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aiuto offerto agli ebrei per sfuggire all'Olocausto Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Il soccorso agli ebrei durante l'Olocausto durante la seconda guerra mondiale è stato portato avanti da alcune persone e gruppi che aiutarono ebrei ed altri perseguitati a sfuggire alle persecuzioni condotte dalla Germania nazista; un esempio ben noto è Oskar Schindler. Dal 1953 l'Ente nazionale per la memoria della Shoah (Yad Vashem) ha riconosciuto 26.973 persone come Giusti tra le nazioni[1].
A differenza di molti altri paesi dell'Europa orientale sotto l'occupazione nazista, l'Albania rappresentò per gli ebrei un rifugio sicuro, grazie anche alla popolazione mista musulmana e cristiana, oltre ad una lunga tradizione di tolleranza[7]. Alla fine del 1938 era l'unica in Europa a rilasciare ancora visti agli ebrei attraverso l'ambasciata a Berlino[8]. Dopo l'occupazione nazista dell'Albania, il paese si rifiutò di consegnare la piccola popolazione ebraica ai tedeschi[9], a volte anche fornendo alle famiglie ebree documenti falsi[7]. Durante la guerra circa 2.000 ebrei vi cercarono rifugio; molti si ripararono nelle zone rurali, dove erano protetti dalla stessa popolazione locale[7]. Alla fine della guerra il numero degli ebrei risultò maggiore rispetto al periodo prebellico, rendendo l'Albania l'unico paese in Europa in cui la popolazione ebraica aumentò durante la seconda guerra mondiale[10][11]. Su un totale di duemila ebrei[12] solo cinque ebrei albanesi morirono per mano dei nazisti[9][13]: furono scoperti dai tedeschi e deportati a Pristina[14].
Tra febbraio e marzo del 1939 il re Zog I di Albania concesse asilo a 300 rifugiati ebrei prima di essere rovesciato dai fascisti italiani nell'aprile dello stesso anno. Quando gli italiani chiesero al governo fantoccio albanese di espellere i rifugiati ebrei, i leader albanesi si rifiutarono, e negli anni successivi altre 400 persone trovarono asilo in Albania[15].
Durante la guerra alcune zone del Kosovo e della Macedonia occupate dalle forze dell'Asse furono annesse all'Albania, e in questi territori furono catturati e poi uccisi circa 600 ebrei [16].
Refik Veseli fu il primo albanese a ricevere il titolo di Giusto tra le nazioni[17]. Dichiarò che tradire gli ebrei "avrebbe disonorato il suo villaggio e la sua famiglia. Come minimo la sua casa sarebbe stata distrutta e la sua famiglia bandita"[18]. Il 21 luglio 1992 fu riconosciuto come Giusto tra le nazioni Mihal Lekatari, un partigiano di Kavajë. Lekatari è noto per aver rubato documenti d'identità in bianco dal comune di Harizaj e averli distribuiti con nomi musulmani ai rifugiati ebrei[19].
Nel 1997 Shyqyri Myrto fu premiato per aver salvato gli ebrei con il premio Courage to Care della Lega Antidiffamazione, consegnato a suo figlio Arian Myrto[20]. Nel 2006 fu posta una targa in onore della compassione e del coraggio dell'Albania durante l'Olocausto nell'Holocaust Memorial Park a New York, alla presenza dell'ambasciatore albanese presso le Nazioni Unite. [22]. Al 1º gennaio 2022 i Giusti albanesi individuati e onorati da Yad Vashem sono 75 (settantacinque)[23].
Nell'aprile del 1943 alcuni membri della Resistenza belga bloccarono il ventesimo convoglio per Auschwitz, liberando 231 prigionieri. Diversi governanti locali fecero il possibile per ostacolare il processo di registrazione degli ebrei voluto dai nazisti. Molte persone salvarono i bambini nascondendoli in case private e collegi, come Marie ed Emile Taquet che sistemarono decine di ragazzi ebrei in una scuola o in casa. Dei circa 50.000 ebrei presenti in Belgio nel 1940 si stima che 25.000 furono deportati e solo circa 1.250 sopravvissero.
Il reverendo Bruno Reynders, un monaco cattolico, sfidò i nazisti, seguendo la direttiva di Papa Pio XII per salvare gli ebrei: collaborò con gli orfanotrofi locali, le suore cattoliche e la Resistenza belga per creare false identità ai bambini ebrei i cui genitori li avevano lasciati volontariamente nel tentativo di salvarli dalla deportazione nei campi di sterminio. Padre Bruno rischiò la vita per aver tenuto fede ai suoi valori e aver salvato le vite di circa 400 bambini ebrei. È onorato come un righteous gentiles da Yad Vashem.
Padre Joseph André fu un altro prete cattolico che assicurò dei nascondigli sicuri a bambini e adulti ebrei presso famiglie belghe, orfanotrofi e altre istituzioni.
Tra il 1938 e il 1941 circa 20.000 ebrei ottennero i visti per la Bolivia nell'ambito di un programma di visti agricoli. Anche se la maggior parte si trasferì nei paesi limitrofi (Argentina, Uruguay, Cile), alcuni rimasero e diedero vita ad una comunità ebraica in Bolivia[24].
