filosofo e botanico greco antico Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Teofrasto (371 a.C. – 287 a.C.), filosofo e botanico greco antico.
Il tempo è la cosa più preziosa che un uomo possa spendere. (citato in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi)
[Ultime parole, pronunciate dopo che i discepoli gli domandarono se avesse un ultimo ammonimento per loro] Niuno; salvo che l'uomo disprezza e gitta molti piaceri a causa della gloria. Ma non così tosto incomincia a vivere, che la morte gli sopravviene. Perciò l'amore della gloria è così svantaggioso come che che sia. Vivete felici, e lasciate gli studi, che vogliono gran fatica; o coltivategli a dovere, che portano gran fama. Se non che la vanità della vita è maggiore che l'utilità. Per me non è più tempo a deliberare: voi altri considerate quello che sia più spediente.[1]
[...] tutti gli uomini, ma anche tutti gli animali sono della stessa razza, perché i princìpi dei loro corpi sono per natura gli stessi (parlando così non mi riferisco ai primi elementi dai quali provengono le piante, ma penso alla pelle, alle carni, a quel genere di umori inerenti agli animali), e ancor più perché l'anima che è in loro non è diversa per natura in rapporto agli appetiti, ai movimenti di collera, ai ragionamenti e soprattutto alle sensazioni. (p. 297)
Sotto tutti i rapporti, dunque, la razza degli altri animali ci è apparentata ed è la stessa della nostra; poiché i mezzi di sussistenza sono gli stessi per tutti come l'aria che respirano, secondo Euripide, e un sangue rosso scorre in tutti gli animali e tutti mostrano d'avere in comune per padre il cielo e per madre la terra. (p. 298)
[...] gli uomini si son messi a sgozzare le vittime e ad insanguinare gli altari da quando, avendo fatto prova di fame e guerre, hanno immerso le loro mani nel sangue. [...] Il sacrificio di animali è dunque più tardivo degli altri... e non ha origine da un beneficio come il sacrificio di prodotti raccolti, ma da una situazione difficile nata dalla fame o da qualche altro infortunio. [...] Tutto ciò trae la sua origine dall'ingiustizia... [...] Ci si è messi a sacrificare sotto pressione di una necessità maggiore di cui fummo allora le vittime. Le cause furono la fame e le guerre; esse portarono la necessità di mangiare gli animali. Ma finché vi sono i raccolti che bisogno c'è di praticare sacrifici se non sono più imposti da necessità? (p. 299)
Inoltre dobbiamo sacrificare solo ciò il cui sacrificio non lede nessuno, poiché se vi è un atto che non deve causare alcun torto, questo è il sacrificio. E se qualcuno dicesse che il dio ci ha dato gli animali allo stesso titolo dei raccolti, per il nostro uso, gli risponderei che quando si sacrificano degli esseri viventi si causa loro ben qualche torto perché li si deruba dell'anima. (p. 300)
Se qualcuno sostenesse che, non diversamente dai frutti della terra, il dio ci ha dato anche gli animali per il nostro uso, gli risponderei che, sacrificando esseri viventi, si commette contro di loro un'ingiustizia, perché si fa rapina della loro vita.[2]
[Gli egizi] sono così lontani dall'uccidere uno solo degli animali, ch'essi fanno delle loro figure immagini degli dèi perché li considerano prossimi e apparentati agli dèi e agli uomini. (p. 301)
Già altre volte prima di questa, riflettendoci su, mi sono stupito, e forse non cesserò mai di stupirmi, perché mai avvenga che, quantunque l'Ellade sia posta tutta sotto lo stesso cielo e i Greci siano tutti educati similmente, pure noi non abbiamo tutti la stessa costituzione morale.[3]
[Teofrasto, I caratteri, traduzione di Giorgio Pasquali, Rizzoli, 20149.]
Citazioni
La simulazione adunque si potrebbe dire in sostanza che non fosse altro che un fingere in parole e in opere a fin di male. E la qualità e lo andamento del simulatore sono dell'infrascritto modo. Questo tale andrà, ponghiamo caso, ad un suo nimico, e farà sembiante di non odiarlo, anzi di averlo caro. Loderà presenzialmente uno al quale di nascosto cercherà nuocere; e intervenendo a questo medesimo alcun sinistro, farà vista di contristarsene. Mostrerà di perdonare a chi parlerà male del fatto suo, e di non si curare di quello che sarà detto contro di se. E a coloro a chi esso fa ingiuria e che si risentono, userà modi e parole dolci e tranquille. Tavolta che uno sarà venuto e avrà fretta di favellargli, esso manderagli significando di dover tornare, scusandosi di essere arrivato a casa poco dianzi, e che l'ora è tarda, o ch'ei si sentirà male. Qualsivoglia cosa che questo cotale faccia, non confessa di farla, ma dice che sta deliberando o che ha intenzione. (I[4])
La cafoneria parrebbe essere ignoranza screanzata, e il cafone un tale che bevuto il ciceóne se ne va all'assemblea, e dice che il profumo non ha odore più soave della cipolla, e porta scarpe più grosse del piede, e parla a voce alta. Ed è diffidente con gli amici e con quei di casa, ma si consiglia coi servi sugli affari più gravi; e alle opere che lavorano a soldo da lui in campagna racconta tutto quel che ha sentito dire all'assemblea. E si mette a sedere tirando la veste sopra il ginocchio così da quasi mostrar le pudenda e di nessun'altra cosa per le strade si meraviglia o resta stupito, ma se vede un bue, un asino o un caprone si ferma e li guarda. E se poi prende qualche cosa dalla credenza la mangia con voracità e beve alla botte, e procura che non lo venga a sapere la serva che fa il pane, ma poi insieme con lei prepara per tutti quelli di casa e per sé il macinato che gli bisogna. (IV[5])
La lingua sta nell'umido. (VII, 9, Il chiacchierone)
Εν υγρώ εστιν η γλώττα.
Certo è che Teofrasto, amando gli studi e la gloria sopra ogni cosa, ed essendo maestro o vogliamo dire capo di scuola, e di scuola frequentatissima, conobbe e dichiarò formalmente l'inutilità de' sudori umani, e così degl'instituti suoi propri come degli altrui; la poca proporzione che passa tra la virtù e la felicità della vita; e quanto prevaglia la fortuna al valore in quello che spetta alla medesima felicità cosi degli altri come anche de' sapienti. (Giacomo Leopardi, Operette morali)
↑ Citato in Barbara De Mori, Che cos'è la bioetica animale, Carocci, Roma, 2007, p. 64. ISBN 978-88-430-4079-7
↑ Questo proemio è certamente spurio: fu aggiunto da un imitatore dell'epoca del tardo Impero romano o dell'epoca bizantina. Cfr. introduzione, p. XIII.