottimo allenatore, se ne avesse avuto l'opportunità: sapeva convincere, gli piaceva insegnare. Il calcio di oggi gli sarebbe piaciuto, anche se non era il tipo da rincorrere miraggi di protagonismo. Non sarebbe mai diventato un "personaggio" da copertina, ma avrebbe saputo farsi ascoltare da tutti. Il suo erede? Fino a ieri Paolo Maldini, oggi non saprei.[9]
[Su Enzo Bearzot] Quando si hanno dei principi come li aveva lui diventa facile compattare un gruppo, lui era un esempio per tutti.[10]
[Su Enzo Bearzot] Era un uomo vero, una grande persona. Ricordo che dopo le partite si fermava a parlare con i tifosi, spiegava le sue scelte, parlava di calcio, spesso rischiava di farci perdere il volo, allora mi toccava scendere dal pullman per portarlo su e partire.[10]
[«Perché lei passa per musone?»] Perché le parole di troppo sono fumo. Perché non mi è mai andato di giudicare, di criticare, di dire bugie pur di dire qualcosa. Perché la banalità uccide, invece il silenzio fortifica.[11]
Io ho sempre tolto invece di aggiungere, ho cercato di semplificare i gesti, le modalità, per arrivare all'osso delle cose.[11]
[Sulle parole di Antonio Cassano che aveva definito come «soldatini» i giocatori della Juventus] Questa è un'offesa che Cassano avrebbe dovuto risparmiare perché se fossero tutti come i Cassano la Juve non avrebbe quel curriculum di successi, di campionati e Coppe.[12]
Lo stile Juve si avvicina a un decalogo non scritto dei doveri dello sportivo professionista. Non è un di più che ha la Juve, è qualcosa che manca agli altri.[13]
Uno che mi piaceva moltissimo era Antonio Juliano, Totonno. Un tipo tosto, persona autentica, con un temperamento da condottiero. Giocava un calcio concreto, senza concedere spazio alla teatralità. Un "napoletano atipico", lo hanno definito, perché era il contrario dello stereotipo partenopeo.[14]
Quello del portiere è un ruolo di responsabilità, di concretezza, di prevenzione, un qualcosa a parte rispetto agli altri calciatori: devono lottare contro tutti e con sé stessi.[15]
[Su Antonio Juliano] Era un uomo di poche parole, ma le diceva sempre giuste.[16]
[Su Antonio Juliano] Un capitano vero. E in questa parola c'è tutto ciò che di meglio si può dire su Antonio [...][17]
Citazioni non datate
[Sulla Juventus Football Club 1972-1973] C'erano Causio, Haller, Bettega. La velocità insieme alla fantasia, la classe mescolata al dinamismo. Dopo arrivò gente come Benetti e Boninsegna, che aumentò forza fisica ed esperienza del gruppo. Ma quella prima Juve mi è rimasta nel cuore.[18]
Giuseppe Moro rimane un grande artista della porta, un vero e proprio mito. L'ho visto giocare poche volte e solo quando era già alla fine. Quando seppi della morte di Moro, mandai a Treviso, in segno di stima e di riconoscenza, la mia maglia della Nazionale. Fu un gesto istintivo, da parte mia, perché nel gennaio del '74 quella era una maglia imbattuta da anni e Giuseppe Moro, che l'aveva onorata, era degno di indossarla come nessun altro.[19]
Citazioni in ordine temporale.
[...] quella del Mondiale [1982] è stata davvero una favola, dall'inizio stentato, poi sempre più travolgente, fino all'ultimo atto vittorioso del Bernabeu. Sì, davvero una favola. [«La Coppa del Mondo potrebbe essere l'equivalente dell'Oscar per il cinema. E tu l'avevi blindata quella coppa proprio perché uno che si chiama Oscar aveva attraversato il tuo destino...»] È vero, quella parata su Oscar nel finale della partita col Brasile me la rivedo spesso davanti agli occhi. E pure lui la rivede, me l'aveva rivelato [...]. Sì, quella parata ci aveva permesso d'andare avanti. Ma un mondiale, visto che si gioca ogni 4 anni, vale molto di più di un Oscar del cinema.[20]
Il calcio è quello dei 90 minuti, del vinca il migliore, della competitività. Non di ciò che gli sta attorno. Conta il campo anche se la tecnologia ha un ruolo sempre più determinante. In alcuni casi è utile, in altri alimenta soltanto polemiche.[20]
Sapore di mare
Intervista di Stefano Germano, Guerin Sportivo nº 33 (451), 18-23 agosto 1983, pp. 41-43.
