La principale fonte per la ricostruzione della biografia del Volterrano è la vita scritta da Filippo Baldinucci, suo amico diretto. È ritenuta attendibile, nonostante lo scrittore stesso lamenti in apertura di non aver ricevuto dall'artista, a causa della sua modestia, tutte le notizie di cui avrebbe avuto bisogno per stilare un resoconto più dettagliato. A questa fonte si aggiungono i documenti d'archivio legati per lo più a pagamenti, disponibili solo per alcuni lavori[1].
Origini
Nacque a Volterra nel 1611 (data fornita dal Baldinucci), figlio dello scultore locale Gaspare Franceschini, fu avviato alla pratica artistica dal padre, per diventare poi apprendista, sempre a Volterra, del fiorentino Cosimo Daddi.
Si fece notare da Ludovico Guarnacci, uno dei suoi primi committenti, e da Curzio Inghirami, fratello del più potente Giulio, segretario di Cristina di Lorena. Proprio Giulio lo introdusse nell'ambiente fiorentino e fece sì che nel 1628 entrasse a bottega da Matteo Rosselli, uno degli artisti più quotati allora attivi in città. Per via della pestilenza, il Franceschini tornò a Volterra un anno dopo, dove dipinse una serie di affreschi che sono tra le sue prime opere note: una Purificazione in Sant'Agostino, un'Assunta già nella congregazione dei Cappellani della cattedrale e ora nell'oratorio di Sant'Antonio Abate (1631) e il Sogno di Elia nell'abbazia di San Giusto (1632, perduti invece gli affreschi nella volta e nel coro)[2]. Si tratta di lavori dove si legge l'influenza del Rosselli, anche se una certa rigidità compositiva risente ancora del provincialismo dei suoi primi passi[1].
Primi successi a Firenze
Tornato a Firenze, fu cinque mesi nella bottega di Giovanni da San Giovanni, mettendo mano sia all'affresco d'altare nella chiesa di San Felice in Piazza, sia alla decorazione della sala dell'Udienza negli appartamenti estivi di palazzo Pitti (oggi detta Sala di Giovanni da San Giovanni nel Museo degli argenti), dove gli viene attribuito un pennacchio con un monocromo di piume in un vaso (1635). Dopo la morte del suo maestro (1636), che era il principale artista della corte medicea, sempre per l'interessamento del conterraneo Giulio Inghirami, il Franceschini viene presentato ufficialmente a corte, facendo esporre una sua opera (un perduto affresco portatile detto "paniera", di cui restano un paio di disegni preparatori) a palazzo Pitti[1].
Gli effetti di tale iniziativa non si fecero attendere, tanto che già un anno dopo don Lorenzo de' Medici gli affidò l'importante compito di affrescare nella villa La Petraia un ciclo di affreschi nei loggiati del cortile, sul tema dei Fasti medicei, elaborato da alcuni letterati tra cui Ludovico Incontri. A questa importante impresa il Volterrano lavorò per quasi dieci anni, dalla fine del 1636 al 1647, con una lunga pausa tra il 1639 e il 1641 per visitare, a spese di Don Lorenzo, l'Italia del Nord e conoscere le più avanzate conquiste pittoriche di quelle zone. Fu quindi a Bologna, a Ferrara, a Venezia, a Parma e ancora a Mantova, Modena e Novellara (dove lavorò per Alfonso Gonzaga), e probabilmente anche a Roma[2].
Al suo ritorno lo stile degli affreschi, interrotti a metà, segnò una decisa evoluzione: dallo stile ancora basato sul preciso disegno, mutuato dal Rosselli e da Giovanni da San Giovanni, passò a forme più fluide e colori più solari, derivati dalle influenze di Paolo Veronese, di Pietro da Cortona e, soprattutto, Correggio. Il 14 novembre 1646 è registrato l'ultimo pagamento per il ciclo della Petraia, per un compenso totale di 1.304 ducati, superiore alla media dell'epoca[3], a testimonianza della sua raggiunta maturità artistica, assai apprezzata dalla committenza[2].
