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luogo o condizione beata per le anime decedute Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Il termine Paradiso possiede due significati: il primo indica, nella tradizione biblica, quel luogo primordiale dove Dio collocò l'uomo appena creato (Genesi, 2) anche se sarebbe più corretto usare il termine paradiso terrestre; il secondo indica, nell'ambito delle teologie fondate sull'interpretazione dei testi biblici, quel luogo, celeste o terrestre, dove verranno destinati gli uomini da Dio giudicati come "giusti". Nel significato traslato della seconda accezione, con il termine "paradiso" si rendono termini di altre lingue, e di altre religioni, che indicano analoghe credenze in un luogo felice, post-mortem, riservato a coloro che hanno condotto una vita da "giusti".
Il termine italiano "paradiso" (così come l'inglese paradise, il francese paradis, il tedesco paradies e lo spagnolo paraíso) viene dal latino ecclesiastico paradīsus, a sua volta adattamento dal greco biblico παράδεισος (parádeisos), nell'intenzione di rendere il termine ebraico גן (gan, "giardino") ovvero "giardino [dell'Eden]"[1].
La traduzione della Septuaginta opera un cambiamento semantico nel significato del termine che passa dalla sfera profana a quella religiosa; l'uso nel senso tecnico si trova per la prima volta nel terzo dei Testamenti dei Dodici Patriarchi, il testamento di Levi, 18, 10: "Inoltre Egli [il Sommo sacerdote del futuro] aprirà le porte del paradiso e devierà la spada puntata contro Adamo".[2]
Il termine greco antico παράδεισος deriverebbe dal ricostruito medio iranico, *pardēz[3], mentre è correlato all'attestato antico iranico, precisamente avestico[4], pairidaēza, dove tuttavia non possiede alcun significato religioso, indicando il "recinto", derivando in quella lingua da pairidaēz (murare intorno, circondare con mura), quindi da paìri (intorno) + daēz (accumulare). All'avestico pairidaēza sono correlati i ricostruiti antico persiano *paridaida e il medo *paridaiza.
La prima attestazione del termine è quindi l'avestico pairidaēza, di conseguenza la prima attestazione di questo stesso termine – anche se con significato diverso da quello in uso oggi – si riscontra in due passaggi nello Yu(va)tdēvdāt contenuto nell'Avestā:
«aêtadha hê aête mazdayasna ainghå zemô pairi-daêzãn pairi-daêzayãn, hvarethaêibyô pascaêta âstayañta aête ýôi mazdayasna vastraêibyô pascaêta âstayañta aête ýôi mazdayasna draêjishtôtemaêshvaca niuruzdôtemaêshvaca aêtå hvarethå hvaratu aêtå vastrå vanghatu vîspem â ahmât ýat hanô vâ zaururô vâ pairishtâ-xshudrô vâ bavât.»
«Lì, sul quel posto, gli adoratori di Mazdā erigeranno un recinto; ivi egli si stabilirà con cibo, ivi egli si stabilità con abiti, ivi con il cibo peggiore e gli abiti consunti. Di quel cibo egli continuerà a vivere, quegli abiti egli indosserà, allora essi lo lasceranno vivere fino a che egli non raggiungerà l'età di uno hana, o di uno zaurura, o di un pairišta-khšudra.»
«êtadha hê aête mazdayasna ainghå zemô pairi-daêzãn pairi-daêzayãn hvarethaêibyô pascaêta âstayañta aête ýôi mazdayasna vastraêibyô pascaêta âstayañta aête ýôi mazdayasna.»
«Su quel posto gli adoratori di Mazdā erigeranno un divisorio che circoscriva uno spazio, l'armešt-gāth, nel quale si porrà il cibo per la donna e i suoi abiti»
Il termine di ambito iranico pairidaēza/*paridaida, partendo dall'originario significato di "recinto", "luogo recintato", indica quindi quei giardini, o meglio parchi, privati e cintati, propri dei sovrani dell'Impero achemenide, i quali ne ereditarono l'uso dagli Assiri[5]. Tali pairidaēza consistevano in una parte coltivata a giardino e in un'altra lasciata selvaggia, riserva di caccia per i re.
Nei testi in lingua greco antica è attestata l'esistenza di tali "giardini" persiani (il testimone più antico è in Wilhelm Dittenberge, Sylloge Inscriptionum Graecarum, 2), mentre la loro prima descrizione è in Senofonte (430/425-355 a.C.) Economico (IV, 20 e sgg.), presente in altre opere dello stesso autore (cfr. ad esempio Anabasi, I, 2,7).