[«[...] come si sta lontani dal calcio?»] Malissimo: io, infatti, ormai mi ero abituato a sudare mentre gli altri si godevano mare e montagna per cui trovarmi qui a non far niente mi fa sentire strano. Poi sono triste perché sono ancora talmente vicini gli anni in cui in giorni come questi cominciavo a preparare la stagione agonistica successiva che evidentemente non mi sono ancora abituato alla... pensione.
[«Cosa le manca di più in giornate come queste?»] Il pensiero rivolto al futuro; la consapevolezza, cioè, che per ogni goccia di sudore caduta sul campo, di lì a poco ci sarebbe potuta essere una bella parata, oppure una sicura presa in più. E poi, per chi come me è sempre stato un protagonista, entrare nell'anonimato è una cosa che riesce difficilissima.
[«[...] cos'ha provato quando la Juve ha perso la finale di Atene in Coppacampioni?»] Un dolore enorme e una rabbia ancor più grande perché la conquista del titolo europeo per club sarebbe stato il più degno coronamento di una carriera che comunque mi ha dato grosse sodisfazioni. Quando ho visto il tiro di Magath chiudere la sua traiettoria in fondo alla rete ho pensato che ce l'avremmo ugualmente fatta a raddrizzare la situazione. Poi, mentre il tempo passava, cresceva in me la rabbia [...]
Direi che di bestie nere non ne ho mai avute, o meglio ne ho avute tante anche perché ho giocato tanto...
[...] con campione si comprende tutto: qualità tecniche e doti umane.
[«Durante i Mondiali, l'Italia intesa come nazione, si identificò nell'Italia intesa come squadra: perché?»] Per varie ragioni ma credo che la principale sia che lo sport è rimasto una delle poche cose pulite che ci siano al mondo; oppure perché, dopo averci dati per eliminati, siamo riusciti a risalire a galla; o anche infine perché soprattutto con un popolo come il nostro che manca di senso delle proporzioni, passare dall'abbattimento all'esaltazione è la cosa più semplice che ci sia.
Il sorriso di Dino
Intervista di Ivan Zazzaroni, Guerin Sportivo nº 44 (768), 1º-7 novembre 1989, pp. 26-30.
Posso apparire serioso, certo. Non vedo però perché mai dovrei prendere il mio lavoro allegramente. Per dire, giudicando una partita (quindi lavorando) non sono capace di ridere. [...] Ho un equilibrio sempre vigile che non mi permette di uscire da una linea comportamentale definita, perché naturale. Non riesco a non trattenermi.
Se l'onestà è un difetto, allora sono entusiasta di avere dei difetti.
Non ho mai venduto fumo [...]. Ho invece sempre dovuto combattere per mantenere il posto. Ho vissuto una vita nel calcio con le mie idee, i miei atteggiamenti e credo di aver rappresentato un esempio per molti: di comportamento, di vera sportività. [...] Moltissimi allenatori sono pronti a dichiarare "questa è la mia squadra" quando vince e a rinnegarla con altrettanta disinvoltura quando perde. Io no: è mia in entrambi i casi.
Non sono abituato a fare proclami. L'unico "proclama" vero è il rettangolo verde.
Non mi sono mai considerato migliore di qualcuno. Sono arrivato a 41 anni giocando sempre ad alto livello perché ho badato solo a me stesso, a migliorarmi giorno per giorno.
L'allenatore opera delle scelte tecniche. Se poi il calciatore è valido anche sul piano umano, ha una garanzia in più di successo.
[«Da portiere a allenatore, come è cambiato il suo rapporto col calcio?»] Non è cambiato. Il calcio è un'espressione della vita. Immutabile per chi lo vive come lo vivo io.
[Su Gaetano Scirea] Mi fa incazzare il fatto che abbia ricevuto gli onori "giustamente" solo dopo la sua morte. Prima non compariva mai sui giornali. L'avevano dimenticato. Vuole sapere qual è la verità? Il buono, il corretto, l'uomo vero è banale. [...] Ma allo stesso tempo mi riempie di gioia sapere che c'è una maggioranza silenziosa che ogni giorno gli fa visita, gli porta un fiore, raccoglie l'esempio.
