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cessazione delle funzioni vitali in un essere vivente Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
La morte (chiamata anche dipartita o decesso) è la cessazione irreversibile di tutte le funzioni biologiche che sostengono un organismo vivente. Si riferisce sia a un evento specifico, sia a una condizione permanente e irreversibile. Con la morte termina l'esistenza di un vivente, o più ampiamente di un sistema funzionalmente organizzato.[1]
In ambito biologico, la morte (dal latino mors, mortis, mortem) può essere definita in negativo, come la cessazione di tutte le funzioni vitali dell'essere vivente, ovvero dell'organismo vivente: quindi la fine della vita. Determinare, però, quando una permanente cessazione di tutte le funzioni vitali sia avvenuta è difficile, visto che la vita e conseguentemente la morte, è un fenomeno emergente da una struttura che è l'organismo stesso. Per spiegare la cosa con un esempio comprensibile e riferibile a un animale superiore, ci sono modalità di morte cerebrale che precedono la cessazione del battito cardiaco, che a cascata precede tutta una serie di arresti di processi biochimici conducenti alla morte (necrosi o apoptosi) cellulare di tutte le singole cellule costituenti l'organismo. La definizione si è evoluta, nel tempo, insieme ai cambiamenti culturali, religiosi e scientifici. La morte viene, sempre, considerata come un processo: con la locuzione morte biologica ci si riferisce alla conclusione di tale processo in riferimento a un organismo vivente, ovvero alla dissoluzione dell'organismo stesso.
La morte, intesa come morte individuale, non deve essere confusa con la morte (o estinzione) di una intera specie. Dal punto di vista evolutivo, anzi, la morte individuale è una conseguenza e una necessità contenuta nel concetto di evoluzione. Secondo Danilo Mainardi:
«Il senso biologico della vita, se un senso c'è, consiste nel mantenimento della vita stessa, e tale mantenimento viene ottenuto con un continuo ricambio, sostituzione, evoluzione, degli individui. L'individuo, ogni individuo, non è che un limitato segmento di una lunghissima trama che si muove e si evolve nello spazio e nel tempo.[2]»
In tale processo, inoltre, intervengono:
Alcuni autori associano la morte e la vecchiaia all'entropia. Le funzioni biologiche permettono di ridurre l'entropia totale del sistema vivente, questo a spesa di energia, così da mantenere l'ordine del sistema biologico. L’aumento dell’entropia è una misura del disordine in un sistema che invecchia, dove la morte è il disordine ultimo o massimo.[3]
Nel I secolo Celso scriveva: Democrito, un uomo di ben meritata celebrità ha dichiarato che in realtà non c'è nessuna sufficientemente certa caratteristica della morte su cui il medico possa basarsi[4]. Molto più tardi Montgomery facendo rapporto sull'evacuazione del cimitero di Fort Randall ha dichiarato che quasi il 2% dei corpi esumati erano stati sepolti vivi[5]. Molta gente nel XIX secolo, allarmata dalla frequenza di casi di sepolture premature, richiese, come parte delle ultime cerimonie, che fossero praticate ferite o mutilazioni per assicurarsi che nessuno si sarebbe svegliato. Anche l'imbalsamazione ricevette un considerevole impulso a causa della paura di una sepoltura prematura. Si arrivò anche al punto di installare campanelli collegati alle bare, che avrebbero allertato i custodi dei cimiteri nel caso in cui il sepolto si fosse risvegliato[6]. Determinante fu quanto accadde il 5 agosto 1968 e di conseguenza il Journal of the American Medical Association pubblicò un articolo intitolato "Una definizione di coma irreversibile", in cui il Comitato ad hoc dell'Harvard Medical School adottava il coma irreversibile, cioè la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo, come nuova definizione di morte[7].
In medicina legale la morte si identifica come la cessazione delle funzioni dell'encefalo in congruenza con la legge del 29 dicembre 1993, n. 578.[8] Per accertare la morte il medico deve attenersi alle regole tecniche della semeiotica tanatologica e tenere presenti le disposizioni di legge in materia di decessi. Alcuni scopi per i quali si effettua la diagnosi di morte sono:
La cessazione irreversibile delle funzioni vitali dev'essere verificata. La normativa nazionale in materia è attualmente regolata dal Decreto 11 aprile 2008 del Ministero della salute, Aggiornamento del decreto 22 agosto 1994, n. 582 relativo al: Regolamento recante le modalità per l'accertamento e la certificazione di morte.[9]
Dopo la morte nel cadavere si verifica tutta una serie di trasformazioni: prima si verifica l'algor mortis (raffreddamento del cadavere), poi il rigor mortis (rigidità cadaverica) e, infine, il livor mortis (ristagno e coagulazione del sangue). La decomposizione della salma, in realtà, comincia immediatamente dopo l'arresto della circolazione sanguigna (e quindi dell'ossigenazione), sebbene i suoi effetti più evidenti si manifestino solo dopo alcune ore.