«[20] οὗτος τοίνυν ὁ Κῦρος λέγεται Λυσάνδρῳ, ὅτε ἦλθεν ἄγων αὐτῷ τὰ παρὰ τῶν συμμάχων δῶρα, ἄλλα τε φιλοφρονεῖσθαι, ὡς αὐτὸς ἔφη ὁ Λύσανδρος ξένῳ ποτέ τινι ἐν Μεγάροις διηγούμενος, καὶ τὸν ἐν Σάρδεσι παράδεισον ἐπιδεικνύναι αὐτὸν ἔφη. [21] ἐπεὶ δὲ ἐθαύμαζεν αὐτὸν ὁ Λύσανδρος ὡς καλὰ μὲν τὰ δένδρα εἴη, δι᾽ ἴσου δὲ τὰ πεφυτευμένα, ὀρθοὶ δὲ οἱ στίχοι τῶν δένδρων, εὐγώνια δὲ πάντα καλῶς εἴη, ὀσμαὶ δὲ πολλαὶ καὶ ἡδεῖαι συμπαρομαρτοῖεν αὐτοῖς περιπατοῦσι, καὶ ταῦτα θαυμάζων εἶπεν: ἀλλ᾽ ἐγώ τοι, ὦ Κῦρε, πάντα μὲν <ταῦτα> θαυμάζω ἐπὶ τῷ κάλλει, πολὺ δὲ μᾶλλον ἄγαμαι τοῦ καταμετρήσαντός σοι καὶ διατάξαντος ἕκαστα τούτων: [22] ἀκούσαντα δὲ ταῦτα τὸν Κῦρον ἡσθῆναί τε καὶ εἰπεῖν: ταῦτα τοίνυν, ὦ Λύσανδρε, ἐγὼ πάντα καὶ διεμέτρησα καὶ διέταξα, ἔστι δ᾽ αὐτῶν, φάναι, ἃ καὶ ἐφύτευσα αὐτός. [23] καὶ ὁ Λύσανδρος ἔφη, ἀποβλέψας εἰς αὐτὸν καὶ ἰδὼν τῶν τε ἱματίων τὸ κάλλος ὧν εἶχε καὶ τῆς ὀσμῆς αἰσθόμενος καὶ τῶν στρεπτῶν καὶ τῶν ψελίων τὸ κάλλος καὶ τοῦ ἄλλου κόσμου οὗ εἶχεν, εἰπεῖν: τί λέγεις, φάναι, ὦ Κῦρε; ἦ γὰρ σὺ ταῖς σαῖς χερσὶ τούτων τι ἐφύτευσας; [24] καὶ τὸν Κῦρον ἀποκρίνασθαι: θαυμάζεις τοῦτο, [ἔφη,] ὦ Λύσανδρε; ὄμνυμί σοι τὸν Μίθρην, ὅτανπερ ὑγιαίνω, μηπώποτε δειπνῆσαι πρὶν ἱδρῶσαι ἢ τῶν πολεμικῶν τι ἢ τῶν γεωργικῶν ἔργων μελετῶν ἢ ἀεὶ ἕν γέ τι φιλοτιμούμενος.»
«20. Inoltre, si dice che lo stesso Ciro, quando Lisandro[6] si recò da lui portandogli i doni degli alleati, lo accolse con amicizia e gli mostrò anche il paradiso di Sardi[7], come rivelò una volta lo stesso Lisandro a un ospite di Megara. 21. Poiché Lisandro rimase meravigliato della bellezza degli alberi, piantati a distanza regolare in filari dritti, con angoli ben disegnati, e dei molti e gradevoli profumi che li accompagnavano mentre passeggiavano, disse con stupore: "Ciro, io ammiro tutto ciò per la sua bellezza, ma molto di più apprezzo chi ha progettato e disposto tutto per te". 22. Udito ciò, Ciro se ne compiacque e disse: "Lisandro, sono io che ho progettato e disposto tutto questo; e ci sono anche alberi che ho piantato personalmente". 23. E Lisandro racconta di aver detto, guardandono e notando la bellezza delle sue vesti, il profumo, e la bellezza delle collane, dei bracciali e di tutto il resto che indossava: "Cosa stai dicendo, Ciro? Davvero tu, con le tue mani, hai piantato qualcuna di queste piante?". E Ciro rispose: 24. "Lisandro, ti meravigli di questo? Ti giuro su Mitra[8] che, quando sto bene, non mi siedo mai a cena prima di aver sudato per essermi dedicato all'addestramento militare o ai lavori agricoli, o per essermi dato da fare in qualche cosa.»