[«È vero che lei – così schivo, così riservato – ha persino "condizionato" le sorti del giornale per il quale scrivo?»] Credo più modestamente di avere aiutato l'allora direttore Italo Cucci a impostarlo in un certo modo. Ricordo una sera del giugno '75, a Mosca. Dopo una partita con l'Unione Sovietica persa per uno a zero, mi ritrovai a cena con Italo. Sul tavolo, tanta vodka e tantissima franchezza. Gli suggerii di andare controcorrente, di evitare le polemiche che riempivano i quotidiani [...]. Cucci la pensava come me e raccolse volentieri il mio invito. Nacque un giornale "pulito", che esaltava la parte sana dello sport: ebbe successo.
«Memorabili quegli anni»
Intervista di Marco Tarozzi, Calcio 2000 nº 29, aprile 2000, pp. 27-33.
I miei anni Quaranta sono stati quelli di un bambino che cresceva sano e tranquillo in un paese. La guerra? Mentirei se dicessi che mi toccava, è finita quando avevo appena tre anni, mi ha sfiorato e non ho fatto in tempo a comprenderla. [...] È stata una fortuna, quella di nascere in un piccolo paese di campagna.
Già allora mi piaceva giocare in porta. Non so da cosa sia nata, la passione. Non certo dalla televisione, che allora non portava immagini di calcio nelle case come succede adesso. Semplicemente, mi scelsi quel ruolo. E per tutti i compagni, quando si giocava, ero Dino, il portiere. Questo mi rendeva orgoglioso. Si sa come succede, di solito, in questi casi: in porta ci va il più scarso della compagnia. Non era il mio caso: io venivo proprio scelto, come numero uno. E ne ero felice.
A casa mia, non era concepibile che uno potesse pensare a un futuro come calciatore. Mamma e papà erano stati chiarissimi: o studi, o impari un mestiere; poi, se davvero ci sai fare, giochi a pallone. Così è stato. E così doveva essere, non ho mai dimenticato di ringraziarli per avermi fatto fare la scelta giusta.
Ho sempre considerato questo mestiere da dilettante. Proprio così, è la parola giusta. Mi sono sempre considerato un dilettante del pallone, anche nei momenti importanti della mia carriera, anche quando ho fatto il professionista ad alto livello. [...] Il calcio io l'ho attraversato a tavoletta.
Mi piaceva mettere le mani dentro ai motori. Non avessi fatto il calciatore, sarebbe stato il mio futuro, probabilmente. Ma non è andata così.
Me li ricordo tutti, quei primissimi minuti in campo. E più di tutti, quei conque gol sul groppone che poi rividi al cinema, in uno di quei cinegiornali che andavano allora nell'intervallo del film. Mi rimpicciolivo nella poltroncina, perchè nessuno mi riconoscesse.
Dovevo finire al Milan. C'era un accordo verbale, sembrava cosa fatta, ed ero entrato nell'ottica di fare quel minimo spostamento da Mantova a Milano. All'ultimo momento, sorsero problemi, l'affare andò in fumo. Finii a Napoli, praticamente fuori tempo massimo.
Il fatto è che le critiche io le ho ricevute da sempre. Ho imparato che per evitarle ho una sola soluzione: devo vincere, vincere sempre. Funziona così.
[Sulla finale del campionato mondiale di calcio 1982] Là, in mezzo al Bernabeu, con la Coppa finalmente tra le mani, arrivai a capire cos'è la felicità. Ero così felice che quando salii sul palco baciai la regina di Spagna. Probabilmente l'etichetta non lo consentirebbe, ma in quel momento le etichette chi se le ricordava più?
[Su Enzo Bearzot] Solo lui poteva arrivare a quella vittoria. Solo un uomo così, di grande coraggio, di intelligenza infinita, di profondo sapere. [...] Fu Bearzot a trasmetterci serenità, tranquillità. Quel Mondiale è stata davvero la sua vittoria personale.
[Sulla finale del campionato europeo di calcio 2000] Una questione di venti secondi fra il trionfo e la caduta. L'avevamo in pugno, quel titolo. Evidentemente, era scritto che dovessimo pagare un pegno alla sorte, dopo che ci aveva aiutato nella semifinale contro l'Olanda.
Intervista di Walter Veltroni, corrieredellosport.it, 12 settembre 2015.
