Il Canzoniere, meno comunemente conosciuto col titolo originale in latino Rerum vulgarium fragmenta (o, comprensivo del nome dell'autore, Francisci Petrarche laureati poete Rerum vulgarium fragmenta[N 1], "Frammenti di componimenti in volgare di Francesco Petrarca, poeta coronato d'alloro")[N 2], è la storia, raccontata attraverso la poesia, della vita interiore di Francesco Petrarca. Composto a più riprese nel corso di quasi tutta la vita del poeta (e cioè a partire dal periodo bolognese tra 1320-1326 e fino all'anno della sua morte avvenuta nel 1374), il Canzoniere comprende 366 componimenti in versi volgare ed è una delle opere principali della letteratura italiana per la profondità del linguaggio, del pensiero, della sofferenza interiore e per la speranza di una redenzione. Inoltre, ha segnato per secoli il modello poetico letterario italiano, grazie all'azione del cardinale Pietro Bembo.

Fatti in breve Titolo originale, Altri titoli ...
Canzoniere
Titolo originaleRerum Vulgarium Fragmenta
Altri titoliLe cose volgari, Le rime
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Prima pagina istoriata di un manoscritto quattrocentesco de Li sonetti et canzone; con il sonetto proemiale Voi che ascoltate in rime sparse il suono. Il ritratto di Petrarca è una miniatura di Matteo da Volterra.
AutoreFrancesco Petrarca
1ª ed. originaletra il 1336 e il 1374
Editio princepsVenezia, Vindelino da Spira, 1470
GenereRaccolta di liriche
Lingua originaleitaliano
ProtagonistiPetrarca, Laura
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La genesi

Il Vaticano Latino 3195

La ricostruzione della storia del Canzoniere non è affatto semplice, dal momento che si svolge per gran parte della vita del Petrarca, dal 1336 (anno della prima raccolta di poesie - ne seguiranno altre 8) alla vigilia della morte. Ipotizzando che il giovane Petrarca abbia realizzato in un corpus non organico 22 liriche tra il 1336 e il 1338, messo poi in ordine nel 1342[1], bisogna però aspettare il 1356 prima che il poeta aretino metta assieme tutte le liriche fin lì composte e le dedichi all'amico e protettore Azzo da Correggio, signore di Parma[1], in quella che viene definita la redazione Correggio[2]. Il vero e proprio lavoro di redazione, revisione e conclusione della raccolta di poesie iniziò a partire dagli anni '60, quando, nella quiete di Arquà e aiutato dal copista Giovanni Malpaghini, Petrarca realizzò il codice su cui si studia il Canzoniere, ossia il codice Vaticano Latino 3195[2], impegnandosi nell'aggiunta e nella selezione delle liriche sia nella sezione in vita che in morte di Laura[3]. Le aggiunte successive di mano del Petrarca (compiute tra il 1367 e il 1374) consistono nell'aggiunta della canzone dedicata alla Vergine e ad alcune indicazioni per la sistemazione definitiva delle liriche, anche se, come sottolinea Michelangelo Picone, Petrarca non riuscì mai a dare una forma definitiva alla sua raccolta[N 3], in quanto «la fabula [...] è affidata alla gestione dell'io, e non posta nelle mani di Dio»[4]. Dal punto di vista critico, il codice è stato riprodotto diplomaticamente da Ettore Modigliani[5]. Di ciò ha procurato il testo critico Giuseppe Savoca nel 2008[6][7].

Gli altri codici

Questa è la storia del codice privato su cui lavorava incessantemente Petrarca. Nonostante ciò, esistono altre versioni del Canzoniere che ci inducono a ipotizzare la sua diffusione in certi ambienti elitari[2]:

  1. Il Codice Vaticano Chigiano L.V. 176, redatto tra il 1363 e il 1364[8] da uno dei più cari amici del Petrarca, Giovanni Boccaccio[9].
  2. Il Codice Laurenziano XLI 17, di fine Trecento, la cui genesi si riscontra in una lettera inviata da Petrarca il 4 gennaio 1373[10] al signore di Rimini Pandolfo II Malatesta (copia malatestiana, che però non ci è pervenuta, ma è ricostruibile tramite la succitata lettera)[11]. Ci è però tràdito da un ms. quattrocentesco conservato alla Laurenziana di Firenze.[12]
  3. La Raccolta (o forma) queriniana che si trova nel codice D.II.21 di fine Trecento, conservato alla Biblioteca Queriniana di Brescia[13].
  4. Il Codice Vaticano Latino 3196, detto anche "codice degli abbozzi" in quanto riportante non solo le liriche del Petrarca, ma anche altre sue opere e le annotazioni in latino[14]. Inoltre, il codice, interamente autografo, colloca in apertura il sonetto Almo sol, quella fronde ch'io sola amo al contrario di Voi ch'ascoltate in rime sparse il sono[15].
  5. Per stabilire la forma pre-definitiva del codice originale, si fa riferimento anche al Codice Laurenziano XLI 10 e al Parigino italiano 551[16].