Approfittando delle pause invernali, l'artista aveva anche realizzato nel frattempo importanti lavori a Firenze, come un affresco con San Michele Arcangelo caccia Lucifero e altri diavoli nella compagnia dei battuti della chiesa di San Michele a Castello (1637), la Vigilanza e Sonno nella villa medicea di Castello (1641-42, entrambi commissionati dallo stesso Don Lorenzo), uno nell'oratorio dei Vanchetoni (1639-40) e gli affreschi della cappella Orlandini-Concini in Santa Maria Maggiore (1642), che Mina Gregori indicò come prima opera pubblica inequivocabilmente "barocca" a Firenze. A questo ciclo si aggiunse poi quello della Gloria di santa Cecilia nella cappella Grazzi della basilica della Santissima Annunziata (1643-44), primo suo lavoro nel complesso servita. In queste prove l'artista dimostrò già una piena maturità e uno stile destinato a diventare il suo marchio di fabbrica più apprezzato, con un allargamento della lezione toscana verso forme più libere e barocche[2].
Artista dell'aristocrazia fiorentina
Diventato tra gli artisti più apprezzati del momento, dipinse nel corso degli anni cinquanta numerose opere religiose, tele da cavalletto e alcuni affreschi nei palazzi della nobiltà fiorentina, come a palazzo della Gherardesca (per Guido della Gherardesca), al palazzo di Valfonda (per Cosimo Riccardi), a palazzo Niccolini (per Filippo Niccolini), al palazzo di San Clemente (per Tommaso Guadagni e i suoi figli), a palazzo Taddei (per Vincenzo Giraldi), alla villa medicea di Castello (per il cardinale Giovan Carlo de' Medici, opere staccate e oggi nel Museo Bardini di Firenze). Per il cardinale dipinse anche un famoso ritratto, di cui restano anche alcune repliche, e alcune celebrate opere quali lo Staffiere liutista col moro Giovannino (1662 circa) e la Burla del Pievano Arlotto ai commensali (1643-44), che faceva parte di una serie perduta[2].
Importante successo fu anche il ciclo nella Cappella Colloredo nell'Annunziata, dove decorò la volta e i pennacchi (1650-52), ottenendo un compenso quasi raddoppiato durante la stima finale (da 240 a 400 ducati)[2].
Nel 1651 il marchese Niccolini, in previsione della decorazione della sua cappella in Santa Croce, gli finanziò una nuova serie di viaggi di formazione: nell'agosto 1651 in Emilia (Bologna, Modena, Sassuolo e Parma) e nel febbraio-aprile 1653 a Roma, dove affrescò anche una stanza del palazzo del Bufalo alle Fratte. Se negli affreschi a palazzo Niccolini si nota una certa ascendenza emiliana, è solo dopo il viaggio romano che l'artista mette mano, con una rinnovata fastosità (derivata dal Lanfranco, da Pietro da Cortona e da Gian Lorenzo Bernini), alla volta della cappella Niccolini, compiuta nel 1658-59, coi peducci terminati nel 1661[2]. L'artista, che incassò ben 1400 scudi per l'impresa[2].
Per i vecchi patroni Inghirami dipinse inoltre, in quegli anni, una pala con la Madonna e santi (1659) per la badessa Marzia Inghirami di Santa Chiara, oggi nella Pinacoteca civica[2].
L'occasione francese
Nel 1664 l'abate Luigi Strozzi, emissario fiorentino del potente ministro Jean-Baptiste Colbert, gli commissionò un'importante opera destinata ad essere donata al re di Francia: la Gloria di Luigi XIV che trionfa sul Tempo (oggi alla Reggia di Versailles), che gli avrebbe potuto aprire le porte di una carriera internazionale alla della corte del re Sole, attentissimo alle novità provenienti dall'Italia[2].