La Bulgaria entrò a far parte delle potenze dell'Asse nel marzo del 1941, partecipando all'invasione della Jugoslavia e della Grecia[25]. I territori della Grecia, Macedonia e altre nazioni occupate dalla Bulgaria durante la seconda guerra mondiale non erano considerate bulgare: erano amministrati dalla Bulgaria pur non avendo voce in capitolo sugli affari di queste terre.
Il governo alleato nazista della Bulgaria, guidato da Bogdan Filov, assistì pienamente e attivamente all'Olocausto nelle aree occupate. A Pasqua del 1943 la Bulgaria radunò una gran parte degli ebrei in Grecia e Jugoslavia, li trasportò attraverso la Bulgaria e li consegnò per il convoglio tedesco verso Treblinka, dove quasi tutti furono uccisi[26][27][28][29][30]. Il governo bulgaro deportò dalla Grecia e dalla Macedonia una percentuale più alta di ebrei rispetto agli occupanti tedeschi nella regione[31][32].
La partecipazione attiva della Bulgaria all'Olocausto non interessò però il territorio prebellico, e dopo le varie proteste dell'arcivescovo Stefan di Sofia e l'intervento di Dimităr Pešev la prevista deportazione degli ebrei bulgari (circa 50.000) fu interrotta, per poi negare la deportazione nei campi di concentramento. La Bulgaria fu ufficialmente ringraziata dal governo di Israele nonostante fosse stata un'alleata della Germania nazista[33].
Dimităr Pešev fu il vicepresidente dell'Assemblea nazionale e ministro della giustizia durante la seconda guerra mondiale. Aiutato anche dalla forte opposizione della Chiesa ortodossa bulgara, si ribellò al governo filo-nazista e impedì la deportazione. Sebbene fosse stato coinvolto nell'approvazione di varie leggi antisemite durante i primi anni della guerra, non poté accettare la decisione del governo di deportare i 48.000 ebrei bulgari l'8 marzo 1943. Dopo esserne stato informato, tentò più volte di vedere il primo ministro Bogdan Filov, ma questi rifiutò. Insistette allora con il ministro dell'Interno Petar Gabrovski sull'annullamento delle deportazioni. Persuaso dai lunghi colloqui con Pešev, Gabrovski finalmente chiamò il governatore di Kyustendil e fece interrompere i preparativi. Il 9 marzo l'ordine fu annullato. Dopo la guerra Pešev fu accusato di antisemitismo e anticomunismo dai tribunali sovietici e condannato a morte. Tuttavia, dopo le proteste della comunità ebraica, la condanna fu commutata in 15 anni di reclusione, ma egli fu rilasciato dopo appena un anno. Dopo la guerra le sue azioni non furono riconosciute: viveva in povertà in Bulgaria. Nel 1973 fu insignito del titolo di Giusto tra le nazioni. Morì lo stesso anno.
Ho Feng Shan, il console cinese a Vienna, iniziò a rilasciare agli ebrei i visti per Shanghai, parte del quale in quel periodo era ancora sotto il controllo della Repubblica Cinese, per motivi umanitari.
Tra il 1933 e il 1941 la città cinese di Shanghai (sotto l'occupazione giapponese) accettò incondizionatamente oltre 18.000 rifugiati ebrei in fuga dall'Olocausto in Europa, un numero maggiore di quelli accolti complessivamente da Canada, Nuova Zelanda, Sudafrica e India britannica durante la seconda guerra mondiale. Dopo il 1943 gli occupanti giapponesi, allineati alla politica nazista, ghettizzarono i rifugiati ebrei a Shanghai in un'area conosciuta come ghetto di Shanghai. Molti di loro emigrarono negli Stati Uniti ed Israele dopo il 1948 a causa della guerra civile cinese (1946-1950).
Negli anni '30 Papa Pio XI esortò Mussolini a chiedere a Hitler di frenare le azioni antisemite in atto in Germania[34]. Nel 1937 emise l'enciclica Mit brennender Sorge, in cui affermò l'inviolabilità dei diritti umani.[35] [42]
Papa Pio XII succedette a Pio XI alla vigilia della guerra, nel 1939. Usò la diplomazia per aiutare le vittime dell'Olocausto e ordinò alla Chiesa di fornire un aiuto con discrezione.[43] Le sue encicliche, come Summi Pontificatus e Mystici Corporis Christi, predicarono contro il razzismo con specifico riferimento agli ebrei: "Non ci sono né gentili né ebrei, né circoncisione né non-circoncisione".[44] Nel discorso alla vigilia del Santo Natale del 1942 denunciò l'assassinio di "centinaia di migliaia" di persone "impeccabili" per causa della loro "nazionalità o razza". I nazisti furono furiosi, e la Direzione generale per la Sicurezza del Reich, responsabile della deportazione degli ebrei dall'Italia, lo definì il "portavoce dei criminali di guerra ebrei".[45]
Pio XII intervenne per tentare di bloccare le deportazioni in vari paesi.[46] Dopo la capitolazione, anche dall'Italia iniziarono le deportazioni naziste degli ebrei nei campi di sterminio. Pio XII protestò a livello diplomatico, mentre diverse migliaia di ebrei trovarono rifugio presso i cattolici. Il 27 giugno 1943 la Radio Vaticana trasmise un'ingiunzione papale: "Chi fa distinzione tra ebrei e altri uomini è infedele a Dio ed è in conflitto con i comandamenti di Dio"[47]. Già alcuni giorni prima che i nazisti giungessero a Roma in cerca degli ebrei, il Papa aveva ordinato che i santuari del Vaticano venissero aperti a tutti i "non ariani" bisognosi di rifugio, e, secondo Martin Gilbert, entro la mattina del 16 ottobre "un totale di 477 ebrei erano stati ospitati in Vaticano e nelle sue enclavi, mentre altri 4.238 erano stati ospitati nei numerosi monasteri e conventi di Roma. Solo 1015 dei 6730 ebrei di Roma furono sequestrati quella mattina"[48]. Ricevuta la notizia dei rastrellamenti, il Papa incaricò immediatamente il cardinale segretario di Stato Luigi Maglione di inviare formale protesta all'ambasciatore tedesco. Dopo l'incontro l'ambasciatore diede ordine di sospendere gli arresti. In precedenza il Papa aveva aiutato gli ebrei di Roma offrendo 50 Kg d'oro per pagare il riscatto richiesto dai nazisti[49].
