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teoria sul luogo d'origine degli indoeuropei Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
L'ipotesi kurganica, a volte chiamata teoria delle steppe, è una teoria storica che si propone di descrivere l'origine e la diffusione delle lingue indoeuropee, postulando l'esistenza di una protolingua conosciuta come protoindoeuropeo parlato dall'omonimo popolo. Secondo la teoria, basata su ipotesi linguistiche, fonti archeologiche e studi genetici, questo popolo protoindoeuropeo è da identificarsi con la cultura kurgan, un insieme di popoli preistorici stanziatisi nelle steppe pontico-caspiche caratterizzati dall'uso dei kurgan, particolari tumuli funerari. L'ipotesi colloca perciò la patria originaria protoindoeuropea, in gergo Urheimat, nelle steppe pontico-caspiche comprese tra Mar Nero e Caucaso.[1][2]
Argomentazioni per l'identificazione di popoli proto-indoeuropei come nomadi della steppa della regione pontico-caspica erano state prodotte già nel XIX secolo dagli studiosi tedeschi Theodor Benfey (1869) e Victor Hehn [de] (1870),[3] seguiti in particolare da Otto Schrader (1883, 1890), cui generalmente ci si riferisce come il primo studioso che l'abbia proposta nei suoi termini generali.[4]
Dopo un periodo di grandi dibattiti sull'origine di queste popolazioni,[5] l'ipotesi dell'indoeuropeizzazione a partire dalle steppe venne ripresa prima da Vere Gordon Childe nel 1926[6] e poi dall'archeologo tedesco Ernst Wahle[7], alle cui lezioni attese l'archeologo lituano Jonas Puzinas, futuro insegnante di Marija Gimbutas. È a lei che si deve il perfezionamento dell'ipotesi che queste popolazioni nomadi fossero originarie della steppa della regione pontico-caspica.[8][9]
Alla Gimbutas, in particolare, va ascritta l'identificazione del processo di indoeuropeizzazione con quello della diffusione della cultura kurgan, da lei approfonditamente studiata in numerosi saggi, raccolti nel 1997 in un volume postumo.[10] Nel 1989 le teorie di Gimbutas sono state riviste e aggiornate in base alle nuove scoperte archeologiche da vari studiosi tra cui James Patrick Mallory.
Da ultimo, nel 2015 tre studi genetici hanno parzialmente confermato l'ipotesi che l'Urheimat fosse localizzata nelle steppe. Secondo tali studi, gli aplogruppi R1b e R1a, ora i più comuni in Europa (R1a è comune anche nell'Asia meridionale), si sarebbero espansi nel calcolitico dalle steppe a nord del Ponto e del Mar Caspio, insieme ad almeno alcune delle lingue indoeuropee; hanno anche rilevato una componente autosomica presente negli europei moderni che non era presente negli europei neolitici, che sarebbe stata introdotta con i lignaggi paterni R1a e R1b, così come le lingue indoeuropee.[11][12][13]. Nelle popolazioni italiane studiate la componente autosomica dei pastori delle steppe occidentali è presente per il 25% nei lombardi di Bergamo, 27,2% nei toscani, 5,9% o 10% nei siciliani e 7,1% o 10,6% nei sardi[11][14].
Gimbutas definì e introdusse il termine "Cultura kurgan" nel 1956, con l'intenzione di introdurre un termine più generalista capace di cogliere gli elementi comuni di alcune facies culturali, che vanno dal IV al III millennio in gran parte dell'Europa orientale e settentrionale.[15]
Il modello di una "cultura kurgan" riunisce varie culture dall'età del rame alla prima età del bronzo della steppa pontico-caspica (dal V al III millennio a.C.), nel tentativo di identificarle come un'unica cultura archeologica (o un unico orizzonte culturale), sulla base delle loro somiglianze. La costruzione dei kurgan (tombe a tumulo) è solo uno dei tanti fattori comuni a queste culture.