[«E cosa le manca del calcio dei suoi anni?»] Mi mancano comportamenti meno esasperati. Mi piacerebbero meno creste sui capelli e più lanci di quaranta metri o dribbling riusciti. Meno scene quando si prendono i colpi. Mi indignano i balletti dopo i gol, è una mancanza di rispetto per l'avversario. Se li avessero fatti ai miei tempi dubito che avrei fatto 330 partite senza mai essere espulso. Mi sembra che la telecamera ormai sia diventata più importante del campo.
[Sugli inizi] Da quando avevo cinque anni ho cominciato a giocare in porta. Non so perché volevo stare in quel ruolo. Non avevo idoli o modelli, la prima partita in TV l'ho vista di straforo nel 1954. I grandi mi facevano giocare con loro, sapevano che ero bravino. Ma ero molto timido e ogni tanto mi facevano un po' di bullismo, per esempio mi tiravano sempre dal lato in cui c'era più fango. Perché c'era tanto fango, dove giocavamo noi.
[«Perché sentì di fare proprio il portiere?»] Me lo sono sempre chiesto. Ma in fondo è quello che più mi assomiglia, caratterialmente. Il portiere ha una immensa responsabilità, è l'unico che non può sbagliare. E però di quella responsabilità, se è bravo, conosce la gloria.
[«Lei non ha mai amato le magliette sgargianti»] A me non importava della foto o dell'immagine TV. Io mi occupavo solo del campo. Diversamente dagli inglesi che pensavano che la maglia gialla attirasse l'attaccante, [...] io mi ero convinto che non dovessi dare punti di riferimento ai tiri avversari e che perciò nero, grigio o beige, in Nazionale, fossero l'ideale.
[Sugli anni al Mantova] Arrivò Santarelli, portiere storico dei felsinei. Io ero il secondo portiere, troppo giovane per essere il primo [...] A quei tempi si davano undici premi partita ai titolari e altri tre o quattro che venivano divisi tra gli altri giocatori della rosa. Santarelli un giorno mi chiamò e mi disse "Senti, facciamo così, noi portieri, mettiamo i nostri premi in un fondo unico e poi lo dividiamo a metà". Io fui onorato e colpito da tanta generosità. Solo che aveva visto lungo lui, non io. Infatti giocai 30 partite io e 4 lui. Si faccia un conto chi ci guadagnò da quell'accordo...
Forse era destino che io andassi alla Juventus. Pensi che nel 1962 giocavo con l'Udinese contro i bianconeri e mi ero messo, al solito, la mia maglia nera. Ma quel giorno anche loro erano vestiti in nero. Così fu Vavassori, portiere di riserva dei bianconeri, a dare al suo avversario la maglietta bianca con la v nera. Destino.
Stare alla Juve era come lavorare alla FIAT. Risultati, ordine, disciplina.
Ero sempre alla ricerca, da portiere, della semplicità. E della perfezione, che però non ho trovato. Cercavo di supplire con il piazzamento alla teatralità di un tuffo ad angelo. [...] Non come certi esteti che amano più la foto della parata. Pensi che una volta, all'Olimpico, durante un Inghilterra - Italia mi fecero un tiro che necessitava di un tuffo plastico per prendere la palla. Mi ricordo che, mentre ero in volo, già mi vergognavo.
[Su Paul Gascoigne] Genio e disperazione. Sembrava un jazzista, aveva un talento sconfinato unito a un'ansia di autodistruzione.
Intervista di Aldo Cazzullo, corriere.it, 5 novembre 2016.
[«Il tiro di Magath»] Dissero che avevo preso gol da 30 metri; ma era un tiro quasi dal limite dell'area. Adesso li chiamano eurogol; allora scrissero che ero cieco.
[«Gli arbitri vi aiutavano?»] Ma no. Non era facile giocare nella Juve: la squadra più odiata d'Italia. Firenze era una bolgia. A San Siro potevo resistere solo io: mi tiravano di tutto. Ogni volta rientravamo a Torino con i vetri del pullman rotti.
[«Oggi la Juve fa bene a rivendicare i due scudetti revocati?»] Così mi fa andare in crisi... [«Dino Zoff non va mai in crisi»] Le risponderò, allora. No, non fa bene. Ci sono delle regole. Ci sono delle sentenze. Al processo ci fu un'autoaccusa della Juve. E Moggi è stato condannato dalla giustizia sportiva.