Titolo e struttura

I titoli

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Francesco Petrarca.

Il titolo Canzoniere compare in campo editoriale per la prima volta nel 1515, nell'edizione: Canzoniere et Triomphi, Impresso in Florentia, per Philippo di Giunta, 1515 di aprile[17], e l'anno dopo nell'edizione bolognese di Tommaso Sclaricino Gammaro, per diventare estremamente comune dall'800 in poi[18], quando in realtà per tutto il corso dell'ultimo venticinquennio del '300 e per tutto il XV secolo non si diede un nome specifico alla raccolta di liriche dell'opera del poeta aretino[19]. In sostanza, «ma quanto e quando il nome Canzoniere si sia diffuso a designare l’opera volgare (non sempre i soli Fragmenta) di Petrarca resta incerto...»[20], anche se da alcuni codici prodotti sul finire del '400 a Firenze il titolo originale petrarchesco cominciò ad essere affiancato da quello più comune di "canzoniere": «Il titolo canzoniere si affaccia quindi, anche se non da una posizione eminente, accanto al nome originale e ad altre formule più correnti»[21]. Oltre alle denominazioni ufficiali provenienti dalla filologia e dall'ecdotica, si sa che Petrarca chiamava scherzosamente tutta la sua produzione volgare, in un'ottica diminutiva dal sapore leggermente dispregiativo, col nome latino di nugae, termine utilizzato già a suo tempo dal poeta latino Catullo[22]. Lo si ricava per esempio dalla Familiare I, 1, 16, 18:

(LA)

«Hoc mediocre domesticum et familiare dicendi genus amice leges, ut reliqua, et boni consules, his quibus in communi sermone utimur, aptum accomodatumque sententiis. [...] Sed fieri potest ut nugas meas tibi habere, tibi legere nilque in eis aliud quam nostros ac nostrorum casus meminisse cogites; sic enim et petitio tua non neglecta videbitur et fama mea tuta erit.»

(IT)

«Tu leggerai, con lo stesso animo di amico con il quale hai letto gli altri, anche questi miei scritti di genere basso, domestico e familiare; guarda a questo genere con favore, ritenendolo adatto e confacente a esprimere i concetti di cui ci serviamo nel comune parlare. [...] Ma può anche accadere che tu decida di tenere per te queste mie cosette e di leggertele cercandovi solo il ricordo delle vicende nostre e dei nostri amici; sarebbe una decisione a me assai grata: così infatti la tua richiesta sarebbe stata esaudita e il mio buon nome non correrebbe pericoli.»

La struttura bipartita

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Laura e Petrarca, miniatura dal Canzoniere.

La raccolta comprende 366 (365, come i giorni in un anno, più uno introduttivo: "Voi ch'ascoltate") componimenti: 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali. Non raccoglie tutti i componimenti poetici del Petrarca, ma solo quelli che il poeta scelse con grande cura; altre rime (dette estravaganti o extravaganti) andarono perdute o furono incluse in altri manoscritti[23]. La maggior parte delle rime del Canzoniere è d'argomento amoroso, mentre una trentina sono di argomento morale, religioso o politico.

Per lungo tempo, si è pensato che le due parti in cui risulta diviso il manoscritto originale del Canzoniere (Vat. Lat. 3195) permettessero di distinguere le rime "in vita" dai componimenti "in morte" di Madonna Laura. Attualmente si è propensi a credere che la bipartizione della raccolta rispecchi, in chiave simbolica, le distinte fasi di un tormentato percorso di maturazione del poeta, che volle e seppe passare dall'infatuazione giovanile per l'Amore e la Gloria (prima parte: rime I-CCLXIII) a una matura e più cristiana dedizione ai valori della carità e della virtù (seconda parte: CCLXIV-CCCLXVI)[24]. Secondo alcuni studiosi (in particolare Marco Santagata e Giovanni Biancardi), la struttura del Canzoniere istituirebbe uno stretto legame simbolico (di sapore pienamente medioevale) fra l'intera vita del poeta e l'anno solare: le rime del Canzoniere sono infatti 365 (escludendo il sonetto introduttivo, da considerarsi a sé stante), come i giorni che trascorrono dall'inizio di un anno (la vita terrena) al ritorno della medesima data (principio di una nuova esistenza dell'anima, in cielo)[N 4]. Secondo queste ipotesi calendariali, alcune date acquisirebbero un valore particolare per la struttura dell'opera. Prima fra tutte, il 6 aprile (giorno in cui, nel 1327, Petrarca si innamorò, ma anche giorno in cui, nel 1348, Laura morì)[25]. Fondamentali, inoltre, risulterebbero il giorno anniversario della nascita di Petrarca, 20 luglio, e quello della sua incoronazione poetica a Roma (8 aprile): tra l'uno e l'altro, trascorrono 263 giorni e giustappunto 263 sono le rime che compongono la prima parte del Canzoniere[26]. Infine, la collocazione della poesia non rispecchia l'ordine reale di composizione, ma risponde all'esigenza di concludere in maniera esemplare la vicenda del poeta col rifiuto delle tentazioni terrene e dell'amore per Laura[27].