Tra noti soccorritori, assistiti da Pio XII, si annoverano Pietro Palazzini[50], Giovanni Ferrofino[51], Giovanni Palatucci, Pierre-Marie Benoît e altri. Ricevendo da Israele un premio per la sua opera di salvataggio, l'arcivescovo Giovanni Montini (futuro papa Paolo VI) disse che aveva agito solo per mandato di Pio XII[49].
I rappresentanti diplomatici di Pio XII esercitarono pressioni a favore degli ebrei in tutta Europa, inclusa la Francia di Vichy, Ungheria, Romania, Bulgaria, Croazia, Slovacchia e la stessa Germania[40][49][52][53][54][55]. Svolsero un ruolo importante nel salvataggio degli ebrei molti nunzi papali, tra cui Giuseppe Burzio (incaricato degli affari vaticani in Slovacchia), Filippo Bernardini (nunzio in Svizzera) e Angelo Roncalli (nunzio in Turchia, futuro papa Giovanni XXIII)[56]. Furono riconosciuti Giusti tra le nazioni Angelo Rotta (nunzio a Budapest) e Andrea Cassulo (nunzio a Bucarest).
Pio XII protestò direttamente contro le deportazioni degli ebrei slovacchi presso il governo di Bratislava dal 1942[57]. Intervenne direttamente in Ungheria facendo pressioni per porre fine alle deportazioni ebraiche nel 1944, ed il 4 luglio ottenne che il leader ungherese, l'ammiraglio Horthy, comunicò a Berlino la cessazione delle deportazioni degli ebrei, citando le proteste del Vaticano, del re di Svezia e della Croce Rossa[58]. Il Partito delle Croci Frecciate, filo-nazista e antisemita, prese il potere in ottobre e iniziò una nuova campagna di uccisioni degli ebrei. Le potenze neutrali guidarono un grande sforzo di salvataggio, e il rappresentante di Pio XII, Angelo Rotta, prese l'iniziativa di istituire un "ghetto internazionale", contrassegnato dagli emblemi delle legazioni svizzera, svedese, portoghese, spagnola e vaticana, che fornì rifugio a circa 25.000 ebrei[59].
A Roma, tra ebrei italiani e prigionieri di guerra fuggiti, circa 4.000 persone evitarono la deportazione, molte nascoste in case sicure o evacuate dall'Italia dal gruppo di resistenza organizzato dal sacerdote di origine irlandese e funzionario vaticano monsignor Hugh O'Flaherty che usò i suoi legami politici per garantire rifugio agli ebrei[60]. In questa opera fu assistito dalla moglie dell'ambasciatore irlandese, Delia Murphy.
La comunità ebraica in Danimarca rimase pressoché inalterata dopo l'occupazione tedesca della Danimarca del 9 aprile 1940. I tedeschi permisero al governo danese di rimanere in carica, e questo gabinetto respinse l'idea che potesse esistere una qualsiasi "questione ebraica" in Danimarca. Non fu approvata nessuna legge contro gli ebrei, né fu introdotto l'uso della stella di David. Nell'agosto 1943 questa situazione di relativa traquillità crollò, poiché il governo danese si rifiutò di introdurre la pena di morte, richiesta dai tedeschi a seguito di una serie di scioperi e proteste popolari, e fu costretto dagli occupanti a dimettersi.
Durante questi eventi il diplomatico tedesco Georg Ferdinand Duckwitz informò il politico danese Hans Hedtoft dell'imminente deportazione degli ebrei danesi in Germania. Hedtoft allertò la Resistenza danese, e il leader ebreo C. B. Henriques informò il rabbino capo in carica Marcus Melchior (che sostituiva Max Friediger, arrestato come ostaggio il 29 agosto 1943), esortando la comunità a nascondersi il 29 settembre 1943. Nelle settimane successive più di 7.200 degli 8.000 appartenenti alle comunità ebraiche della Danimarca furono traghettati nella neutrale Svezia nascosti nei pescherecci; solo circa 450 ebrei furono catturati dai tedeschi e spediti a Theresienstadt.
I funzionari danesi riuscirono a far sì che questi prigionieri non venissero spediti nei campi di sterminio; le ispezioni della Croce Rossa danese e l'invio di viveri mantennero alta l'attenzione sugli ebrei danesi. Il conte svedese Folke Bernadotte assicurò il loro rilascio e il ritorno in Danimarca negli ultimi giorni della guerra. La Danimarca salvò in massa circa 7.200 ebrei nell'ottobre 1943.
