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registro vocale Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
In musica il termine tenore definisce un tipo vocale e il cantante che lo possiede. Quello di tenore è il più acuto dei registri vocali maschili e la sua estensione è convenzionalmente fissata, per il repertorio solistico, nelle due ottave comprese tra il do2 e il do4, che è detto do di petto se eseguito di forza, come nella prassi moderna, e che rimane comunque una nota eseguita piuttosto raramente, tant'è che spesso l'estensione non supera il la3.[1][2]
Storicamente, l'estensione della voce di tenore ha subìto variazioni significative, con riferimento sia ai momenti storici differenti (cfr. baritenore), sia ai diversi tipi tenorili affermatisi nel corso del tempo nei vari paesi (cfr. haute-contre)
Il nome "tenore" viene dal verbo latino teneo, che significa "mantenere, far durare".
Nella musica medievale colta occidentale, il termine tenor non designava un registro vocale, bensì la parte fondamentale nelle composizioni polifoniche (cantus firmus). Questa parte ha usualmente un'estensione limitata (compatibile tanto con una voce di tenore quanto con una di baritono, secondo la classificazione odierna); a questa parte si aggiungono una o due voci, indicate come contratenor, che hanno in genere un'estensione decisamente più ampia, talora verso il basso (contratenor bassus) ma più frequentemente verso l'alto (contratenor altus, poi abbreviato in contra o in altus, da cui i termini moderni di contralto e controtenore[3]). Le parti di contratenor nella polifonia dei secoli XIV e XV richiedono estensioni varie, che possono andare dall'attuale baritono fino all'attuale contralto (anche in questo caso erano però destinate a voci maschili, che dovevano far uso sia del registro di petto che di quello di falsetto).
Nelle armonie a quattro voci tipiche dei corali, dal XVI secolo in avanti, la voce del tenore è la seconda a partire dal basso: seguono verso l'alto le voci femminili di contralto e di soprano.
Nel nuovo genere barocco del melodramma, al tenore, che manteneva comunque caratteristiche sostanzialmente baritonaleggianti, vennero in Italia assegnate parti di antagonista rispetto alla voce del castrato, oltreché (soprattutto nella seconda metà del Seicento) parti secondarie di caratterista, anche grottesche, come ruoli di donne anziane, laide e scostumate (eseguiti ovviamente in travesti).[4] In età romantica, in seguito alla progressiva scomparsa dei cantanti evirati, il tenore assunse nel melodramma il ruolo di protagonista amoroso, ampliando verso l'alto l'estensione vocale e adottando anche negli acuti estremi la cosiddetta "impostazione di petto".
A partire dalla fine del XIX secolo, la voce di tenore è stata tradizionalmente suddivisa in diverse categorie talora riferite, più propriamente, alle caratteristiche vocali dei vari interpreti talora, molto più arbitrariamente, alle caratteristiche delle varie parti tenorili, spesso scritte (e create in teatro) decenni e secoli prima che la moderna tipologizzazione entrasse in uso. Le categorie principali, con relativi ruoli famosi, sono comunque le seguenti:[5]
Vengono talvolta considerate sottocategorie di tenore:
Se, come già accennato, in ambito operistico l'estensione canonica della voce di tenore include le note che stanno nell'intervallo tra il do2 e il do4, le incursioni verso le zone più gravi del pentagramma sono decisamente sporadiche. Le note più gravi mai scritte per tenore sono un la bemolle grave (la1) scritto da André Grétry per il protagonista del suo Richard Cœur de Lion, e il la grave (la1) intonato da re Erode nella Salomè di Richard Strauss, dal protagonista dell'Otello di Rossini e da Sempronio nello Speziale di Haydn, nell'aria "Questa è un'altra novità".[senza fonte] Per il resto, pochi ruoli scendono al si grave (si1), mentre già il si bemolle sotto le righe è quasi totalmente assente. Esso risulta tuttavia impiegato per i tenori del coro e lo si trova ad esempio scritto per il ruolo di Gastone, il quale si unisce al coro assieme a tutti gli altri personaggi, nel celeberrimo brindisi "Libiamo ne' lieti calici" da La traviata di Verdi.[7]
Nella zona acuta, soltanto un numero limitato di ruoli tenorili richiede il cosiddetto do di petto, "nota che per tutto il periodo romantico contribuì in maniera decisiva a creare il mito del tenore"[8] e che oggi costituisce un vero e proprio "marchio di fabbrica" per la categoria. Una parte dei do di petto, però, sono o facoltativi (come nell'aria «Che gelida manina» da La bohème di Puccini) oppure non scritti dall'autore ma aggiunti per tradizione (per esempio in «Di quella pira» dal Trovatore di Verdi). Le incursioni nella zona del pentagramma superiore al do4 risultano abbastanza sporadiche: la nota più alta è il fa sovracuto di Arturo nei Puritani di Vincenzo Bellini, che viene spesso omesso data la sua altezza vertiginosa, fuori dalla portata dei più, oppure eseguito in falsetto, come sarebbe corretto dato che così lo eseguiva Giovanni Battista Rubini per il quale quell'opera fu scritta.