[«Nella sua autobiografia Dura solo un attimo la gloria, lei scrive parole dure: "Ho fallito la mia missione", "non ho lasciato il segno". Perché?»] Ho sempre creduto nei valori dello sport, inteso come miglioramento dell'uomo. Oggi il calcio è uno spettacolo. Il nostro mondo ha sempre avuto una dose di furbizia; ma oggi il livello di furbizia arriva alla disonestà. Fregare l'arbitro con una sceneggiata, irridere l'avversario... oggi non potrei giocare 330 partite di fila. Se uno dopo un gol mi avesse fatto i balletti, alla prima uscita l'avrei sderenato. E sarei stato espulso.
[«In questi anni ha visto l'Italia migliorare o peggiorare?»] L'ho vista esagerare. Parlare troppo. Perdere sostanza, concretezza.
[«Lei si dimise da allenatore della Nazionale, dopo una finale europea persa ai supplementari, per un aggettivo: "Indegno". Pronunciato da Berlusconi»] Berlusconi era l'uomo più potente d'Italia. In federazione, Nizzola a parte, si adeguarono. Mi dissi: se ci attaccano dopo che abbiamo giocato bene, cosa faranno quando giocheremo male? Così mi dimisi. E in Italia le dimissioni sono un atto rivoluzionario. Fuori dal sistema. Puoi comprare un arbitro, puoi vendere una partita; il sistema ti riassorbe. Se ti dimetti, se ti chiami fuori, il sistema ti cancella. E non puoi fare la rivoluzione da solo. [«Con Berlusconi vi siete mai chiariti?»] Mai.
[«Zoff o Buffon?»] Gigi è esploso prima, io sono maturato col tempo. Ma certo non mi sento inferiore.
Intervista di Paolo Valenti, iogiocopulito.it, 15 maggio 2018.
L'Olanda di Cruijff era una novità calcistica che passò come novità tattica. In realtà il suo punto di forza erano i calciatori che aveva. Possedeva un bel gioco collettivo perché tutti i suoi interpreti erano di alta classe e ottima tecnica di base. Come sempre il gioco lo fanno i calciatori e lo dimostra il fatto che l'Olanda, una volta finita la generazione dei Cruijff e dei Neeskens, pur conoscendo gli schemi del calcio totale, ha dovuto aspettare i Gullit e i van Basten per riuscire a vincere. Le tattiche sono necessarie ma poi devono per forza passare da un gruppo di calciatori forti.
[«Per lei vale di più il titolo vinto [...] o il ricordo indelebile [...]?»] Io parto dal presupposto che nello sport contano i numeri, i risultati, il tempo che fa un centometrista. Poi magari l'alone che la stampa cerca di dare a determinate situazioni le fa ricordare meglio di altre.
Io sono all'antica: per me lo sport significa superare l'avversario. Poi nel calcio succede anche di essere molto forti e di non riuscire a vincere.
Da un'intervista a I Lunatici, Rai Radio 2; citato in tuttosport.com, 28 novembre 2019.
[Su Paul Gascoigne] Per me era una disperazione. Era un grandissimo artista che ha disperso la sua arte. Io ho sempre invidiato gli artisti, loro creano, i portieri non creano nulla. Mi faceva impazzire di rabbia, ero dispiaciuto per lui, ha buttato via la sua arte malamente [...]. Mi piangeva il cuore per lui. Si capiva già all'epoca purtroppo che una volta finito di giocare avrebbe avuto problemi. È una logica conseguenza. Se quando sei al massimo del tuo lavoro è facile che quando smetti le cose possano peggiorare. Un anno arrivò in ritiro [...] col codino e ingrassato di dodici chili. Ero disperato. Quando lo vidi arrivare al campo di allenamento chiesi chi fosse quel personaggio. Era Gascoigne. È il più grande dispiacere della mia carriera.
Da bambino avevo già il numero 1 tatuato sulle spalle. Sono all'antica, per me il portiere è sempre il numero 1, ora vedo che si utilizzano dei numeri a doppia cifra che non mi piacciono molto.
Ho sempre fatto il portiere, anche da bambino. Il pensiero di giocare nella rappresentativa del paese per me era già un successo.