Il termine, di origine iranica, entra nelle lingue semitiche con l'accadico pardēsu già col significato di "giardino", "parco"[9]; mentre il suo diretto corrispondente in ebraico lo si riscontra invece nella bibbia in lingua ebraica, ad esempio con il termine פרדס (pardês), per sole tre volte: Neemia, 2,8; Qoèlet, 2,5; Cantico dei Cantici, 4,13, avente qui, tuttavia, il significato di "frutteto", o "bosco"; successivamente il termine verrà utilizzato anche nella letteratura rabbinica (cfr., ad esempio, nel Talmud, Ḥagigah 14b, dove tuttavia già acquisisce implicitamente il significato di "luogo di beatitudine celestiale").
La credenza in un primordiale luogo paradisiaco attiene, originariamente, alla letteratura religiosa in lingua sumerica[10], segnatamente al testo in 284 versi, indicato sotto il nome di Enki e Ninḫursaĝa (inizi II millennio a.C.), la quale individuava nel Dilmun quel posto privo di sofferenze, di privazioni e di affanni.
Conserviamo di questa opera tre testimoni: da Nippur PBS[11] 10/1,1; è la versione più completa), da Ur UET[12] 6,1) e uno di provenienza sconosciuta TCL[13] 16,62:
«dili-ni-ne dilmunki-a u3-bi2-in-nu2
ki den-ki dnin-sikil-la ba-an-da-nu2-a-ba
ki-bi sikil-am3 ki-bi dadag-ga-am3
dilmunki-a ugamušen gu3-gu3 nu-mu-ni-be2
darmušen-e gu3 darmušen-re nu-mu-ni-ib-be2
ur-gu-la saĝ ĝiš nu-ub-ra-ra
ur-bar-ra-ke4 sila4 nu-ub-kar-re
ur-gir15 maš2 gam-gam nu-ub-zu
šaḫ2 še gu7-gu7-e nu-ub-zu
nu-mu-un-su2 munu4 ur3-ra barag2-ga-ba
mušen-e an-na munu4-bi na-an-gu7-e
tum12mušen-e saĝ nu-mu-un-da-RU-e
igi-gig-e igi-gig-me-en nu-mu-ni-be2
saĝ-gig-e saĝ-gig-me-en nu-mu-ni-be2
um-ma-bi um-ma-me-en nu-mu-ni-be2
ab-ba-bi ab-ba-me-en nu-mu-ni-be2
ki-sikil a nu-tu5-a-ni iri-a nu-mu-ni-ib-sig10-ge
lu2 id2-da bal-e ĝi6-de3 nu-mu-ni-be2
niĝir-e zag-ga-na nu-um-niĝin2-niĝin2
nar-e e-lu-lam nu-mu-ni-be2
zag iri-ka i-lu nu-mu-ni-be2»
«Quando (Enki) da solo a Dilmun giaceva,
il posto dove egli giaceva con sua moglie Ninsikila,
quel posto era puro, quel posto era splendente.
A Dilmun il corvo non gracchiava;
l'uccello-dar non gridava "Dar! Dar!";
il leone non uccideva;
il lupo non sbranava l'agnello;
il cane non soggiogava le capre;
il porco non mangiava l'orzo;
alla vedova quando aveva sparso il malto sul tetto,
gli uccelli non mangiavano il malto;
la colomba non mangiava il seme;
l'ammalato agli occhi non diceva: "Sono ammalato agli occhi!";
colui che aveva mal di capo non diceva: "Ho male al capo!";
la donna vecchia non diceva: "Sono una donna vecchia!";
l'uomo vecchio non diceva: "Sono vecchio!";
la vergine non trovava acqua nella città per bagnarsi;
il traghettatore non diceva: "È mezzanotte!";
l'araldo non andava in giro;
il cantante non cantava [dicendo]: "Elulam!";
fuori della città non si udivano pianti.»
Dilmun risulterà il luogo dove l'unico superstite del Diluvio Universale di tradizione sumerica, Ziusudra, sarà dagli dèi destinato a vivere eternamente.
«zi an-na zi ki-a i3-pad3-de3-en-ze2-en za-zu-da ḫe2-em-da-la2
an den-lil2 zi an-na zi ki-a i3-pad3-de3-ze2-en za-da-ne-ne im-da-la2
niĝ2-gilim-ma ki-ta ed3-de3 im-ma-ra-ed3-de3
zi-ud-su3-ra2 lugal-am3
igi an den-lil2-la2-še3 giri17 ki su-ub ba-/gub!\
an den-lil2 zi-ud-su3-ra2 mi2-e-/eš2?\ […-dug4-…]
til3 diĝir-gin7 mu-un-na-šum2-mu
zi da-ri2 diĝir-gin7 mu-un-<na>-ab-ed3-de3
ud-ba zi-ud-su3-ra2 lugal-am3
mu niĝ2-gilim-ma numun nam-lu2-ulu3 uru3 ak
kur-bal kur dilmun-na ki dutu e3-še3 mu-un-til3-eš»
«"Ti avevo tuttavia fatto giurare sul cielo e sulla terra
Come An e Enlil in persona,con il loro[...]Avevano prestato giuramento!"