Stabilita in modo sicuro la morte della persona è possibile, verificato il consenso precedente del soggetto od ottenuto tale consenso dai legali rappresentanti (normalmente i familiari), procedere al prelievo degli organi utili per il trapianto in pazienti che ne hanno necessità. Oggi è in atto, nel mondo scientifico un dibattito che coinvolge la bioetica[10], al fine di arrivare a un accertamento di morte sempre più preciso, seguendo i progressi della ricerca medica in questo campo e considerando le problematiche di tipo umano che sorgono in queste situazioni.[11]
Il destino del cadavere della persona defunta a seconda della cultura del popolo o delle particolari scelte dettate da consuetudini o motivazioni particolari, può essere molto diversificato. A questo si aggiunge il rango del defunto, che influenza ogni decisione in merito.
Già durante il Neolitico, in Italia, era diffuso il culto dei morti ai quali si dava sepoltura secondo un rituale che prevedeva il rispetto per il morto e una cura particolare per la tomba.[12] In altre culture i riti e le usanze furono differenti; per esempio, presso gli antichi persiani, per cui sia la terra sia il fuoco erano sacri, i corpi non erano seppelliti o bruciati per non contaminare i due elementi, ma lasciati a decomporsi su piattaforme sopra-elevate, le cosiddette "torri del silenzio"; tale modalità fu in uso anche presso alcune tribù di nativi americani. Presso le tribù degli Yanomami[13] della zona amazzonica è in uso una forma di cannibalismo del morto, perché il corpo prima viene cremato e poi le sue ceneri vengono impastate con una pappa a base di banana e mangiate da tutta la tribù. In questo modo, si crede che l'anima del morto rimanga tra i suoi cari.[14]
Nella cultura occidentale il corpo del defunto, deposto in una bara, può solitamente subire tre destini diversi[15]:
Nella quasi totalità delle culture, si celebra una cerimonia commemorativa detta funerale, che può essere spesso religiosa, ma anche civile.
Il posizionamento delle tombe è regolamentato per legge. In occidente, le tombe sono accorpate in terreni civici destinati a tale scopo, chiamati campisanti o cimiteri, gestiti da un necroforo. Essi sono, in genere e per legge, considerati luoghi sacri o di rispetto; atti non rispettosi possono essere puniti con la reclusione. L'uso dei cimiteri in occidente è iniziato dalla legislazione napoleonica, che da un lato prevedeva una sepoltura singola per tutti, mentre da un altro lato prevedeva per motivi igienici la localizzazione in territori fuori dai centri abitati; prima invece, i cimiteri erano costituiti da fosse comuni, ovvero profondi pozzi sigillati da lastre in pietra, in cui si calavano i morti del popolo, mentre le personalità ricevevano sepoltura nei pavimenti delle chiese, in cimiteri monumentali od anche in grandiosi mausolei. Alcuni, ricevono addirittura una sorta di imbalsamazione, sul modello degli antichi faraoni egiziani: questo è il destino dei papi o ad alcune personalità politiche, come Lenin o Mao Zedong.
«Due cose belle ha il mondo: amore e morte.»
La difficoltà di interpretare filosoficamente la morte rispetto alla vita è rappresentata dalla varietà di letture consentite da una locuzione latina come «omnes feriunt, ultima necat». Le meditazioni umane riguardo al fenomeno della morte costituiscono storicamente, uno dei fondamenti nello sviluppo delle religioni organizzate. Nonostante i modi di definire e di analizzare la morte possano variare diametralmente, di cultura in cultura, la credenza in una vita dopo la morte – un aldilà – è molto diffusa ed estremamente antica. Molti antropologi ritengono che le sepolture degli uomini di Neanderthal in tombe scavate con cura e adorne di fiori siano la testimonianza di una primordiale fede in una specie di aldilà.