In un notevole atto umanitario, Manuel L. Quezón, il primo presidente del Commonwealth delle Filippine, in collaborazione con l'Alto Commissario degli Stati Uniti nelle Filippine Paul V. McNutt, agevolò l'ingresso nelle Filippine di rifugiati ebrei in fuga dai regimi fascisti in Europa, affrontando le critiche della propaganda fascista secondo cui l'insediamento ebraico rappresentava una minaccia per il paese[61][62][63]. Quezon e McNutt proposero di accogliere 30.000 famiglie di rifugiati a Mindanao e 40.000-50.000 rifugiati a Polillo. Quezon concese in prestito per 10 anni al Comitato ebraico per i rifugiati di Manila un terreno accanto alla casa della sua famiglia di Marikina. Il terreno nella Marikina Hall ospitò i rifugiati sprovvisti di abitazione a partire dal 23 aprile 1940[64].
In genere il governo finlandese si era sempre rifiutato di deportare gli ebrei finlandesi in Germania. I funzionari governativi comunicarono agli inviati tedeschi che "la Finlandia non aveva problemi ebraici". Tuttavia, nel 1942 la polizia segreta ValPo deportò 8 ebrei rifugiatisi in Finlandia in cerca d'asilo. Inoltre, sembra molto probabile che la Finlandia abbia permesso la deportazione di prigionieri di guerra sovietici, tra cui un certo numero di ebrei. La maggior parte degli ebrei finlandesi era comunque protetta per via della co-belligeranza con la Germania. Gli uomini si arruolarono nell'esercito finlandese e combatterono al fronte.
Tra i finlandesi coinvolti nel soccorso agli ebrei spicca Algoth Niska (1888 - 1954). In precendenza contrabbandiere, aveva avuto problemi finanziari a causa del proibizionismo del 1932; quando Albert Amtmann, un conoscente ebreo austriaco, espresse le preoccupazioni sulla posizione del suo popolo in Europa, Niska vide subito un'opportunità di affari nel contrabbando di ebrei fuori dalla Germania.
Il modus operandi fu presto stabilito: Niska avrebbe falsificato i passaporti finlandesi e Amtmann avrebbe acquisito i clienti, che con i loro nuovi passaporti avrebbero potuto attraversare il confine facilmente e uscire dalla Germania. Nel 1938 Niska falsificò 48 passaporti e ne ricavò 2,5 milioni di marchi finlandesi. Si sa che solo tre di queste persone sopravvissero all'Olocausto, venti furono catturate, i destini delle altre venticinque non sono noti. L'operazione di Niska e Amtmann coinvolse il maggiore Rafael Johannes Kajander, Axel Belewicz e la fidanzata di Belewicz, Kerttu Ollikainen, il cui compito era quello di rubare i moduli da usare per falsificare i passaporti[65][66].
La città francese di Le Chambon-sur-Lignon offrì protezione a diverse migliaia di ebrei.
Durante il governo di Vichy il diplomatico brasiliano in Francia Luis Martins de Souza Dantas rilasciò illegalmente i visti diplomatici brasiliani a centinaia di ebrei, salvandoli da una morte quasi certa.
Padre Marie-Benoît, un sacerdote cappuccino, aiutò a portare in salvo circa 4.000 ebrei dalla Francia meridionale occupata dai nazisti; fu riconosciuto da Yad Vashem come Giusto tra le Nazioni nel 1966. Si Kaddour Benghabrit, il capo religioso del Centro islamico in Francia, aiutò più di mille ebrei di Parigi fornendo loro documenti d'identità falsi. Riuscì anche a nascondere molte famiglie nella moschea di Parigi, nelle residenze e nelle aree di preghiera delle donne[67][68][69][70].
Il governo giapponese garantì la sicurezza degli ebrei in Cina, Giappone e Manciuria[71]. Il generale dell'esercito giapponese Hideki Tōjō accolse i rifugiati ebrei in conformità con la politica nazionale giapponese e respinse la protesta tedesca[72]. Chiune Sugihara, Kiichiro Higuchi e Fumimaro Konoe aiutarono migliaia di ebrei a sfuggire all'Olocausto emigrando dall'Europa occupata.
La Fondazione per il progresso degli studi e della cultura sefardita scrive: "Non si possono dimenticare le ripetute iniziative del capo della Sede metropolitana greco-cristiana ortodossa di Salonicco Gennadios contro le deportazioni e, soprattutto, la lettera ufficiale di protesta firmata ad Atene il 23 marzo 1943 dall'arcivescovo Damaskinos della Chiesa greco-ortodossa insieme a 27 importanti leader di organizzazioni culturali, accademiche e professionali. Il documento, scritto in un linguaggio molto tagliente, fa riferimento ai legami indissolubili tra cristiani ortodossi ed ebrei, identificandoli congiuntamente come greci, senza differenziazione. È interessante notare che un documento del genere è unico in tutta l'Europa occupata per carattere, contenuto e scopo"[73].