E Enki(?) fece di nuovo uscire dalla terra Gli esseri-viventi(?).
Frattanto Ziusudra, il re,
Essendosi prostrato davanti ad An ed Enlil,
Questi si affezionarono a lui.
Inoltre gli concessero una vita simile a quella degli dèi:
Un soffio di vita immortale, come quello degli dèi!
Ecco come il re Ziusudra,
Che aveva salvato gli animali e il genere umano,
Fu insediato in una regione al di là del mare: A Dilmun, là dove si leva il sole»
La credenza in un "giudizio dei morti", e quindi in un luogo di felicità riservato a coloro che in vita scelsero il "bene" piuttosto che il "male", risulterebbe presente nelle parti più antiche del libro sacro della religione mazdeista (conosciuta anche come "zoroastrismo"), l'Avestā, e secondo alcuni avrebbe influenzato profondamente le credenze proprie dell'ebraismo, del cristianesimo, del manicheismo e dell'islām[15]. Tuttavia non tutti gli studiosi hanno lo stesso parere al riguardo. James Darmesteter (1849-1894) ha sostenuto esattamente il contrario, cioè che all'inizio il pensiero persiano è stato fortemente influenzato dalle idee ebraiche.
Ha insistito sul fatto che la Avesta, come la conosciamo ora, è di origine tarda ed è molta colorata da elementi stranieri, soprattutto quelli derivati dal giudaismo, e anche quelli adottati dal neoplatonismo attraverso gli scritti di Filone di Alessandria. Questi punti di vista, presentati poco prima della morte dello studioso francese, sono stati violentemente combattuti dagli specialisti e da allora e la discussione è aperta.
Tali parti antiche, indicate con il termine gāθā[16], sono infatti, per la maggior parte degli studiosi, attribuibili direttamente al profeta iranico Zarathuštra[17], vissuto, secondo le ipotesi più recenti attestate da una verifica filologica e archeologica, plausibilmente nell'Età del Bronzo, tra il XVIII e il XV secolo a.C. in Asia Centrale[18]. Tuttavia ultimamente pare che gli studiosi abbiano cambiato opinione riguardo a tali studi e che questi concetti siano stati scritti dopo. I manoscritti risalgono al III-IX secolo. Pare che il testo dell'Avestā abbia avuto mutamenti rispetto alla sua versione più antica perché il testo dell'Avestā andò perduto in epoca alessandrina e fu ricostruito in seguito tramite la tradizione orale. Le somiglianze esteriori con il Cristianesimo sono tanto maggiori quanto più recenti sono gli scritti esaminati. Il termine più frequente per indicare questo "paradiso" dei giusti è in lingua avestica garō.dəmāma (antico avestico; in avestico recente garō.nmāna) lett. "Casa del canto":
«hyat mîzhdem zarathushtrô magavabyô côisht parâ garô demânê ahurô mazdå jasat pouruyô tâ vê vohû mananghâ ashâicâ savâish civîshî.»
«Quando Zarathuštra ha fatto la promessa ai suoi seguaci di ricompensarli con la Casa del canto, è stato Ahura Mazdā il primo ad accoglierla. Questo premio io ho promesso nel tempo della salvezza, congiuntamente con Vohū Manah e Aša.»
La visione religiosa propria dell'insegnamento del profeta iranico Zarathuštra consiste nella credenza in un dio unico, Ahura Mazdā, creatore di ogni cosa. A questo Dio si oppone Angra Mainyu, spirito inizialmente da lui creato, insieme ad altri "spiriti", come votato al bene, ma a lui ribelle, acquisendo per questo la natura di "spirito del male". Questa opposizione cosmica tra Bene e Male riguarda sia il mondo sovrasensibile, in quanto agli spiriti del "bene", gli Ameša Spenta, si oppongono quegli spiriti del "male", i Daēva, che hanno seguito nella ribellione Angra Mainyu, ma anche l'uomo chiamato nella sua vita a scegliere tra il "bene" e il "male".
