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scrittore, giornalista e militare britannico Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Ian Lancaster Fleming (1908 – 1964), scrittore britannico.
Alle tre del mattino l'odore del casinò, il fumo e il sudore danno la nausea. A quell'ora, il logorio interiore tipico del gioco d'azzardo – misto di avidità, paura e tensione nervosa – diventa intollerabile. I sensi si risvegliano e si torcono per il disgusto.
[Ian Fleming, Casinò Royale, traduzione di Massimo Bocchiola, Ugo Guanda Editore, 1953]
Alle tre del mattino, l'odore di un casinò – sentore di fumo e di traspirazione – diventa nauseante. Poi, la tensione provocata dal gioco d'azzardo – un misto di avidità, di paura e di logorio nervoso – si fa insopportabile; i sensi si risvegliano e si ribellano.
[Ian Fleming, Casinò Royal, traduzione di Enrico Cicogna. TEA, 1998]
L'uomo nudo giaceva a faccia in giù vicino alla piscina: poteva essere morto.
Poteva essere un annegato, ripescato dalla piscina e messo ad asciugare sull'erba in attesa dell'arrivo della polizia o dei familiari. Sull'erba vicino alla sua testa i suoi effetti personali erano meticolosamente raggruppati in bella vista in modo che nessuno potesse pensare che i soccorritori avevano rubato qualcosa.
Le due calibro 38 tuonarano in simultanea.
I muri del sotterraneo ricevettero la percossa sonora e se la rimandarono a vicenda, avanti e indietro, sinché fu silenzio.
James Bond guardò il fumo inghiottito ai due capi della stanza dal ventilatore centrale Ventaxia. Il ricordo ben vivo nella sua mano destra dell'unica mossa fulminea con cui aveva estratto da sinistra e sparato lo rassicurò. [...] Bond vide il ghigno sul volto dell'istruttore.
«Non ci posso credere» disse. «Stavolta, l'ho beccata».
[Ian Fleming, Moonraker, traduzione di Massimo Bocchiola, Ugo Guanda Editore, 1955]
Le due calibro 38 tuonarono insieme.
Le pareti della stanza sotterranea accolsero il fragore degli spari e se lo rimbalzarono più volte; poi ritornò il silenzio. James Bond osservò il fumo che, dagli angoli della stanza, si raccoglieva verso il centro, dove veniva risucchiato dall'aspiratore tipo Ventaxia. Il ricordo della sua mano destra che, con un solo rapido movimento aveva preso l'arma a sinistra e sparato, gli diede fiducia. [...] Bond vide che l'Istruttore sogghignava: «Non mi sembra vero,» gli disse, «ma questa volta vi ho preso.»
[Ian Fleming, Moonraker. Il grande slam della morte, traduzione di Roselia Irti Rossi, Garzanti, 1965]
«Foglia tremante», la geisha inginocchiata davanti a James Bond, si protese a baciarlo castamente sulla guancia destra.
«È una truffa», protestò vivamente Bond. «Eravamo d'accordo che se avessi vinto avrei avuto un vero bacio, per lo meno sulla bocca.»
«Perla Grigia», una Madame dai denti bizzarramente laccati di nero e così truccata da sembrare il personaggio di un Nô, si affrettè a tradurre. Vi furono risatine e urletti di incoraggiamento. Foglia Tremante si scoprì il viso con le manine affusolate, come se le avessero chiesto di compiere un atto osceno senza precedenti.
Con le due chele minacciosamente protese come le braccia di un lottatore, il grosso scorpione, un pandinus, uscì con un secco fruscio dalla fessura della roccia.
Fuori dal buco c'era una piccola zolla di terra battuta, e lo scorpione vi si fermò, appoggiandosi sulle quattro paia di zampe, pronto a una rapida ritirata e coi sensi vigili per captare le impercettibili vibrazioni che avrebbero determinato la sua prossima mossa.
Vi sono momenti di grande privilegio, nella vita di un agente segreto. Vi sono incarichi in cui gli si richiede di recitare la parte dell'uomo ricchissimo; occasioni in cui, come in questo caso, è ospite sul territorio di un Servizio Segreto alleato.
Vi sono momenti di splendore nella vita di un agente segreto. Indagini, ad esempio, nel corso delle quali deve recitare la parte del milionario, occasioni che gli offrono la possibilità di godersi una vita piacevole, cancellando dalla memoria il ricordo del pericolo e l'ombra della morte; e tempi in cui, come quello presente, egli è semplicemente un ospite nel territorio di un Servizio segreto alleato.