I 275 ebrei dell'isola di Zante sopravvissero all'Olocausto. Quando al sindaco dell'isola Loukas Karrer fu ordinato di consegnare la lista degli ebrei, il vescovo Chrysostomos tornò dai tedeschi stupiti con un elenco di due nomi: il suo e del sindaco. Inoltre, il vescovo scrisse una lettera ad Hitler stesso dichiarando che gli ebrei dell'isola erano sotto la sua supervisione[74]. Nel frattempo la popolazione nascondeva ogni membro della comunità ebraica. Quando l'isola fu quasi rasa al suolo dal grande terremoto del 1953, i primi soccorsi arrivarono dallo stato di Israele, con un messaggio che diceva: "Gli ebrei di Zante non hanno mai dimenticato il loro sindaco o il loro amato vescovo e quello che hanno fatto per noi"[75].
La comunità ebraica di Volos, una delle più antiche in Grecia, riportò meno perdite di qualsiasi altra comunità ebraica greca grazie all'intervento e alla mobilitazione tempestivi del forte movimento partigiano di EAM-Esercito popolare greco di liberazione (ELAS) e alla proficua collaborazione del capo della sede metropolitana greco-cristiana ortodossa di Demetriade Joachim con il rabbino capo di Volos Moshe Pesach per l'evacuazione da Volos della popolazione ebraica, dopo lo spostamento degli ebrei di Salonicco nei campi di concentramento.
La principessa Alice di Battenberg, moglie del principe Andrea di Grecia e Danimarca e madre del principe Filippo, duca di Edimburgo, rimase nella Atene occupata per tutta la durata della seconda guerra mondiale, proteggendo diversi rifugiati ebrei, per cui fu riconosciuta come "Giusta tra le nazioni" da Yad Vashem. Sebbene i tedeschi e i bulgari[76] avessero deportato dalla Grecia un gran numero di ebrei, altri furono nascosti con successo dai loro vicini greci.
Simon Danieli all'età di 82 anni si recò da Israele nella sua città natia, Veria, per ringraziare i discendenti delle persone che avevano aiutato lui e i suoi familiari a scampare alla persecuzione nazista. Danieli aveva 13 anni nel 1942, quando la sua famiglia (il padre Joseph, commerciante di cereali, la madre Buena e nove fratelli) scappò da Veria per sfuggire alle sempre più frequenti atrocità commesse dalle forze naziste contro gli ebrei della città. Finirono in un villaggio vicino a Sykies, accolti da Giorgos e Panayiota Lanara, che offrirono loro riparo, cibo e un nascondiglio nel bosco, aiutati anche da un sacerdote, Nestoras Karamitsopoulos. I nazisti presero d'assalto Sykies, dove si erano rifugiati altri 50 ebrei di Veria. Interrogarono il sacerdote su dove si trovassero gli ebrei, e quando Karamitsopoulos si rifiutò di rispondere, irruppero nelle case. Trovarono degli ebrei nascosti in otto case a cui diedero fuoco, dopodiché torturarono il sacerdote, racconta Danieli[77].
Nonostante la stretta alleanza di Benito Mussolini con Hitler, l'Italia non adottò l'ideologia genocida del nazismo nei confronti degli ebrei, pur promulgando nel 1938 le leggi razziali. I tedeschi erano frustrati dal rifiuto delle forze italiane di cooperare ai rastrellamenti, e nessun ebreo fu deportato dall'Italia prima dell'occupazione del paese a seguito della capitolazione nel settembre 1943[78]. Il nazista Siegfried Kasche avvertì Berlino che nella Croazia occupata dagli italiani le forze italiane "sembravano influenzate" dall'opposizione vaticana all'antisemitismo tedesco.[79] Con la crescita del sentimento anti-Asse in Italia, l'uso di Radio Vaticana per trasmettere e diffondere la disapprovazione papale dell'odio razziale e dell'antisemitismo fece arrabbiare i nazisti.[80] A luglio Mussolini fu rovesciato e i nazisti occuparono l'Italia, dando inizio ai rastrellamenti. Nonostante migliaia di persone fossero state catturate, la stragrande maggioranza degli ebrei italiani si salvò. Come in altre nazioni, le reti cattoliche furono fortemente impegnate negli sforzi di salvataggio.[81]
A Fiume, dopo la promulgazione delle leggi razziali contro gli ebrei nel 1938 e nel 1940, il capo dell'Ufficio stranieri Giovanni Palatucci falsificò i documenti e rilasciò i visti agli ebrei minacciati di deportazione. Riuscì a distruggere tutte le registrazioni documentate dei circa 5.000 rifugiati ebrei residenti a Fiume, sostituendo i documenti e fornendo loro i fondi necessari. Inviò i profughi in un grande campo di internamento protetto da suo zio, Giuseppe Maria Palatucci, vescovo cattolico di Campagna, in provincia di Salerno. Dopo la capitolazione dell'Italia del 1943 Fiume fu occupata dai nazisti. Palatucci rimase a capo dell'amministrazione di polizia senza poteri reali; continuò ad aiutare clandestinamente gli ebrei, mantenendo i contatti con la Resistenza, fino a quando le sue attività furono scoperte dalla Gestapo. Il console svizzero a Trieste gli offrì un lasciapassare per la Svizzera, ma Palatucci lo cedette alla sua giovane fidanzata ebrea. Fu arrestato il 13 settembre 1944 e condannato a morte, ma la sentenza fu successivamente commutata nella deportazione a Dachau, dove poi morì.