La scelta dell'uomo verrà quindi o premiata o punita da Ahura Mazdā quando, alla fine dei tempi, sconfiggerà definitivamente Angra Mainyu e le schiere demoniache a lui fedeli:
«tâ-thwâ peresâ ahurâ ýâ-zî âitî jêñghaticâ ýå ishudô dadeñtê dâthranãm hacâ ashâunô ýåscâ mazdâ dregvôdebyô ýathâ tå anghen hêñkeretâ hyat.»
«Di queste cose chiedo a te, o Ahura, che stanno ora accadendo e che accadranno. Quali saranno i munifici premi che toccheranno al Giusto e quali, o Mazdā, spetteranno ai malvagi, seguaci di Druji[19], e come saranno queste quando verrà la resa dei conti.»
Inoltre, secondo alcuni studiosi[20], in tale contesto arcaico di dottrine religiose vi è anche un'esplicita dottrina inerente alla resurrezione dei corpi:
«ahmâicâ xshathrâ jasat mananghâ vohû ashâcâ dà at kehrpêm utayûitîsh dadât ârmaitish ãnmâ aêshãm tôi â anghat ýathâ ayanghâ âdânâish pouruyô.»
«ח ויטע יהוה אלהים גן בעדן--מקדם וישם שם את האדם אשר יצר ט ויצמח יהוה אלהים מן האדמה כל עץ נחמד למראה וטוב למאכל--ועץ החיים בתוך הגן ועץ הדעת טוב ורע י ונהר יצא מעדן להשקות את הגן ומשם יפרד והיה לארבעה ראשים יא שם האחד פישון--הוא הסבב את כל ארץ החוילה אשר שם הזהב יב וזהב הארץ ההוא טוב שם הבדלח ואבן השהם יג ושם הנהר השני גיחון--הוא הסובב את כל ארץ כוש יד ושם הנהר השלישי חדקל הוא ההלך קדמת אשור והנהר הרביעי הוא פרת טו ויקח יהוה אלהים את האדם וינחהו בגן עדן לעבדה ולשמרה»
«Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l'uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male. Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre attorno a tutta la regione di Avìla, dove si trova l'oro e l'oro di quella regione è fino; vi si trova pure la resina odorosa e la pietra d'ònice. Il secondo fiume si chiama Ghicon: esso scorre attorno a tutta la regione d'Etiopia. Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre a oriente di Assur. Il quarto fiume è l'Eufrate. Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.»
In questo passo di Genesi (libro in lingua ebraica che si ritiene composto intorno al VI secolo a.C.) troviamo dunque l'espressione גן־בעדן (gan bə‘êḏen, "giardino in Eden"), quindi il nome del "paradiso terrestre" in cui ai primordi della storia dell'uomo, il dio suo creatore collocò il primo uomo "Adamo". Altri passi della Bibbia si riferiscono a questo stesso "paradiso terrestre" con altri nomi:
In questo giardino si consuma quel mito biblico in cui Adamo, convinto da Eva, a sua volta sedotta dal "serpente" (הנחש, nâchâsh)[23] mangia il frutto "dell'albero della conoscenza del bene e del male" ( ועץ הדעת טוב ורע, wə-‘êṣ had-da-‘aṯ ṭō-wḇ wā-rā‘) e per questo verrà cacciato da Dio insieme alla compagna dal giardino di Eden affinché non mangiassero anche il frutto dell'"albero della vita" (ועץ החיים, wə-‘êṣ ha-ḥay-yîm) divenendo così immortali (Genesi 3). Il che potrebbe significare che mangiando dell'"albero della conoscenza del bene e del male", la coppia umana avrebbe potuto identificare l'"albero della vita", altrimenti nascosto, e questo spiegherebbe anche la ragione per cui il serpente, anche lui interessato all'immortalità, avrebbe convinto Eva a violare il comando divino[24].
L'origine del significato del nome ebraico Eden è sconosciuto, fino a qualche decennio fa lo si riteneva eredità diretta del termine accadico edinu, a sua volta resa del sumerico edin, col significato di "piana", "steppa". Tuttavia la scoperta nel 1979, a Tell Fekheriyeh (al confine tra la Turchia e la Siria), di un'iscrizione bilingue accadico-antico aramaico risalente al IX secolo a.C. ne confermerebbe il collegamento alla radice del semitico occidentale *dn (lussureggiante, gradevole)[25], quindi col significato di "delizioso", "[giardino] delle delizie".
Se è evidente il debito biblico nei confronti del racconto sumerico, e di analoghi in contesto mesopotamico, nella Bibbia tale ambito di "paradiso terrestre" supporta un racconto dagli evidenti contenuti morali[26].