Poetica

La figura di Laura

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Ritratto di Laura.

Figura dominante nella produzione lirica petrarchesca del Canzoniere, oltreché lo stesso Petrarca, è la donna di nome Laura. Voluta identificare con una Laura de Noves da parte dell'abate de Sade nel XVIII secolo[28][29] (infatti Laura de Noves avrebbe sposato un Ugo de Sade nel 1325), la tesi dell'incarnazione fisica della Laura petrarchesca è stata rigettata dalla maggior parte dei critici letterari[30][31][32]. Laura, anzi, potrebbe essere addirittura un nome fittizio per esprimere l'alloro poetico, la pianta del lauro: «Laura infatti si identifica e si confonde con il lauro, la pianta di Apollo e della poesia, la pianta trionfale con cui lo stesso Petrarca venne coronato poeta nel '41»[33]. Laura rappresenta tutte quelle caratteristiche seducenti che fanno soffrire Petrarca in nome di una sensualità e di una forza provocatrice che sfiniscono l'animo del poeta aretino, teso verso la redenzione e la pace interiore. Questo lo si vede chiaramente nella descrizione fisica della donna, nel suo sorriso, nei suoi occhi, nei suoi «capei d'oro a l'aura sparsi»[34] o nelle «belle membra» della canzone Chiare, fresche e dolci acque, ove c'è l'apoteosi della bellezza della donna e del suo carattere sovrannaturale[35]. Insomma:

«Il principio motore del Canzoniere non è nella fantasia ma nella realtà, non è un'idea di donna, ma una donna viva e vera; e a lei, al suo vario atteggiarsi e ai vari aspetti che assume, deve pure aver l'occhio chi voglia intender l'amor di Petrarca e trovar la ragione intima della sua poesia. Petrarca ama una donna e scrive per immortalarla»

Laura in vita e in morte

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Laura strappa il cuore a Petrarca, affresco tratto da un verso del Canzoniere[36] conservato nella Casa di Francesco Petrarca.

Come si è detto, la bipartizione del Canzoniere è dovuta, da un primo punto di vista tematico, alla morte di Laura. Da qui le rime in vita e in morte di Laura. Questa divisione suscita nell'economia del Canzoniere dei cambiamenti della figura della donna amata e temuta al contempo. Se nella prima parte la figura di Laura è indifferente alla passione del poeta, nella seconda parte Laura appare al poeta più affettuosa e compassionevole. Tutto sommato, però, il ruolo che la donna possiede nella vita del poeta è struggente e terribile: «personaggio tutto terreno»[30], il «ruotare intorno all'immagine assoluta di Laura [...] esprime la perdita di sé, l'oscillazione perpetua che nega ogni pace al poeta»[33]. Questo stato d'animo è espresso già bene nel sonetto Era il giorno ch'al sol si scoloraro (III), ove il poeta, sotto il dominio di Amore, incontra per la prima volta Laura nel giorno del Venerdì Santo e si sente colpito, ferito dallo stesso Amore e dalla donna, esprimendo così una natura cruda e dolorosa del sentimento amoroso:

«Trovommi Amor del tutto disarmato
et aperta la via per gli occhi al core,
che di lagrime son fatti uscio e varco:

però al mio parer non li fu honore
ferir me de saetta in quello stato,
a voi armata non mostrar pur l'arco.»

La stessa natura del dominio amoroso di Laura non si rompe neanche in seguito alla sua morte, avvenuta ad Avignone nel 1348 lo stesso giorno in cui si conobbero, ossia il 6 di aprile[37]. Nel sonetto Arbor victoriosa triumphale, quel sonetto 263 che segna la fine della prima parte del Canzoniere, Petrarca dà il suo commiato a Laura, espressa sotto la figura fitomorfa del lauro («Arbor victoriosa triumphale, / onor d'imperadori e di poeti, / quanti m'ài fatto dì dogliosi e lieti / in questa breve mia vita mortale!»), in una riflessione sulla caducità dei beni terreni e sulla stessa fugacità del tempo[38].