Ispirata agli schemi de recenti affreschi di Pietro da Cortona a palazzo Pitti (specialmente quelli della volta della Sala di Saturno, 1663-1665), l'opera non riscosse il successo sperato. Presto se ne scordò l'artefice, tant'è vero che fu a lungo attribuita a Ciro Ferri[2].
Pittore affermato a Firenze
Attivo fino a pochi anni prima della morte, il Volterrano fu sempre molto richiesto a Firenze e in Toscana, toccando vari generi, dalla pittura allegorica e mitologica alle opere devozionali, dal ritratto ala decorazione parietale. Gli anni sessanta, settanta e ottanta sono ricchi di commissioni, sebbene l'iniziale libertà e spregiudicatezza giovanile si stempera ormai in forme più consolidate, talvolta appesantite dalla retorica barocca. Spicca comunque la preferenza compositiva per le linee ascensionali e per la visione "da sott'in su"[2], che gli ha fatto talvolta guadagnare l'appellativo di "Correggio toscano"[4].
Tra i suoi committenti si ritrovano i nomi della nobiltà volterrana e fiorentina, quali gli Incontri (San Ludovico di Tolosa risana gli scrofolosi nella chiesa di Sant'Egidio), i marchesi Gerini (Andata al Calvario e Riposo durante la fuga in Egitto), i cardinali Carlo (Sacra Famiglia, perduta) e Leopoldo de' Medici (Assunzione nella Santissima Annunziata, 1671, e Pala di San Filippo Benizi), il principe Mattias (una perduta Vittoria e Fama nella villa medicea di Lappeggi), fino al granduca Cosimo III (Madonna in gloria nella chiesa di Santa Lucia alla Castellina, 1682). Fuori Firenze, inviò opera a Pescia (San Carlo Borromeo che comunica gli appestati) e a Pisa (pala dell'altare maggiore della chiesa della certosa di Pisa, 1681)[2].
A inizio degli anni ottanta prese avvio il suo ultimo e più impegnativo lavoro per la basilica della Santissima Annunziata, la decorazione ad affresco della grande volta della tribuna con la Gloria della Vergine. Commissionata da Cosimo III già nel 1676, fu realizzata con l'aiuto dell'allievo Cosimo Ulivelli tra il settembre 1680 e l'agosto 1683[2].
Negli anni più tardi, nonostante l'anzianità e un'apoplessia, riuscì comunque a compiere opere estreme, come l'affresco nella villa Medicea del Poggio Imperiale (Ascensione di santa Maria Maddalena, oggi staccato e nei depositi di palazzo Pitti) e quelli nella Sala delle Allegorie, entrambi per Vittoria Della Rovere[2].
Santi Giovanni Battista, Giovanni Evangelista, Filippo Neri e angeli, 1639-40, affresco, Firenze, oratorio dei Vanchetoni
Zefiro con flauto e tromba, 1640-41 circa, olio su tela, 64x48 cm, Firenze, Uffizi (depositi)
Santa Caterina da Siena in adorazione del crocifisso, 1641-42 circa, olio su tavola, 28,5x18,5cm, Firenze, Galleria Palatina
Elia sul carro di fuoco, angeli, Antica e Nuova Legge, Umiltà e Verginità, 1642, affreschi, Firenze, chiesa di Santa Maria Maggiore, Cappella Orlandini-Concini
Attivissimo disegnatore, tra i massimi della sua epoca, ha lasciato un corpus grafico molto consistente (si parla di almeno 400 fogli), sparso nelle maggiori istituzioni pubbliche e collezioni private[2].
Più bassa ad esempio della somma dei compensi dati, in quegli stessi anni, a Francesco Furini, Ottavio Vannini e Cecco Bravo per completare il salone di palazzo Pitti detto di Giovanni da San Giovanni