Alcuni considerano che il rispetto per i defunti e per la morte (più o meno allegorizzata) sia istintivo nell'uomo. Altri, invece, ipotizzano che sia una forma per giustificare la ricomparsa dei defunti durante i sogni. A differenza dell'ebraismo, nella maggioranza delle religioni di matrice cristiana c'è la credenza nella risurrezione: dopo la morte l'anima del defunto, riunita al corpo alla fine dei tempi, passerà l'eternità in continua contemplazione di Dio in paradiso. L'inferno, il limbo e il purgatorio costituiscono, invece, i luoghi a cui sono condannate le anime non pure, anche se chiese e teologi non sono concordi sulla loro esistenza e su cosa rappresentino questi luoghi. Per aiutare i fedeli ad affrontare con fiducia e coraggio il passaggio in queste dimensioni, si diffuse dal tardo Medioevo la letteratura della cosiddetta «ars moriendi» («l'arte di morire bene»).[16]
Dalla visione dell'anima immortale e dell'inferno si distaccano solo le chiese cristiane avventiste e i Testimoni di Geova, che insegnano con toni diversi che dopo il giudizio finale i peccatori saranno puniti con la distruzione eterna. Presso Induismo, Sikhismo e altre religioni orientali si crede nella reincarnazione; secondo tale filosofia la morte rappresenta un passaggio naturale (tanto quanto la nascita) tramite il quale l'anima abbandona un involucro ormai vecchio per abitarne uno nuovo (il corpo fisico) fino all'estinzione del karma e alla conseguente liberazione definitiva. Per questo motivo l'idea della morte viene affrontata con minor struggimento interiore.
«Fui pervaso fin nel più profondo del cuore dal sentimento dell'impermanenza di tutte le cose che mi era stato trasmesso da mia madre. La vita umana era effimera come i petali avvizziti, spazzati via dal vento. La nozione buddhista dell'impermanenza faceva parte del mio essere più intimo. Niente nell'universo intero può resistere al tempo. Tutto ne viene travolto, tutto è condannato a scomparire o a mutare. Anche lo spirito, come la materia, è chiamato a trasformarsi, senza mai poter raggiungere la permanenza. Per questo l'uomo è costretto ad avanzare in solitudine, senza alcun appoggio stabile. Come è detto nello Shodoka, neppure la morte, che lascia ciascuno solo nella sua bara, è definitiva. Soltanto l'impermanenza è reale»
Un chiaro riferimento al significato biologico della morte, inteso come legame tra amore e morte, è presente nell'opera di Sigmund Freud, e tale concetto viene ripreso e citato anche da altri autori.[17]
I bahá'í credono che la morte del corpo non è altro che un processo di disgregazione per cui gli atomi che lo compongono passano dal regno umano a quello minerale. L’anima, realtà dell’uomo nata dai mondi dello Spirito, non muore assieme al corpo al quale è stata legata sulla terra, ma continua a vivere nei mondi dello Spirito ai quali appartiene. Quanto alle caratteristiche dei mondi dello Spirito, «la condizione dell’anima dopo la morte non può essere descritta, né è possibile presentarne e rivelarne l’intero carattere agli occhi dell’uomo». Le Scritture bahá’í ne parlano in termini metaforici per consentirne una comprensione commisurata alle capacità umane e alimentare l’attrazione verso di essi.
Nei movimenti esoterici come l'AMORC che si richiama ai Rosacroce, la paura della morte è un sentimento che può essere superato attraverso le tecniche dell'iniziazione, basate non sull'aderenza ad una fede, ma sulla sperimentazione diretta della realtà invisibile che attende l'uomo oltre l'esistenza terrena. Con la rivelazione della sua doppia natura, fisica e spirituale, l'ego umano avrebbe così la possibilità di accedere ad una rinnovata e più ampia concezione della vita.[18]
La morte non ha mai smesso di essere, oltre che un evento biologico connaturato al fatto stesso di vivere, uno dei più forti stimoli alla fantasia. A rigore, si potrebbe anche dire che non c'è la morte "in sé", ma ci sono organismi viventi che muoiono. Di fatto, nell'immaginario collettivo, la morte è fin da sempre stata oggettivista come un'entità esterna al vivente, qualcosa "che arriva", da ciò deriva la sua mitizzazione. La morte è quindi anche una figura mitologica molto popolare, presente in modo più o meno diverso in moltissime culture umane fin dall'inizio della tradizione orale. L'iconografia occidentale definisce la morte in genere come un sinistro mietitore: uno scheletro vestito di un saio nero, che impugna una falce fienaia. Come tale, è ritratta anche in una carta dei tarocchi e appare sovente in letteratura e nelle arti figurative.
La realtà del morire e quella del soffrire costituiscono due aspetti topici dell'etica di tutti i tempi, a partire dal concetto fondamentale di "chi" possa essere il colpevole che determina sia la prima sia la seconda. Sia la sofferenza, sia la morte, da un punto di vista puramente biologico, hanno la loro causa nello stesso esistere dell'essere vivente.
Elisabeth Kübler Ross ha studiato le problematiche inerenti agli stati psico sociali delle persone malate terminali ed è ritenuta la fondatrice della psicotanatologia[19].
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