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Codice del Canzoniere realizzato a Venezia intorno al 1470 riportante la canzone CCCXXIII.

Nella seconda parte del Canzoniere, la figura di Laura sembra mutata: non più capricciosa, crudele e vana, sembra ora dare dei consigli all'antico amante, chiarendo anche che il fatto di non essersi concessa a lui era necessario per la sua sopravvivenza spirituale. In Levommi il mio penser in parte ov’era (CCCII), per esempio, Laura prende per mano il poeta («per man mi prese», v. 5) e gli spiega che lo attende nel Cielo di Venere («in questa spera»)[39] per poter infine stare sempre con lui. Come ricorda Alberto Chiari:

«Laura appare in sogno, si avvicina al letto del suo Poeta, lo conforta, lo prende per mano, gli parla a lungo, non si adira più, gli sorride sempre; è il Poeta invoca il sogno, quello della poesia ma anche quello dell'anima, che lo astragga dal mondo reale e lo metta a contatto continuo con Laura ché è quello tutto il suo mondo.»

Distanza dallo stilnovismo e influssi provenzali

La figura di Laura appare lontana, per le caratteristiche sovra esposte, da quelle angelicanti e salvifiche di una Beatrice. Se per Dante Beatrice era il simbolo della salvezza, della Redenzione, qui invece Laura, assumendo la dimensione della temporalità[30][40][N 5] e una visione quasi sadica dell'esperienza amorosa, è espressione invece dell'amore terreno con tutte le sue contraddizioni:

«Laura ci appare un personaggio tutto terreno perché è oggetto di un amore terreno, sia pur sublime, e perché, come tutto nel Canzoniere, è calata nel concreto fluire del tempo. La bellezza di Laura, ad esempio, sfiorisce; il poeta può immaginarla accanto a sé in vecchiaia; la morte che gliela sottrae è un evento naturale; e se essa viene assunta in cielo questo non è che il destino di qualunque anima buona, non invece - come per Beatrice - il ritorno alla propria sede naturale donde era giunta per disegno provvidenziale, angelo calato di cielo in terra a miracol mostrare.»

Ma sono anche significativi gli influssi della poetica provenzale e successiva[41] che renderanno la figura di Laura un «modell[o] che si imporr[à] per secoli»[42]:

«La donna è splendente e preziosa; in primo piano sono i suoi "capei d'oro a l'aura sparsi", le nobili vesti, la bianca carnagione del volto, gli occhi luminosi; su ttute le cose che essa tocca si posa qualcosa di tenero, di leggero; i suoi movimenti si svolgono secondo pause e cadenze soavi; i fiori si raccolgono intorno a lei; ella appare su sfondi di natura appartatai, dai contorni elementi e antirealistici, lontana dai rumori della folla e piena di delicata mollezza»

Una raccolta di pentimento

Il sonetto introduttivo: Voi ch'ascoltate in rime sparse il sono

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Petrarca e Laura.

Il sonetto introduttivo, considerato proemiale in relazione al numero dei componimenti che andrebbero a riallacciarsi a ciascun giorno dell'anno[43], esprime tutto il dolore dell'uomo Petrarca nell'essersi abbandonato al «primo giovenile errore» (v. 3), ossia all'amore per Laura[44]. Il tono dolente e patetico, con cui Petrarca cerca conforto presso i lettori cui è destinato il libro[45], si basa su un ondeggiamento lessicale determinato dalla congiunzione o dalla ripetizione della parola («piango et ragiono», v. 5; «fra le vane speranze e 'l van dolore») e dal soggetto sottinteso («spero», v. 8, verbo rafforzato dalla prima parte del verso e captatio benevolentiae «trovar pietà»), che, secondo le parole del critico letterario cinquecentesco Lodovico Castelvetro, genera turbamento nel cuore del lettore[46]. L'io del poeta è turbato e scisso «tra ideali e sconfitte, che non può mai avere soddisfazione, sempre perdente»[45] e agogna quella pace e quella serenità dovuta al «pentirsi» per tutto quello che di caduco ha da offrire il mondo, aprendo in tal modo, quasi come se fosse una ring composition, alla canzone alla Vergine che chiude l'opera[47].

La speranza dell'umano: Vergine bella, che di sol vestita

Lo stesso argomento in dettaglio: Vergine bella.

«Vergine bella, che di sol vestita,
coronata di stelle, al sommo Sole
piacesti sí, che ’n te Sua luce ascose,
amor mi spinge a dir di te parole...»