Giorgio Perlasca, che si finse console generale di Spagna sotto l'ambasciatore spagnolo a Budapest, riuscì a proteggere migliaia di ebrei e non ebrei destinati ai campi di concentramento.
Nell'ottobre 1943, quando le SS che occupavano Roma decisero di deportare 5.000 ebrei presenti in città, il clero aprì i santuari (come indicato da Papa Pio XII) a tutti i "non ariani" bisognosi di soccorso nel tentativo di prevenire la deportazione. "Il clero cattolico della città ha agito con alacrità", scrive Martin Gilbert. "Al convento dei Cappuccini in via Siciliano padre Benoit ha salvato un gran numero di ebrei fornendo loro documenti di identità falsi [...] entro la mattina del 16 ottobre un totale di 4.238 ebrei erano stati ospitati nei numerosi monasteri e conventi di Roma. Altri 477 ebrei trovarono riparo in Vaticano e nelle sue enclavi". Gilbert attribuisce al celere soccorso fornito dalla Chiesa il salvataggio di oltre quattro quinti degli ebrei romani.[82]
Tra gli altri soccorritori cattolici, giusti in Italia, va citata Elisabeth Hesselblad.[83] Fu beatificata insieme ad altre due donne britanniche, madre Riccarda Beauchamp Hambrough e suor Katherine Flanagan, per aver rianimato l'Ordine delle monache svedesi di Santa Brigida e aver nascosto decine di famiglie ebree nel loro convento.[84]
Le chiese, i monasteri ed i conventi di Assisi formarono la cosiddetta Rete di Assisi che diventò un rifugio sicuro per gli ebrei. Gilbert attribuisce alla rete istituita dal vescovo Giuseppe Placido Nicolini e dall'abate Rufino Niccacci del convento francescano il salvataggio di 300 persone.[85] Altri chierici italiani onorati da Yad Vashem sono: il professore di teologia don Giuseppe Girotti del Seminario domenicano di Torino, che salvò molti ebrei prima di essere arrestato e mandato a Dachau, dove morì nel 1945; don Arrigo Beccari che protesse circa 100 bambini ebrei nel suo seminario e presso i contadini di Nonantola in provincia di Modena; don Gaetano Tantalo, parroco che accolse una numerosa famiglia ebrea.[86][87][88]
Un'altra importante iniziativa nacque dallo scautismo cattolico. Sciolto dal fascismo negli anni '20, aveva continuato l'esistenza in clandestinità, e fra i gruppi scout clandestini il più importante fu quello delle Aquile Randagie, da cui nel 1943 nacque l'O.S.C.A.R. (Organizzazione Scout Collocamento Assistenza Ricercati). Questa organizzazione realizzò oltre 2000 espatri clandestini, di cui circa 500 ebrei.
Il 19 luglio 1944 la Gestapo radunò i quasi 2.000 abitanti ebrei dell'isola di Rodi, governata dall'Italia dal 1912. Dei circa 2.000 ebrei isolani deportati ad Auschwitz e altrove solo in 104 sopravvissero. Dei 44.500 ebrei italiani circa 7.680 furono assassinati durante l'Olocausto nazista.[89]
Secondo i dati disponibili presso Yad Vashem, al 1º gennaio 2022 sono stati identificati 924 soccorritori di ebrei in Lituania[90], mentre nel catalogo compilato dal Dipartimento per la commemorazione dei soccorritori degli ebrei del Museo ebraico statale di Gaon di Vilna ne figurano circa 2300[91], di cui 159 membri del clero[92].
In seguito all'occupazione della Polonia da parte della Germania nazista e dell'Unione Sovietica nel settembre 1939, la Repubblica di Lituania accettò e ospitò alcuni rifugiati polacchi ed ebrei[93] nonché i soldati dell'esercito polacco sconfitto[94]. In seguito, dopo l'occupazione della Lituania da parte dell'Unione Sovietica il 15 giugno 1940, una parte di questi rifugiati fu salvata dalle deportazioni, sia sovietiche che naziste, dal console generale giapponese Chiune Sugihara, dal direttore degli stabilimenti Philips in Lituania e dal console part-time dei Paesi Bassi Jan Zwartendijk.
Chiune Sempo Sugihara, console generale a Kaunas nel 1939-1940, rilasciò migliaia di visti agli ebrei in fuga proprio da Kaunas dopo l'occupazione della Lituania da parte dell'URSS, contravvenendo agli ordini espliciti del ministero degli Esteri giapponese. Ultimo diplomatico straniero a lasciare la città, Sugihara continuò a timbrare i visti dal finestrino aperto del treno in partenza. Dopo la guerra fu licenziato con la scusa del ridimensionamento. Nel 1985 la moglie e il figlio ricevettero a Gerusalemme l'onorificenza del Giusto tra le nazioni a nome del malato Sugihara, morto nel 1986.
Così come in altri paesi, i soccorritori lituani provenivano da diversi strati della società. Le figure più iconiche sono la bibliotecaria Ona Šimaitė, il dottor Petras Baublys, lo scrittore Kazys Binkys e sua moglie giornalista Sofija Binkienė, il musicista Vladas Varčikas, la scrittrice e traduttrice Danutė Zubovienė (Čiurlionytė) e suo marito Vladimiras Zubovas, la dottoressa Elena Kutorgienė, il dottor Vladas Drupas Pranas Mažylis, il sacerdote cattolico Juozapas Stakauskas, l'insegnante Vladas Žemaitis, la suora cattolica Maria Mikulska ed altri. Nel villaggio di Šarnelė, distretto di Plungė, la famiglia Straupiai (Jonas e Bronislava Straupiai) insieme ai loro vicini Adolfina e Juozas Karpauskai salvarono 26 persone (9 famiglie)[95].
