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attivista politico, giornalista e conduttore radiofonico italiano (1948-1978) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Giuseppe Impastato, detto Peppino (Cinisi, 5 gennaio 1948 – Cinisi, 9 maggio 1978), è stato un giornalista, conduttore radiofonico e attivista italiano, membro di Democrazia Proletaria e noto per le sue denunce contro le attività di Cosa nostra, a seguito delle quali fu assassinato il 9 maggio 1978[1][2].
«Passeggio per i campi con il cuore sospeso nel sole.»
Giuseppe Impastato, detto Peppino, nacque a Cinisi, in provincia di Palermo, il 5 gennaio 1948, da una famiglia legata a Cosa nostra: il padre Luigi (1905-1977) era stato inviato al confino durante il periodo fascista per la sua appartenenza alla mafia, lo zio e gli altri parenti erano mafiosi e il cognato del padre, Cesare Manzella, era il capomafia del paese, ucciso nel 1963 in un attentato con una Alfa Romeo Giulietta riempita di tritolo. La madre Felicia Bartolotta (1916-2004), casalinga figlia di un impiegato comunale di Cinisi, aveva cercato di evitare il matrimonio quando aveva scoperto i rapporti di Luigi con la mafia. Peppino era il primogenito ed ebbe due fratelli minori entrambi di nome Giovanni, il primo nato nel 1949 e morto di meningite nel 1952 all'età di soli 3 anni, il secondo nato nel 1953.
Il ragazzo ruppe presto i rapporti con il padre, che lo cacciò di casa, e avviò un'attività politico-culturale di sinistra e antimafia. Nel 1965 fondò il giornalino L'idea socialista e aderì al PSIUP.[3] Dal 1968 in poi partecipò, con il ruolo di dirigente, alle attività delle nuove formazioni comuniste, come Il manifesto e, in particolare, Lotta Continua. Condusse le lotte dei contadini espropriati per la costruzione della terza pista dell'aeroporto di Palermo in territorio di Cinisi, degli edili e dei disoccupati.
Nel 1976 costituì il gruppo Musica e cultura, che svolgeva attività culturali (cineforum, musica, teatro, dibattiti, ecc.); nel 1977 fondò Radio Aut, radio libera autofinanziata,[4] con cui denunciò i crimini e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini, in primo luogo di Gaetano Badalamenti (chiamato sarcasticamente «Tano Seduto» da Peppino[5]), successore di suo zio Cesare Manzella come capomafia locale, che aveva un ruolo di primo piano nei traffici internazionali di droga, attraverso il controllo dell'aeroporto di Punta Raisi. Il programma più seguito era Onda pazza, trasmissione satirica in cui Peppino derideva mafiosi e politici.
Nonostante le minacce e le continue pressioni della comunità locale, nel 1978 si candidò nella lista di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali, ma non fece in tempo a sapere l'esito delle votazioni perché venne assassinato a campagna elettorale ancora in corso, la notte del 9 maggio, su commissione di Badalamenti, venendo colpito a morte o tramortito con un grosso sasso (che venne rinvenuto a pochi metri di distanza, ancora sporco di sangue) e tentando di far apparire la sua morte come dovuta a un attentato fallito o a un suicidio, per distruggerne anche l'immagine, ponendo una carica di tritolo sotto il suo corpo adagiato sui binari della ferrovia Palermo-Trapani. La lista di Democrazia Proletaria ottenne 260 voti e un seggio; gli elettori votarono comunque, simbolicamente, per il defunto Peppino, che addirittura risultò il candidato più votato con 199 preferenze, con il suo seggio che andò ad Antonino La Fata.[6][7][8][9]
Stampa, forze dell'ordine e magistratura inizialmente sostennero che Peppino stesse architettando un attentato nel quale lui stesso sarebbe rimasto ucciso, poi iniziarono a parlare di suicidio dopo la scoperta di una lettera in casa della zia, che in realtà non rivelava propositi suicidi.[10] Il delitto, avvenuto in piena notte, passò inizialmente inosservato, poiché nella stessa giornata, una decina di ore dopo, venne ritrovato il corpo senza vita del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse, in via Caetani a Roma.
L'epitaffio inciso sulla tomba di Peppino a Cinisi recita così: "Rivoluzionario e militante comunista - Assassinato dalla mafia democristiana."[11]
La matrice mafiosa del delitto venne individuata grazie all'attività del fratello Giovanni e della madre Felicia, che fin da subito non credettero alle ipotesi secondo le quali Peppino aveva con sé dell'esplosivo e ne era rimasto vittima, ruppero pubblicamente con la parentela mafiosa e si adoperarono per la ricerca della verità al riguardo, nonché da Umberto Santino e dalla moglie Anna Puglisi, grazie anche ai compagni di militanza di Impastato e del Centro siciliano di documentazione[12] di Palermo, che fu fondato a Palermo nel 1977 e intitolato proprio a Giuseppe Impastato nel 1980. Sulla base della documentazione raccolta e delle denunce presentate venne riaperta l'inchiesta giudiziaria.
Il 9 maggio 1979 il Centro siciliano di documentazione organizzò, con Democrazia Proletaria, la prima manifestazione nazionale contro la mafia della storia d'Italia, a cui parteciparono 2 000 persone provenienti da tutto il Paese.
Nel maggio del 1984 l'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, sulla base delle indicazioni del Giudice consigliere istruttore Rocco Chinnici, che aveva concepito e avviato il lavoro del primo pool antimafia ed era stato assassinato nel luglio del 1983, emise una sentenza, firmata da Antonino Caponnetto, che aveva sostituito Chinnici dopo la sua morte, in cui si riconobbe la matrice mafiosa del delitto, attribuito però a ignoti.