Con la canzone Vergine bella, che di sol vestita, nella quale il poeta implora perdono ed esprime un intenso desiderio di superare ogni conflitto, spera di trovare finalmente la pace. E "pace" è appunto l'ultima, emblematica parola della canzone, la parola che chiude e suggella il libro. La lirica, frutto di una forte devozione mariana che Petrarca aveva sviluppato negli ultimi anni di vita[48], presenta una forte tensione spirituale ed ha il tono di una confessione verso Maria invocata dal poeta a giustificare gli errori commessi: Petrarca vive tra il peccato e le ansie di redenzione, tra una solenne tensione spirituale e il ricordo delle passioni terrene[49]. I versi sono contraddistinti da espressioni liturgiche e da accenti mistici. Il vocativo Vergine è la parola iniziale del primo e del nono verso di ogni stanza, cosicché il ritmo è quello di un'invocazione strutturata rigorosamente. Nel congedo il poeta non si rivolge alla Canzone, ma ancora alla Vergine perché lo accolga nella pace eterna[50].

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Agostino d'Ippona.

L'agostinismo petrarchesco

Il Canzoniere può essere considerato alla stregua di un'autobiografia spirituale del poeta, come le Confessioni di sant'Agostino, scrittore e teologo che fu modello spirituale e religioso per Petrarca: «Tutta la lirica del Petrarca è un sommesso colloquio del poeta con la propria anima»[51]. La sua poesia ha un carattere psicologico, senza toni realistici o narrativi. Il tema dominante è il "dissidio interiore" che il poeta prova tra l'attrazione verso i piaceri terreni e l'amore per Laura, e la tensione spirituale verso Dio. Dall'idea di amore-peccato del primo sonetto («in sul mio primo giovenile errore»), il poeta giunge alla conclusione del Canzoniere con la canzone alla Vergine (Vergine bella che di sol vestita): è una palinodia religiosa che chiude l'opera secondo una parabola spirituale ascendente tipicamente medievale[52]. Il messaggio petrarchesco, nonostante la sua presa di posizione a favore della natura umana, non si dislega dalla dimensione religiosa: difatti, il legame con l'agostinismo e la tensione verso una sempre più ricercata perfezione morale sono chiavi costanti nella sua produzione letteraria e filosofica. Rispetto, però, alla tradizione medievale, la religiosità petrarchesca è caratterizzata da tre nuove accezioni prima mai manifestate: la prima, il rapporto intimo tra l'anima e Dio, un rapporto basato sull'autocoscienza personale alla luce della verità divina[53]; la seconda, la rivalutazione della tradizione morale e filosofica classica, vista in un rapporto di continuità col cristianesimo e non più in chiave di contrasto o mera subordinazione[54]; infine, il rapporto "esclusivo" tra Petrarca e Dio, che rifiuta la concezione collettiva propria della Commedia dantesca[55].

Influenze bibliche

Frequenti sono i riferimenti biblici e spesso il verso petrarchesco ricalca passi della Bibbia, come nel sonetto LXXXI (Io son sì stanco), dove ad esempio il verso "O voi che travagliate, ecco 'l camino" riprende il Vangelo di Matteo (XI,28)[56] e la terzina finale ("Qual grazia, qual amore o qual destino / mi darà penne in guisa di colomba / ch'io mi riposi e levimi da terra?") riprende il salmo LIV,7[57]. Petrarca si sente smarrito tra realtà e sogno (Di pensier in pensier, di monte in monte), immerso nell'angosciosa solitudine (O cameretta che già fosti un porto), ricercatore di un isolamento dal mondo (Solo et pensoso), aspiratore a una dimensione spirituale che però è difficile da conquistare (Padre del ciel, Movesi il vecchierel)[N 6]. Egli riconosce, già alla fine del primo sonetto, che frutto del suo seguire le vanità terrene sono la vergogna, il pentimento e il riconoscere che «quanto piace al mondo è breve sogno», riecheggiando così il biblico vanitas vanitatum ("vanità delle vanità") dell'Ecclesiaste (Qoelet 2)[58][59].

Dalle preghiere alla concezione del paesaggio

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Arnold Böcklin, Petrarca alla sorgente di Valchiusa, 1863-64.