Da giocatore sono sempre stato ipercritico. Non sono mai stato tranquillo, ho passato tante notti senza dormire anche se spesso non lo facevo vedere. Ero di una autocritica feroce. Mi chiedevo sempre se avevo fatto il massimo, mi sentivo sempre responsabile.
Intervista di Nino Materi, ilgiornale.it, 3 agosto 2023.
[«Allora Dino, più forte Zoff o Buffon?»] Da giovane più forte lui, da vecchio più forte io. Un giusto pareggio...
[...] il profumo dell'erba. Sì, l'odore verde del prato. Il portiere lo respira a ogni tuffo. Inebriante. Prima voli, poi atterri lì. E ti resta il sapore della libertà.
Le emozioni che si vivono da calciatore e da mister non sono paragonabili: le prime sono più intense e gratificanti.
[...] a me consigliarono di ritirami dopo Argentina '78. Poi, 5 anni dopo, vinsi la coppa del mondo. [«E baciò Bearzot...»] Avevamo appena battuto il Brasile. Lui stava rispondendo ai giornalisti. Io gli passai dietro e gli schioccai un bacio sulla guancia. Scena rara tra due friulani...
[«Ai vostri tempi non si diceva: "Quel portiere è bravo perché sa giocare coi piedi"...»] No. Io ancora oggi dico: Quel portiere è bravo perché esce con coraggio, blocca la palla, ha un buon piazzamento, sa dirigere la difesa... [...] la realtà rimane la stessa: se un portiere sbaglia, il pallone finisce in gol. La sua resta quindi la figura più determinante di una squadra.
Credo che, calcisticamente parlando, sia stato il più grande portiere italiano di tutti i tempi. Come persona, era dotato di un grande carisma e personalità. Non parlava molto, ma lo faceva sempre in modo intelligente. Era uno che preferiva i fatti alle parole. Un grandissimo, veramente. (Pierluigi Casiraghi)
Ecco uno che è sempre mancato a noi dell'Olanda. (Ruud Krol)
Io esempio di serietà e sportività come Dino Zoff? Avevo un gatto che avevo chiamato Dino perché, come lui, faceva le parate e poi era bianco e nero... (Sara Simeoni)
Non si scambiavano commenti. Nel buio della sala correvano voci incontrollate e pazzesche. Si diceva che l'Italia stava vincendo per 20 a 0 e che aveva segnato anche Zoff di testa, su calcio d'angolo... (Il secondo tragico Fantozzi)
Quando nel '73 fui convocato in Nazionale da Valcareggi e vidi giocare Zoff, capii subito tutto. Infatti gli parlai: Dino, io mi potrei addormentare su quella panchina, ho capito che titolare non lo sarò mai. Forse, Zoff ha smesso presto. Io lo ritengo il più forte portiere mai esistito. (Luciano Castellini)
Quando stavamo per prenderlo alla Juve si era infortunato. Per tentare di pagarlo meno, gli feci dire da Altafini che non giocasse troppo bene le ultime partite, così sarebbe stato più facile portarlo a Torino. Lui mi rispose: nemmeno per sogno. Se mi vuole sono così, altrimenti prenda un altro. Questo è Zoff. (Italo Allodi)
Zoff è stato un portiere carismatico, senza possedere nulla del protagonista. Era assente tra i pali, come un alunno seduto all'ultimo banco, mimetizzato con il muro. A chi pensava che fosse timido, rispondeva con gesti esatti, composti: insolito genio senza sregolatezza. (Alessandro Bonan)
Zoff era un friulano introverso, comandava quasi con i gesti, scuotendo la testa. È stato uno degli ultimi portieri «normali», dopo di lui il ruolo si è trasformato in una strada per super uomini, dieci chili e dieci centimetri in più. (Mario Sconcerti)
Zoff: se nelle faccende di sesso si comportasse come nel calcio, per uno come lui l'inerzia sarebbe un'orgia. (Franco Rossi)
Sapevo che sarei stato il 12esimo [alla Juventus], ma anche che Zoff non era più giovanissimo... Mi ha fregato. Doveva ritirarsi ed invece è andato avanti fino a 40 anni...
Arrivai alla Juventus quando Zoff aveva 38 anni e io 25: pensai che avrei potuto trovare spazio, considerata la sua età, e invece il grande Dino in quegli anni non solo ebbe stagioni strepitose, ma vinse pure una Coppa del Mondo per chiudere poi la carriera a 42 anni.