In questo contesto, Gimbutas considerò come parti della Cultura kurgan:
Cronologia storica dell'espansione indoeuropea secondo lo schema della teoria kurganica:
Gimbutas sosteneva che le espansioni della cultura Kurgan furono essenzialmente una serie di incursioni militari attraverso le quali la nuova ideologia guerriera e patriarcale si impose sulla pacifica cultura matriarcale della Vecchia Europa, processo osservabile tramite la comparsa di insediamenti fortificati e delle tombe dei capi-guerrieri:
«Il processo di indoeuropeizzazione è stato un processo di trasformazione culturale, non fisica. Questo processo deve essere inteso come una vittoria militare attraverso la quale venne imposto un nuovo sistema amministrativo, la lingua e la religione ai gruppi indigeni[35].»
Successivamente Gimbutas evidenziò sempre più la natura violenta di questo processo di transizione dal culto della Dea Madre a quello patriarcale esplicitato dal culto del dio celeste (Zeus, Giove, Dyauṣ Pitā). Molti studiosi che accettano lo scenario generale della teoria kurganica sostengono che il passaggio fu probabilmente molto più graduale e pacifico rispetto a quanto suggerito da Gimbutas. Le migrazioni non furono certo il frutto di operazioni militari studiate e concordate ma l'espansione durata generazioni di varie tribù e culture scollegate fra loro. Fino a che punto le culture indigene siano state amalgamate pacificamente o violentemente cancellate rimane ancora un punto controverso fra i sostenitori dell'ipotesi Kurgan.
James Patrick Mallory ha accettato l'ipotesi Kurgan come teoria standard sull'origine dei popoli indoeuropei ma giustifica le critiche allo scenario dell'invasione militare proposto da Gimbutas:
«Si potrebbe pensare in un primo momento che le evidenze a sostegno della soluzione Kurgan ci obblighino ad accettarla completamente. Ma i critici esistono e le loro obiezioni si possono riassumere molto semplicemente: Quasi tutti gli argomenti a sostegno di una invasione e trasformazione culturale sono maggiormente spiegabili escludendo l'espansione Kurgan e la maggior parte degli indizi presentati o sono contraddetti da altri indizi o sono il risultato di una sbagliata interpretazione della storia culturale dell'Europa orientale, centrale e settentrionale[36].»
Un'ulteriore critica ad uno degli aspetti centrali della cultura Kurganica come la intende Gimbutas proviene dagli storici militari. Questi fanno notare[37] che fino al 1000 a.C. (o poco prima) i cavalli non erano cavalcabili, o meglio non erano cavalcabili in battaglia. La cultura Kurgan allevò i cavalli dal 4.000 a.C. fin verso il 2.100-2.000 a.C. per mangiarli e come animali da soma, poi imparò ad usarli per trainare agili carri da caccia, corsa e guerra, e a cavalcare in maniera incontrollata (con nasiere e senza sella o sottopancia) solo dopo circa un millennio di tentativi e di selezione del cavallo fu possibile montarlo in maniera utile per poterlo impiegare in battaglia, fu cioè possibile controllare il cavallo con una mano o con le gambe e contemporaneamente impugnare un'arma.
I Kurgan non avrebbero quindi avuto quella superiorità militare sui popoli privi di cavalleria, oltretutto fino alla scoperta del carro leggero, e soprattutto a quelle dal morso e dell'arte equestre, nessun popolo fu "veramente" nomade, ma i Kurgan vanno interpretati come l'espressione di una civiltà dedita ad una pastorizia transumante con al centro insediamenti fluviali. La scoperta della cavalcabilità del cavallo (tra il 1100 e il 1000 a.C.) fu una rivoluzione che mise in moto le steppe occidentali. Forse ad est degli Altaj già con l'addomesticazione della Renna si era verificato un fenomeno analogo, poiché la renna, a differenza di buoi, pecore, capre e cavalli usati dai Kurgan, si adatta poco a condizioni di vita semi stanziali e transumanti.
Nonostante le critiche ricevute la teoria dell'invasione calcolitica, nella forma proposta da Gimbutas appare oggi una teoria fortemente accreditata e sostenuta da basi scientifiche.
Essa si può riassumere in questi termini:
Le principali ipotesi alternative sono:
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