Certi componimenti hanno il carattere di splendide preghiere, come i sonetti Padre del ciel (LXII), Tennemi Amor (CCCLXVI), Io vo piangendo (CCCLXV), la canzone alla Vergine (CCCLXVI). La canzone Chiare fresche e dolci acque (CXXVI) mostra un'anima tra l'angoscia della realtà e la dolce malinconia del sogno. Come in questa canzone e nel sonetto O cameretta che già fosti porto (CCXXXIV), la valle piena dei suoi lamenti e l'aria calda dei suoi sospiri e il dolce sentiero (CCCI), l'usignolo (CCCXI), i dolci colli (CCCXX) e il vago augelletto (CCCLIII) non rappresentano una natura esteriore, ma creature di un mondo interiorizzato, vagheggiato nell'immaginazione, confidenti delle pene recondite del poeta che spesso si rifugia in un clima di sogno e immaginazione. Il paesaggio è funzionale ai moti dell'anima ed esprime tutta la vaghezza del sentimento amoroso:

«[I]l linguaggio petrarchesco evita una caratterizzazione troppo concreta e minuta, che rifugge da ogni particolare " realistico" e filtra la realtà utilizzando le forme e le categorie più generali [...] l'indeterminatezza di questo linguaggio ne fa la figura di una bellezza che si affaccia alla mente e al cuore senza lasciarsi afferrare, che fa balenare un desiderio senza nome che può vivere solo nella memoria, che può proiettarsi solo fuori dai limiti del presente e dai confini stessi della vita.»

I sonetti "avignonesi"

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Il Palazzo dei Papi ad Avignone.

«L’avara Babilonia à colmo il sacco
d’ira di Dio, e di vitii empii et rei,
tanto che scoppia, ed à fatti suoi dèi
non Giove et Palla, ma Venere et Bacco.»

Un gruppo a sé stante nel Canzoniere sono i cosiddetti sonetti "avignonesi". Petrarca, tra il 1320 e il 1351, risiedette principalmente ad Avignone, dove il padre aveva trovato un'occupazione presso la corte papale, la quale si era trasferita lì nel 1309 con Clemente V[60]. Il poeta, divenuto intimo della famiglia romana dei Colonna e presi quindi gli ordini sacri, entrò a far parte della corte pontificia avignonese. Col passare degli anni, però, in Petrarca iniziò a maturare, insieme ad una più intima adesione ai valori classici, anche una conversione interiore maturata sull'insegnamento di Agostino d’Ippona e quindi sul neoplatonismo cristiano[61]. Negli anni ’40, distaccatosi progressivamente dai Colonna e ritiratosi a Valchiusa, maturò una profonda avversione verso la mondanità della Chiesa scrivendo, tra il 1345 e il 1347, tre sonetti contro la corte papale. I sonetti, inseriti poi nel Canzoniere, dai critici verranno definiti “avignonesi” o "babilonesi"[62] e mostrano uno slancio di indignazione civile e religiosa di forte intensità[N 7] in cui la curia avignonese è paragonata alla grande meretrice dell'Apocalisse[63].

Le canzoni civili

Lo stesso argomento in dettaglio: Italia mia, benché 'l parlar sia indarno.
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Federico Faruffini, Cola di Rienzo.

«Italia mia, benché 'l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo tuo sì spesse veggio,
piacemi almen che' miei sospir' sian quali
spera 'l Tevero et l'Arno,
e 'l Po, dove doglioso et grave or seggio.»

Petrarca nel Canzoniere si dedica anche alla letteratura civile. Nel '300 l'Italia era divisa in tanti Stati in lotta fra di loro e su di essa v'era la minaccia dell'invasione straniera e della decadenza civile e spirituale. Le due più significative sono le canzoni Spirto gentil e Italia mia.

Nella prima canzone (componimento LIII) Petrarca si aspetta un condottiero, un «signor valoroso, accorto et saggio» (v. 3), capace di risollevare le sorti di Roma e così dell'intera nazione italica, «vecchia, otïosa et lenta» (v. 12)[64]. Dietro a questo personaggio vi sono varie interpretazioni, tra cui la figura di Cola di Rienzo con cui Petrarca era in relazione dopo un'ambasciata del primo ad Avignone[64].

Nella seconda, invece, i reggenti delle Signorie italiane sono invitati a chiamare a raccolta il popolo, erede delle virtù romane («Latin sangue gentil», v. 75) contro i soldati mercenari germanici discendenti dai barbari sconfitti dai Romani («Vertù contra furore/prenderà l'arme e fia il combatter corto: /ché l'antico valore/ ne l'italici cor non è ancor morto», vv. 93-96)[65].