Il presidente della Lituania onora i soccorritori ebrei ogni anno in occasione della Giornata nazionale della memoria per il genocidio degli ebrei lituani, che viene celebrato il 23 settembre per commemorare l'eliminazione del ghetto di Vilnius nel 1943.
Rispetto alla popolazione di 9 milioni di persone registrata nel 1940, i 5.516 ebrei salvati nei Paesi Bassi rappresentano il maggior numero pro capite; 1 olandese su 1.700 è stato insignito della medaglia del Giusto tra le nazioni[96]. Tra i numerosi soccorritori troviamo:
La Polonia aveva una popolazione ebraica molto numerosa. Secondo Norman Davies, furono uccisi e salvati più ebrei in Polonia che in qualsiasi altra nazione: il numero dei salvati si attesta tra i 100.000 e i 150.000[101]. Il memoriale nel campo di sterminio di Bełżec commemora 600.000 ebrei assassinati e 1.500 polacchi che cercarono di soccorrerli[102]. Migliaia di polacchi sono stati onorati da Yad Vashem[103]. Secondo Martin, "i polacchi che rischiarono la propria vita per salvare gli ebrei erano davvero l'eccezione. Ma potevano essere trovati in tutta la Polonia, in ogni città e villaggio."[104]
Fino alla fine della dominazione comunista gran parte della storia dell'Olocausto nella Polonia occupata dai tedeschi era nascosta dietro la cortina di ferro. Nel periodo dell'Olocausto la Polonia era sotto il controllo totale del nemico: inizialmente metà del paese era occupata dai tedeschi, divisa tra Governatorato Generale e Reichskomissariat; l'altra metà era occupata dai sovietici, insieme ai territori delle odierne Bielorussia e Ucraina. Durante l'occupazione nazista la Polonia era l'unico paese in cui qualsiasi aiuto fornito a una persona di fede o di origine ebraica era punibile con la morte. Eppure 6.532 uomini e donne, più che in qualsiasi altro paese al mondo, sono riconosciuti come soccorritori da Yad Vashem[105].
L'elenco dei cittadini polacchi ufficialmente insigniti come Giusti include 700 nomi di coloro che persero la vita mentre cercavano di aiutare i loro vicini ebrei[106]. Ci furono anche gruppi, come l'organizzazione Żegota, che intrapresero misure drastiche e azioni pericolose per salvare le vittime. Witold Pilecki, membro dell'Armia Krajowa (l'esercito nazionale polacco), organizzò un movimento di resistenza ad Auschwitz nel 1940. Jan Karski cercò di diffondere i fatti dell'Olocausto.
Quando l'intelligence dell'esercito polacco scoprì la vera destinazione dei convogli che lasciavano il ghetto ebraico, alla fine del 1942 fu istituito il Consiglio di assistenza agli ebrei, Rada Pomocy Żydom (nome in codice Żegota), in collaborazione con alcuni gruppi ecclesiastici. L'organizzazione mise in salvo migliaia di persone. L'accento fu posto sulla protezione dei bambini, poiché era quasi impossibile intervenire direttamente contro i trasporti ben sorvegliati. Furono preparati documenti falsi e i bambini furono distribuiti tra case sicure e reti di chiese[101]. Il movimento fu fondato da due donne: la scrittrice e attivista cattolica Zofia Kossak-Szczucka e la socialista Wanda Filipowicz. Alcuni dei membri erano stati coinvolti in movimenti nazionalisti polacchi, di per sé antiebraici, ma rimasero inorriditi dalla barbarie delle uccisioni di massa naziste. Prima dell'istituzione del consiglio, in un'emozionata protesta Kossak scrisse che gli omicidi razziali di Hitler erano un crimine sul quale non era possibile tacere. Mentre i cattolici polacchi potevano ancora pensare che gli ebrei fossero "nemici della Polonia", Kossak riteneva necessaria la protesta: "Dio richiede questa protesta da parte nostra [...] è richiesta da una coscienza cattolica [...] Il sangue degli innocenti chiede vendetta ai cieli."[107]
Nell'ambito del processo Zegota del 1948-1949 il regime sostenuto da Stalin, stabilito in Polonia dopo la guerra, processò e imprigionò segretamente i principali sopravvissuti di Zegota come parte di una campagna di eliminazione e diffamazione degli eroi della Resistenza che avrebbero potuto minacciare il nuovo regime[108].
Gli ebrei polacchi furono aiutati anche da diplomatici fuori dalla Polonia. Ładoś fu un gruppo di diplomatici polacchi e attivisti ebrei che crearono in Svizzera un sistema di contraffazione di passaporti latinoamericani volto a salvare gli ebrei europei dall'Olocausto. Circa 10.000 ebrei ricevettero questi passaporti, e oltre 3.000 di loro scamparono alla morte[109]. Gli sforzi del gruppo sono documentati dall'Archivio Eiss[110][111]. Henryk Sławik in Ungheria aiutò a salvare oltre 30.000 rifugiati polacchi, inclusi 5.000 ebrei, dando loro falsi passaporti polacchi in cui venivano dichiarati cattolici[112]. Diede il suo contributo anche Tadeusz Romer in Giappone.