Le nozioni di "caduta" e di "peccato originale" dell'uomo, derivati dalla violazione del divieto divino di mangiare il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male, non attengono originariamente alle esegesi ebraiche ma solo a quelle di derivazione cristiana, entrando tardivamente nell'ebraismo grazie alla letteratura cabalistica medievale[26].
Come vedremo meglio più avanti, la letteratura rabbinica medievale distinguerà due Eden, quello "terrestre", luogo della coppia umana primordiale, e quello "celeste", luogo di beatitudine per le anime giudicate da Dio come "giuste"[26].
«Nell'Ebraismo il concetto di al di là prese forma gradualmente e non fu mai espresso in una forma dogmatica o sistematica. L'idea ebraica di aldilà si è concentrata sulla credenza nella resurrezione della carne o nell'immortalità dell'anima. Sebbene queste concezioni siano state presenti, separatamente o insieme, in ogni epoca della storia ebraica, si può affermare con sicurezza che trovarono il loro maggiore sviluppo durante il periodo rabbinico medievale.»
Nel testo biblico vi sono due indirizzi per il destino dei defunti: da una parte quello di tornare polvere in quanto si era polvere (Genesi, 2,7; 3,19), oppure a seguito della punizione divina dopo il "peccato" dei progenitori dell'umanità (Genesi, 3, 22-24), ma in altri passi biblici (ad esempio: Isaia, 14, 9-12; Ezechiele, 32,17-32) il destino degli uomini è quello di scendere nello אול (she'ol, gli "inferi"), luogo da cui non si risale. Tale luogo viene indicato[27] anche con il termine... ארץ חשך (ʾereẓ ḥōšeḵ) col significato di "terra di tenebra".
«כלה ענן וילך כן יורד אול לא יעלה»
«Una nube svanisce e se ne va, così chi scende agli inferi più non risale;»
Tali termini[28] e nozioni sono strettamente correlati alla cultura religiosa mesopotamica[29].
Ma al Dio della Bibbia è riservato il potere di resuscitare chi è morto:
«יהוה ממית ומחיה מוריד שאול ויעל»
«Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire.»
Tuttavia ci sono due eccezioni bibliche di uomini che non sono scesi nello she'ol per sempre: Enoch (Genesi, 5,24) ed Elijah (II Re 2,11); la loro condizione è analoga alla narrazione soprariportata del sumerico Ziusudra (il Noè sumerico, in ulteriore letteratura in lingua accadica, come il Poema di Atraḫasis o nell'Epopea di Gilgameš, conosciuto anche come Atraḫasis o Utanapištim).
Il più antico testo biblico che tratta della resurrezione dei morti è in Daniele 12,1-2, opera apocalittica risalente al II secolo a.C. redatta durante le persecuzioni di Antioco IV:
«א ובעת ההיא יעמד מיכאל השר הגדול העמד על בני עמך והיתה עת צרה אשר לא נהיתה מהיות גוי עד העת ההיא ובעת ההיא ימלט עמך כל הנמצא כתוב בספר ב ורבים מישני אדמת עפר יקיצו אלה לחיי עולם ואלה לחרפות לדראון עולם ס»
«Ora, in quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo. Sarà un tempo di angoscia, come non c'era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro. Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l'infamia eterna.»
Tale nozione di "resurrezione" non riguarda, tuttavia, l'intero genere umano, ma solo agli appartenenti al popolo di Israele, più precisamente allo scopo di sostenere il valore del martirio e quindi della sua ricompensa (o punizione per i nemici)[30].
Questa idea di "resurrezione" va tuttavia distinta dall'idea di "immortalità" dell'anima che invece entra nell'ebraismo della Diaspora da analoghe nozioni proprie della cultura greco-romana[30].