Lo stile

Per definire il Canzoniere dal punto di vista linguistico il critico Gianfranco Contini ha usato il termine unilinguismo, contrapposto al plurilinguismo della Divina Commedia dantesca. Con questa espressione il Contini intende uno stile medio che evita sia il registro alto sia il registro popolare, basso, nonché i toni accesi[66]. Si registra quindi uno stile mediano, moderato, incentrato sulla scelta ben definita dei vocaboli da utilizzare che non cadano nell'aulicismo né nel registro comico-popolare. Bisogna inoltre ricordare che il volgare, per Petrarca, non aveva quel valore artistico e di celebrazione della propria figura presso i posteri che voleva consegnare tramite l'Africa e le altre opere latine:

«Giustamente Coletti osserva che il volgare è per Petrarca lo strumento di una esercitazione letteraria, senza che dietro questo gusto poetico ci sia, come c'era in Dante, un ambizioso progetto culturale basato sulla promozione di nuovi ceti sociali e sulla divulgazione del sapere mediante la nuova lingua, 'sole nuovo' destinato a brillare al posto del latino.»

Le edizioni a stampa

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Incipit miniato dell'editio princeps del Canzoniere (Venezia, Vindelino da Spira, 1470).

L'editio princeps e altre del '400

La prima edizione a stampa del Canzoniere, insieme ai Trionfi, si ebbe nel 1470 a Venezia presso il tipografo tedesco Vindelino da Spira[67]. Di questa editio princeps sopravvivono meno di trenta esemplari, conservati presso biblioteche italiane, europee e americane[68].

Nelle decine di altre stampe del Petrarca volgare fatte in tutta Italia nell'ultimo trentennio del Quattrocento si distingue per il suo notevole valore filologico quella del 1472, approntata dall'editore padovano Bartolomeo Valdezocco (Bortolamio Valdezoco)[7][69]. Questa edizione (nonostante gli errori di lettura e trascrizione) si rivela condotta direttamente sull'originale vaticano (o su un esemplare per la tipografia derivato dall'originale).

L'edizione aldina del 1501

Fondamentale per la costituzione della vulgata petrarchesca è stata l'edizione aldina, stampata a Venezia dalla tipografia di Aldo Manuzio nel 1501 e curata da Pietro Bembo. L'edizione veniva presentata come fondata sull'originale del poeta[70], ma in realtà essa riproduce una copia manoscritta del Canzoniere approntata dallo stesso Bembo e pervenutaci come codice Vat. Lat. 3197, che non deriva direttamente dall'originale. Le cose volgari di messer Francesco Petrarcha[71] del 1501[72] furono poi, con variazioni, ripubblicate da Aldo nel 1514, col titolo Il Petrarcha, sempre in piccolo formato, dando inizio alla moda dei petrarchini[7].

Per tutto il corso del Cinquecento le edizioni del Canzoniere si moltiplicarono, anche sulla scia del fortunato commento di Alessandro Vellutello del 1525[73]. Da segnalare inoltre l'edizione giolitina del 1547 a cura di Ludovico Dolce[74].

Nel Seicento, la temperie barocca, ostile all'idea di classicismo in nome della libertà formale, declassa il valore dell'opera petrarchesca; la decadenza si protrae per tutto il Settecento e l'edizione bodoniana del 1799 in folio spicca solo per l'eccellenza tipografica[75], eguagliata solo dall'edizione del prof. Giovanni Rosini (Rime di Francesco Petrarca, 2 voll., Pisa, Tipografia della Società Letteraria coi caratteri dei fratelli Amoretti di Parma, 1805) il quale ricevette lodi anche per la vita del poeta ivi premessa al canzoniere [76] .

Le edizioni ottocentesche

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Giacomo Leopardi fu un "interprete" editoriale delle Rime del Petrarca.

Tra le edizioni successive è da citare quella curata dall'abate Antonio Marsand (Le Rime del Petrarca, 2 voll., Padova, Tipografia del Seminario, 1819-20), più che per il valore filologico, per la bellezza tipografica e per essere l'edizione a cui si rifà esplicitamente Giacomo Leopardi per la propria "interpretazione" delle Rime, uscita nel 1826[7][77], seguendola in ogni cosa, «eccetto solamente nella punteggiatura»[N 8].

Dopo Leopardi, una svolta decisiva nella filologia petrarchesca si ebbe nel 1886, quando venne riconosciuto, dal De Nolhac e dal Pakscher, nel codice Vat. Lat. 3195 l'originale del Canzoniere. Dieci anni dopo (1896) usciva a Firenze l'edizione di Canzoniere e Trionfi dovuta a Giovanni Mestica[78]. Nel 1899 anche Giosuè Carducci e Severino Ferrari pubblicavano le sole rime del Canzoniere[79].

Qualche anno dopo, nella ricorrenza del sesto centenario della nascita di Petrarca, Giuseppe Salvo Cozzo, giudicando una sciocca pretesa quella di «rimodernare l'ortografia», pubblicava un'edizione del Canzoniere[80] basata sull'originale, e che si proponeva di «conservare al testo la sua fisonomia», collazionando anche le principali varianti tra l'originale e le edizioni del Mestica e di Carducci-Ferrari[7].