Il do di petto è il do acuto (do4)[9] posto un'ottava sopra il do centrale, cantato da un tenore con voce piena,[10] corrispondente in realtà ad un registro di testa particolarmente ampliato piuttosto che a un vero e proprio registro di petto, e comunque diverso dal registro di falsetto: precedentemente la nota veniva emessa in un registro misto che è stato in seguito denominato falsettone.
In occasione di un'esecuzione a Lucca del Guglielmo Tell di Rossini nel 1831, il tenore francese Gilbert Duprez emise il do4 per la prima volta senza ricorrere al falsettone[11], ma con una tecnica che univa alla potenza della voce di petto l'utilizzo di un meccanismo laringeo differente dal registro comune, con l'emissione di una voce definita mista o di gola. Il funzionamento degli organi vocali in questa modalità è simile a quello del grido ma, malgrado questa spiegazione fisiologica, si continua comunemente a definire questa emissione "di petto"[12], e il do risultante "do di petto". Rossini, comunque, non gradì affatto l'esecuzione e commentò affermando che gli ricordava «l'urlo di un cappone sgozzato»[11]. Definita da alcuni l'«assoluto apice della tecnica»[13], questa nota ha la caratteristica di essere considerata il limite superiore canonico della voce da tenore lirico[14], sebbene la soglia possa essere elevata al do diesis[12] e alcuni artisti siano in grado di emettere note ancora più acute. Il do4 non viene raggiunto dall'estensione vocale di un cantante non allenato e viene tentato solo da alcuni tenori lirici professionisti. Infatti non tutti i tenori, anche se professionisti, sono in grado di emettere il suono con voce piena e il raggiungimento di questa capacità vocale viene considerato un dato significativamente importante[11].
Questa alta valutazione del do di petto è comunque controversa, in quanto molti tenori di fama e di riconosciuto valore artistico, inclusi Plácido Domingo ed Enrico Caruso, non ne hanno fatto uso se non in rari casi (e sempre con serie difficoltà di emissione)[11]. Lo stesso principe dei tenori di grazia, Tito Schipa, pur essendo in grado di sostenere facilmente tessiture estremamente acute, «agli inizi della carriera toccava il si 3, poi si limitò al si 3 bemolle e, negli ultimi anni, al la 3».[15]
Nel 1966 Luciano Pavarotti, in scena al Covent Garden di Londra, si guadagnò l'appellativo di «Re del do di petto» quando riuscì per la prima volta nella storia[16], ad eseguire perfettamente e in maniera naturale i nove do di petto contenuti nell'aria del personaggio Tonio Ah, mes amis, quel jour de fête! (Amici miei, che lieto giorno!) in La figlia del reggimento. La nota finale fu eseguita in maniera limpidissima con un acuto tenuto per oltre 6 secondi, sui complessivi 12 secondi considerando l'intera variazione.[17]
In una famiglia strumentale, il termine è riferito anche a quegli strumenti la cui estensione è simile a quella del registro di tenore (ad esempio il sassofono tenore, il trombone tenore, il flicorno tenore).
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