Tale idea di immortalità dell'anima la si riscontra, ad esempio, nel libro giunto a noi in lingua greca, La sapienza di Salomone (II-I secolo a.C.; testo non accolto nella Bibbia in lingua ebraica, la cui canonizzazione risale al Medioevo):
«1 δικαίων δὲ ψυχαὶ ἐν χειρὶ θεοῦ καὶ οὐ μὴ ἅψηται αὐτῶν βάσανος2 ἔδοξαν ἐν ὀφθαλμοῖς ἀφρόνων τεθνάναι καὶ ἐλογίσθη κάκωσις ἡἔξοδος αὐτῶν 3 καὶ ἡ Ἀφ᾿ ἡμῶν πορεία σύντριμμα οἱ δέ εἰσιν ἐνεἰρήνῃ 4 καὶ γὰρ ἐν ὄψει ἀνθρώπων ἐὰν κολασθῶσιν ἡ ἐλπὶς αὐτῶνἀθανασίας πλήρης 5 καὶ ὀλίγα παιδευθέντες μεγάλα εὐεργετηθήσονταιὅτι ὁ θεὸς ἐπείρασεν αὐτοὺς καὶ εὗρεν αὐτοὺς ἀξίους ἑαυτοῦ 6 ὡςχρυσὸν ἐν χωνευτηρίῳ ἐδοκίμασεν αὐτοὺς καὶ ὡς ὁλοκάρπωμα θυσίαςπροσεδέξατο αὐτούς 7 καὶ ἐν καιρῷ ἐπισκοπῆς αὐτῶν ἀναλάμψουσινκαὶ ὡς σπινθῆρες ἐν καλάμῃ διαδραμοῦνται 8 κρινοῦσιν ἔθνη καὶκρατήσουσιν λαῶν καὶ βασιλεύσει αὐτῶν κύριος εἰς τοὺς αἰῶνας 9 οἱπεποιθότες ἐπ᾿ αὐτῷ συνήσουσιν ἀλήθειαν καὶ οἱ πιστοὶ ἐν ἀγάπῃπροσμενοῦσιν αὐτῷ ὅτι χάρις καὶ ἔλεος τοῖς ἐκλεκτοῖς αὐτοῦ 10 οἱ δὲἀσεβεῖς καθὰ ἐλογίσαντο ἕξουσιν ἐπιτιμίαν οἱ ἀμελήσαντες τοῦδικαίου καὶ τοῦ κυρίου ἀποστάντες»
«1. Le anime dei giusti, invece, sono nelle mani di Dio, nessun tormento li toccherà. 2. Agli occhi degli stolti parve che morissero, la loro fine fu ritenuta una sciagura, 3. la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. 4. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza resta piena d'immortalità. 5. In cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé; 6. li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come l'offerta di un olocausto. 7. Nel giorno del loro giudizio risplenderanno, come scintille nella stoppia correranno qua e là. 8. Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli e il Signore regnerà per sempre su di loro. 9. Coloro che confidano in lui comprenderanno la verità, i fedeli nell'amore rimarranno presso di lui, perché grazia e misericordia sono per i suoi eletti. La sorte degli empi 10. Ma gli empi riceveranno una pena conforme ai loro pensieri; non hanno avuto cura del giusto e si sono allontanati dal Signore.»
Anche nelle opere del filosofo platonico ebreo di lingua greca, Filone di Alessandria[31] (I sec. a.C.-I sec. d.C.), si presenta questa nozione di "anima immortale", opere, tuttavia, che non influenzarono il successivo ebraismo rabbinico[32].
«Infatti, come ora, finché siamo vivi, l'anima nostra è seppellita, per così dire, nel sepolcro del corpo, così,se moriamo, l'anima vive la vita che le è propria, perché si è sciolta dal legame del corpo: un cadavere <che è fonte> di male.»
Va dunque precisato che l'idea di "immortalità dell'anima" di derivazione greca implica un dualismo tra anima e corpo, quest'ultimo inteso come "prigione" peritura dell'anima da cui questa si deve liberare definitivamente; mentre l'idea di "resurrezione" intende congiungere l'anima e il corpo in una nuova vita maggiormente compiuta[33].
Per quanto l'argomento non sia stato frequentemente affrontato nella letteratura rabbinica, il tema dell'aldilà trova comunque una posizione ben chiara nella seguente affermazione contenuta nella Mishnah:
«מתני' כל ישראל יש להם חלק לעולם הבא»
«Tutto Israele ha un posto nel mondo a venire»
a cui segue la spiegazione che tale "mondo a venire" è precluso a coloro che negano la "resurrezione dei morti".
Successivamente in questo modo precisata nel XII secolo dal filosofo e rabbino Maimonide:
«חסידי אומות העולם יש להם חלק לעולם הבא»
«I giusti di tutte le nazioni hanno un posto nel mondo a venire»
«La dottrina rabbinica riguardante ricompensa e castigo nell'altro mondo ha le sue radici nella convinzione che anima e corpo si ricongiungeranno prima del giudizio finale. Sebbene il pensiero rabbinico fosse influenzato in ultima analisi dalle concezioni greco-romane di una esistenza dell'anima come entità separata, e sebbene vi siano alcune opinioni rabbiniche che attestino la credenza nell'immortalità dell'anima indipendentemente dalla nozione di resurrezione della carne. L'importanza assoluta che quest'ultima questione di fede ha rivestito per i rabbini è testimoniata dai notevoli sforzi di esegesi che essi hanno affrontato per trovare fonti che la riguardassero nella Torah [ [...] ] e nei frequenti riferimenti alla resurrezione presenti nei targunim.»