Gli storici stimano che attraverso il Portogallo durante la seconda guerra mondiale scapparono fino a un milione di rifugiati, un numero impressionante considerando che la popolazione del paese in quel momento era di circa 6 milioni[113].
Il Portogallo rimase neutrale rispetto agli obiettivi generali dell'Alleanza anglo-portoghese, e questa politica accorta in condizioni precarie gli consentì di contribuire al salvataggio di un gran numero di perseguitati[114]. Il primo ministro portoghese António de Oliveira Salazar permise a tutte le organizzazioni ebraiche internazionali di stabilirsi a Lisbona[115]. Nel 1944 in Ungheria, coordinandosi con Salazar, i diplomatici Carlos Sampaio Garrido e Carlos de Liz Teixeira Branquinho a rischio della propria vita aiutarono molti ebrei a sfuggire ai nazisti e ai loro alleati ungheresi[116].
Nel giugno 1940, quando la Germania invase la Francia, il console portoghese a Bordeaux Aristides de Sousa Mendes rilasciò i visti alla popolazione in preda al panico senza distinzione[117] e senza chiedere preventivamente le dovute autorizzazioni di Lisbona. Il 20 giugno l'ambasciata britannica a Lisbona lo accusò di addebiti impropri per il rilascio dei visti, e Sousa Mendes fu richiamato a Lisbona. Non si riesce a determinare il numero di visti da lui rilasciati; uno studio del 1999 dello storico dello Yad Vashem Avraham Milgram afferma che c'è una grande differenza tra la realtà e il mito dei numeri generalmente citati.
Altri portoghesi che meritano un riconoscimento per aver salvato gli ebrei durante la guerra sono il professor Francisco Paula Leite Pinto e Moisés Bensabat Amzalak. Ebreo devoto e sostenitore di Salazar, Amzalak guidò la comunità ebraica di Lisbona per più di cinquant'anni (dal 1926 al 1978). Leite Pinto, direttore generale delle ferrovie portoghesi, insieme ad Amzalak organizzò diversi treni che trasportavano profughi da Berlino e da altre città[118][119][120].
Dopo l'invasione della Jugoslavia la Serbia fu occupata dalla Germania; alcune regioni furono occupate da Italia, Ungheria, Bulgaria e Albania. Fu istituito uno stato fantoccio, lo Stato indipendente di Croazia. Dopo una campagna di bombardamenti sulle principali città serbe si istaurò un regime fantoccio tedesco guidato da Milan Nedić che, insieme all'esercito tedesco e alle forze di occupazione, perseguitò gli ebrei nella regione serba, nella Voivodina occupata dagli ungheresi e nel territorio controllato dagli ustascia croati.
Gli ebrei serbi non deportati nei campi di concentramento in Germania venivano uccisi nei campi di concentramento nazisti in Serbia (Banjica e Crveni Krst) o trasportati nel campo di concentramento controllato dagli ustascia di Jasenovac e lì assassinati. Gli ebrei che vivevano nelle regioni occupate dall'Ungheria subirono esecuzioni di massa, la più nota delle quali fu il massacro di Novi Sad nel 1942.
Alcuni civili serbi furono coinvolti nel salvataggio di migliaia di ebrei jugoslavi durante il periodo di occupazione. Miriam Steiner-Aviezer, ricercatrice sugli ebrei jugoslavi e membro del comitato di Yad Vashem, afferma: "I serbi hanno salvato molti ebrei. Contrariamente alla loro immagine attuale nel mondo, i serbi sono un popolo amichevole e leale che non abbandona i loro vicini."[121]
Nel 2017 Yad Vashem riconosce 135 serbi come Giusti tra le nazioni, il numero più alto tra i paesi balcanici[122][123].
Nella Spagna di Franco diversi diplomatici contribuirono attivamente a salvare gli ebrei durante l'Olocausto.
I due più importanti furono Ángel Sanz Briz ("l'Angelo di Budapest"), che salvò circa cinquemila ebrei ungheresi fornendo loro passaporti spagnoli, ed Eduardo Propper de Callejón, che aiutò migliaia di ebrei a fuggire dalla Francia in Spagna. Ebbero un ruolo rilevante Bernardo Rolland de Miota (console di Spagna a Parigi), José Rojas Moreno (ambasciatore a Bucarest), Miguel Ángel de Muguiro (diplomatico presso l'ambasciata a Budapest), Sebastián Romero Radigales (console ad Atene), Julio Palencia Tubau (diplomatico presso l'Ambasciata a Sofia), Juan Schwartz Díaz-Flores (console a Vienna) e José Ruiz Santaella (diplomatico presso l'ambasciata di Berlino).
La Società religiosa degli amici, nota come Quaccheri, dal 1933 svolse un ruolo importante nell'assistenza e nel salvataggio degli ebrei sia attraverso le proprie organizzazioni e rete di centri internazionale (Berlino, Parigi, Vienna), sia grazie all'impegno dei singoli membri. Nel 1947 al Friends Service Council e all'American Friends Service Committee fu assegnato il Premio Nobel per la pace.
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