Il Novecento

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Gianfranco Contini, uno dei massimi esperti del Petrarca nel '900.

Porta la data editoriale del 1904, ma in realtà uscì nel maggio del 1905, la trascrizione diplomatica dell'originale che la Società Filologica Romana aveva affidato a Ettore Modigliani[7]. Questa edizione (pregevole, ma non priva di numerosi errori e di sviste, specie per quanto riguarda l'interpunzione) è tuttora un autentico contributo per la conoscenza dell'originale, ma ha finito, sulla base dell'erroneo presupposto che esso fosse un documento perfettamente aderente al testo trascritto, per esimere gran parte dei filologi e degli editori dallo studio diretto del codice vaticano. A questo distacco dall'originale ha concorso (anche se in misura minore) la riproduzione fototipica dell'originale curata per la Biblioteca Vaticana da monsignor Marco Vattasso nel 1905.

Il testo di maggiore risonanza nell'editoria del Canzoniere nel secondo Novecento è, senza dubbio, quello approntato da Contini per le edizioni Tallone nel 1949 (ripubblicato per Einaudi nel 1964). Il testo di Contini tanto nella prima quanto nelle successive edizioni dipende totalmente dall'edizione diplomatica di Modigliani, dalla quale gli derivano direttamente numerosi errori di lettura e di trascrizione[81].

Nel 2008 Giuseppe Savoca ha pubblicato un'edizione critica basata sull'originale. Questa edizione riconduce la punteggiatura al sistema «punto, virgola, punto interrogativo»[82], apportando modifiche (rispetto all'edizione Contini e successive) a 3685 versi (dei 7785 che compongono il Canzoniere), a 1542 parole (delle oltre 57.000 del corpus), per un totale di oltre 8000 interventi[83].

La fortuna

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Tiziano, Ritratto del cardinale Pietro Bembo.

I Rerum vulgarium fragmenta non furono immediatamente recepiti tra la produzione più significativa del Petrarca: l'età dell'umanesimo, incentrata sul monolinguismo latino e sul valore dei classici latini e greci, recepì invece il Petrarca dell'Africa e del De viris illustribus. La situazione cominciò a mutare quando, verso l'ultimo quarto del XV secolo, si assistette alla rinascita del volgare (si parla di umanesimo volgare, difatti) grazie agli sforzi di Lorenzo il Magnifico, di Agnolo Poliziano e al loro entourage, si procedette alla valutazione dell'opera volgare petrarchesca, destando in questi uomini l'ammirazione per il Canzoniere come testimoniato dalla Raccolta aragonese del 1477[84]. Ne seguì un rinnovato interesse generale per il Petrarca volgare[85].

Alla consacrazione di Petrarca a supremo modello di arte poetica, però, si assistette al principio del XVI secolo a opera del letterato e futuro cardinale Pietro Bembo (1470-1547). Costui, già curatore delle Rime petrarchesche nel 1501, con le Prose della volgar lingua del 1525 procedette alla canonizzazione del Petrarca quale maestro di poesia volgare[86], come riassunto da Claudio Marazzini:

«Requisito necessario per la nobilitazione del volgare era dunque un totale rifiuto della popolarità. Ecco perché Bembo non accettava integralmente il modello della Commedia di Dante, di cui non apprezzava le discese verso il basso nelle quali noi moderni riconosciamo un accattivante mistilinguismo. Da questo punto di vista, il modello del Canzoniere di Petrarca non presentava difetti, per la sua assoluta selezione linguistico-lessicale.»

La lezione di Bembo diede adito alla nascita del petrarchismo, che trovò come movimento reagente l'antipetrarchismo di Pietro Aretino[87]. Dopo la parabola discendente del '600 barocco[88] e il recupero parziale della lezione stilistica e metrica durante l'età neoclassica con l'Accademia dell'Arcadia[N 9], Petrarca ebbe una rinascita di serio interesse a partire dall'età romantica, come testimoniato dai saggi di Ugo Foscolo e dalla riflessione di Giacomo Leopardi. Con essi si fondò la critica petrarchesca[89], seguita poi da degni discepoli quali Francesco de Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana. Petrarca, nel corso del Novecento, ebbe due critici d'eccezione: da un lato Gianfranco Contini, che coniò il termine di monolinguismo o unilinguismo petrarchesco; dall'altro Giuseppe Billanovich, che ne studiò più il carattere elitario di nume protettore dell'umanesimo[90].

Note

Bibliografia

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