Nel cristianesimo in generale, il paradiso è uno dei due stati definitivi degli uomini dopo la morte. L'altro è l'inferno. Il paradiso è l'unione definitiva tra Dio e l'uomo, come viene simbolicamente visto nella Bibbia (Cantico dei cantici, Apocalisse di Giovanni), ed è la più profonda delle aspirazioni dell'uomo, conducendolo definitivamente alla felicità (v. I Corinzi, XIII, 12; I Giovanni, III, 2).
Un'altra interpretazione cristiana del paradiso, di cui è testimonio una credenza della Chiesa copta, è quella di una dimora temporanea degli spiriti dei giusti fino a quando, riuniti con i rispettivi corpi nella risurrezione della carne, saranno trasferiti, dopo il giudizio universale, alla Gerusalemme celeste.[34]
Nei libri dei Maccabei, libri deuterocanonici non inclusi nel canone ebraico e nei canoni protestanti, si esprime la certezza della risurrezione dei morti e della vita eterna. Eppure Qoelet (Ecclesiaste) 3,19-20 afferma:
« 19.Infatti la sorte degli uomini è la stessa che quella degli animali: come muoiono questi così muoiono quelli. Gli uni e gli altri hanno uno stesso soffio vitale, senza che l'uomo abbia nulla in più rispetto all'animale. Gli uni e gli altri sono vento vano.20.Gli uni e gli altri vanno verso lo stesso luogo: gli uni e gli altri vengono dalla polvere, gli uni e gli altri tornano alla polvere. »
Nella Bibbia la parola "Paradiso" compare in tre brani del Nuovo Testamento:
Le dottrine protestanti contestano il libero arbitrio, ovvero la convinzione di altre correnti cristiane secondo cui il Paradiso è accessibile mediante le buone opere compiute sulla terra, attribuendo dunque all'uomo la possibilità di scampare al giudizio divino mediante i propri meriti e la propria giustizia. Tali dottrine si rifanno ai seguenti passi:
Il paradiso islamico, o Janna, (جنّة, "giardino") è la "dimora finale" del "timorato di Dio", secondo il versetto 35 della sūra coranica XIII.
Il Paradiso islamico assume una connotazione descrittiva e materialistica in base a quanto scritto nel Corano. I beati stanno in "giardini di delizie " , "in cui scorrono ruscelli.[..] è qualcosa di simile che verrà loro dato; avranno spose purissime e lì rimarranno in eterno" (Sura II, 25), "un calice di licor limpidissimo , chiaro, delizioso " tra " fanciulle , modeste di sguardo, bellissime di occhi, come bianche perle celate....." (XXXVII, 40 - 50). "Ma il compiacimento di Allah vale ancora di più: questa è l'immensa beatitudine!" (IX, 72). Nei " giardini di Eden " ci saranno " frutta abbondanti e bevande ... " (XXXVIII, 49 - 52). Per l'eternità " saran fatti circolare fra loro vassoi d'oro e coppe....." (XLIII, 71 - 73). "I timorati di Dio staranno in un luogo sicuro tra giardini e fontane, rivestiti di seta e di broccato... " (XLIV, 51 - 55). I beati " staranno in Giardini tra fonti d'acqua " (LI, 15); saranno riuniti a quanti, fra i loro discendenti, avranno creduto (LII, 21); saranno forniti, oltre che di frutta, di carne (LII,22); saranno serviti da giovani " come perle nascoste" (LII,24); saranno costituiti "in seggio di Verità, presso un Re potentissimo ! " (LIV, 55). Il paradiso di delizie è descritto anche nella sūra LV (46-76). Nei Giardini "molti vi saranno degli antichi, pochi là vi saranno dei moderni" (LVI, 13-14) e sentiranno gridare "Pace! Pace!" (LVI, 25-26). Sui loro volti si vedrà un luminoso fiorire della gloria (LXXXIII,24) e si abbevereranno alla stessa fonte dei Cherubini (LXXXIII, 25-28).
Esodo 3:7-8[35] contiene la descrizione di un «paese dove scorre latte e miele», con riferimento alla Terra Promessa da Dio al popolo d'Israele. Il testo della Sacra Scrittura è parzialmente simile alla descrizione coranica del Paradiso.
Nella tradizione induista esistono paradisi (svarga) o mondi celesti diversi, (sanscrito devaloka, "pianeta degli Dei"), in cui ogni dio accoglie i fedeli che hanno accumulato karma positivo e che li hanno adorati. Il paradiso è inteso come una tappa intermedia, differente dalla liberazione o "Mokṣa"[36][37]
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