[Riferito al rapporto con Dino Zoff] Ci incrociammo la prima volta in un Napoli-Atalanta del gennaio 1972. Avevo 17 anni ed ero la riserva di Rigamonti tra i bergamaschi: Zoff si avvicinò e mi chiese se fossi un raccattapalle, poiché mi vedeva così giovane... Anni dopo eravamo in squadra insieme e abbiamo portato la Juventus a vincere tutto in Italia e nel mondo.
È la mancanza di retorica che rende difficile capire lo stile di Dino, amarlo.
È vero che il tempo passa, ma Zoff ha l'aria di fregarsene. E passato bene, questo tempo. Ha arricchito il campione di esperienza, lo ha reso tetragono perfino alle invidie. Suo padre e sua madre, in quel paesino del Friuli, non hanno mai fatto il passo più lungo della gamba, semmai più corto, come mi diceva il figlio che per parte sua non ha mai fatto stravaganze, si è rispettato e basta. E lo ha fatto come pochi italiani lo sanno fare, se è vero, com'è vero, che oggi il profilo dell'italiano è la pancia.
Il tuo carisma di campionissimo del calcio, ha fatto di te, Dino, un allenatore senza scuola, e senza testi, senza teorie, e senza dialogo: può bastare un'occhiata o un sorriso. Io so che tutto ciò è dolcissimo ed è la tua forza. Io so che tutto ciò è la tua grandezza, ed anche la tua infallibilità.
Nella leggenda è entrato con i fatti dei suoi primati: non mi ha mai divertito, ma mi ha sempre appassionato. [...] i primati di Zoff erano espressione del suo carattere, divenuto stile di uomo.
Non è detto [...] che un portiere, per essere bravo, debba volare. Zoff non volava, eppure è stato, secondo i critici che si accontentano dei numeri [...], l'unico portiere anche calciatore. [...] Io dico che Zoff come portiere è stato inferiore sia a Olivieri che a Sentimenti IV, però superiore ad ambedue come grana, grossa sopportazione dell'utile e misero quotidiano, diviso e condiviso dai compagni, buono e inalterabile, ma in fondo al cuore suo, nel nodo della sua terra furlàn, inconsolabile, tormentato e rompiballe. Questo è stato Zoff per chi non è superficiale, altro che un tranquillo.
Nulla meraviglia di Zoff e semmai meraviglia la sua sobrietà.
Un cognome titanico come la sua classe, col senso della parata istintiva, senza fronzoli, non si capisce facile perché facile è la sua classe, perché semplice è il suo stile.
Zoff è come uno di quegli alberi centenari sempre verdeggianti dalle profondissime radici e dalle tante anime. Definirlo l'uomo dei silenzi è ridicolo, perché quest'uomo è piuttosto difficile, rancoroso, scorbutico, cioè malcontento per natura, scettico su tutto, titubante, bisognoso di certezze assolute in ogni istante [...] giovanissimo e vecchissimo, arido e saturo di linfe segrete. Riuscì a fare il portiere di calcio nel Paese di tutti i voli, veri e fittizi, non volando quasi mai, e giocando non soltanto in porta, facendo avanzare il ruolo in tutti i sensi come coscienza e come scienza del calciatore. [...] Non è che non avesse difetti. Gli è sempre mancato, diciamocelo, quel pizzico di fantasia traducibile in colpo di reni che invece aveva un Albertosi; ma a parte questo, cosa gli mancava? Proprio nulla. In porta non andava soltanto un portiere, andava un grande uomo.
Zoff ha materiato il ruolo di portiere di un'essenzialità poco italiana, molto furlana forse, ma molto poco italiana lo stesso. Ma non è cambiato niente, perché Enzo Bearzot, furlan come lui, ad un cronista tedesco, per fissare in una frase chi è Zoff quarantenne, col massimo impegno cerebrale che gli consentono questi giorni tormentati, dice: "Zoff è un uomo di quarant'anni ma è un giocatore di ventanni", forse un po' retorico ma dà il senso.
↑ Citato in Gianni Mura, Non gioco più, me ne vado: gregari e campioni, coppe e bidoni, a cura di Andrea Gentile e Aurelio Pino, Il Saggiatore, Milano, 2013, p. 190. ISBN 88-4281-752-X.
↑ Da Dura solo un attimo, la gloria. La mia vita, Mondadori, Milano, 2014. ISBN 978-88-04-64587-0