Era un settembre di quelli in cui l'estate pare non dover mai finire. Le cinque miglia del lungomare di Royal-les-Eaux, dietro il quale si stendevano prati ben tenuti, ravvivati ad intervalli da aiuole tricolori di salvia, alisso e lobelia, erano rallegrate dalle bandiere e, sulla spiaggia più lunga della Francia settentrionale, le tende variopinte scendevano allegramente fino alla riva, in folti, redditizi battaglioni.
Era una di quelle giornate in cui la vita pareva a James Bond – come deve aver detto qualcuno – un sei-quattro al tennis. Tanto per cominciare, aveva vergogna di se stesso, cosa che di solito non gli capitava. Soffriva dei postumi d'una maledetta sbronza, la testa debitamente dolente, le articolazioni debitamente anchilosate. Quando tossiva – l'eccesso di fumo si accompagna all'eccesso di alcool e inasprisce le conseguenze – uno sciame di luminosi puntini neri gli turbinava davanti come amebe in uno stagno. Il bicchiere di troppo si fa immancabilmente sentire troppo.
Per essere ai primi di giugno, era una giornata eccezionalmente calda. James Bond posò il pennarello grigio scuro col quale spuntava gli incartamenti avviati alla Sezione doppio zero e si tolse la giacca. Non si preoccupò di sistemarla sulla spalliera della sedia, e non gli passò neppure per la mente di alzarsi e di utilizzare l'appendiabiti che Mary Goodnight aveva fatto sistemare a proprie spese (maledette le donne!) dietro la porta verde che separava l'ufficio di Bond dalla segreteria. Non fece altro che lasciar cadere la giacca per terra. Perché mai avrebbe dovuto preoccuparsi di non sporcarla o di non gualcirla? Non c'era nessun lavoro in vista, che lui sapesse. Il mondo intero era in pace. Le notizie dall'interno e dall'esterno, da settimane, erano lavoro di normale amministrazione.
Alle sei, puntualmente, il sole tramontò dietro le Blue Mountains in un'ultima fiammata d'oro, un manto d'ombra viola si stese su Richmond Road, mentre grilli e raganelle, negli eleganti giardini, cominciavano a frinire e gracidare.
James Bond si trovava a quattrocentocinquanta metri dal bersaglio, nel famoso poligono di tiro Century, a Bisley.[4]
Sul paletto bianco piantato nell'erba accanto a lui era segnato il numero 44 e lo stesso numero era ripetuto in cima al monticello di terra dietro l'unico bersaglio, un quadrato di circa due metri di lato che a quella distanza, e nella foschia della tarda estate, sembrava non più grande di un francobollo. Ma il telescopio di Bond, uno Sniperscope a lenti infrarosse fissato sulla canna del suo fucile, inquadrava l'intero obiettivo. Riusciva persino a distinguere assai chiaramente i colori azzurro e beige del bersaglio; il centro semicircolare di quindici centimetri appariva simile alla mezzaluna che, sulla lontana cresta di Chobham Ridges, cominciava a sorgere in un cielo che andava facendosi sempre più cupo.
James Bond stava seduto nella sala d'aspetto dell'aeroporto di Miami. Aveva già bevuto due bourbon doppi e ora rifletteva sulla vita e la morte. Anche se ammazzare la gente faceva parte della sua professione, la cosa non gli era mai piaciuta. Quando vi era costretto, cercava di farlo come meglio poteva e poi se ne dimenticava. Come agente segreto in possesso del raro prefisso "00" – l'autorizzazione a uccidere nel Servizio Segreto – era suo dovere mantenersi di fronte alla morte freddo come un chirurgo. Se doveva succedere, succedeva. Peggio, era un tarlo che rodeva il cervello.
«Sai cosa ti dico?» disse il maggiore Dexter Smythe al polpo. «Oggi, se ce la faccio, avrai un pranzetto coi fiocchi.»
Aveva parlato a voce alta, e la maschera Pirelli si era appannata. Posò i piedi sul fondo sabbioso, vicino alla nera sporgenza dello scoglio, e si raddrizzò. L'acqua gli arrivava alle ascelle. Si tolse la maschera, ci sputò dentro, sparse la saliva sul vetro e lo risciacquò. Poi si passò la cinghietta della maschera dietro la testa e si immerse di nuovo.
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