Il Centro Impastato pubblicò nel 1986 la storia della vita di Felicia Bartolotta Impastato, madre di Peppino, nel volume La mafia in casa mia[13] e il dossier Notissimi ignoti, indicando come mandante del delitto il boss Gaetano Badalamenti, nel frattempo condannato a 45 anni di reclusione per traffico di droga dalla Corte di New York, nel processo alla Pizza connection.
Nel gennaio 1988 il Tribunale di Palermo inviò una comunicazione giudiziaria a Badalamenti. Nel maggio del 1992 lo stesso tribunale decise l'archiviazione del caso Impastato, ribadendo la matrice mafiosa del delitto, ma escludendo la possibilità di individuare i colpevoli e ipotizzando la possibile responsabilità dei mafiosi di Cinisi alleati dei corleonesi.
Nel maggio del 1994 il Centro Impastato presentò un'istanza per la riapertura dell'inchiesta, accompagnata da una petizione popolare, chiedendo che venisse interrogato sul delitto Impastato il nuovo collaboratore di giustizia Salvatore Palazzolo, in precedenza affiliato alla mafia di Cinisi. Nel marzo del 1996 la madre, il fratello e il Centro Impastato presentarono un esposto con la richiesta di indagare su episodi non chiariti, riguardanti in particolare il comportamento dei Carabinieri subito dopo il delitto.[14]
Nel giugno del 1996, in seguito alle dichiarazioni di Palazzolo, che indicò in Gaetano Badalamenti il mandante dell'omicidio assieme al suo vice Vito Palazzolo, l'inchiesta venne formalmente riaperta. Nel novembre del 1997 venne emesso un ordine di cattura per Gaetano Badalamenti, incriminato come mandante del delitto. Il 10 marzo 1999 si svolse l'udienza preliminare del processo contro Vito Palazzolo, mentre la posizione di Badalamenti venne stralciata.
I familiari, il Centro Impastato, Rifondazione Comunista, il Comune di Cinisi e l'Ordine dei giornalisti chiesero di costituirsi parte civile e la loro richiesta venne accolta. Il 23 novembre 1999 Gaetano Badalamenti rinunciò all'udienza preliminare e chiese il rito abbreviato.
Nell'udienza del 26 gennaio 2000 la difesa di Vito Palazzolo chiese che si procedesse con il rito abbreviato, mentre il processo contro Gaetano Badalamenti si sarebbe svolto con il rito normale e in videoconferenza. Il 4 maggio, nel procedimento contro Palazzolo, e il 21 settembre, nel processo contro Badalamenti, vennero respinte le richieste di costituzione di parte civile del Centro Impastato, di Rifondazione Comunista e dell'Ordine dei giornalisti.
Nel 1998 presso la Commissione parlamentare antimafia si costituì un comitato sul caso Impastato e il 6 dicembre 2000 venne approvata una relazione sulle responsabilità di rappresentanti delle istituzioni nel depistaggio delle indagini. Nella commissione vennero rese note le posizioni favorevoli all'ipotesi dell'attentato terroristico dei seguenti militari dell'Arma dei Carabinieri: il maggiore Antonio Subranni e il maresciallo Alfonso Travali.[15][16]
Il 5 marzo 2001 la Corte d'assise riconobbe Vito Palazzolo colpevole e lo condannò a trent'anni di reclusione. L'11 aprile 2002, a distanza di quasi 24 anni dal delitto, anche Gaetano Badalamenti venne riconosciuto colpevole e condannato all'ergastolo.
Un aspetto poco noto dell'attività giornalistica di Impastato fu la sua inchiesta sulla strage di Alcamo Marina, in cui vennero uccisi due carabinieri e della quale furono accusati, dai militari comandati da Giuseppe Russo, cinque giovani del posto; in seguito si scoprirà che furono torturati (e uno di loro forse ucciso in cella) per estorcere false confessioni. La strage era probabilmente legata alla mafia e a elementi dell'Organizzazione Gladio collusi con gli stessi carabinieri.[17] Non si sa cosa l'attivista di Democrazia Proletaria avesse scoperto sulla strage, poiché la cartella con i documenti su Alcamo Marina fu sequestrata dai Carabinieri nella casa della madre Felicia poco dopo la morte di Peppino e mai più restituita, a differenza degli altri documenti (come riferito dal fratello Giovanni).[18]
Le indagini hanno successivamente riguardato anche il depistaggio iniziale sulla reale matrice dell'omicidio e sono state svolte dalla Procura di Palermo, nelle persone dei magistrati Antonino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene. Nel 2018 l'indagine è stata archiviata definitivamente perché le accuse di favoreggiamento a Cosa nostra, falso ideologico e concorso in reato furono dichiarate prescritte per l'allora maggiore dei Carabinieri Antonio Subranni (poi promosso a generale e comandante del Raggruppamento Operativo Speciale), per l'allora brigadiere Carmelo Canale e gli allora marescialli Francesco Di Bono e Francesco Abramo[19]. "Un contesto di gravi omissioni ed evidenti anomalie investigative”, scrisse nell'ordinanza di archiviazione il GIP di Palermo Walter Turturici a riguardo delle indagini sul delitto Impastato condotte dai Carabinieri nel 1978[20].
«Nato nella terra dei vespri e degli aranci, tra Cinisi e Palermo parlava alla sua radio,
negli occhi si leggeva la voglia di cambiare, la voglia di giustizia che lo portò a lottare.
Aveva un cognome ingombrante e rispettato, di certo in quell'ambiente da lui poco onorato;
si sa come si nasce ma non come si muore, e non se un ideale ti porterà dolore.»
A Peppino Impastato sono state dedicate diverse iniziative: